Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: shirupandasarunekotenshi    05/02/2019    0 recensioni
Questa fanfic va inserita subito dopo la nostra "Namida no rhapsody". Gli eventi descrivono il nostro modo di interpretare l'apparente distanza che si è instaurata tra i cinque ragazzi all'inizio del terzo OAV.
Il titolo della fanfic significa "La fine prima della fine"
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Cye Mouri, Kento Rei Faun, Rowen Hashiba, Ryo Sanada, Sage Date
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome
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CAPITOLO 17
 
Un vociare vivace accompagnò l'ondata di studenti che si riversò fuori dalla porta principale dell'istituto. Chi in maniera ordinata, chi scherzando e ridendo con gruppetti di compagni, gli studenti mostravano tutti una particolare allegria mentre si tuffavano tra i fiocchi di neve che scendevano fitti.
Chi in coppia, chi in gruppo, tutti godevano della compagnia di qualche amico.
Tutti tranne uno.
Ryo uscì da scuola con calma, lo zaino distrattamente gettato su una spalla e una mano in tasca, l'espressione fin troppo seria per essere quella del Ryo di un tempo.
Indossava un maglione pesante, sempre leggero se confrontato al vestiario delle altre figure umane lì intorno, eppure il Ryo di un tempo non avrebbe avuto bisogno neanche di quello.
“Sanada, ehy, Sanada!”.
Era talmente immerso nei propri pensieri... o meglio, nel proprio vuoto di pensieri… che non udì subito l'insistente richiamo.
Si trattava del capitano della squadra di calcio della scuola, Yamada, nonché senpai di Ryo. Erano almeno due mesi che Ryo saltava gli allenamenti e, in un modo o nell'altro, non era mai riuscito a parlargli a quattr’occhi: quel ragazzo era sempre stato un po’ strano, ma ultimamente quella stranezza aveva raggiunto livelli preoccupanti.
Quando gli arrivò alle spalle toccandogli un braccio, Ryo sussultò, sorpreso.
“Non mi hai sentito?”.
Ryo strinse le palpebre, assumendo un'espressione non proprio rassicurante. Era sempre stato strano sì, ma mai scontroso eppure, questa volta, diede una risposta sgarbata:
“Evidentemente no”.
Non era da lui parlare in quel modo.
“Sanada... tutto bene?”.
Yamada sapeva che viveva la maggior parte del tempo da solo e che era sempre stato un po’ selvatico. Ma a scuola, fin dal primo giorno, si era mostrato solare ed amabile. Tuttavia ora...
“Andrebbe meglio se smetteste di chiedermelo”.
Era la prima volta che Yamada gli poneva apertamente quella domanda, ma quasi tutti i giorni c'era qualcuno che si preoccupava di farlo; se non era un professore era qualche ragazzina un po’ troppo zelante.
Yamada rimase talmente stupito da lasciare immediatamente la presa sul braccio di Ryo, come se fosse stato scottato da una fiamma improvvisa. Lo guardò avanzare verso il cancello, spalle strette, sguardo chino e passo di chi vuole scappare dal mondo intero.
 
Ryo non si fermò più, finché non si ritrovò seduto sul bus che l'avrebbe ricondotto vicino a casa.
Per tutto il tragitto rimase immobile, a guardare strade e foreste imbiancate che correvano fuori dal finestrino. Benché ormai fosse assuefatto ad un tale stato d'animo, una parte di lui ancora si chiedeva come mai una tale bellezza non gli trasmettesse più assolutamente nulla. Un tempo la natura lo estasiava, la neve che si confondeva con il manto di Byakuen...
Sussultò...
Byakuen...
Perché il suo pensiero tornava, di continuo, non richiesto? Lui si sforzava di non pensarci, eppure...
Eppure quando saltò giù dall'autobus le sue guance erano bagnate, ancor prima che fossero toccate dai fiocchi di neve.
Gli restava da percorrere un lungo tratto a piedi per raggiungere la sua casa isolata e lui lo percorse correndo, annaspando nella neve alta; correre lo aiutava ad anestetizzare i pensieri.
Si fermò quando, da lontano, notò la vettura parcheggiata davanti a casa.
Corrugò la fronte, si mise ad avanzare con più calma e borbottò:
“Toh, chi si vede”.
Aprì la porta e lasciò cadere lo zaino a terra, facendosi subito sentire, ma senza troppo entusiasmo:
“Bentornato, toosan!”.
Ancora fresco di viaggio, il capo dell'uomo spuntò dalla porta della sua camera, un sorriso stanco ma gioviale - come sempre d'altronde - a dare il benvenuto al figlio. Dopo un mese e mezzo di assenza.
“Bentornato a te, Ryo”.
A una certa età non ci si rendeva più conto di quanto il tempo passasse, lo si misurava negli occhi e nel viso di chi ti stava vicino.
E in quel mese e mezzo si vedeva nell'intera figura di Ryo quanto quei quarantacinque giorni fossero stati lunghi.
Il ragazzo lo scrutò qualche istante, mentre scalciava malamente via le scarpe e si inoltrava nel soggiorno. Un tempo sapeva accoglierlo bene nei suoi sporadici rientri, adesso si sentiva strano perché, in realtà, non sapeva che dirgli.
“Tornato da molto?”.
Lui era uscito quel mattino molto presto e, ormai, era pomeriggio.
“Un paio di ore... come va la scuola?”.
Ryo andò a prendersi una mela da un cesto di frutta posato sul tavolo al centro del soggiorno e le diede un morso:
“Per la scuola è tempo di decisioni; hai pranzato?”.
“Decisioni? Siamo già in quel periodo? Devo parlare con gli insegnanti, vero?”.
Tutti impegni cui non era abituato: sua madre, la nonna di Ryo, aveva pensato in passato a queste cose. Ma ora l'università era... ben diversa.
Il tempo era davvero passato.
Ryo lo guardò un po', prima di dare un altro morso:
“Se parli di università sei in anticipo di un anno, sono decisioni mie quelle di cui parlo”.
Ryo sapeva di usare un tono che rasentava l'acidità, ma il pensiero che forse suo padre, in quel momento, neanche sapeva a quale anno scolastico fosse, lo rendeva indispettito.
L'uomo si passò una mano tra i capelli grigi, uno sguardo confuso negli occhi.
“Perdonami... sono un po’ scombussolato. Ma di che decisioni parli?”.
E l'aria si fece molto più smarrita.
“Per l'università deciderò io a suo tempo”.
La mela nella mano destra e la sinistra in tasca, diede le spalle al padre e si diresse verso la finestra incorniciata dalla neve.
“Credo comunque che avrò bisogno del tuo consenso per cambiare scuola l 'anno prossimo”.
Era un paradosso: aveva sempre fatto tutto da solo ed era persino stato un samurai senza che nessuno lo sapesse, eppure non gli erano concesse, dalla burocrazia, libertà molto più semplici ed innocenti.
Lo sgomento si accese negli occhi dell'uomo.
“Cambiare scuola? Ma... Ryo!”.
“Pensavo di frequentare l'ultimo anno a Tokyo”.
Ecco, 1'aveva detto, buttato lì come se fosse la cosa più naturale del mondo.
I rullini che l’uomo teneva in mano caddero rovinosamente a terra, spargendosi sul pavimento, fin sotto il divano. Il viso dell'uomo si fece decisamente pallido.
“A... Tokyo?”.
Ryo voltò lo sguardo sulla scena, sentendosi in colpa, perché non riusciva a modificare il proprio atteggiamento.
“Be', comunque a Tokyo sono le università migliori... e tanto vale abituarmi”.
In realtà non sapeva bene come giustificare la propria scelta, non era ancora riuscito a giustificarla neanche a se stesso.
“Ma a Tokyo non...”.
Non ci sarebbe stato nessuno. Certo, non che lui ci fosse, ma...
Ma era casa. Insomma...
Era normale. Era normale, molti ragazzi lo facevano, eppure...
“É lontano”. Risposta banale.
“Ma si può sapere, per te, che differenza fa?!”.
Ecco, era esploso e una tale esplosione finì per spaventare lui stesso.
Stavolta l'uomo si lasciò cadere sul divano, privo di parole. Ryo non gli aveva mai parlato così, non l'aveva mai guardato così, non aveva...
“Se può renderti felice... certo... certo che puoi andare” si ritrovò a sussurrare. Cosa avrebbe potuto dire di altro? Era talmente scioccato che non sapeva cosa pensare, cosa dire... nulla.
Ryo sospirò ed andò a raccogliere i rullini sparsi, per riporli al sicuro.
Renderlo felice? Rifletté amaramente fra sé. E cos'era mai la felicità? Aveva un vago ricordo di un se stesso che sapeva attribuire significato a quella parola, ma forse si trattava di un'altra persona, con la quale aveva perso i contatti.
“Ci sarà qualche foglio da firmare immagino, ma per il resto non preoccuparti, troverò un lavoro”.
L'uomo scosse la testa, la voce tornò:
“Sono tuo padre, almeno questo... permettimelo”.
Almeno quello, visto che non aveva più diritti. O doveri.
Ryo si strinse nelle spalle:
“Sono abituato a cavarmela da solo”.
Si stava odiando, possibile che non riuscisse a pronunciare una frase, una sola, che non contenesse un rimprovero più o meno esplicito?
Nel goffo tentativo di rimediare, aggiunse a voce più bassa:
“Comunque... come preferisci”.
 
