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Autore: _Frame_    03/02/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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188. Caccia alla lepre e Cani da guardia

 

 

Bulgaria saltò oltre un cumulo di terra ribaltata, corse lontano dal boschetto dove si era scontrato con Russia, sfrecciò via inseguito dal fragoroso ronzio dei bombardieri che volavano in formazione sopra di lui, e si lasciò alle spalle i rumori della battaglia che proseguiva, i cannoneggiamenti, le ritmiche mitragliate simili a sassate sull’acciaio, e le grida dei soldati all’attacco. Il peso del fucile gli rimbalzava sulla schiena, all’altezza dell’anca, a ogni passo di corsa. Zolle di terra si sradicarono da sotto le suole e schizzarono alle sue spalle. Rauche boccate di fiato vibrarono fra le sue labbra secche e ingrigite dal fumo. Il sudore gocciolò dalla fronte, attraversò la doppia manata di fango che lui si era spalmato sulle guance come il trucco di un guerriero, e gli scivolò in bocca con il suo sapore di sale e di terriccio umido.

Bulgaria gettò un rapido sguardo alle sue spalle. Scorse con la coda dell’occhio l’ombra di Lituania che lo inseguiva, la sua presenza da lupo che gli stava sul collo come l’alito bollente di una belva pronta ad addentarlo, e quel suo sguardo aguzzo e minaccioso che lo scrutava dal buio della boscaglia. Quello sguardo che gli aveva ghiacciato il sangue quando se l’era trovato addosso, con la pistola spinta sotto il mento e l’altra mano aggrappata alla sua gola, a imprigionarlo contro il suolo.

I suoni della battaglia che si stava consumando nella sacca coprivano il rumore della sua corsa. Bulgaria tese l’orecchio, ma non riuscì a capire quanto distante fosse.

Strinse i denti, fece schioccare la lingua e ringhiò anche lui. Dannato lupastro. Continuò a correre e si passò una mano fra i capelli, si diede una pulita al viso sudato e sbavò lo strato di fango che gli imbalsamava le guance. Arricciò la punta del naso in una smorfia di disprezzo. Altro che cane da guardia. Questo vale come una muta intera. Diede un’aggiustata al fucile che gli stava scivolando dalla spalla e tornò a puntare lo sguardo davanti a sé. Inviò un’ondata di energia attraverso le gambe, accelerò, ma i muscoli dei polpacci s’irrigidirono, cominciarono a pesare come se si fosse riempito gli stivali di sabbia, e i piedi avanzarono a fatica, trascinando falcate sempre più basse e corte, rasoterra.

Bulgaria boccheggiò. Davanti ai suoi occhi ricomparve lo scatto che Lituania aveva compiuto quando era volato sopra la figura china di Russia e gli era atterrato addosso. Le impronte delle unghiate che gli aveva stampato sul collo e sul polso ripresero a pulsare. Non riuscirei mai a sconfiggerlo, non dopo quello che gli ho visto fare prima. Ma non serve che lo ammazzi, basta solo che lo conduca lontano da Russia. E se lo portassi abbastanza lontano, isolandolo dalla loro formazione, potrei anche farlo prigioniero. Compì un salto più lungo per scavalcare un avvallamento. Poggiò male il piede, scivolò verso il basso con il tallone, e la terra franò sotto la suola.

“Ghn!”

Bulgaria tirò indietro il piede compiendo un altro salto, rimbalzò un paio di volte, e riprese a correre, sospinto da una vampata di sudori freddi. Corse più lentamente di prima, col fiato corto e il battito più rapido, ed evitò le zone del prato dove il terreno cedeva sotto i buchi lasciati da artiglieria e carri armati. Inarcò un sopracciglio. I pensieri si susseguirono rapidi come la corrente di un fiume in piena. Ma Lituania sarà davvero così ingenuo da farsi imprigionare? Forse non è tipo. Altro saltello per schivare una frana più profonda ed estesa. Ma pur di farmi fuori e di compiacere Russia sarebbe disposto a tutto, la sua lealtà lo rende cieco, quindi potrei avere ancora una possibilità di farlo...

Terminò la falcata, spinse il piede a terra, e il suolo si sfaldò sotto il suo peso. Il fossato lo risucchiò attraverso la pendenza, aprendogli un vuoto nello stomaco. “Ah!” Bulgaria precipitò in avanti e spalancò le mani davanti al petto per pararsi. Cadde sbattendo l’anca e la spalla, rotolò lungo il dislivello battendo più volte le tempie sui sassi appuntiti, e precipitò verso un abbraccio di filo spinato – una rete franata nel piccolo fosso dopo che una cannonata aveva sfondato il terreno.

Bulgaria terminò il ruzzolone, accompagnato da una franata di terriccio e sassi, e finì schiacciato con la faccia fra i rovi di ferro. Incontrò la sensazione fredda e bruciante degli spuntoni penetrati nelle guance, violenta come uno schiaffo di cocci di vetro. I rovi metallici affondarono all’altezza dello zigomo sinistro, sotto la palpebra sgranata, a uno sfioro dalle ciglia, e l’occhio allucinato dallo spavento catturò quell’immagine, quella scintilla d’argento specchiata nella pupilla ristretta. L’abbraccio di filo spinato gli si chiuse attorno come un cappio, stridette sull’orecchio lacerato all’altezza del lobo. Il sapore duro e metallico gli sbatté sui denti, gli lacerò le guance, e affondò nella bocca, graffiandogli la carne grassa della lingua. Nelle narici penetrò l’odore nauseabondo del ferro mescolato a quello del suo sangue già zampillato dalle prime ferite.

Il filo s’ingarbugliò fra le gambe ribaltate, strappò la stoffa dei pantaloni e divorò i polpacci e le cosce, incastrandosi attorno al fianco scoperto e già ferito.

Bulgaria contrasse uno scatto improvviso con la spalla e udì lo strappo della sua giacca che si apriva sotto la pressione degli uncini. Impennò le braccia contro la parete del fossato, vi piantò le unghie dentro, e il filo spinato lo tenne intrappolato. La rete s’incastrò attorno ai gomiti, s’intrecciò alle sue dita, si appese nello spazio fra le falangi ritorte e dentro i palmi già sporchi di fango e sangue.

Bulgaria diede un’ultima scalciata e il suo peso finì di affondare nella maglia di filo spinato arrotolato sul fondo del fossato. Un’ultima sbriciolata di terra gli piovve addosso, qualche sassolino gli rimbalzò fra i capelli, sul viso trafitto, sul petto e sull’uniforme lacerata, già chiazzata dal sangue sgorgato dalle prime ferite.

Bulgaria strizzò le palpebre. La pelle del viso tirò l’artiglio di filo spinato incastrato dall’orecchio alla bocca, proteggendo l’occhio dagli uncini che si erano arpionati sotto la palpebra. Altro sangue gli sbrodolò fino al mento e una scossa di dolore gli frustò la faccia.

Irrigidì come un pezzo di granito. Schiuse le labbra e sciolse un gemito di sangue e saliva attraverso l’intreccio di filo spinato che gli si era ficcato in bocca come il morso di un cavallo. Contrasse le mani trapassate e i rovi penetrarono ancora più a fondo fra gli spazi delle dita, dove la pelle era più sottile e cedevole, come una pellicola di gomma. Inarcò la schiena all’indietro e gli spuntoni premettero all’altezza dei reni, fin sotto le costole. Allungò le gambe in mezzo ai rovi, tendendo le punte dei piedi come quelle di una ballerina, e un dolore fulminante lo morsicò di nuovo, facendo sorgere un rauco rantolio in fondo alla gola graffiata dalla caduta.

Bulgaria prese a tremare, aggredito da una vampata di terrore, e rimase torto in quella posizione. Una gamba piegata verso l’esterno, le caviglie incastrate nel filo, le braccia distese sopra la testa, intrappolate all’altezza dei gomiti e dei polsi, una mano lacerata e insanguinata aggrappata alla parete di terra, e la faccia girata sul lato della guancia trafitta. Gli occhi allucinati rivolti al cielo sopra di sé, a riflettere la distesa color ocra che si stava tingendo del rosso sgorgato dal suo corpo.

Aprì le labbra, in cerca di un sorso d’aria dopo quella raffica di dolore e paura che gli aveva sfondato il petto e i muscoli, e rantolò un altro gemito che sapeva del ferro insanguinato che gli riempiva la bocca lacerata. Rivoli rossi e collosi discesero dagli angoli della bocca, filarono attraverso la guancia infilandosi nel bavero della giacca strappata.

Bulgaria si girò sul fianco opposto. Un’altra artigliata di dolore lo catturò a sé, tirandolo di nuovo all’indietro. Staccò la mano dalla parete di terra, sollevò il braccio, e il filo penetrò più a fondo attorno al gomito. La carne sotto l’uniforme si lacerò emettendo uno spugnoso squish. Il sangue corse in abbondanza.

Bulgaria ricadde di schiena. Ansimò attraverso le labbra socchiuse, trattenute dal filo, e sbiancò. “Oh, mevda.” Girò il capo dall’altro lato con uno strattone. La porzione di filo spinato incastrata nella sua faccia gli strappò la guancia dall’angolo del labbro fino all’orecchio. “Aaah!” Il grido dilaniante di Bulgaria risalì il fosso come un ululato. “Caffo, caffo, caffo, caffo!” Richiuse la bocca facendo stridere i denti sul metallo, risucchiò un forte respiro facendo scoppiettare qualche bollicina di sangue fra le labbra, e tornò immobile. Lo sguardo puntato al cielo, gli occhi stravolti, l’intreccio di filo a imprigionarlo, e gli arti ingarbugliati nel filo come quelli di una marionetta gettata all’angolo. Singhiozzò. Respirò avidamente attraverso i conati di terrore che gli stavano ribaltando lo stomaco. Gli venne da piangere. Sono morto. Gli occhi sgranati pizzicarono, la vista divenne appannata, e sul petto spinse una sensazione opprimente che non riuscì a sciogliere. Sono morto. Questa è la mia tomba. Addio, mondo, me ne andrò con il filo spinato fra i denti.

All’esterno del fossato dov’era precipitato, rapidi passi in corsa raggiunsero il bordo della parete franata.

La sagoma di Lituania comparve contro il cielo. I suoi occhi intercettarono la pendenza e li attraversò un lampo d’allarme. “Ah.” Lituania affondò i piedi compiendo una brusca frenata nel terriccio rialzato. Briciole di sassi e terra secca si sfaldarono sotto i suoi stivali e franarono lungo la parete. Lituania diede una forte spinta con le braccia, come un battito d’ali, per tenersi in equilibrio sull’orlo, e arretrò di due rapidi passetti, tirato dal peso del fucile.

Soffiò un sospiro di sollievo. Affondò una mano fra i capelli scivolati sulle guance e li spinse all’indietro, lontani dalla fronte sudata. I suoi occhi tornarono a cadere all’interno della buca, sul corpo intrappolato di Bulgaria. “C-come sei...” Percorse i suoi arti impigliati al filo spinato, le gocce di sangue sempre più spesse e rapide che correvano fra gli spuntoni, la sua faccia girata, il ghigno torto come quello di un cavallo bardato, e l’uniforme lacerata su cui si stavano allargando chiazze sempre più ampie e scure.

