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The show must go on
"Tired
of lying in the sunshine
Staying home to watch the rain
You are young and life is long
And there is time to kill today"
[Time – Pink Floyd]
13 Maggio, Pacific Highway, 10:45
Gigli
o calle? Non ricordava quali preferisse, ma era sicuro che le
piacessero entrambi.
Esitò
ancora qualche istante davanti al chiosco sul ciglio della strada,
sporgendosi fuori dall’Audi decappottabile e tendendo il
collo per
osservare meglio la schiera di mazzi, vasi e bouquet
che facevano bella mostra sul banchetto. Il fioraio continuava
guardarlo fisso con ben poco tatto, neanche gli fosse atterrato
davanti Thor, e Tony preferì pensare che fosse per la sua
fama,
piuttosto che per la mano meccanica che sporgeva dal polsino.
Inclinò un poco gli occhiali da sole per mettere meglio a
fuoco la
scelta floreale, prima di sbuffare insoddisfatto.
«Senta,
me li dia entrambi,» concluse, con un gesto verso i due mazzi
di fiori
bianchi.
Nel dirlo allungò un centone
all’inserviente ancora
sotto shock, che afferrò la banconota come una reliquia e
gli tese in trance i due acquisti.
«Ecco,
grazie… no, no, li poggi sul sedile, non mi piace che mi si
porgano
le cose,» si raccomandò concitato, schivando
quell’approccio
sgradito. «Tenga il resto e rinnovi la baracca,»
disse poi
riavviando l’auto, che inserì subito il pilota
automatico al primo
tocco dell’acceleratore.
«Ma
lei è Iron Man?» gli gridò dietro il
fioraio, adesso con un
sorriso confuso.
«Ogni
tanto!» rispose sogghignando Tony, ammiccando da dietro gli
occhiali
scuri, prima di ruotare il volante con la sinistra e imboccare di
nuovo con un rombo la Pacific a picco sul mare.
***
13 Maggio, Villa Stark, tre ore prima…
Il
getto della doccia si abbatté piacevolmente sulla sua
schiena, rilassando a poco a poco i suoi muscoli contratti. Tony
reclinò
all’indietro la testa e lasciò che
l’acqua calda gli bagnasse
anche il volto e i capelli, chiudendolo in una bolla di tepore
liquido e accogliente. Stimò di poter resistere in piedi
senza appoggi per una ventina
di minuti, visto che la protesi si stava dimostrando abbastanza
collaborativa dopo l’iniezione di dilitio di quella mattina,
che gli aveva anche
allargato i polmoni e attenuato le fitte ai moncherini. Il reticolo
sul suo petto era ancora visibile sottopelle, ma era impallidito,
restringendosi e ritirando i suoi viluppi dalla zona circostante il
collo. Poteva quasi fingere che non esistesse, se indossava una
maglietta, o se, come adesso, teneva chiuso l’occhio senza
abbassare lo sguardo, escludendo anche la luminescenza azzurrina del
reattore.
Rimase
in catalessi per ancora una decina di secondi, prima di cercare a
tentoni lo shampoo per iniziare pigramente a lavarsi, godendosi quel
rituale mattutino che lo rimetteva al mondo. Stare
sotto la doccia era una delle azioni quotidiane che più gli
era
mancata durante il suo periodo di quasi-immobilità, e aveva
sopportato molto male il fatto di farsi aiutare, di dover stare seduto
per lavarsi, o
peggio, di usare la vasca da bagno, salvo scoprire che quella era uno
dei pochi metodi per alleviare le fitte ai moncherini.
Dall’Afghanistan aveva sviluppato un astio represso per
l’acqua
ferma in generale, fomentato dai suoi incubi in fin di vita non
esattamente
rassicuranti, e se in passato poteva passare ore a crogiolarsi nella
vasca tra schiuma, bolle e sali profumati, magari anche in dolce
compagnia, adesso se ne teneva molto lontano e aveva ripreso a
starsene il più possibile sotto la doccia non appena era
stato in
grado di reggersi sulle proprie gambe per più di cinque
minuti.