Certo che era abituato. Una fitta di dolore scosse l'uomo, gli occhi presero a pungergli per le lacrime, ma nascose ogni cosa dietro una mano.
“Posso chiedere a qualche collega per l'appartamento... ho qualche conoscenza nella capitale”.
“Ti sarei grato, mi basta anche un monolocale”.
Dentro di lui risuonò una frase, anche quella sembrava venire da lontano, da altri tempi, da un altro mondo:
“Shin ha una casa decisamente troppo grande per la sua età…”.
Tentò di ignorarla, ma un groppo gli si formò nella gola e senti, improvviso, il bisogno di ritrovare un po' di calore dentro di sé.
“Toosan...”.
A quella parola, a quel tono, il più dolce fino a quel momento, l'uomo alzò lo sguardo, perso, lucido e speranzoso.
“Ti ringrazio per la tua gentilezza e la tua comprensione... e scusami se sono intrattabile”.
L'uomo fece per riaprire bocca, ma si alzò e, fatti alcuni passi verso Ryo, gli pose una mano sulla spalla.
“Non ce n'è bisogno”.
La stretta sulla spalla si fece appena più forte.
Ryo deglutì, gli occhi si appannarono e si fecero brucianti.
Il vecchio Ryo fece capolino, spalancò le braccia e l'uomo e il ragazzo si ritrovarono stretti, come raramente erano stati.
 
 
***
 
La scuola diventava più pesante quando la stagione fredda poneva le sue gelide mani sulle strade e sui tetti degli edifici. L'aria si faceva cupa a Sendai quando cominciava a cadere la neve o, forse, era l'animo di Seiji che rifletteva quanto di più cupo caratterizzava l'ambiente.
Il momento del rientro a casa, tra l'altro, non risultava consolante, rendeva il seguito della giornata ancora più opprimente.
Fece scorrere la porta d'entrata e, avvisando un po' svogliatamente del proprio rientro, si tolse le scarpe con mosse pacate e senza veramente interessarsi a ciò che stava facendo.
Nessuno gli rispose, nella casa regnava un silenzio assoluto e solo il gatto di casa, uno dei pochi, insieme alla sorella minore, a strappargli ancora qualche sporadico sorriso, venne a strusciarsi sui suoi pantaloni in segno di bentornato.
Seiji si chinò ad accarezzarlo, poi entrò definitivamente in casa, guardandosi intorno alla ricerca di qualche presenza umana. Facilmente Satsuki era ancora a scuola, impegnata nelle attività del club di softball. A differenza del fratello, i club erano per lei una gioia oltre che una scusa per sottrarsi il più possibile alle attenzioni di una famiglia troppo rigida.
Lui di club non voleva saperne, un po' perché l'attività che gli era richiesta al dojo di famiglia occupava gran parte del suo tempo, ma soprattutto perché il suo spirito era distante anni luce dal poter sopportare obblighi sociali non desiderati.
Yayoi-Neesan, da quando si era immersa nei corsi universitari, si vedeva a casa molto raramente. A Seiji dispiaceva pensarlo, ma non credeva di sentire la sua mancanza.
Otoosan era sicuramente a lavoro.
Più strana era l'assenza dei nonni e di Okaasan o dei due anziani domestici; era una casa sempre talmente piena di gente la sua che trovarla vuota poteva rivelarsi un evento straordinario. Se una cosa simile non avesse destato qualche preoccupazione nel ragazzo, probabilmente l'avrebbe trovata persino piacevole e subito si sentì in colpa per un tale pensiero: c'era qualcuno che la solitudine in casa la subiva, come eterna compagna.
Scosse il capo: non pensare a loro, non pensare a loro!
Andò a posare lo zaino nella propria stanza e, quando ne uscì, un vocio sulla soglia di casa gli suggerì che qualche familiare stava rientrando.
I nonni e la madre parlavano concitatamente tra di loro, con un pizzico di nervosismo e anche di eccitazione, ravvisabile soprattutto nella madre.
Alle orecchie di Seiji giunsero i passi sicuri e alcune parole, frammentarie e non del tutto chiare:
“È un'ottima famiglia, è innegabile”.
“Pare che il padre... un'antica famiglia...”.
Gli sprazzi di conversazione erano del tutto privi di significato per Seiji il quale, seguendo un senso del dovere che sempre di più detestava, andò incontro ai suoi familiari, accogliendoli con espressione seria e un flemmatico “bentornati”.
Gli sguardi che si posarono su di lui spaziavano dal sorpreso all'imbarazzato, all'indeciso.
“Seiji... sei già tornato?”.
“Abbiamo delle notizie...”.
“Un omiai”. Suo nonno era sempre la persona più diretta di quella casa. Forse fin troppo.
Le palpebre di Seiji ebbero un battito, poi si strinsero.
“Ah... e...”.
Neanche l'etichetta gli strappò qualcosa di sensato da dire.
“Per te, ovviamente. Tua sorella ha già pensato a sé, ma... come erede dei Date...” e l'uomo si inginocchiò sul tatami della sala comune, mentre la nonna e la madre si affrettavano a lasciare la sala per la cucina e i due uomini soli.
Seiji avrebbe dovuto imitarlo e sedersi di fronte a lui e invece rimase in piedi, immobile, a seguire passivamente i movimenti delle persone intorno a sé, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Per lui? Per lui cosa? Un omiai?
Già, era logico, in una famiglia come la sua era scontato, era ovvio: non l'aveva sempre saputo che un simile momento sarebbe giunto?
Eppure... perché adesso? Perché proprio quando una pagina si era totalmente voltata, quando qualcosa di troppo importante era finito e lui ancora non si era abituato al cambiamento?
Lui doveva ancora fare i conti con quella maledetta parola fine e già gli proponevano un nuovo inizio così traumatizzante?
Un omiai?
Cosa avrebbe detto Touma?
Non pensare a lui...
E come poteva non pensarci?
Pensieri, emozioni, possibili reazioni gli turbinavano nella testa senza risoluzione e lui rimaneva fermo, come una rigida bambola senz'anima.
“Dovresti saperlo”.
“Sapere... cosa?”.
Tutto ciò che sapeva, al momento, era che la sua mente era entrata in un totale blackout.
L'uomo lo guardò, gli occhi non tradivano la severità, né l'autorità che erano insiti in lui. Eppure la mascella si contrasse impercettibilmente.
“Quale sia il tuo posto in questa casa”.
Anche le labbra di Seiji si contrassero, di riflesso, ma qualcosa in lui scattò, qualcosa doveva dire e qualcosa gli salì effettivamente in superficie:
“Da quello a un omiai... ce ne corre”.
Sapeva che non si trattava di una risposta del tutto efficace, nelle famiglie di vecchia data molti matrimoni venivano programmati in età anche più tenera della sua. E sapeva anche che per lui si sarebbe rivelato prematuro anche tra molti, moltissimi anni.
“Alla tua età, io e tua nonna... non c'è nulla di strano. E se questa persona non andasse bene, beh... c'è un'ampia scelta”.
Seiji chiuse gli occhi e sospirò, cercò di mantenersi calmo quando, interiormente, si sentiva esasperato; a parte il fatto che, con un discorso simile, sembrava che il nonno gli presentasse una possibile selezione di merce preziosa da comprare ad un'asta e questo lo indignava… ma l'amore, in tutto questo? Non contava in una relazione destinata a portare avanti una famiglia?
Non si sarebbe posto il problema solo fino a pochi anni prima, invece adesso gli sembrava così essenziale.
“Tu e Obaasama... vi siete sposati per amore?”.
Lui che domandava una cosa del genere. Cosa ne sarebbe venuto fuori da un dialogo simile? Suonava talmente assurdo che, al punto in cui erano giunti, non osava più prevedere nulla.
Tutto nelle mani dell'istinto: qualcuno gli aveva insegnato a lasciarlo uscire quel maledetto istinto che aveva dentro, no?
Ryo... Shu...
Non pensare a loro, a nessuno di loro!
Ma, in quel momento, pensare a loro poteva essere, per lui, una salvezza... o la rovina completa.
Quella domanda parve avere sull'uomo una reazione imprevista: tossì, quasi come dovesse mascherare un qualche tipo di imbarazzo, strinse forte le mascelle e ingollò a fatica.
“Le cose vengono da sé...”.
Ecco, appunto... per me verrebbe solo infelicità... e anche per la sfortunata di turno.
Ovviamente tenne per sé una tale considerazione, ojisama non possedeva una forma mentale adeguata a comprendere simili particolari nell'ambito di una relazione. E allora... che fare?
“É... io...”.
La successiva frase del nonno spazzò via ogni incertezza, ogni disagio.
“Verranno da sé”.
“É prematuro!”.
Gli era uscita... dal nulla assoluto tutta quell'energia e quella sicurezza, dettate unicamente dal terrore di trovarsi invischiato in qualcosa che lo avrebbe rinchiuso in trappola per il resto della sua vita.
Voleva Touma, era inutile ripetersi di non pensare a lui, in quel momento il conforto del suo abbraccio giungeva a lui come unica via di fuga possibile.
Un sospiro scosse l'uomo che socchiuse appena gli occhi.
“Non voglio accelerare i tempi, so che voi giovani siete più tardivi, ma la questione si ripresenterà nel momento in cui il tuo ciclo di studi verrà a finire”. Gli occhi scuri del nonno si imposero, severi, su quelli del nipote. “La questione è solo rimandata”.
“Devo... pensare anche... all' Università…”.
Touma ... Touma... salvami da questa situazione!
“Sicuramente alla fine dell'Università. Vorrei che tutti i miei nipoti si dedicassero con tutte le loro energie agli studi. Anche per il prestigio della famiglia”.
E su quello il nonno, che aveva messo tutte le proprie energie in ciò che considerava il suo microcosmo perfetto, non accettava altre risposte che quelle positive.
Seiji si lasciò sfuggire un sospiro che indicava un relativo sollievo.
“E poi... c'è il kendo che...”.
Certo, razionalmente lo sapeva che quello non era un ostacolo per un matrimonio, ma avrebbe tirato in ballo qualunque cosa.
“Ovviamente porterai avanti il kendo, ma per quello non ci saranno comunque delle obiezioni”.
E con quello l'uomo considerò l'argomento concluso.
Il capo di Seiji si abbassò, che altro dire? In fin dei conti doveva trascinarla avanti quella vita senza... senza di loro...
Era questione di abituarsi.
Touma ...
 