Lituania sgranò le palpebre. Realizzò. “Oh, no.” Soppresse un conato di nausea, e i suoi occhi sbarrati si riempirono di un’angoscia che il suo animo aveva già sperimentato prima di allora.

Bulgaria strizzò di nuovo le palpebre, fece sgorgare i primi zampilli di lacrime, e si dimenò spingendo le spalle a destra e a sinistra. “‘Oh, no’ dovvei divlo io, mevda.” Diede uno strattone con il braccio destro e gli aculei del filo spinato gli strapparono un lembo di pelle attorno al polso, esponendo la carne rossa, lucida e pulsante di vita.

Bulgaria trattenne un grido fra i denti, ma il dolore gli strinse un nodo allo stomaco e gli fece venire i brividi. Il sangue sgorgò copioso dal braccio e scese a bagnare la terra. Soffiò un respiro rabbioso e fremente attraverso le narici. Gli occhi s’iniettarono di un sangue rosso come quello che si stava sciogliendo attraverso le ferite aperte.

Si aggrappò con entrambe le mani alla rete di filo spinato, trovando un appiglio più solido rispetto alla terra che si sfaldava sotto le unghie, e spremette le dita. Di nuovo ci fu lo squish! degli aculei di ferro affondati nei palmi. Il sangue sgorgò fra le falangi come cera calda e gli annaffiò i pugni fino agli orli laceri delle maniche.

Bulgaria irrigidì i muscoli delle braccia. Inviò una scossa di energia all’altezza delle spalle, e indurì gli addominali per sollevare la schiena dal letto di dolore su cui era caduto.

Si slanciò in avanti.

Il filo spinato gli intrappolò i fianchi. L’intreccio di artigli lo tirò all’altezza della pancia, strappò la stoffa della giacca e affondò fra le costole, sopra e sotto l’ombelico. Altro sangue sgorgò dal torso e dal costato, rotolando lungo il profilo del filo spinato. I rovi lo tirarono indietro e lo spinsero a cadere di nuovo di schiena.

Il filo spinato gli batté sulla nuca e si mosse di nuovo dentro la guancia e l’orecchio, spostandosi contro i denti e le gengive. Bulgaria spalancò gli occhi e cacciò un grido soffocato che vibrò attraverso la pancia ferita. “Aaah, che male fottuto!” Altre lacrime si sciolsero dalle palpebre sgranate. La cascata di pianto si mescolò al sangue fuoriuscito dalla guancia strappata, dove il filo era ancora incastrato fra i molari e la lingua. Una densa schiuma rossa si formò all’angolo della bocca, e colò con la stessa abbondanza e rapidità delle sue lacrime, scivolandogli sul collo e in gola. “Pevché a me?” Bulgaria deglutì, ingollò quell’aspro e bollente groppo di sangue, saliva e lacrime, e la sua voce stridette in un lamento. “Pevché a me?”

Lituania staccò la mano dai capelli – si rese conto solo in quel momento di avere ancora le dita aggrappate alle ciocche – e soffiò un lungo sospiro per riprendersi da quella botta di spavento che gli aveva sfondato le costole. Allungò un passo cauto, premette lentamente la pianta del piede in un punto dove la terra era più solida e compatta, e si avvicinò di nuovo al bordo del fossato. Si accovacciò sulle ginocchia, distese un braccio verso Bulgaria. “Fermo. Non ti muovere, o farai peggio.” Si sfilò la cinghia del fucile dalla spalla e poggiò l’arma sul prato. Allungò un piede verso il basso, distese la gamba, e fece rotolare una piccola frana di terra verso i primi rovi di ferro che emergevano dal garbuglio. “Scendo ad aiutarti.”

Gli occhi lacrimanti di Bulgaria si spalancarono e si rianimarono di colpo, come torce che avvampano di luce. Il dolore fluì lontano dal suo corpo. Una violenta fiammata di rabbia e indignazione gli bruciò addosso come tutto il sangue che stava colando dalle ferite aperte e pulsanti.

Bulgaria strappò una mano dal filo spinato, lacerando un altro lembo di pelle dal pollice al polso, e agguantò la pistola dalla cinta, spremendo un’impronta di sangue sull’impugnatura. Impennò il braccio, gettò la mira su Lituania. “Non ti avvicinave!” Sparò tre volte di seguito.

Lituania arrestò la discesa e si congelò, sfiorato dalle roventi scie di proiettili sfrecciate affianco alla spalla. Arretrò con uno scatto, tornò in ginocchio sul bordo di terra ma tenne comunque il braccio disteso verso Bulgaria e la mano aperta. “Non voglio farti del male.” Non demorse. “Voglio aiutarti. Se mi lasci scendere, allora...”

Aiutavmi?” gridò Bulgaria. “Aiutavmi pev cosha? Pev poi tovnave a insheguivmi? Mi hai pveso pev una caffo di lepve? Fa’ il tuo doveve e ammaffami she è quello che vuoi, ma non pvendevmi per il culo!” Di nuovo tornò ad accasciarsi. Abbandonò il braccio nell’intreccio di rovi e schiuse la mano scorticata, lasciando cadere la pistola insanguinata. Contrasse i muscoli, si aggrappò al filo penetrato nelle ferite aperte e continuò a sanguinare. Le ferite bruciavano e si allargavano a ogni spasmo corso attraverso il suo corpo. “Spavami,” singhiozzò. L’uniforme si fece calda e bagnata di tutto il sangue che continuava a sgorgare e a gocciolare dal suo corpo. Grosse gocce, lucide e rosse come bacche mature, fiorirono dai laceri sulla sua pelle, caddero dalla stoffa dell’uniforme e rimasero in bilico sui rovi. Altri grumi di lacrime si sciolsero fra le palpebre sgranate che fissavano il cielo. Gli occhi disperati. “Spavami.” Rauchi affanni soffiavano fra le sue labbra fratturate, gli contraevano il petto a ogni risucchio d’aria, stritolandogli i polmoni.

Lituania tirò indietro il braccio ma tenne la mano aperta, le dita tese e formicolanti verso quell’immagine da cui non riusciva a staccarsi e che riaprì dentro di lui vecchie ferite brucianti proprio come una gabbia di filo spinato.

Al posto di Bulgaria si materializzò l’immagine di Polonia, quel ricordo di lui che aveva catturato nei suoi sogni, nel grigio e silenzioso ambiente di cenere dov’era intrappolato, tenuto prigioniero dal recinto di filo spinato senza fine che non riusciva a valicare. Rivide Polonia che si sollevava sulle punte dei piedi nudi e sporchi di cenere, le sue mani che si aggrappavano al filo spinato, gli spuntoni che penetravano nei palmi, la colata di sangue che si scioglieva attraverso le dita, e la sua uniforme strappata che si tingeva di rosso.

Dentro la tasca della giacca, la scatolina dov’era custodita la piuma si fece più pesante, pulsò di dolore trasmettendogli una scossa di infinita tristezza e compassione. Alle sue spalle, la presenza di Russia lo chiamò, attirandolo a sé. Nelle sue orecchie riecheggiò quella voce che gli intimava di inseguire Bulgaria e di ucciderlo.

Lituania chinò il capo fra le spalle. Schiacciò un pugno a terra, tremante d’indecisione, e trattenne un sospiro di dolore. Una voce dentro di lui, più forte di quella di Russia, s’impose e guidò il suo cuore verso ciò che era giusto fare e non verso quello che gli avevano ordinato.

Lituania scrollò la testa, diede un’altra strofinata al viso per asciugarsi dal sudore, e si spinse in avanti. Distese di nuovo la gamba, tastò la parete col piede, trovando un punto piatto e compatto, e compì il primo passo strisciante per raggiungere Bulgaria e liberarlo.

Dietro di lui, proveniente dalla boscaglia da cui erano appena fuggiti, lo raggiunse un altro suono di passi in corsa sovrapposto agli echi degli spari e delle esplosioni.

Lituania si voltò.

Romania li raggiunse correndo. La gamba sinistra zoppicava e poggiava le falcate solo sulla punta del piede, alcuni graffi sanguinavano attraverso il viso rosso e sudato, e i capelli scompigliati, impolverati di terra secca, sventolavano sopra le spalle lievemente ricurve sotto il peso del fucile.

Mentre ancora correva, lo sguardo di Romania cadde sulla figura china di Lituania. Si accese di ostilità. “Cosa...” Romania rallentò, mise mano al fucile appeso alla schiena, e frenò anche lui la corsa sull’orlo del fossato. Guardò in basso, ancora con le labbra schiuse in quella frase che non aveva terminato. Davanti a lui si spalancò l’immagine di Bulgaria imprigionato nel garbuglio di filo spinato gocciolante del suo stesso sangue. Romania sgranò gli occhi, impallidì, si portò una mano alla bocca, e arretrò di un passo. “Oddio.”

Lituania riprese il suo fucile da terra, se lo appese alla spalla, e scappò con lo stesso scatto fulmineo con cui prima era partito all’inseguimento.

“Fermo!” Romania si girò. “Dove...”

“Ti dishpiace?” Bulgaria distese il braccio più libero ma scorticato dal pollice al polso. Sanguinò dalle dita, come se si stesse sciogliendo, e il filo gli trattenne la mano ritorta e tremante, già spellata. Si appese all’immagine di Romania con l’occhio socchiuso, quello sfiorato dall’uncino di ferro piantato sotto lo zigomo sempre più gonfio e sanguinolento. “Un aiutino?”

Romania strinse i denti, trattenne un conato di nausea e di dolore risalito dallo stomaco strozzato. “Dannazione.” Mise giù il suo fucile, si diede una piccola spinta dal bordo del fossato, restando seduto, e scivolò con i piedi attraverso la pendenza. “Come diavolo sei finito lì dentro?” Spinse i talloni verso il basso e fece attrito per non cadere anche lui nella rete di filo spinato. “Ti ci ha buttato lui?”

“Ti pave posshibile? Shono...” Bulgaria gemette e contrasse la bocca, facendo colare altra schiuma rossa dall’angolo delle labbra. Il filo incastrato fra i denti premette anche all’altezza della gola, soffocandolo, e in fondo alla mandibola, costringendolo a stare con la punta della lingua di fuori, come un cane. “Shono caduto come un idiota.”

Romania raggiunse il fondo del fossato. Infilò le mani in mezzo al filo, si aggrappò alle porzioni lisce, senza boccioli spinati, e spostò la rete per raggiungere Bulgaria. “L’ho detto che non posso lasciarti da solo un secondo senza che tu finisca ammazzato.”

Bulgaria grugnì un mugugno sarcastico e ingollò un altro groppo di saliva insanguinata.

Romania si appese alla porzione di filo incastrata fra le sue gambe. Gli tenne fermo il polpaccio e diede un primo strattone. Il filo spinato fuoriuscì assieme a un lembo di pantaloni insanguinati. Bulgaria gemette, la sua gamba si contrasse come se avesse preso la scossa, e schizzò altro sangue. Romania fece lo stesso con l’altra gamba – dovette tirare più volte all’altezza della coscia, dove il filo si era intrecciato al secondo rovo che gli passava attraverso la pancia –, e passò alle braccia.

 Bulgaria strinse la faccia per il dolore. Gli occhi lacrimarono, il pianto gli rigò la faccia sempre più pallida, e forti affanni soffiarono attraverso il filo ancora incastrato nella bocca dilaniata. A ogni ingollata di fiato, violenti spasmi gli contraevano il petto e i muscoli sanguinanti.