***
 
Quella mattina di dicembre, quando Shu era uscito per raggiungere la scuola, il cielo era di un azzurro nitido, intenso. Il freddo pungeva, giungendo dall'oceano senza alcuna pietà. Per le strade la vita era già scalpitante, le decorazioni tipicamente rosse del quartiere cinese si stagliavano perfette, come in una fotografia ad alta risoluzione, assieme ai festoni e alle luci natalizie che, come capitava da qualche anno, si andavano ad unire in uno strano misto di tradizioni occidentali e orientali.
Shu rabbrividì, nascondendo parte del viso sotto la sciarpa di lana nera attorno al collo; infilò le mani avvolte nei guanti in tasca, lasciando pendere da un polso la borsa di scuola. Occhi puntati alla strada sotto i propri piedi, i pensieri vagavano in un nulla avvolto da tenebre e nebbia, come sempre, d'altronde, quando si trovava solo con se stesso. La scuola aiutava, perlomeno, a tenere la testa su cose lontane da quelle che... non voleva nemmeno ricordare.
Non aveva più sentito nessuno.
Dopo Touma il telefono non aveva più squillato per lui. E lui non aveva più afferrato quella cornetta, non vi si era quasi più avvicinato.
Non cercare. Non essere cercato.
Per quanto la sua natura di vergine razionale – cresciuta prepotentemente, negli ultimi tempi – ritenesse la cosa più che sana per la sua salute, nonostante questo, quell'io che cercava di cacciare lontano da sé tornava, a strappi, prepotentemente nei suoi sogni.
Quando la sua mente ricordava... e il ricordo persisteva...
Shin...
Shu rabbrividì ancora più forte. Nessuna sciarpa l'avrebbe mai scaldato abbastanza.
“Niisan, Niisan, aspetta!”.
“Aspettaci!”.
Un coro di voci infantili precedette l'assalto di tre ragazzini, con zaini e cartelle sulle spalle.
“Cattivo, non ci aspetti mai!” piagnucolò la bambina più piccola.
Una ragazzina un po' più grande degli altri tre si avvicinò con più calma, ma lo sguardo fisso su Shu tradiva un'alchimia di emozioni: irritazione, tristezza, pena, preoccupazione.
L'ombra di un sorriso attraversò il viso smunto di Shu.
“Non siete abbastanza grandi per andare da soli?”.
“Non è questo il punto!” esclamò la ragazza più grande, mentre i tre bambini mostrarono un broncio plateale.
“Una parte di strada è uguale alla tua!” brontolò il più grande dei maschietti.
“E preferite alzarvi prima per venire con me?” in quella domanda c'era tutta la sofferenza e la curiosità che non riusciva a nascondere, nemmeno a loro. Come potevano quei bambini desiderare la sua compagnia così... irritante... sacrificando anche quel poco di sonno di cui potevano godere?
“Ma proprio perché sei triste è meglio stare tutti insieme!”. La saggezza innocente della piccola Chun-Fa...
Un nodo allo stomaco si strinse in Shu, il desiderio di piangere si fece forte, ma riuscì solo a rendere lucidi i suoi occhi mentre annuiva silenzioso: non poteva nascondere i suoi sentimenti, non quando erano così forti, non quando qualcuno lo conosceva così bene, non quando... lui era così fragile.
Rinfi si rese risolutrice di quella situazione di disagio. Si intrufolò in mezzo ai due fratellini maschi, li prese per mano e cominciò a trascinarseli dietro.
“Chun-Fa, prendi la mano di Shu-Niisan e attenta che non si perda per strada, che altrimenti farà tardi”.
Appena la manina della sorella più piccola si strinse alla sua si sentì pervadere da un'infinita tenerezza... e anche un po' di vergogna: da fratello maggiore avrebbe dovuto essere lui ad aiutare loro, a sostenerli, a rallegrarli con parole e fatti, abbracci e... una semplice stretta di mano. E invece...
“Se sono con voi, non posso perdermi”.
Il piccolo Yun, davanti, accanto a Rinfi, si voltò e gli fece una smorfia:
“Lo sappiamo, per questo non vogliamo lasciarti andare da solo”.
Uno sbuffo e, finalmente, una risatina uscì dalle labbra di Shu.
Non poteva trascinarsi così, doveva farsi forza, almeno per non far preoccupare i suoi quattro fratellini. Rendere triste ancora qualcuno, attorno a lui, era una cosa che non poteva più permettersi di fare.
Non dopo Shin...
 