Romania gli infilò le braccia attorno al busto, si aggrappò alla stoffa della giacca ancora intera, e sollevò Bulgaria di peso, lasciando che si accasciasse su di lui. Gli fece correre un braccio attorno al suo collo e flesse il capo di lato per non finire anche lui impigliato nel filo spinato ancora agganciato alla sua faccia. “Ora sta’ fermo.” Agguantò il filo che attraversava la guancia di Bulgaria, nella parte liscia fra due nodi di rovi, e strinse le dita fino a far sbiancare le nocche. Deglutì. Il suo sguardo vacillò di timore e indecisione. “Qui potrebbe farti un pochino male.”

Bulgaria contrasse le sopracciglia nella stessa espressione che gli aveva stropicciato la faccia quando era caduto nel fossato. Oh, tranquillo. Finora non ne ha fatto per niente, figurati.

Romania strinse il filo – la sua mano tremante fece vibrare il ferro fra i denti di Bulgaria –, e si caricò di tutto il coraggio di cui aveva bisogno. “Pronto?” Non aspettò risposta. “Vado.” Glielo strappò dalla faccia.

La prima porzione fuoriuscì dall’orecchio, lacerò la cartilagine del padiglione e si portò dietro un pezzo di lobo insanguinato.

Bulgaria ebbe uno spasmo fra le sue braccia e lanciò un gemito. Dalla sua bocca colò abbondante saliva schiumante tinta di rosso che cadde sulla spalla di Romania su cui era accasciato.

Romania allentò la presa. Riprese fiato anche lui, diede aria allo stomaco nauseato, e tornò a strizzare le dita. “Resisti.” Diede un altro strattone e raggiunse il punto sotto la mandibola di Bulgaria, dove la gola pulsava per i suoi gemiti e per il respiro accelerato. “Resisti solo un secondo,” gli disse Romania. “Solo un...” Ultimo strappo.

Bulgaria spalancò la bocca rossa di sangue e gridò attraverso i denti di nuovo liberi. “Aaah!” Rovesciò il capo di lato e si prese la guancia lacerata fra le mani. Piagnucolò fra uno spasmo e l’altro. Le sue mani si riempirono di sangue, le ginocchia cedettero, e una prima botta di vertigini gli diede l’impressione di star svenendo.

Romania mollò il filo e strinse il corpo di Bulgaria prima che tornasse a cadere. “Finito, finito,” lo rassicurò. “Sei libero.”

Bulgaria emise un altro gemito agonizzante. Tremò fra le sue braccia senza staccare le mani dalla guancia. “Che male, cazzo.” Le dita affondarono nel lacero, passarono attraverso la carne viva e cedevole come la polpa di un frutto troppo maturo, e incontrarono la dura resistenza dei denti. “Uurgh...”

Romania gli sollevò un braccio e gli fece premere la manica sul viso. “Premiti la manica qui, non far uscire troppo sangue.” La stoffa s’inzuppò di sangue, prese subito a gocciolare come un panno affondato nell’acqua.

Bulgaria sbatté le palpebre e vide le stelle. Le vertigini aumentarono e stridettero attorno alla fronte. L’orecchio ferito fischiò. La sensazione calda e umida del sangue entrò a tappargli l’udito, spandendo un ovattante rumore bianco che gli diede l’impressione di trovarsi sott’acqua. Rapidi affanni di dolore e fatica soffiarono attraverso il naso e la bocca, schizzando accesi spruzzi di sangue dalle labbra strappate.

Bulgaria lasciò ciondolare il capo fra le spalle, succhiò un ingollo di sangue e saliva che rischiava di soffocarlo, e si lasciò trascinare dalle braccia di Romania attraverso la pendenza, di nuovo in salvo. Sollevò lo sguardo appannato di rosso verso la cima del fossato. Lituania era scomparso.

Bulgaria socchiuse le labbra contro la manica premuta sulla faccia ma non provò sensibilità né sulla bocca né sulla lingua lacerata. La lingua però si stava gonfiando. Era come avere un panno umido e caldo affondato fra le guance. “Vov’è Vituania?”

Romania gli diede un’altra spinta per tenerselo stretto al fianco e salì di un altro passo. “Cosa?”

Bulgaria inspirò forte e cacciò un grido. “Dov’è Lituania?” La botta di dolore alla faccia si propagò attraverso il cranio come una scossa, discese il resto del corpo e affondò nelle ferite più profonde che gli avevano strappato gli arti e i fianchi. “Ghnn...” Bulgaria gettò il capo in avanti e si abbandonò allo spazio nero che gli aveva invaso la vista, risucchiandolo lontano dal dolore.

Romania si appese all’orlo del fossato e strinse il braccio libero attorno a Bulgaria. Soffiò un affanno di fatica. “L’ho visto scappare via proprio quando sono arrivato.” Scivolò su con le ginocchia. Spinse il corpo di Bulgaria e lo stese sul fianco. “Forse è tornato da Russia.”

Bulgaria respirò attraverso la manica premuta sulla faccia, inalò l’odore ferroso e nauseabondo del sangue – per lo meno lo teneva sveglio – e abbandonò la testa contro il braccio di Romania. La faccia formicolava, le labbra avevano perso sensibilità, e la punta della lingua sanguinante ciondolava dall’angolo ancora integro della bocca. Bulgaria deglutì. Si aggrappò al braccio di Romania, lasciandogli un’impronta di sangue sulla giacca. “E Vussia vov’è?”

Romania scosse il capo. “Non lo so.” Si allacciò il braccio di Bulgaria attorno al collo, lo tirò su, e rimise entrambi in piedi. “Mi ha...” L’ultimo ricordo di Russia gli lampeggiò davanti agli occhi, congelò quelle parole.

Il braccio di Russia che risollevava il fucile e la sensazione fredda e dura della canna che si staccava dalla sua nuca. “Per questa volta ti lascio andare. Ma solo questa volta.” La sua figura che si voltava e che raccoglieva Moldavia fra le braccia, lasciando a Romania l’ultima immagine di suo fratello stretto nell’abbraccio del nemico che glielo aveva già portato via una volta.

Di nuovo uno sciame di fredda confusione gli vorticò attorno alla testa, dipingendo sul suo volto un’espressione di incredulità e sconforto. “Lui mi ha lasciato andare.”

Bulgaria sobbalzò per lo stupore. “Non ti ha uccisho?”

“No.” Romania sospirò. Arrancò trascinandosi dietro il peso molle del compagno. “Ma si è portato via Moldavia. Di nuovo.”

Le parole di Russia emersero di nuovo, questa volta però accompagnate dal suo tagliente sguardo accusatorio. “Perché io tratto Moldavia come una nazione, e non come un bambino. Voi invece lo avete sempre trattato come un semplice piccolo essere umano da proteggere e da tenere distante dalla guerra e dai conflitti. Ecco perché Moldavia si fida delle mie parole. Perché io ho compreso i suoi bisogni e gli ho dato dignità al posto della sicurezza. È questo ciò di cui una nazione ha bisogno.”

Romania proseguì la camminata strisciante e si tenne aggrappato al corpo di Bulgaria, come per consolarsi davanti a quel senso di mancanza. “E forse è meglio così, dopotutto.”

Bulgaria ruotò l’occhio più sano e vigile, e lo guardò di sbieco. Era costretto a tenere socchiuso l’altro occhio, quello ferito sotto la palpebra. Lo zigomo lacerato continuava a gonfiarsi e a spurgare un sangue sempre più denso e colloso attraverso la guancia diventata viola. “Non avvai mica intenshione di conshegnavti a lui?”

“Certo che no. Anche io ho una mia dignità.” Di nuovo uno sguardo abbattuto rese più scuro e avvilito il volto di Romania. “Ma non so proprio cosa aspettarmi da ora in poi, almeno da me stesso.”

Bulgaria schiuse le labbra, fece per ribattere, ma le scosse di dolore provenienti dalla bocca, dai fianchi, dalle braccia e dalle gambe, non gli diedero occasione di pensare ad altro. Si torse in avanti, strizzò le mani attorno a Romania, per reggersi in piedi, e zoppicò in un passo più incerto.

Romania lo sorresse. Gli fece premere più forte la manica contro la guancia lacerata come una cerniera aperta. “Sbrighiamoci.” Gli diede una spintarella e lo tenne stretto a sé. Accelerò il passo. “Dobbiamo curarti quelle ferite.”

“Mhf.”

Camminarono attraverso la distesa di terra bruciata, in mezzo alle ali di fumo soffiate dal vento che scuoteva i rami degli alberi spogli e che propagava l’eco delle cannonate più distanti.

Attraverso il suono dei loro passi trascinati e degli spari, Romania rivisse il momento in cui aveva deciso di arrendersi e cadere in ginocchio davanti a Russia, quando Bulgaria era corso a salvarlo, buttandosi in mezzo a loro e saltando sul fucile, risparmiandogli un foro sulla fronte.

Tornarono anche le parole che si erano scambiati solo qualche giorno prima, quando non avevano ancora chiuso la sacca.

“Scapperesti a gambe levate lasciandomi in pasto a Russia, se si trattasse di avere salva la pelle.”

“Già, lo credo anch’io. Ma era un bel pensiero, no? Concedimi almeno quello.”

Romania si schiarì la voce, pinzò il labbro inferiore fra i canini appuntiti. “Ehm, senti...” Tenne lo sguardo distante, nascose un lieve rossore di gratitudine comparso sulle guance. “Grazie per essere tornato a salvarmi, prima. Senza di te, probabilmente anche io ora sarei prigioniero di Russia.”

Una scossa di piacevole stupore ammorbidì la pressione del dolore in cui Bulgaria era intrappolato, ma la sua faccia martoriata non riuscì a mimare l’espressione giusta per esprimerlo. Bulgaria sollevò il braccio strappato – la stoffa della giacca si era incollata alle ferite lacere, alla carne viva che pulsava fra le labbra di pelle – e si toccò il viso. “Be’, gvashie pev avevmi shgavbugliato.”

Romania strinse la bocca affondando i denti nella carne del labbro. Chiuse le dita bagnate del sangue di Bulgaria attorno al suo corpo e chinò lo sguardo, a cercargli il viso. Si guardarono. Bulgaria con quel ghigno ritorto e sanguinante che andava dall’orecchio alla mandibola e gli occhi annebbiati da quel dolore da capogiro; Romania con il naso gonfio e dolorante dopo essere finito con la faccia a terra, quando Bulgaria gli era salito addosso per proteggerlo da Russia, e le guance sporche di terra, tagliuzzate e sanguinanti per il volo che aveva fatto quando era esplosa la carica di tritolo.

Dal nulla, si misero a ridere. Singhiozzi stentati e trascinati, mescolati al pianto di dolore di Bulgaria e a qualche gemito disperato di Romania che ancora volgeva lo sguardo all’ombra di suo fratello che era di nuovo fra le braccia del nemico.

Romania strinse forte il braccio di Bulgaria allacciato attorno alle sue spalle e se lo portò via, un passetto zoppicante alla volta, sostenuto solo da quegli spasmi di risata più simili a singhiozzi di dolore. Se ne andarono ridendo, disperati, ubriachi di dolore, e tornarono a tuffarsi nell’assurdità di quella guerra che li stava rendendo tutti matti.