***
 
Ad Hagi l'inverno non era quasi mai precoce, ma anche lì, nel caldo sud, prima o poi arrivava ed era freddo come altrove. Il cielo si era oscurato in quella mattina di dicembre e le previsioni avevano annunciato temporali e forti piogge.
A Shin piaceva tanto l'acqua, ma pativa terribilmente il freddo, nel corpo e nel cuore e quel clima era rovinoso per chi, come lui, non era più riuscito a trovare nulla di positivo nella vita, se si escludeva il recupero di sua madre e la dolce attesa di Sayoko-Neesan.
Ma riguardo a se stesso, ogni stimolo si era totalmente dissolto. Esclusa la paura.
Il mondo era diventato, per lui, un ricettacolo di pericoli e timori.
Quella mattina non si era mosso di casa; sua madre, di salute sempre cagionevole, si sentiva poco bene a causa del freddo e, nel momento stesso in cui Shin l'aveva sentita tossire, aveva preso la risoluzione di non uscire per restare al suo fianco.
Lo sguardo perso fuori della finestra, si sforzava di non pensare a nulla, perché i pensieri lo portavano, inevitabilmente, sull'orlo dell'autodistruzione.
Distesa sul futon, sotto ben due coperte, sua madre sonnecchiava con aria stanca, le guance pallide, ma l'espressione sul viso più serena rispetto all'inizio dell'autunno. L'ennesima ricaduta aveva messo alla prova il suo carattere e la serenità della famiglia. Avere nuovamente attorno a sé entrambi i figli, il pensiero di una nuova vita che, presto, sarebbe sbocciata in famiglia, tutti quei pensieri avevano giovato alla sua ripresa e al suo umore.
Se solo il suo Shin fosse stato altrettanto sereno...
Come madre vedeva che il ragazzo partito per Tokyo non era il medesimo corso al suo capezzale quell’ultima volta. Vedeva, percepiva come propria la sua tristezza e ne era angustiata. Ma la sua delicatezza e l'aria sofferta di Shin l'avevano continuamente scoraggiata dall'affrontare il figlio e liberarlo, almeno un poco, dal peso della sua amarezza.
Lo osservò mentre, dandole la schiena, guardava fuori dalla finestra: le sue spalle, che da un po’ si erano fatte più ampie, ora sembravano piccole e strette come quando era bambino. Le mani erano nascoste, così come il viso, ma poteva indovinare che ogni particolare culminava in un’espressione malinconica. Le nuvole cariche di pioggia si adattavano perfettamente all'umore del suo piccolo Shin.
Aveva già visto quella postura, aveva già percepito quell'aria densa di pensieri negativi che orbitavano attorno a lui come una nebbia perpetua.
“Shin-chan...” lo chiamò a bassa voce, come temendo di distrarlo, anche se da pensieri così brutti.
Le spalle del ragazzo sussultarono raddrizzandosi ma, quando si voltò, il ragazzo le stava sorridendo e, nel frattempo, accorse al suo richiamo.
“Ti ho svegliato, kaasan? Scusami!”.
La donna sorrise di rimando, scuotendo appena la testa.
“Dev'essere stato l'avvicinarsi del temporale a svegliarmi. Tu sei sempre molto silenzioso”.
A volte troppo.
Shin si accovacciò a gambe incrociate accanto al futon.
“Ero venuto a vedere se dormivi ancora, non ti avrei svegliato, ma siccome sei sveglia dovresti mangiare qualcosa. Cosa ti preparo? Pancakes? Ma forse è un po' pesante...”.
Il suo caro Shin...
La donna allungò una mano e andò ad accarezzare teneramente una guancia del figlio; socchiuse gli occhi e sorrise.
“Se li mangi assieme a me, molto volentieri”.
Il cibo, molto spesso, apriva il cuore e rendeva le conversazioni molto più semplici. E, in quel momento, ad entrambi serviva un aiuto per affrontare un dialogo delicato.
Un nodo si formò nella gola di Shin; quando qualcuno si mostrava tenero con lui lo assaliva un senso di malessere ancor più profondo, lo faceva sentire più sporco dentro. Se poi si trattava di sua madre, verso la quale aveva tante, troppe mancanze, l'angoscia diventava insostenibile. Gli occhi si inumidirono e distolse lo sguardo, perché la madre non se ne accorgesse. Nel frattempo si alzò, continuando a sorridere: “Avevo già iniziato a prepararli, perché pensavo di portarne qualcuno anche a Sayoko-Neesan e Ryusuke-Niisan, quindi ci metterò poco, attendi solo qualche minuto”.
“Grazie, Shin-chan”.
La donna lo guardò allontanarsi per raggiungere la cucina e, quando fu sola nella camera, finalmente sospirò. Se quel ragazzo credeva che lei non si fosse accorta di nulla...
Dimenticava che lei era sua madre. E lo conosceva, meglio di chiunque altro.
Come non notare l'ombra che si portava addosso? Come non notarla, poi, quando lui cercava di mascherarla con fare fin troppo esperto?
La donna richiuse gli occhi, assorta nei propri pensieri, riaprendoli solo quando sentì nuovamente i passi del figlio farsi vicini.
Il ragazzo spinse il fusuma con una spalla, le mani occupate da due piatti dal profumo invitante, e tornò a sedersi vicino al futon, posandone uno a terra accanto a sé e l'altro sul grembo della donna, con una delicatezza e una cura tali da dare l'idea che davanti a lui ci fosse qualcosa di fragile oltre che di immensamente prezioso.
La signora alzò appena le spalle e, con un sorriso, apostrofò il figlio:
“Il mio Shin-chan è proprio un bravo bocchan...”.
Nuovamente la sua mano andò ad accarezzare una guancia del ragazzo, che si era colorata di rosso per l'imbarazzo.
“Kaasan, che dici” gnaulò, rintanando la testa tra le spalle e nascondendo le mani tra le ginocchia.
Una risatina, ma la donna non infierì e, preso delicatamente un pancake tra le dita, ne addentò un pezzo.
“È proprio buono”.
Il rossore di Shin aumentò, mentre lui continuava a sfregare le mani tra le ginocchia, senza decidersi a prendere la propria parte. Ridacchiò imbarazzato.
“Sono felice che ti piacciano...”.
“Ma se non li mangi subito, si freddano e non sono più buoni come prima”.
“É che se poi tu ne volessi ancora ti darei anche questi”.
La mano gentile della donna si fece dispettosa afferrando, seppur delicatamente, la punta del naso del figlio.
“Ci mancherebbe! E poi non dovresti molestare così quelle tue belle guance, lo vedo come sei dimagrito, Shin-chan...”.
L'espressione della donna si fece seria, per la prima volta.
“Ma... ma no... a me sembra di mangiare tanto, se poi ingrasso come faccio a nuotare bene?”.
“Sei come tuo padre, non potresti comunque ingrassare. Anche se volessi!” e l'espressione, un po' buffa, un po' tenera, si distese. La mano andò ancora ad accarezzare una guancia di Shin, poi salì sul capo e passò le dita fra i capelli. “Mi piace che te li sia fatti crescere... sei diventato ancora più bello”. Un sorriso solamente rispose al rossore di Shin.
Lo sguardo del ragazzo sfuggì da ogni parte possibile e ogni frammento del suo corpo sembrava sul punto di implodere.
“Perché stamattina fai così?” piagnucolò con la sua voce più sottile.
“Perché la tua Okaasan può farlo... perché ti vuole bene”.