 

.

 

Bielorussia attraversò quel che rimaneva del corridoio interrato, sommerso dal fumo nato dalle cannonate che ancora si stavano consumando alle sue spalle. Imboccò la direzione opposta rispetto a quella presa da Lituania nel momento in cui si erano separati e accelerò la corsa. Attraversò i raggi di luce polverosa che fendevano gli squarci aperti dai colpi di cannone, e si coprì la bocca per non inalare quell’aria rovente che le dava il voltastomaco. Si guardò attorno. Solo un ambiente grigio sommerso da una nebbia fitta sempre più soffocante. Le girò la testa. Il suono delle cannonate divenne un ronzio insistente e confuso che le fece perdere l’orientamento, e fu costretta a rallentare.

Un dolore familiare risalì il braccio appesantito dal fucile e le morse la spalla, all’altezza della cicatrice che ancora pulsava nel muscolo in un martellio ripetuto.

Bielorussia gemette. Artigliò la spalla e si fermò, gettandosi con la schiena su una porzione di parete ancora in piedi e integra. Respirò a rapidi affanni, riempiendosi di quell’odore pungente, sempre più difficile da mandare giù, che le bruciava le narici e la gola. Fottuta spalla. Strinse la presa. Si maledì. Se solo a Smolensk non mi fossi fatta colpire come un’idiota...

Altri spari tuonarono dietro di lei. Si unì il ruggito del mezzo tedesco che aveva preso d’assalto il rifugio, l’avanzare dei suoi cingoli che sradicarono la terra e sbriciolarono i frammenti di cemento armato. La sua ombra si dilatò e riempì di buio le lame di luce che cadevano sul pavimento, davanti ai suoi piedi.

Bielorussia strinse i denti tenendosi aggrappata alla spalla. Inspirò a lungo, ricaricandosi della stessa forza che aveva dimostrato quando aveva spedito Lituania a salvare Russia. Ma non voglio fuggire. Non davanti a questi due. Se solo fossi in grado di combattere come sempre... Scosse il capo, tenne i capelli lontani dal viso sudato. Ma non posso nemmeno nascondermi, e tantomeno tornare da Russia, rischiando solo che questi due lo trovino e che gli facciano del male. Non ho scelta. Imbracciò il fucile tenendolo premuto sotto il gomito, allungò la mano verso la cinta, dove pendevano due bombe anticarro che aveva preso dallo zaino prima di abbandonarlo durante la fuga, e guardò verso l’alto, dove gli spicchi di cielo e di boscaglia risucchiavano il fumo del rifugio verso l’aria più fresca della piana di terra. Devo affrontarli per forza.

Bielorussia si diede uno slancio, compì due balzi attraverso le macerie, si aggrappò a una sporgenza di cemento, e sgusciò fuori dal bunker ormai diroccato. Si guardò attorno. Fitti alberi ancora in piedi che potevano darle rifugio, colonne di fumo color carbone a sorgere all’orizzonte, e nessun mezzo tedesco in avvicinamento. Era sola.

Si girò verso la presenza ostile e nemica, ma ancora lontana, che le dava la caccia. Tese l’orecchio. Fra i due mi conviene prendere di mira Austria, dato che uno come lui è strategicamente più importante, quasi quanto Germania e Prussia. Anche se non riuscissi a ucciderlo sul colpo, portarlo con me costituirebbe comunque un buon bottino. Davanti a lei lampeggiò il ricordo di Ungheria, di quella presenza sempre schiacciata sul fianco di Austria come una seconda ombra, di quegli occhi verdi che non lasciavano scampo. Ma per far breccia sulle difese di Austria è necessario eliminare il suo cane da guardia. Lasciò il fucile sulla spalla, agguantò una delle bombe anticarro e premette la leva della sicura. E potrebbe rivelarsi un ostacolo ben più grosso di quello che mi aspetto. Sganciò l’ago dell’innesco, rilasciò la leva che si rialzò con un cigolio, e lanciò la bomba.

L’esplosione innalzò un fragoroso rigurgito di terra e fumo che la nascose nella nebbia.

Bielorussia arretrò, si acquattò, e attese le prede.

 

.

 

Ungheria sventolò il braccio in mezzo alla massa di fumo sorta dall’esplosione della bomba anticarro. Chinò il capo e premette la bocca contro la spalla, tossì più volte ma tenne gli occhi socchiusi, la guardia alta e l’udito vigile. Le mani pronte a scattare sul fucile e a far fuoco anche solo al minimo scricchiolio.

Arretrò di un passo, distanziandosi dalla terra esplosa e rotolata fra le caviglie, e spinse la schiena contro quella di Austria, allontanandolo dal calore e dal fumo. “Stammi vicino.” Sollevò il fucile, strinse la presa, spostò lo sguardo da un albero all’altro – piatte e scure sagome che sfumavano contro la nebbia. “Non staccarti dalla mia schiena, ti proteggo io.”

Austria girò il capo sfiorandole la nuca con la sua e aggrottò un sopracciglio, tenendo anche lui stretto il suo fucile. “Sono perfettamente in grado di combattere.”

Ungheria scivolò di un passo di lato, portandosi dietro Austria incollato alla sua schiena, e si guardò ancora attorno, a caccia di ombre. Arricciò la punta del naso, tastò l’acre odore di nemico. “Bielorussia è qui.” Le salì la pelle d’oca. Un forte bruciore discese la nuca. “Quindi significa che anche Russia sta guidando la difesa della sacca? Uno come lui non si sognerebbe mai di perdere un’occasione del genere.”

“È probabile.” Anche lo sguardo di Austria si fece più attento e sottile dietro il profilo delle lenti in cui si specchiavano i profili degli alberi. “E Russia potrebbe trovarsi proprio dove Lituania è appena fuggito, forse proprio per andare a difenderlo, o ad avvertirlo della nostra presenza.”

Ungheria annuì, nascondendo un brivido di paura che le scosse le spalle incollate ad Austria. “Dobbiamo sconfiggere Bielorussia immediatamente, prima che lui arrivi a proteggerla. Oppure...” Sgranò gli occhi. Un’idea la fulminò, esplodendo come la bomba che aveva innalzato tutto quel fumo. “Oppure la rapiamo. Se ce la portassimo via come ostaggio sarebbe un bel colpo, no? Potrebbe essere un buon oggetto di ricatto contro Russia.”

Austria aggrottò la fronte, dubbioso. “Dubito che Russia si farebbe mai...”

Un’altra bomba anticarro piovve davanti a loro, sbatté su una roccia, emettendo un ottuso suono di latta ammaccata, e si fermò. L’esplosione si abbatté con il suono secco di uno schiaffo e innalzò una ruggente ondata di luce e terra.

Ungheria scartò di lato, contenne un grido di spavento, e si riparò la testa. Lo scroscio si abbassò e lei riaprì gli occhi, toccata da un freddo senso di mancanza all’altezza della schiena. Non era più incollata ad Austria.

Si girò, punta da una scossa di timore, e lo chiamò a gran voce. “Austria?” Si spostò, calpestò una zolla di terra più molle, e tornò a fermarsi. La presenza vicina di Bielorussia le scivolò addosso, bruciante come il vento nato dall’esplosione, e le fece di nuovo rizzare la pelle d’oca. Gli occhi di Ungheria scavarono fra le ombre. Dov’è Bielorussia? La sento, ma non...

Un peso le crollò addosso e la sbatté a terra, schiacciandole il fucile sul petto.

“Ah!”

Ungheria cadde distesa in mezzo al fumo, accolta dalla terra ribaltata dall’esplosione, e sbatté la nuca. Strinse gli occhi, soffiò un gemito, e si strofinò la testa, dissolvendo lo sciame di stelle che le era esploso davanti alla vista. Ma da dov’è sbucata? Sbatté le palpebre, mise a fuoco.

La sagoma di Bielorussia si materializzò davanti a lei, scura e ancora indistinta in mezzo al fumo, ma circondata da un’elettrica aura di minaccia che pulsava come una fiamma viva, come una nube di temporale in cui sfrigolano saette zampillanti.

Bielorussia raddrizzò le ginocchia, si erse, buia e silenziosa, e camminò verso Ungheria. Raccolse il suo fucile, lo imbracciò, e socchiuse l’occhio, prendendo la mira su di lei. Il vento le scosse i capelli davanti al viso, gonfiò i lembi dell’uniforme un po’ troppo larga all’altezza dei fianchi, e accompagnò la sua camminata con un fischio.

Ungheria contrasse le mani sul suo fucile, ancora aggrappato al petto, e lo impennò a sua volta. Sparò due colpi, fu più veloce.

Bielorussia gettò la spalla di lato, schivò le scie dei proiettili sfrecciati accanto alla sua guancia, e s’irrigidì.

Ungheria distese le gambe, incastrò un piede fra le caviglie di Bielorussia e usò l’altro per scaricarle un calcio fra le ginocchia.

Bielorussia gemette e cadde davanti a lei. Il fucile ancora fra le mani.

Ungheria si rialzò da terra, pestò il piede sulla canna del fucile di Bielorussia, abbassò la mira del suo, e puntò di nuovo alla testa della rivale.

Bielorussia mollò il fucile e rotolò di lato.

Lo sparo di Ungheria esplose, le volò di nuovo sopra la spalla e si piantò al suolo, schizzandole addosso uno zampillo di terra e sassi.

Disarmata, Bielorussia raggiunse di nuovo la cinta della giacca, agguantò il manico del pugnale d’assalto e lo sfoderò. Una luce d’argento corse dalla punta della lama fino all’impugnatura. Bielorussia piegò il braccio sopra la spalla e lanciò il pugnale contro Ungheria.

Ungheria sgranò gli occhi, e quella sfrecciante scheggia metallica si specchiò nelle sue iridi. Flesse il capo di lato. Il filo tagliente del pugnale le sfiorò la spalla, tranciò una piccola ciocca di capelli castani sfuggiti all’elastico, e si conficcò nell’albero alle sue spalle, come se fosse entrato in un panetto di burro.

Ungheria sorrise. Un luminoso sorriso di vittoria. Che stupida! Mettersi contro di me all’arma bianca e per di più perdere l’unica che ha. Agguantò il manico del pugnale affondato nella corteccia e gli diede uno strattone. La lama emise uno scricchiolio secco, sbriciolò qualche scheggia che cadde in mezzo all’erba, ma rimase dentro. Ungheria perse un battito. Oh, no. Si è incastrato! Strinse l’impugnatura con entrambe le mani, gonfiò i muscoli delle braccia, lo sollevò su e giù, seghettando altro legno, e la lama emise altri scricchiolii, senza quasi spostarsi. Le mani sudarono e presero a tremare. Le dita scivolarono dal manico, lo riafferrarono, e tirarono più forte, fino a sbiancare e a bruciare per lo sforzo.

Bielorussia, ancora stesa a terra, tornò a gettarsi sul suo fucile. Lo riprese fra le braccia, si rimise in piedi, e compì solo un paio di passi per arrivare alle spalle di Ungheria. Sollevò l’arma, gliela puntò fra le scapole e restrinse le palpebre attraversate da qualche ciocca sfuggita al nastro di raso. “Di’ le tue preghiere.”

Tre spari di seguito esplosero alle spalle di Bielorussia, grandinarono su di lei, piantandosi all’altezza dei reni, e la lasciarono senza fiato, solo con quella pressione fra le ossa e il respiro mozzato fra le labbra schiuse.

Bielorussia non sparò, l’indice congelato sul grilletto e le mani strette attorno al fucile. Barcollò di un passo indietro, davanti allo sguardo altrettanto attonito di Ungheria, e rimase in piedi. Accostò una mano alla schiena, piegò il braccio per raggiungere il punto dove la pressione si stava trasformando in un dolore bruciante. Merda. Una sensazione calda e umida trasudò dalla stoffa della giacca e colò attraverso la schiena. Sangue. Mi hanno... Girò lo sguardo.

Austria uscì dalla coltre di fumo tenendo il fucile sollevato davanti a sé. Il viso disteso, il solito sguardo composto, ma una sorprendente luce combattiva e protettiva ad animargli gli occhi.

Bielorussia bruciò di umiliazione fino alle punte delle orecchie, cancellò il dolore alla schiena e la sensazione opprimente dei proiettili. Ringhiò a denti stretti. “Maledetto.” Si girò e puntò il fucile su di lui, pronta a sparargli in faccia.

Ungheria strappò il pugnale dal fusto d’albero. Raggiunse Bielorussia con una falcata, affondò la mano libera nella massa di lisci capelli biondi, li arrotolò fra le dita e le diede uno strattone all’indietro, facendola ricadere su di sé. Bielorussia sbatté la schiena ferita e sanguinolenta sul suo petto e raggelò. Ungheria le circondò le spalle con un braccio, spinse il pugnale contro la sua gola, e reclinò la lama sotto la mandibola. Accostò le calde labbra sorridenti al suo orecchio. “La prossima volta legateli.”

Bielorussia strizzò le mani. Le falangi scricchiolarono, le vene pulsarono in rilievo, le nocche sbiancarono e si fecero più aguzze e spigolose. Si girò di scatto, lasciando che il pugnale tracciasse una sottile linea di sangue sulla sua gola, e scaricò un pugno sul naso di Ungheria.

Lo suono della cartilagine rotta schioccò come un morso dato a una cucchiaiata di cereali croccanti.

Uno scoppio di stelle esplose davanti agli occhi di Ungheria. Per un battito di ciglia perse davvero i sensi, barcollò all’indietro e sbatté la schiena sull’albero da cui aveva estratto il pugnale. Si tappò il viso, aprendo una mano a coppa attorno al naso, e soppresse un rantolo agonizzante.

Bielorussia le strappò il pugnale dall’altra mano e lo impennò davanti al viso sbiancato per il dolore degli spari. Distese le labbra in un aguzzo ghigno malefico che la rinvigorì. “La prossima volta impara a combattere.” Piegò il gomito e affondò la lama nella pancia di Ungheria.

Ungheria spalancò gli occhi, tenne però la mano sovrapposta al naso rotto, e ingoiò un groppo di sangue risalito dalla gola. Lanciò a Bielorussia un’occhiata inferocita – vive fiamme verdi arsero fra le sue palpebre – e le saltò addosso.

Bielorussia cadde a terra – il pugnale si era sfilato dalla pancia di Ungheria durante la caduta – e sbatté di nuovo sulla schiena ferita. Uno spasmo di dolore la trapassò come una saetta, pietrificandola sotto la presa di Ungheria che le aveva piantato i polsi a terra.

Ungheria la lasciò andare, allacciò un braccio attorno alla pancia ferita, e ricadde all’indietro, lontano da lei. “Austria, sparale!”

Austria riprese la mira ed eseguì.

Bielorussia ricadde sul fianco, reggendosi la spalla colpita, e questa volta non si rialzò. Il suo respiro accelerò, i battiti del cuore martellarono allo stesso doloroso ritmo delle fitte sempre più opprimenti, sudori freddi le imperlarono la fronte. Non posso. Strizzò una mano a terra, strappando un ciuffo di erba secca. Non posso farmi sconfiggere qua, non posso farmi ammazzare proprio da questi due. Nei suoi ricordi comparve il triste sguardo di Russia, gli occhi disperati di quando si era trovato davanti al corpo inerme e insanguinato di Ucraina. Non posso causargli anch’io un altro dolore del genere.

I passi di Austria la sorpassarono, si precipitarono da Ungheria. “Stai bene?” Austria si chinò e la aiutò a rialzarsi. “La ferita è grave? Quanto a fondo ti ha colpita?”

Ungheria soffocò un debole lamento. Strofinò la radice del naso, senza spingere sugli ossicini rotti, e seguì il profilo del gonfiore che diventava sempre più espanso. Un forte colorito violaceo le tinse gli zigomi e le palpebre inferiori, rendendole sporgenti come se avesse ricevuto una scazzottata sui bulbi oculari. La sua pancia sanguinò copiosamente. Ungheria strinse un braccio attorno al ventre lacerato. “Non è nulla,” gemette. “Ce la faccio. Ha affondato la lama solo una volta. Mi...” Soffiò un altro gemito. “Mi preoccupo più per il naso.” I suoi occhi gonfi caddero sul corpo tremante di Bielorussia, ancora a terra, con la mano aggrappata alla spalla già nera di sangue. In lei sorse di nuovo un acido conato di odio nei confronti del naso rotto e della pancia tagliata. “Ma dobbiamo finirla.”

Austria annuì. Sorresse Ungheria con un braccio solo e sollevò il fucile accanto alla guancia per prendere di nuovo la mira.

Sparò.

Un’ombra nera si gettò su Bielorussia, la protesse col suo corpo, e impennò un braccio per parare la sequenza di tre spari sputati dal fucile di Austria. I proiettili si conficcarono nel muscolo dell’avambraccio e la stoffa carbonizzata della manica rigettò un filo di fumo. L’ombra colpita non emise neanche un tremito.

Austria abbassò il fucile e sgranò gli occhi, incredulo.

Ungheria rimase a bocca aperta. Sbatté le palpebre, non riuscì a crederci nemmeno lei. “Lit... da dove sbuca?” esclamò. “Quand’è tornato indietro?”

Una prima colata di sangue grondò dal braccio trafitto di Lituania. La sua mano si chiuse a pugno, diede una scrollata schizzando lucide goccioline rosse sull’erba secca, e si riabbassò a raccogliere Bielorussia da terra. “Bielorussia.” La aiutò a risollevarsi, la fece mettere seduta. “Stai...”

Bielorussia strappò la mano dalla sua e lo afferrò per le spalle, di nuovo in lei nonostante le ferite. “Che cazzo ci fai qui?” sbraitò. “Ti avevo detto di...” Una botta di panico le fece scordare del sangue, dei dolori, e dei proiettili conficcati nel suo corpo. “Dove hai lasciato mio fratello? Dovevi proteggere lui, non me!”

Lituania scosse il capo, impassibile davanti alla sua ira. “Non ti preoccupare per lui.”

“Cosa? Ma...” Bielorussia riprese fiato, strinse la presa sulle sue spalle e lo trattenne. “Perché sei tornato indietro? Ti avevo detto di...”

“L’ho fatto per inseguire Bulgaria.”

Quelle parole arrivarono anche all’orecchio di Austria, lo fecero esitare. Bulgaria?

“Ma ormai non ce n’è più bisogno,” continuò Lituania, “è caduto in una rete di filo spinato e Romania...” Si rimangiò la frase, le parole congelarono fra le labbra. Un momento. Rivisse anche lui gli ultimi istanti, la sua corsa alle spalle di Bulgaria, la frenata improvvisa sull’orlo del fossato, e Romania che li aveva raggiunti, quando fino a poco prima si trovava accasciato davanti a Russia e Moldavia. Romania era con Russia quando io me ne sono andato per inseguire Bulgaria. Però mi ha raggiunto quasi subito. E questo significa che... o Russia lo ha lasciato andare, o Romania si è liberato da solo. E questo significherebbe solamente che... “P-penso...” La stessa nauseabonda ondata di panico che aveva colpito Bielorussia si abbatté anche su di lui. “Penso sia il caso di tornare da Russia.”

Bielorussia lo agguantò per la giacca e gli diede uno strattone. “Tu, razza di idiota! Ti spellerei vivo, lo sai?”

Austria rivolse a Ungheria un’occhiata scettica. “Bulgaria è ferito?”

Ungheria si tenne il naso coperto e si strinse nelle spalle. “A quanto pare.” Aggrottò la fronte e scosse il capo, senza bisogno di immaginarselo. “Che scemi. Non possiamo nemmeno lasciarli soli che...” La ferita alla pancia la frustò con un’altra fitta, la fece piegare fra le braccia di Austria.

Lui però la sorresse, impedendole di accasciarsi. “Tieni duro.”

Ungheria tremò, più per la frustrazione che per il dolore. “Mi dispiace,” mormorò. Il fiato sempre più corto. “Se non mi fossi fatta colpire, io...”

“Ormai non ha importanza.” Austria rivolse una scura occhiata di diffidenza a Bielorussia e Lituania, alle loro ferite, al sangue che gocciolava sulla terra attorno a loro. “Anche Bielorussia e Lituania sono feriti, non potranno fare molto. Russia è fuori dalla nostra portata e lui rimane pur sempre l’obiettivo di Germania. Ci rimane solo una cosa da fare...” Raccolse Ungheria facendole avvolgere un braccio attorno al suo collo e s’incamminò lontano dal campo di battaglia, dentro il velo di nebbia che ancora rasentava il suolo. “Spingere Russia ad andare a Kiev come Germania ha sempre voluto. E possiamo farlo solo mantenendo chiusa la sacca, in modo che lui non possa ritirarsi a est, verso Mosca.”

“Sì.” Ungheria sospirò, mentre il sangue continuava a sciogliersi attraverso la sua mano premuta sul ventre. “Ho capito.”

“E ora dobbiamo tornare indietro,” disse ancora Austria. “Dobbiamo recuperare Bulgaria e Romania, e dobbiamo anche farti curare immediatamente. Saliamo sullo Sturmgeschütz, presto.”

“Sì.”

Se ne andarono, ma Ungheria girò lo sguardo un’ultima volta, incrociò i suoi splendenti e agguerriti occhi verdi con quelli più scuri e tenebrosi di Bielorussia, celati dalle ciocche bionde ricadute sulle guance. Si scambiarono la stessa feroce espressione di sfida che si erano rivolte mentre si puntavano le armi addosso. Le attraversò lo stesso pensiero fulminante. Fra noi due non è finita qui.

Si separarono, le loro strade si divisero, ma la guerra tenne unite le loro sorti.

 

.

 

Nonostante le ferite alla spalla e alla schiena, Bielorussia accelerò la corsa, pestando avide falcate sul suolo del sottobosco, e andò incontro alla figura che aveva scorto in mezzo alla penombra infittita dal fumo raccolto in mezzo agli alberi. Spiccò un balzo e si gettò fra le braccia di Russia. “Fratellone!” Si aggrappò alle sue spalle, tuffò il viso fra i lembi della sciarpa, e ricadde con i talloni a terra, fra l’erba scricchiolante. “Sei salvo,” sospirò. “Sei salvo. Credevo...” Strinse le dita tremanti sulla stoffa e vi rimase col viso affondato. Il naso immerso nel profumo familiare di suo fratello che seppe isolarla dal dolore e confortarla. “Credevo di non rivederti mai più.”