Shin sgranò gli occhi su di lei e, in questo modo, non poté nascondere il loro lucore. Le labbra si aprirono e si chiusero, ma non gli venne nessuna risposta sensata. Infine balbettò un confuso:
“Te ne voglio anche io, ma... vorrei essere più degno del bene che mi vuoi...”.
Non aveva resistito, non gli piaceva rendere espliciti i pesi che si portava dentro, ma la lingua non si era trattenuta.
“Degno?” l'espressione della donna si fece contrita, poi sofferta. “Il mio Shin-chan? Non ho mai dubitato che il mio Shin-chan fosse degno di tutto l'amore che provo. Io lo so”.
La mano ancora sul capo del ragazzo scivolò a terra, andando ad afferrare una mano chiusa a pugno, tremante. ”È questo che ti tormenta? Questo che ti fa... male?”.
“Non volevo renderti triste... ecco... questo è quello che so fare...”.
“Non permetti alla tua Okaasan di essere preoccupata per te? E anche triste?” la stretta della mano si fece più forte, calda. “Tu non mi rendi triste. Non potrai mai farlo. Tu mi hai resa tanto orgogliosa e felice. Ma una madre, quando un figlio non è felice, non può che nutrire il medesimo sentimento. È anche questo che fa di una donna una madre”.
Ma allora... lui come avrebbe potuto fare?
Se la sua tristezza avrebbe reso triste anche lei...
E forse la tristezza avrebbe creato ulteriori problemi al suo cuore e sarebbe stata colpa sua se...
Come posso fare? Si chiese. Se io sono triste lei è triste... ma come faccio ad essere felice se... se ho reso tristi tutti nella mia vita? Ho fallito... fallito nel rendere felice chi amo, il mio unico, vero sogno.
Sollevò le mani della madre e vi posò sopra la fronte.
“Perdonami...” riuscì finalmente a sussurrare.
“Shin!” il tono di voce della madre, serio, deciso e più alto del solito, fece sobbalzare il ragazzo, togliendogli altre parole dalla bocca e dal cuore. “Io sono tua madre, non ti devo perdonare nulla”. Gli occhi della donna si fecero grandi, appena lucidi. “Amare, a volte, può far soffrire. Ma non ci sono colpe se ci si vuol bene. Altrimenti... beh, anche io dovrei farmi perdonare da te e da tua sorella, per tutte le preoccupazioni che vi ho arrecato. Ora e negli anni passati...”.
Shin scosse il capo, sconvolto:
“No... no no no, ‘kaasan che dici? Non... non voglio neanche che la pensi una cosa del genere; tu... tu...”.
“E credi che io possa desiderare che TU la pensi?”. Il tono si era fatto nuovamente dolce, la donna reclinò appena il viso, l'espressione della maternità.
“Ma... ma io...”.
Ce l'aveva fatta, sua madre era riuscita a farlo regredire ai livelli di un bambino del tutto incapace di ribattere a un adulto.
“Sì, ho ragione”. L'espressione, per quanto buffa, non perdeva nulla in dolcezza. “Shin-chan... vorresti raccontare alla tua Okaasan cosa ti angustia? Forse, condividendo i tuoi pensieri, risulteranno più chiari, più leggeri per le tue giovani spalle”.
Quanto avrebbe voluto!
Sincerità...
Avrebbe desiderato essere sincero fino in fondo con la sua famiglia, ma avrebbe significato raccontare troppo e accumulare ulteriori preoccupazioni che avrebbero infierito sul cuore fragile di sua madre.
Come poteva dirle che quella yoroi, per la quale lei stessa si era mostrata tanto orgogliosa, aveva portato suo figlio a rischiare la vita fino a tal punto?
E come poteva dirle... spiegarle... le proprie pene d'amicizia e d'amore?
Troppe implicazioni erano in gioco.
Così tirò in ballo la cosa più semplice... che semplice non era.
“La... scuola... l'anno è quasi finito e... tra poco... l'università...”.
Il suo ragazzo... perché mai doveva essere così riservato e rispettoso?
“Ma tu non avrai problemi, sei sempre stato bravo e... i tuoi nakama? Loro verranno a studiare a Tokyo?”.
Perché erano i suoi nakama, coloro di cui Shin aveva sempre parlato con un calore e un'emozione che mai gli aveva visto negli occhi o letto nel cuore. Ed erano giorni... settimane... mesi, anzi... che non sentiva pronunciare i loro nomi.
“E Shu-kun, dove andrà?”.
Gli occhi di Shin si fecero di nuovo grandi, enormi, ma fu un attimo e li strinse in una piccola smorfia di dolore, perché qualcosa, nel petto, si era come infranto.
Rispose, senza toccare l 'argomento nakama:
“Io... appena starai meglio andrò a Yamaguchi ad informarmi sull'Università. Manca un mese agli esami”.
L'argomento nakama venne messo da parte dalla donna, non appena la decisione di Shin fu svelata così, a freddo.
“Yamaguchi?! Perché mai?! Avevi scelto Tokyo per quella facoltà così rinomata, perché vuoi iscriverti qui, in prefettura?! Non lo farai!”.
Si era agitata e sollevata sul futon, impallidendo e, al contempo, arrossendo vistosamente sulle gote: non riusciva a restare calma, non quando suo figlio aveva un colpo di testa simile.
Allarmato, Shin si tese verso di lei:
“Okaasan, non arrabbiarti, non ti fa bene!”.
Il viso di lei si alzò quel tanto da poter guardare negli occhi il figlio, senza veli, senza sotterfugi. E parlò: “Non voglio che qualcuno che amo viva di rimpianti. Non voglio che qualcuno che amo... sacrifichi i propri sogni, non voglio, non desidero qualcosa di così doloroso per te. Non potrei sopportare di vederti infelice”.
“Ma io... io... non sarei infelice, starò vicino a voi, potrò veder nascere e crescere mio nipote, potrò aiutare per le ceramiche, anche io lo so fare bene. Potrò... prendermi cura di te e di Sayoko-Neesan, potrò...”.
Si bloccò, non osò dire il resto della frase: potrò mantenere la promessa che feci a Otoosan e che, fino ad ora, non sono mai stato capace di mantenere.
La fronte della donna andò a toccare con gentilezza quella del figlio, un lucore intenso nelle iridi nocciola.
“Io ti voglio bene, mio Shin-chan, ma non è questo che desideri davvero. Anche se ci vuoi un bene così grande da non poterlo... nemmeno descrivere... nemmeno parlarne, ma...” socchiuse gli occhi, mosse appena il capo in diniego. “Io ti ho dato alla luce e so... lo so che non è quello che desideri veramente. E io... io ti vorrei qui, qui con noi, solo se lo desiderassi davvero, solo se tu fossi felice ed il tuo sogno avverato”. Chiuse gli occhi, prendendo un lungo e sofferto respiro. “I sogni non ci attendono per sempre, bisogna coglierli quando si presentano alla fermata del nostro cuore. Non prima. Non dopo. In quel momento”.
Quel tocco, quella gentilezza, quel calore materno, sortirono in Shin un effetto che non avrebbe mai voluto: una nuova regressione ad un'infanzia per la quale nutriva una nostalgia struggente e, soprattutto, un'ondata di lacrime che proprio non riuscì a trattenere:
“Io voglio stare con voi... lascia che resti con voi...”. Dentro di lui il pensiero andava ancora oltre: non ho più niente a Tokyo, non ho più nessuno, non sarò utile a nessuno... almeno qui ho qualcuno che mi ama e che ha bisogno di me.
 