Per la prima volta da che avesse memoria, Russia non provò il bisogno di sgusciare via da quell’abbraccio, di spingere via l’ingombrante presenza di sua sorella e di tenere lontana la presa delle sue grinfie su di lui. Le posò una mano sulla testa, senza sgualcire il nastro fra i capelli, e anche lui rallentò il respiro dopo la corsa, assecondò il battito del cuore che si era fatto più leggero dopo quell’incontro. “State bene,” mormorò con tono sollevato. Le passò una soffice ma esitante carezza attraverso la nuca e il tocco scese fino alla schiena. Abbassò lo sguardo ai suoi piedi. Moldavia era ancora affianco a lui, aggrappato alla sua gamba. Lo sguardo spaesato ma la presa delle manine solida. Russia guardò oltre Bielorussia, si soffermò sulla seconda sagoma che stava correndo loro incontro. “Ma cos’è successo?”

Lituania compì le ultime falcate di corsa reggendosi il braccio ferito e sanguinante, chinò il capo davanti a Russia, in un gesto remissivo, e si fermò. “Ci...” Era bianco in viso, e i fili di capelli incollati alle guance sudate celavano la sua grigia espressione di rammarico. Deglutì. Ingollò avide boccate di fiato. “Ci hanno sconfitti, temo.”

“Sconfitti?” Russia strinse il tocco attorno a Bielorussia, irrigidì le mani contro la sua schiena. “In che...” Una sensazione calda e umida attraversò la stoffa dei suoi guanti e gli bagnò le dita. Russia sollevò una mano e la espose alla luce che penetrava in mezzo alla boscaglia. Sangue vivo, di un rosso acceso, tingeva la stoffa del guanto. Sgranò gli occhi. Un tuffo di panico aprì un ghiacciato senso di vuoto in fondo allo stomaco, facendolo impallidire. “Sanguini?”

Bielorussia gettò lo sguardo a terra ma non si staccò dal suo petto. Gli occhi scuri e vacillanti di vergogna. “Non mi hanno fatto niente.” Strinse la spalla sporca di sangue che aveva incassato gli ultimi proiettili sparati da Austria. “È solo...”

Una spirale di panico stridette attorno alla testa di Russia, lo estraniò dalla voce di Bielorussia, riportandolo davanti a ricordi che avrebbe voluto rimanessero sepolti in fondo al suo cuore, cristallizzati dietro una fitta e impenetrabile barriera di ghiaccio.

Tornò la sensazione delle sue mani bagnate del sangue di Ucraina, del peso del suo corpo sollevato da terra e che lui aveva raccolto fra le braccia, del suo viso pallido e incavato dal dolore riverso fra le coperte in cui l’avevano avvolta, dei suoi occhi umidi di lacrime e dolore, e della sua voce che lo pregava di abbandonarla, di fuggire da Kiev e di andare a difendere Mosca.

La voce distante di Lituania lo risucchiò fuori dal vortice di pensieri, lo fece riemergere. “Ma signore, perché ha lasciato andare Romania?”

Russia ebbe un sussulto. “Oh.” Sbatté le palpebre. “Romania, dici?” Fece scivolare lo sguardo ai suoi piedi, dove Moldavia era ancora aggrappato alla sua gamba, immobile e silenzioso, velato da una grigia aura avvilita che gli teneva i codini ammosciati e il capo chino fra le spalle ricurve. Russia inarcò un sopracciglio, tornò a rivolgersi a Lituania. “Hai visto Romania?”

Lituania annuì. Si diede un’altra strofinata al braccio ferito. “Mi ha raggiunto mentre inseguivo Bulgaria. E Bulgaria è...” Il ruzzolone attraverso la pendenza di terra, il suo corpo incastrato fra i rovi di filo spinato, gli arti intrappolati nel garbuglio, gli spuntoni affondati nella carne delle mani e del viso, e quegli occhi agonizzanti, gonfi di lacrime, che riuscivano comunque a fiammeggiare di ferocia, aggressivi come quando combatteva. “Bulgaria è rimasto ferito gravemente,” disse Lituania. “Un incidente col filo spinato. Romania è accorso e io sono fuggito per aiutare Bielorussia contro Austria e Ungheria. Mi rincresce non essere riuscito a finirlo, ma...”

“E non siamo riusciti a finire nemmeno Austria e Ungheria,” ringhiò Bielorussia. Sfilò le braccia da Russia e le annodò al petto. Si strinse nelle spalle per nascondere i tremori della schiena sempre più ricurva, il pallore del viso, e i tremori delle labbra color cenere. Strofinò le maniche della giacca. “Che disastro del cazzo.”

Russia contrasse le mani inguantate, sporche del sangue di Bielorussia. Sollevò lo sguardo al cielo, dove i rami degli alberi si frastagliavano contro i nuvoloni di fumo e polvere, e si estraniò. Ormai la sacca è chiusa, realizzò. I tedeschi impiegheranno meno di una settimana a liquidare le armate che hanno chiuso al suo interno, e io sono lontano da Ucraina, dove non posso raggiungerla nel caso tentassero un altro attacco frontale su Kiev. Forse... Chiuse gli occhi e cercò la dolce presenza di sua sorella, senza trovarla. Dovrei davvero tornare da lei prima che la uccidano o la catturino. 

Lituania sospirò. “Cosa facciamo, signore?”

Russia rimboccò la sciarpa attorno al collo, ma nemmeno il calore della stoffa e il suo profumo familiare riuscirono a confortarlo. I suoi occhi scuri, circondati da un’ombra di rabbia e frustrazione, s’inumidirono. “Voglio tornare da Ucraina.” Attorno a lui, l’aria si fece fredda. Nel suo petto si spalancò uno spazio vuoto e sanguinolento, un buco che solo Ucraina era in grado di colmare con le sue parole rassicuranti, con i suoi abbracci protettivi, con quelle carezze che gli davano sempre l’impressione di avere una soluzione a tutto, di essere in grado di proteggerlo da qualsiasi nemico, di riportare il sole anche negli angoli più bui. “Riportatemi da lei.”

Lituania e Bielorussia si scambiarono un’occhiata bassa e fugace. Entrambi capirono che non c’era altro da fare.

“Sissignore.”

 

♦♦♦

 

8 agosto 1941

Pressi di Kiev, Ucraina

 

Fu il brusio a risvegliarla. Un tiepido vociare, soffice come il battere della pioggia sul tetto. Un mormorio familiare che le diede la forza e il coraggio di schiudere le palpebre e di riemergere dalla fitta nebbia nera che l’aveva sommersa nelle ultime settimane, lasciandola inconscia. Il fischio svanì dalle orecchie – un lato del viso premeva su qualcosa di morbido che ovattava i suoni – e l’udito si aggrappò a quelle parole distanti ma vive, reali come il respiro che tornava a riempirle i polmoni e a farle battere il cuore.

“Alla fine un attacco a suo modo c’è stato. Stuka, mortai, serventi d’assalto. È sempre la stessa strategia, e ormai i tedeschi sanno come farsi riconoscere quando si parla di brutalità, su questo non ci piove.” La voce di Estonia prese forma, proveniente dall’altro lato della stanza che aveva le pareti scure e sfocate. “Per lo meno anche la nostra difesa sa farsi valere, e gli stiamo dando filo da torcere per quanto riguarda un attacco frontale sulla città. Abbiamo già cominciato a mettere in funzione l’artiglieria qui.” Suono di un oggetto che preme sulla carta. “E qui, combinandola agli attacchi svolti dai paracadutisti per difendere l’aeroporto” Si udì il fruscio di pagine che vengono fatte scorrere fra le dita. “I tedeschi sono arretrati di tre chilometri. Non molto, ma meglio di niente.”

Un sospiro, e anche la vocina di Lettonia comparve in quell’ambiente chiuso e buio, simile a un sogno. “Almeno Kiev ha la possibilità di riorganizzare la difesa e di innalzare più barriere per difendersi.”

Ucraina inviò una scossetta di energia alle braccia rintanate al caldo, sotto la coperta tirata fino alle spalle. Estrasse la mano e la accostò al petto con un gesto molle e appesantito. Non si sentiva le punte delle dita. Spinse il capo all’indietro e guadagnò un respiro più profondo. Una fitta di dolore la colpì all’altezza del petto, dove aveva posato la mano, e uscì dalla schiena, all’altezza delle scapole. Ucraina respirò ancora, a labbra socchiuse, più lentamente, e scacciò i brividi di freddo che le scivolarono addosso come acqua. Sbatté più volte le ciglia, mise a fuoco il soffitto, le pareti basse del rifugio di cemento armato, e riconobbe la luce tenue e calda delle lampade a cherosene.

La vocina di Lettonia riemerse dalla bolla che la isolava come se avesse avuto dei batuffoli di cotone infilati nelle orecchie. “Ma come faremo adesso? Dopo quello che è successo a Uman...” Alla sua voce, più acuta e spaventata rispetto a quella di Estonia, si unì un altro fruscio della carta. “Dopo quello che ci hanno scritto nei bollettini, e dopo che nemmeno Russia è stato in grado di impedirgli di chiudere la sacca, dici che vorranno tornare tutti e quattro qua a Kiev?”

Sentendo il nome di suo fratello, un’altra rovente botta di vigore trapassò il cuore ferito di Ucraina, facendo battere un palpito più intenso. Lei ebbe un sussulto, spalancò le palpebre. Russia? Girò lo sguardo verso la parete opposta alla sua branda, in cerca di due figure familiari a cui aggrapparsi.

“Probabilmente sì,” rispose Estonia. “Anzi, il fatto che siano rimasti chiusi al suo interno potrebbe essere un vantaggio.”

“E se invece Russia preferisse sferrare un attacco nel punto dove i reggimenti corazzati di Germania e Austria hanno intenzione di riunirsi? Per impedire che uniscano le forze?” La vocina di Lettonia tremolò. “Perché a quel punto si tratterebbe di abbandonare noi qua, e non lo farebbe mai. Non lo farebbe, vero?”

“Non dire assurdità. Senza contare il fatto che c’è Ucraina che è ancora...”

“Russia?”

Estonia e Lettonia, in ginocchio davanti a una radio, con le gambe sommerse dalle carte e gli zaini ammassati alla parete, si girarono all’unisono verso quel flebile e doloroso richiamo che li aveva colti alle spalle.

Ucraina sbatté ancora gli occhi, mise a fuoco i loro sguardi smarriti, i loro occhi toccati dalla penombra, e socchiuse le labbra secche che sapevano di carta e sangue. “R-Russia non è...” Sospirò ancora, l’aria passò attraverso i polmoni con un sibilo rauco. Strinse le mani sull’orlo delle coperte e soppresse un altro crampo di dolore fra le costole. “Qui?”

Estonia e Lettonia spalancarono la bocca in un gemito di stupore e sollievo. “Ucraina!”

La raggiunsero e tornarono a inginocchiarsi accanto alla sua branda.

“Come stai?” le chiese Estonia. “Ti senti meglio? Le ferite ti fanno male?”

“Ma da quanto sei sveglia?”

“Aspetta, resta sdraiata, non fare sforzi inutili. I punti di sutura non si sono ancora rimarginati. Oh, cielo...” Anche Estonia si posò la mano sul cuore e sospirò, sollevato. Una luce di speranza animò i suoi occhi cerchiati da un fitto grigio cenere. “Abbiamo avuto tutti così paura che tu non...”

“Dov’è Russia?” soffiò Ucraina. “N-non...” Spostò gli occhi attorno a lei, da un angolo all’altro del rifugio. Li animò una luce più vigile, un chiarore brillante che sciacquò via quella patina di dolore che li rendeva distanti. “Non è qui?”

Estonia e Lettonia incrociarono gli sguardi. Estonia si morse il labbro inferiore, contrasse le sopracciglia in un’espressione incerta e di nuovo vacillante.

Lettonia si strinse nelle spalle e accostò la mano alla bocca. “Ma come? Non...” Si rosicchiò le unghie del mignolo e dell’anulare. “Non ti ricordi?”

Ucraina guadagnò un altro soffio d’aria attraverso la bocca secca e amara. Le sue labbra fremettero. “Cosa dovrei ricordarmi? È forse...” Di nuovo le si illuminarono gli occhi, nonostante le iridi sbiadite e le pupille ristrette per i dolori. Quella nuova vampata di speranza le intiepidì il volto latteo. “È andato a Mosca?” Si mise a sedere reggendosi il ventre e si appese alla mano di Estonia. “Vi prego,” ansimò, “vi prego, ditemi...” Gli passò una scossa di tremori attraverso la stretta delle dita. “Ditemi che è andato a difendere Mosca.”

Estonia contrasse la fronte in uno sguardo insicuro e guardò per terra. L’espressione di chi non vorrebbe dare una notizia simile. “Russia è andato a combattere a Uman per impedire che i tedeschi chiudessero le nostre armate nella sacca. E assieme a lui sono andati anche Bielorussia, Lituania e Moldavia.” Sovrappose la mano a quella di Ucraina ancora aggrappata al suo braccio. Le batté una soffice carezza rassicurante sul dorso. Strofinò il tocco fra le nocche nodose e ossute, bianche e sporgenti come quelle di uno scheletro. “Ma ci siamo noi qua a farti la guardia. Non hai nulla da temere.”

Un nuovo schiaffo di dolore e sconcerto atterrò sul viso di Ucraina, rendendo le sue guance cineree e incavate, cadaveriche. “Come?” sussurrò. “A combattere? Ma...” Sbiancò. Si sentì di nuovo mancare, le pareti della stanza le vorticarono attorno come una trottola. “Oh, no.” Scosse più volte il capo. “No, no, non può essere andato a combattere. Se Germania lo trovasse...”

“M-ma Russia sta bene.” Anche Lettonia posò una mano sul suo braccio, le strofinò una carezza di consolazione e forzò un piccolo sorriso, tremolante ma sincero. “Sta bene, non ti devi preoccupare. Ci sono appena arrivati i bollettini. Sono tutti salvi, ma...” Si zittì, le labbra socchiuse e le parole sospese a mezz’aria. Lanciò uno sguardo in direzione di Estonia, in cerca di un appiglio.

Estonia strinse la mano di Ucraina ma chinò il viso. Sospirò. Lo stesso schiaffo di sconforto si abbatté anche su di lui, lo fece vacillare. “Ma purtroppo hanno perso la battaglia e la sacca ormai è chiusa. Quindi...” Si strinse nelle spalle. “Quindi probabilmente Russia tornerà presto qua. Non c’è altra soluzione, purtroppo. Ormai là non possono fare più niente.”

Ucraina si sentì sprofondare sul fondo della branda. Non possono fare più niente. “Oh, no.”

Estonia trovò la forza di risollevare lo sguardo, in pena più per lei che per la battaglia. “Ma tu ti senti meglio?”

Gli occhi di Ucraina erano due vuote pozze affacciate al baratro di terrore aperto nel suo cuore. Ritrovò il fiato a fatica. “Io, uh, sì, credo...” Deglutì. La sua bocca sapeva di ferro. “Credo di sì.” Sfilò la mano dalle coperte e raggiunse il petto, dove la pressione del dolore era fitta e insistente come un chiodo. “Credo di essere in grado di rialzarmi, e...” Incontrò il rigonfiamento della medicazione. Il dolore saettò attraverso il torso e la schiena, dove le due cicatrici si rinvigorirono di un dolore nuovo. Le ferite rigettarono una scarica elettrica che attraversò Ucraina e la rispedì indietro, nel vortice di quei dolorosi ricordi.

Riemerse lo scivolone dal tetto, lo slancio del braccio con cui aveva salvato Bielorussia, la caduta sulle cime di legno aguzzo, quel dolore che l’aveva trapassata, il suono secco delle costole che si rompevano e quello più spugnoso della carne lacerata. Russia e Bielorussia che l’avevano stretta e sorretta, strappandola da quell’agonia. La scrosciata del sangue piovuto ai suoi piedi, la nuvola nera che l’aveva avvolta, facendola svenire fra le braccia di Russia, e il vortice in cui era rimasta imprigionata nelle ultime settimane, sola nel suo dolore.

Ucraina si portò la mano alla bocca. Strizzò gli occhi, si lasciò abbagliare dalla luce bianca, e tornò a riaprirli, a guardarsi attorno per appendersi a delle immagini che la tenessero a galla. “Ma dove ci troviamo? Non...” Le pareti di cemento armato del rifugio, le lampade a cherosene, tutte le carte ammassate accanto alla radio, gli zaini gonfi di razioni, bacinelle e panni puliti sul tavolo al centro della stanza. “Non siamo a Kiev, vero?” Inspirò quell’aria ferrosa ma stranamente familiare, tese l’orecchio verso i brontolii provenienti dall’esterno, dove la terra tremava e il cielo tambureggiava, e fu attraversata da un brivido che la punse fin dentro le ossa. Le corde del suo cuore fremettero, come pizzicate dalla vicinanza con la capitale, con la sua stessa anima. “Ma siamo vicini,” realizzò.

Estonia e Lettonia tornarono a guardarsi, di nuovo rosi dal dubbio.

Estonia si diede un’aggiustata agli occhiali, spremette un lieve massaggio attorno alla radice del naso, dove i segni di stanchezza s’infossavano in gonfie occhiaie nere. “Siamo nelle retrovie.” Non c’era comunque modo di tenerglielo nascosto. “La città è difesa, i tedeschi non stanno ancora entrando ma...”

Esplosioni alternate tuonarono fuori dal rifugio, più vicine di quelle precedenti, e scossero gli ululati del vento, trascinarono una nera massa di nubi davanti al sole, e tapparono la fredda e polverosa luce che passava dagli spioncini sotto il soffitto.

Ucraina si rizzò di nuovo a sedere – le coperte caddero sui fianchi – e guardò verso gli spiragli di luce. Gli occhi cerchiati da una fitta ombra di terrore. “Cosa succede?” Il cuore accelerò. Le ferite fecero ancora più male.

Estonia si tenne stretto nelle spalle. “E-ecco...”

Ucraina si scostò le coperte di dosso, scivolò con una gamba giù dalla branda e posò il piede sul pavimento. Si resse il petto, strinse la maglia all’altezza della ferita ricucita, dove sporgeva il rigonfiamento della medicazione, e soffiò via le vertigini con un sospiro profondo. Si alzò da sola. Appoggiò la mano libera alla parete, combattendo le vertigini, e zoppicò verso l’uscita del rifugio. “Devo uscire.”

“Ucraina, aspetta.” Anche Estonia e Lettonia si alzarono. “Sei ancora debole, torna a letto.”

“È vero, non dovresti...”

Ma Ucraina era già uscita.

Fuori dal rifugio, una sottile nebbia mattutina avvolgeva la campagna delle retrovie. Fioche luci rossastre – luci degli incendi – tingevano le nuvole più basse alimentate dalle colonne di fumo sorte da dietro il confine con la boscaglia. I suoni dei bombardamenti brontolavano e riempivano quell’aria calda e stagnante. Aria ferrosa di palude, di terra umida e zuppa di sangue.

Ucraina si strinse il cuore, di nuovo dolorante come se l’avessero trafitta per una seconda volta. Il vento la attraversò, gettandole addosso un manto di brividi. Brividi gelati, nonostante la stagione e nonostante i fumi che trattenevano il calore. “Cosa sta succedendo?”

Estonia e Lettonia, fermi sulla soglia alle sue spalle, incrociarono sguardi incerti. Lettonia arretrò di un passetto, si nascose dietro il fianco di Estonia e gli diede una spintarella, spronandolo a parlare al posto suo.

Estonia si rassegnò con un sospiro. Non potevano più tenerle nascosto nulla. “Questa mattina,” le disse con tono grave, “la fanteria tedesca ha cominciato a sferrare un attacco contro la seconda linea difensiva di Kiev. Stanno infrangendo tutta la rete delle nostre fortificazioni, e i soldati sono riusciti a entrare nei sobborghi. Hanno preso Pirogovo, Myshelovka, e anche Golosievo. Si stanno avvicinando pure all’aeroporto di Zhuliany.” Socchiuse le palpebre, rivolse quello sguardo avvilito alle sue spalle, dove l’energia tremante e impaurita di Kiev attirava anche lui, quasi gli stesse chiedendo aiuto. “E capisci che se dovessero riuscire a conquistare un punto strategico come un aeroporto, allora non...”

“Però ce la stiamo ancora mettendo tutta per difenderci,” intervenne Lettonia. “Ci sono i plotoni di paracadutisti che stanno combattendo a terra. E stanno affluendo anche molti altri nostri rinforzi verso la città. Siamo addirittura riusciti a far transitare il treno per far arrivare la Duecentoottantaquattresima Divisione di fucilieri.”

Estonia annuì. “Anche se nelle sacche stiamo perdendo molti uomini, ne stiamo comunque formando molti altri ogni giorno, e le nuove divisioni affluiscono di continuo. Certo...” Si passò una mano fra i capelli, scese a strofinarsi la nuca, e mostrò di nuovo quell’aria abbattuta, quello sguardo scoraggiato di chi ha già perso. “Si tratta pur sempre di uomini che hanno ricevuto solo poche settimane di addestramento e che sanno a malapena impugnare un’arma, ma è sempre meglio di niente.”

Ucraina si tenne aggrappata alla ferita al petto, a quelle pulsazioni che comunque continuavano a tenerla in vita, a bruciare attraverso il suo corpo dolorante ma di nuovo in piedi. Nuove divisioni che affluiscono ogni giorno per difendere Kiev? Prese un profondo respiro dalle narici e lo lasciò fluire attraverso i polmoni. La vista si fece più limpida e la testa più leggera, come dopo una forte febbre, quando i dolori alle ossa scompaiono e le tempie smettono di pulsare. Una nuova carica di energia risalì le gambe, si raccolse nel petto e alleviò il dolore della ferita. Che sia per questo che ho cominciato a sentirmi un po’ meglio? Proprio perché la mia popolazione ce la sta mettendo tutta per difendermi nonostante ormai il nemico sia alle porte di Kiev? Dentro di lei nacque un profondo e sincero sentimento di gratitudine e amore nei confronti del suo paese e della sua gente. Ma anche questo potrebbe non bastare, pensò ancora con una punta di amarezza. Purtroppo non basta la volontà del popolo per resistere a un nemico così forte. Sollevò lo sguardo al cielo, scostò le ciocche di capelli intrecciandole alle punte delle dita. E se fosse la loro paura inconscia a tenermi viva e vigile? E se mi stessero chiedendo aiuto? Forse si aspettano tutti che io torni a combattere nonostante le ferite, per questo sono stata in grado di rialzarmi.