Quelle lacrime, quella voce spezzata...
La disperazione di un bambino, non di un ragazzo, gli si stava ponendo di fronte. E lei, Minami, la madre che per i figli avrebbe fatto qualunque cosa, non sapeva cosa poter fare.
“Shin-chan... Shin-chan... non piangere... ti prego, non piangere”. Il viso della donna si fece pallido, troppo pallido per la sua carnagione delicata. “Non voglio cacciarti, non lo farei mai, non potrei mai abbandonare il mio Shin-chan, non potrei...” la voce in lei si fece, per la prima volta, rotta dal pianto. “Shin-chan... davvero... dimmi come posso alleviare il tuo dolore? Come posso ritrovare il tuo sorriso?”.
 
Smettila Shin, smettila! Stai di nuovo commettendo un imperdonabile errore!
Prese le mani della madre e le strinse fortissimo:
“Devi stare bene, devi riguardarti e... e lasciare che io... che io non ti abbandoni di nuovo!”.
“Abbandonarmi?” un sussurro la voce della donna, un sorriso struggente, un nodo nel cuore. “Tu non mi abbandoneresti mai, non è abbandonarmi seguire il tuo destino”.
“Ma... ma se me ne vado tu sarai qui da sola. Sayoko-Neesan ha la sua casa, ha le ceramiche, avrà un bambino, come posso chiedere a lei di fare tutto? Io non ho così tanti impegni, si tratta solo di scegliere un'università piuttosto che un'altra, non è chissà che sacrificio se paragonato a quelli che dovreste fare tutti voi senza un aiuto in più!”.
L'espressione di Shin era l'immagine stessa dell'angoscia, non sapeva neanche lui dovuta soprattutto a che cosa. Si sentiva in trappola, qualunque decisione avesse preso si sarebbe sentito in trappola: restare era angosciante, tornare a Tokyo lo sarebbe stato ancor di più.
Averli così vicini, eppure distanti... il tutto unito alla consapevolezza di aver mancato nuovamente ai propri doveri verso la famiglia.
La donna sospirò: aveva cresciuto un bimbo così premuroso, dolce, ma anche troppo ansioso. E la sua salute non aveva aiutato le paure del suo ragazzo.
Perché mai gli dei le avessero donato un corpo tanto fragile non lo sapeva, mettevano alla prova i suoi figli già provati, non certo lei.
“Ma tu puoi volare da me se succede qualcosa e Sayoko è qui e non è sola. Non siamo soli. Abbiamo tante persone gentili attorno a noi, tante persone che ci aiuterebbero. Che mi aiuterebbero. Non sono sola. Non lo sono mai stata”. Spostò dolcemente un ciuffo di capelli che era ricaduto sugli occhi enormi e persi del suo Shin. “E poi ricordo bene quando mi hai espresso il tuo desiderio di tornare a Tokyo. I tuoi occhi erano così speranzosi, così desiderosi... lo so che il pensiero dei tuoi nakama ha aiutato nella scelta. Mi ha fatto capire quanto tu fossi cresciuto. Quanto tu sia pronto per aprire le tue ali e volare verso il tuo futuro e questo pensiero mi ha reso così orgogliosa, fiera... e felice. Una madre cresce i propri figli perché siano felici, quando lasceranno il nido. Succeda quel che succeda. È il mio desiderio più grande. Solo per te”.
Non parlare dei miei nakama, ti prego, tu non sai...!
“Come vorrei continuare a renderti orgogliosa!” esclamò il ragazzo con ancora un filo di pianto nella voce, “Ma posso provarci anche restando qui!”.
“Vorresti? Eppure lo fai ogni giorno, ogni momento. Ma tu non te ne rendi conto... o forse io non sono abbastanza brava a dimostrartelo?”.
Quell'ostinazione, oltre che data dalla preoccupazione, sembrava seriamente legata a qualcosa... o qualcuno?
“Tua sorella mi ha detto che il tuo nakama, Shu-kun, ha chiamato... voleva sapere se stavo bene. È proprio un bravo ragazzo, hai trovato qualcuno di davvero importante a Tokyo... o no?”.
Le mani di Shin lasciarono quelle della madre e scivolarono via, fino ad abbandonarsi in grembo; il loro movimento fu mesto come quello della testa che contemporaneamente si abbassò.
“Ha chiamato... sì... ma io non l'ho sentito...”.
La voce si affievolì man mano, fino a diventare quasi inudibile sulle ultime parole.
La mano della madre ricercò, testarda, quella del figlio e la strinse.
“Avete... litigato?”.
Non era proprio così... o sì?
In realtà Shin non lo sapeva esattamente. I ricordi degli ultimi giorni passati insieme erano vaghi e confusi.
E comunque come erano giunti a quello lui e sua madre? Lei non doveva restare coinvolta nei problemi di un figlio incapace di proteggere un legame così importante.
“Non... ma... ma no...”.
“Non proprio?”.
Ah, quanto era difficile estrarre parole, pensieri, sentimenti da quella testolina bella ma contorta.
“No... cioè... sì...”. Il tutto senza riportare il viso in superficie.
“E vorresti vederlo e parlargli ma... non riesci... vero?”. La paura faceva i danni più grandi... e la paura di essere ferito per Shin, lo sapeva, era la più grande. “Per quello non te la senti di tornare?”.
Questa volta la testa si sollevò di scatto, facendo fluttuare per un istante le ciocche castane che diventavano sempre più folte:
“Non voglio tornare, perché sento che è meglio stare... vicino a voi!”.
Non era una bugia, giusto?
Certo... quel che Okaasan aveva detto non lo era nemmeno.
“E stare lontano da lui? Da loro?”.
Altro rossore, altra fuga dello sguardo, la mano libera si strinse a pugno sulla coscia e la voce si fece di nuovo un filo sottile:
“Non importa... più”.
“Shin-chan...” la mano libera della madre, invece, andò a sollevare con un certo cipiglio il viso ormai prostrato di Shin. “Se non ti importasse, il mio Shin-chan non sarebbe sul punto di piangere...”.
“Non... piango... non ti devi preoccupare”.
Resisti, maledizione!
Ma, nel momento stesso in cui parlò e pensò, in cui strinse le palpebre per ostacolare le lacrime, queste sgorgarono senza pietà, rivelando tutta la sincerità del suo animo.
Allora le braccia della madre circondarono le sue spalle, ora così curve e fragili e lo attirarono in un abbraccio tutto materno, tutto tenero: l'unico, in quel momento, che potesse tamponare quella ferita immensa e sanguinante.
“Shin-chan...” lo chiamava, sperando che le sue lacrime scorressero senza paure, senza costrizioni. Che uscissero e lavassero via un po' di quel peso opprimente dal cuore saturo del suo Shin. Che, in quel modo, le parole temessero meno l'aria che le ospitava, che il cuore si espandesse nel petto, scaldando quel piccolo corpo tremante.
 