“Per lo meno...” Ucraina sollevò gli angoli delle sottili labbra bianche in un dolce sorriso di speranza. “Per lo meno, Russia, Bielorussia, Lituania e Moldavia stanno bene. Se si fossero fatti del male per causa mia, non me lo sarei mai perdonato.”

“Non ti preoccupare,” la consolò Estonia. “Vedrai che Russia tornerà in tempo e che ti porterà a Mosca prima che i tedeschi occupino Kiev, così Germania non sarà in grado di intrappolarti in città. Non permetterà mai più all’Asse di farti del male o di sequestrarti.”

Lettonia annuì di rimando. “E poi non è detto che Germania voglia davvero ucciderti. Se...”

Estonia lo zittì con una gomitata e si morse il labbro come per rimangiarsi quello che aveva detto Lettonia. Pronunciare la parola ‘uccidere’ non era la migliore delle idee in un momento come quello.

Ucraina fermò il tocco sulla fronte, libera dalle ciocche che aveva spostato. Le ultime parole di Estonia rimasero sospese sopra di lei come quelle nuvole che brulicavano sull’orizzonte di guerra. “Sequestrarmi...” Dentro di lei sorse una nuova speranza e allo stesso tempo una nuova paura. Fuoco e ghiaccio sulla sua pelle consumata dal conflitto. È vero, non è detto che l’obiettivo di Germania sia quello di uccidermi. Accostò entrambe le mani al petto e tremò. Viscidi spasmi di paura e dolore corsero lungo la schiena e si raccolsero alla bocca dello stomaco. Ma cosa farebbero di me se dovessi finire prigioniera? Mi costringerebbero a confessare tutti i punti deboli di Russia, tutti i nostri piani difensivi? Mi farebbero del male per ricattarlo e spingerlo a cedere Mosca pur di vedermi sana e salva, al sicuro, e di nuovo assieme a lui? Forse, davanti a queste premesse, sarebbe davvero meglio per me morire. Causerei meno guai e costituirei un pericolo minore per tutti. Dopotutto, se un braccio infetto rischia di ucciderti... Rievocò le parole che aveva già rivolto a Russia, anche se non ne aveva memoria. Allora è doveroso tagliarlo prima che sia troppo tardi.

“Estonia. Lettonia. Io devo...” Ucraina si girò verso di loro, guidata dalla forza della sua gente e dei suoi soldati, da quella forza che le correva sotto i piedi e che batteva assieme al suo stesso cuore. “Ho bisogno di chiedervi un immenso favore.” I suoi occhi tornarono chiari e luminosi, animati dalla sua innata gentilezza che nessuna guerra era mai stata in grado di rubarle. “Siete disposti ad aiutarmi?”

Estonia e Lettonia esitarono davanti a quei dolci occhi imploranti che avrebbero saputo sciogliere anche un cuore di granito, davanti a quelle parole di aiuto che avrebbero messo in ginocchio anche il nemico, e davanti a quell’aura di nuovo forte ma non aggressiva che sarebbe stata in grado di smuovere un esercito con un dito solo.

Lettonia fu il primo a cedervi. “O-ovvio.”

Anche Estonia annuì. Diede un colpetto alla montatura degli occhiali e riacquistò un’espressione alta e dignitosa. “Di cosa si tratta?”

Ucraina inspirò. “Ascoltate, io lo so...” Si strinse nelle spalle e guardò in disparte, nascondendo una lieve ombra di conflitto. “Io so che mio fratello non è la persona più facile con cui andare d’accordo, ma...” Strinse il pugno sul petto. “Promettetemi che gli rimarrete affianco. Lui... lui sembra forte, ma credetemi che dentro di sé è più fragile di quello che sembra, soprattutto in momenti come questi, quando ha l’impressione di star perdendo tutto, quando si tratta della salvezza di chi ama e di chi gli è affianco.” Nei suoi ricordi tornò la distesa di ghiaccio, neve e vento siberiano che aveva attraversato per raggiungere la prigione di dolore e tristezza in cui Russia si era rinchiuso dopo l’attacco a tradimento. Tornò il caldo abbraccio attorno alle spalle di suo fratello. Quell’abbraccio che ora non poteva più raggiungerlo e dargli coraggio. “E non potrei mai perdonarmi il fatto che gli succeda qualcosa, o che qualcuno gli faccia del male solo perché io mi sono fatta sconfiggere, mentre lui ha fatto tutto quello che era in suo potere per salvarmi.”

Estonia tentò un sorriso rassicurante. Le sue labbra tremolarono. “Ma cosa dici, Ucraina? Germania non ti ha ancora sconfitto, e non è detto che...”

“Promettetemelo!” esclamò lei. “Vi...” Dovette guadagnare un singhiozzo di fiato per resistere al dolore fra le costole. “Vi prego...” Chinò il capo in avanti, prostrandosi. “Vi prego. Concedetemi solo questo desiderio.” Quel pensiero le fece male al cuore più di mille proiettili, più di mille pezzi di legno conficcati fra le costole. Sottili perle di lacrime traballarono fra le ciglia unite. “Concedetemi la possibilità di salvare mio fratello anche se dovessi non esserci più da ora in poi.”

Estonia strinse i pugni sui fianchi, si morsicò il labbro, e tremò dalle ginocchia alle punte dei capelli, toccato fin nell’anima da quelle parole e da quel suo gesto implorante. E ora come faccio a dirle di no? “Va...” Sollevò il mento, trasse un profondo respiro che seppe raffreddare tutto l’odio nei confronti di Russia. “Va bene.” Ma lo faccio solo per il bene di Ucraina, giurò a se stesso. Solo perché una come lei non si meriterebbe nulla di quello che le sta succedendo. Non per Russia, non perché voglio aiutarlo a vincere contro Germania. “Non lo abbandoneremo, te lo prometto. E lo...” Di nuovo la sua voce si ruppe fra le labbra. Nemmeno lui riuscì a credere alle parole che stavano per uscirgli dalla bocca. “E lo proteggeremo con tutte le nostre forze nel caso tu non potessi più farlo. Qualsiasi cosa dovesse succedere.”

Anche Lettonia annuì. “Lo promettiamo.”

Le labbra di Ucraina si sollevarono in un tiepido sorriso di sollievo. Le sue guance guadagnarono una spolverata di colore che le rese più rosee. “Bene.” Si rimboccò il bavero della giacca, anche se non sentiva più così freddo, e tornò a volgere lo sguardo all’orizzonte, dove si stavano consumando i bombardamenti. Però per me non è ancora giunta l’ora di arrendermi. I tedeschi sono alle porte di Kiev ma posso ancora resistere e per lo meno tentare di respingerli. Se non altro per far sì che Russia possa rientrare nella mia capitale e nei sobborghi senza altre difficoltà. Tornò ad accostare la mano alla bocca, posò una nocca fra le labbra, e sollevò un sopracciglio, pensierosa. Ma come posso fare per...

“Dovete portarmi al centro di Kiev.”

Estonia e Lettonia compirono lo stesso rimbalzo di stupore. “In città?” esclamarono. Estonia le si avvicinò, cauto e perplesso. “Ma potrebbe essere pericoloso, poi potresti non essere più in grado di uscire nel caso i tedeschi ti intrappolassero.”

“Non importa,” rispose Ucraina. “Devo rischiare.” Tenne lo sguardo alto, le spalle dritte e larghe – le ferite non facevano più male – e lasciò che nei suoi occhi tornasse a specchiarsi l’azzurro limpido e cristallino, soleggiato come un cielo d’estate, che presto sarebbe tornato a splendere anche sulla sua capitale. “A quali divisioni è affidata la difesa di Kiev?”

Altri spari brontolarono in lontananza, simili a un profondo e basso richiamo diretto solo a lei.

“All’intera Trentasettesima Armata,” rispose Estonia. “Stanno operando soprattutto nei sobborghi e nelle periferie. Stanno cercando per lo meno di ristabilire le linee difensive attorno alla città.”

Lettonia accostò le mani al petto e rabbrividì. “Però, ora che la sacca di Uman è chiusa, per noi e per i soldati non c’è più via d’uscita, non c’è più possibilità di uscire dalla regione. E sicuramente i tedeschi concentreranno tutte le forze solo sull’attacco a Kiev, al contrario di quello che hanno fatto finora, dato che la loro priorità era solo chiudere le nostre armate nell’anello. E se...” Il suo visetto impallidì. Gli occhi si fecero grigi e carichi d’ansia come il cielo che li sovrastava. “E se dovessimo rimanere intrappolati qua fino all’arrivo di Germania? E se Russia non dovesse arrivare in tempo per difenderci, e...”

“Non c’è pericolo.” Un tiepido vento di speranza, diverso da quello acre e bruciante nato dagli incendi, dalle esplosioni e dagli spargimenti di sangue, attraversò Ucraina, sciacquando via il dolore delle cicatrici. “Per voi non ci sarà alcun pericolo, ve lo prometto. Anche se Germania dovesse arrivare alle porte di Kiev, anche se dovesse invadere la città, voi vi salverete.”

Estonia sollevò un sopracciglio, scettico. “Come fai a dirlo?” Si mise al suo fianco e le posò una mano sulla spalla. “Devi prepararti al peggio, Ucraina. È crudele, è ingiusto, ma sappiamo che è così. Ormai non possiamo più essere sicuri di come andrà a finire.” Scosse il capo. Un gesto di sconforto e di amarezza. “Non possiamo essere sicuri più di niente.”

“Ti sbagli.” Ucraina posò la mano sulla sua e gli rivolse un sorriso triste, ma gli occhi brillavano ancora dell’azzurro più puro. “Invece posso ancora volgere certe cose in base alla mia volontà.”

Lettonia flesse il capo di lato, ancora più confuso, e si strofinò i capelli dietro l’orecchio. Si accostò al fianco di Estonia, si alzò sulle punte dei piedi, e gli bisbigliò da sopra la spalla. “Che intende?”

Estonia fece spallucce e scosse la testa. Non capì nemmeno lui.

Ucraina abbassò le palpebre, tenne una mano accostata al cuore, e volse i suoi pensieri al fratello, a quell’anima che, anche se lontana, batteva dentro di lei come i palpiti che si raccoglievano fra le sue dita. Russia. Le tue intenzioni di proteggermi e di salvaguardare la nostra unione ti fanno onore, il tuo affetto nei miei confronti è puro, ma non posso permetterti di sacrificarti in questa maniera per me. Se Germania dovesse vincere... Sospirò e guardò verso il cielo trapuntato di nebbia, oltre le nubi, verso quelle lande di terra paludosa dove sapeva che Russia stava combattendo per lei. Tenne alto il sorriso. Accettò il suo destino con serenità. Allora per me non resterà altro da fare che... Lasciò che un fischio di vento portasse via quel suo pensiero, quella promessa che sigillò sul suo stesso onore.

Col cuore trafitto ma con l’anima in pace, anche Ucraina si rituffò in guerra, pronta all’ennesimo sacrificio.

   
 
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