Era troppo per Shin, i singhiozzi giunsero, incontrollati e violenti.
“Mi dispiace... mi dispiace...”.
E in quella richiesta disperata di perdono era rinchiuso tutto... e tutti.
“Ssh... non devi scusarti” sussurrava la donna, passando una mano sulla schiena tremante del ragazzo. “Quando si è tristi non bisogna chiedere scusa a nessuno, solo a se stessi”.
“Però... però io...”.
“Non vorrai contraddirmi?” con un sorriso sulle labbra, la donna rendeva ogni parola miele nelle orecchie di Shin.
“Ma-ma-mai...”.
Ogni sillaba era pronunciata a stento, a causa dei singhiozzi che quasi lo soffocavano.
Passarono lunghi istanti di silenzio, mentre la donna pensava a quali parole scegliere, a come non ferire ulteriormente il figlio e spingerlo verso quello che, lei sapeva, era il suo vero desiderio.
Quando sentì che i gemiti si erano sopiti, anche se le lacrime continuavano a scorrere, sussurrò di nuovo:
“Shin-chan... a volte bisogna attendere, bisogna saper cogliere il momento giusto, ma non abbandonare la speranza. La vita non ha nulla di pronto per noi, se non tante scatole tra cui noi dobbiamo scegliere”.
Tra le sue braccia, Shin rabbrividì e sospirò, tenendo il viso nascosto contro di lei:
“Sai, kaasan, io vorrei... che i miei studi mi portassero a proteggere il mare e tutte le sue creature. Io mi sento vivo se posso proteggere, prendermi cura, eppure... finisco sempre per essere confortato e protetto. Perché non... non riesco mai a fare… quello che vorrei?”.
“Bisogna imparare a essere confortati, protetti, coccolati, per imparare a confortare, proteggere e coccolare. A volte pretendiamo da noi stessi cose che nemmeno pensiamo di concederci”. Una mano della donna salì sul capo di Shin, accarezzò i capelli, finendo con la sua ciocca più lunga tra le dita. “Amare ed essere amati... proteggere ed essere protetti... per tutto serve un grande coraggio. Lo stesso coraggio che serve per gettarsi nel vuoto, ad occhi chiusi”.
“Però io, kaasan, mi allontano da tutti, pensando di proteggerli... e li perdo. Voi avete bisogno di me qui e quindi, se mi allontano anche da voi...”.
Era ancora confuso, troppo confuso, ma almeno parlava, si confidava, cominciava a dialogare.
“Se si dà retta alla paura, tutto è perduto, ma se si ascolta solo l'amore, allora anche chilometri di terra, di oceani, non allontanano nessuno. Ricordalo”.
Il viso di Shin si risollevò un poco, anche se restò basso, il ragazzo lentamente si ricompose:
“Okaasan, voglio studiare, questo sì, voglio che le creature dell'oceano possano contare su di me in futuro”.
In fondo non gli restava altro; una volta era solo uno dei suoi sogni, adesso il suo futuro era legato unicamente a quello.
“Lo so, Shin-chan, lo so... lo so che ce la farai”.
“Devo confessarti una cosa di cui mi vergogno però”.
Rieccolo con l'espressione da cucciolo contrito.
La madre gli carezzò una guancia, sorridendo dolce.
“Dimmi...”.
Si fece piccolo piccolo, la testa rintanata tra le spalle:
“Ho... trascurato gli studi... non mi viene giusto neanche un esercizio da un po' e le pagine da studiare... proprio non mi entrano”.
“Allora che ne dici se studiamo assieme? Ho aiutato Otoosan, quando andavamo a scuola” il sorriso della donna si fece dolce, sereno. “E anche lui diceva sempre quelle parole quando mi chiedeva aiuto e aveva la tua stessa espressione”.
Pizzicò appena la guancia del ragazzo e sospirò, un po' più leggera.
“Ma se ti stanchi? L'esame è tra un mese e... e devo vedere se a Yamaguchi c'è qualcosa, altrimenti dovrò scegliere dei corsi che si avvicinano a quello che voglio”.
La donna alzò il viso, senza aver abbandonato la speranza.
“E Tokyo? E i tuoi nakama?”.
“Ma.. ma tanto loro... io non so neanche cosa vogliano fare, sono lontani da Tokyo e comunque prenderanno altre strade, non avremo neanche più tempo di...”. Non rimetterti a piangere, non rimetterti a piangere...
Un momento di silenzio, la donna sembrò immergersi in se stessa, pensierosa.
“Quello che vi unisce non credo che vi terrà lontani a lungo, è troppo importante... e forte. Ha bisogno di essere nutrito, ma... solo senza distanze”. Prese la mano del figlio e la tenne stretta al proprio cuore. “Se ci pensi intensamente, abbandonando ogni paura, capirai che è così”.
La mano tremò forte, quasi temeva di toccare quel cuore fragile.
Pensarci intensamente...
Lui non poteva pensare intensamente a loro o sarebbe stato il suo, di cuore, a sgretolarsi.
“Ma non so se loro... insomma, qui almeno potrò studiare... e stare con voi”.
“Shin!” e, per la seconda volta, la voce della madre suonò autoritaria. Gli occhi di lei si fecero grandi, un poco severi: erano gli occhi di una donna samurai. “Non potrei mai sopportare che tu rimanga qui con noi, perché fuggi da ciò che il tuo cuore desidera veramente” la voce si abbassò, gli occhi perdettero quella luce battagliera e ripresero l'espressione di madre. “Tu soffri a rimanere qui, dove non ci sono loro”.
“Io con voi non potrei soffrire, vi amo!”. Ed abbassò il viso, contrito.
“Ma il tuo sogno è con loro, vero Shin? Non mentire alla tua Okaasan”. La mano sul cuore si strinse ancora di più a quella di Shin. “Ti prego...”.
Shin soffocò un singhiozzo:
“Okaasan... io mi sento spezzato in due... se solo Tokyo e Hagi fossero più vicine... e poi... loro...”.
Lei sorrise.
“Anche io lo vorrei, ma questa casa è sempre aperta e non siamo dall'altra parte del mondo per fortuna e... i tuoi nakama?”.
Parlare con suo figlio non era mai stato così difficile e doloroso.
 
“Ma loro... loro non so... neanche se saranno a Tokyo... loro magari sceglieranno... di restare nelle loro prefetture e quindi...”.
La donna scosse la testa, sicura come non lo era mai stata.
“Il mio cuore mi sta dicendo che loro verranno a Tokyo... da te”. Poggiò le labbra sulla fronte del ragazzo e la baciò. “Son certa che il destino è dalla vostra parte”.
“Okaasan” sussurrò Shin in un sospiro. Si spostò indietro, tornò a stringere le mani tra le gambe, lo sguardo fisso a terra.
“Quindi, Okaasan, tu...”.
“Io lo so, Shin-chan... lo so” sussurrò la donna, accarezzandolo ancora una volta sulla guancia.
La dolcezza di sua madre lo fece fremere, per l'ennesima volta da quando quella conversazione era iniziata; la tenerezza con la quale la donna si rapportava a lui gli faceva desiderare di tornare indietro nel tempo, per potersi permettere di raggomitolarsi nel suo grembo ed addormentarsi lì, sotto quelle carezze che cancellavano ogni delusione ed ogni dolore. La donna lo vezzeggiava come quando era bambino, ma purtroppo lui non lo era, non lo era più da tempo, aveva smesso improvvisamente di esserlo, perché le necessità glielo avevano imposto.
Si sforzò di sollevare gli occhi su di lei e mantenere lo sguardo più fermo possibile, non sapeva con che risultato:
“Posso lasciarti e tornare a Tokyo... quindi?”.
La donna sorrise, tenera: quel suo piccolo grande bambino aveva sempre temuto di fare del male a qualcuno, fosse anche per un poco di normale egoismo. Fosse anche solo per crescere.
“Tu non mi lasci, figlio mio, tu sei sempre nel mio cuore, come io nel tuo, così non ci si può lasciare mai”.
Non ce la faceva, Shin, a mantenersi saldo e razionale se lei faceva così. Gli occhi si inumidirono di nuovo e il ragazzo afferrò, con forza, la sua mano:
“Me la prometti, però, una cosa?”.
“Che cosa?”.
“Che starai attenta, che ti riguarderai e che... che... mi terrai informato di tutto... tutto tutto tutto!”.
La madre non riuscì a trattenere una risatina, ma guardò con occhi dolci il figlio e gli sorrise.
“Lo farò. Per tutto. Promesso”.
Un'ombra di paura riattraversò gli occhi verdi di Shin.
“Allora, io... dovrò...”.
“Solo seguire i tuoi sogni, è tutto quello che devi fare”.
Lei si sollevò, posò un bacio lieve sulla fronte del ragazzo e lo guardò negli occhi.
“Vai e vivi... e troverai la tua felicità. Io lo so, perché sono tua madre”.
“Dovrò... partire presto però... gli esami...”.
Troppo presto... la prospettiva lo rendeva inquieto.
“E allora saremo pronti, tutti e due”.
Shin sospirò, abbassò di nuovo il viso.
“Riuscirò a recuperare... con gli studi? Sono così indietro...”.
“Ma certo e ci saremo io e la tua Neesan ad aiutarti. Tutto così sarà più facile”.
“Se non dovessi superare gli esami... non me lo perdonerei mai...”.
Piccolo, insicuro Shin...
“Se non dovessi, rifaresti l'esame. E non ci sarebbe niente da perdonare. Ma sappiamo tutti e due” e la madre afferrò con delicatezza il nasino del figlio. “...che questo non succederà, che la tua volontà e testardaggine è così grande che ti ha fatto fare sempre così tante cose…”.
E lei non sapeva nemmeno quante, pensò Shin, ma era stato perché aveva trovato la forza in ciò che credeva.
Cosa gli era rimasto? In cosa credeva adesso?
Tutte le sue certezze si erano rivelate cocenti delusioni.
“Farò... del mio meglio... Okaasan”.
Ancora una volta la mano della madre si alzò su di lui e andò ad accarezzarne il capo, spostando un ciuffo troppo lungo caduto sui suoi occhi.
“Lo so, Shin, lo so...”.
L'aveva sempre saputo Minami. Fare del suo meglio era da sempre ciò in cui era più bravo.
 
 
* * *
 
Anche quell’inverno stava per vedere la sua fine.
Era tutta la notte che pioveva a Osaka. Un fumo sottile si alzava dall'asfalto, eppure insistenti e numerosi ombrelli navigavano per le strade, ammassandosi qua e là con energia continua.
Touma detestava la pioggia in città. Detestava quella sensazione di acqua impura che, inevitabilmente, gli cadeva addosso.
Voleva l'acqua pura...
Ma se pensava all'acqua pura, il pensiero volava a Shin. E se volava a Shin volava verso tutti.
E allora preferiva che il pensiero non fosse mai nato. E che la piantasse di fare quel detestabile gioco dell'associazione di idee!
Touma rientrò a casa mezzo fradicio, la borsa di scuola gocciolante, ma poco importava, non aveva voglia di pensare agli ultimi sgoccioli di scuola: odiava le cose che finivano. Anche quando erano noiose come il secondo anno di liceo.
Ma ora... ora si sarebbe potuto dedicare a quegli ultimi manoscritti che aveva recuperato da Nasty.
Non si fermava più a Tokyo. Ci passava e tornava a casa in giornata. Anche se quello significava doversi alzare presto e passare una giornata sul treno.
Ma almeno Nasty era gentile con lui. Almeno vedeva qualcuno del passato.
Che parola disgustosa... il passato.
Quasi come una beffa, nel bel mezzo dei suoi pensieri il telefono squillò, facendolo sussultare. Andò a rispondere con una sorta di apatia, che si sciolse un poco quando dall'altra parte le rispose proprio la voce affettuosa di Nasty:
“Ciao, Touma, speravo di trovarti in casa, ti disturbo?”.
“Nasty! Ciao, veramente sono appena tornato... da scuola. E tu?”.
Sì, era strano sentirlo parlare di scuola, lo sapeva anche lui.
“Anche io vengo dall'Università e ho trovato una cosa nel mucchio di manoscritti tra cui hai rovistato l'ultima volta. Ne avevi per caso portato uno tu che potresti aver dimenticato qui?”.
“Non ho portato nulla” Touma aggrottò le sopracciglia. “Lo sai che di solito vengo a prendere, non a portare”. Un colpo di tosse, un po’ imbarazzato. “Insomma, lo sai...”.
La ragazza ridacchiò:
“Mi sembrava strano in effetti, ma mi sembra anche strano che non abbia colpito la tua attenzione, anche se, in realtà, neanche io avevo mai notato questa cosa nelle collezioni di Ojisama”.
La curiosità di Touma si infilò nella sua mente e nella bocca che, prontamente, chiese:
“Perché? Di che cosa tratta? Di quand'è?”.
“Lo sto sfogliando adesso, eventi dell'era Tokugawa... e ...”.
Ci fu un attimo di silenzio, poi la voce della giovane si fece riudire, più cupa:
“Touma... credo che dovresti vederlo anche tu, mi dà... una strana sensazione”.
“Strana?” qualcosa sulla nuca di Touma punzecchiò, le mani si strinsero, una nel nulla, l'altra sulla cornetta. “In che senso?”.
“Senti, facciamo una cosa: ci do ancora un'occhiata poi te lo spedisco, così ti arriva subito e possiamo fare qualche ricerca entrambi, poi, forse...”.
Si fermò di colpo, esitante.
“Forse...?”. A cosa stava pensando Nasty? Touma si sentì sempre più inquieto.
Un sospiro.
“Forse è prematura questa mia sensazione... ma spero che non si arriverà a dover coinvolgere anche gli altri, non in una cosa così”.
“Mandamelo subito, Nasty!”. Inquietudine? No, non era già più nulla di simile.
Coinvolgere gli altri? Che senso aveva... ora?
Loro non erano più... non avevano più...
“Non ha senso...” sussurrò a se stesso, facendosi però sentire da Nasty.
“Lo spero Touma, una parte di me mi sta suggerendo che mi comporto da stupida, sono solo delle pagine scritte, che dovrei evitare di farti pesare una mia paura insensata, dovrei lasciar perdere, saranno le esperienze del passato che mi rendono così... così...”.
Uno sbuffo violento e nervoso di rabbia nei confronti di se stessa.
“Allora siamo in due ad essere ansiosi” bisbigliò Touma.
“È colpa mia... dovrei chiuderlo in un armadio e non pensarci più, ma è come se... me lo impedisse... come se mi avesse chiamato”.
“Non è colpa di nessuno, il caso non è... non ha mai funzionato per noi... lo sai”. Touma si scompigliò i capelli, nervoso. “Mandamelo velocemente... per favore”.
“Come vuoi, anche se un po' sono pentita di avertene parlato... ma so che ormai non posso tornare indietro”.
“Non fartene una colpa; comunque ne sapremo di più quando l'avremo studiato entrambi”.
Gli rispose un sospiro, Nasty non era il tipo che si angosciava per nulla e Touma lo sapeva benissimo.
“Spero davvero che sia tutto finito come avevamo sperato”.
Doveva essere finito. Non aveva senso che...
“Ma certo...”. La risposta del ragazzo fu un debole soffio.
“Altrimenti non so come... la prenderebbero gli altri”.
Touma era il più razionale, dicendosi questo la ragazza cercava di giustificare il fatto che ne stesse parlando proprio a lui, ma a tale giustificazione non riusciva a credere nemmeno lei.
“Ci penserò io, non temere”.
Avvertire gli altri? Parlargli? Dopo tutto quello che...?
“Beh, Touma... io spero che non ce ne sia bisogno, è sicuramente... una sciocchezza. Semplicemente il modo in cui ho trovato questo manoscritto e il modo in cui mi ha attratto mi ha suggestionato, forse sono un po' stanca”.
“Hum...”. Touma non sapeva cosa pensare... o cosa dire. Non sapeva più niente quando qualcosa riguardava... loro.
“Vorrei non averti trasmesso la mia paura irrazionale... ma c'è qualcosa che continua a suggerirmi che non è irrazionale”.
“È meglio che tu me l'abbia detto. Due teste sono meglio di una, direbbe Shin...”.
Ecco, accidenti a lui. Finiva per parlare di loro. In ogni caso.
Un altro sospiro dall'altra parte gli fece capire che la giovane aveva recepito e condiviso i suoi medesimi pensieri.
“Già... Shin... soprattutto lui, come reagirebbe se...”.
Non osò pronunciare il resto.
“N-Nasty, ora devo andare, io... ho delle cose da fare”.
Non voleva parlare di quello. Faceva male, sempre.
“Certo Touma e scusa... scusa ancora. Se verrò a sapere qualcosa di importante...”.
“Grazie Nasty. A presto”.
Forse lo fece con troppa foga, ma Touma chiuse la telefonata in fretta, ignorando il senso di colpa e sentendosi subito decisamente meglio.
  
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