In
quel momento, dopo la nottata d’inferno appena passata e le
tre ore
scarse di sonno, aveva davvero bisogno di bearsi il più
possibile
sotto il getto d’acqua calda. Anche se, a pensarci bene,
virare su
una temperatura polare sarebbe stata più appropriato ed
efficace,
visto lo stato fisico che poco prima l’aveva spinto a
dileguarsi dalla vista
di Pepper accampando una scusa non molto credibile. Incrociarla a
sorpresa in corridoio, appena uscita lei stessa dalla doccia e con
addosso nient’altro che un accappatoio, apparentemente in
ritardo
catastrofico per i suoi appuntamenti alle Industries e
perciò
incurante del suo stato, non aveva
esattamente mitigato la sua tipica “situazione
mattutina”. Era
svicolato in bagno in fretta e furia cercando di darle il
più
possibile la schiena, straparlando nel tentativo di mascherare
l’inconveniente, e sperava segretamente che lei fosse stata
troppo
presa a celare a sua volta il proprio viso paonazzo e a tenersi
stretto l’accappatoio per dare peso alle sue farneticazioni.
Si
trovò a sospirare, sfregandosi le mani sul volto bagnato.
Non sapeva
bene come definire il loro rapporto, ma tra il suo corpo sfigurato e
la decisa ansia che lo coglieva ogni volta che era nel raggio da un
metro da lei, vestita o meno che fosse, era più che convinto
che
fosse troppo presto per qualunque cosa esulasse dal semplice starle
vicino. In quei momenti si sentiva un bimbetto delle elementari, non un
playboy navigato – e non era nemmeno colpa sua. Si
strofinò
con irritazione i capelli insaponati, come a
scrollarsi di testa quei pensieri su cui non avrebbe dovuto
soffermarsi:
l’ultima cosa che desiderava era forzare una situazione
già
abbastanza forzata, almeno dal suo punto di vista. E se il suo corpo
decideva di reagire per conto proprio a impulsi naturali, che
lo facesse pure: sarebbe sopravvissuto all’imbarazzo, e
poteva
considerarlo un segno che forse almeno qualcosa di lui funzionasse
ancora a dovere. Non aveva tempo, ma era sicuro – sperava
– di averne abbastanza per affrontare anche
quell'argomento con Pepper. Possibilmente non a parole, e in modi che
non aveva intenzione di
immaginare nel dettaglio adesso.
Fu
provvidenzialmente distratto dalle sue elucubrazioni quando lo squillo
del telefono
trapassò la cappa di vapore in cui era avvolto, e se da una
parte si sentì sollevato, dall’altra
lanciò una maledizione
contro chiunque lo stesse disturbando con così poco tempismo
rompendo la sua parentesi di relax.
«JARVIS,
chi è il rompiscatole?»
«Il
signor Andrews. Lo metto in attesa?» propose gioviale il
maggiordomo.
Tony
sbuffò, prendendo seriamente in considerazione
l’offerta per poi
declinarla, vinto dalla curiosità:
«Passalo
sull’interfono,» ordinò, senza chiudere
l’acqua né uscire dalla doccia.
«Ehi,
buongiorno, Stark!» esordì il ragazzo con
inaspettata allegria.
«Sì,
sì, buongiorno anche a te, K,» mugugnò
lui, impegnandosi a suonare
indifferente. «Fa’ in fretta, sono sotto la
doccia,» lo incalzò
poi, anche se lo scroscio in sottofondo era già abbastanza
esplicativo.
«Stai
tentando di sedurmi?» indagò malizioso Kyle.
«Ovviamente,»
rispose lui serafico mentre si sciacquava i capelli, chiedendosi se
quella mattina vi fosse un qualche complotto contro di lui, vista
l'insistenza sulla sua vita sessuale.
«Non
credo che Virginia sarebbe molto d’accordo,» lo
stuzzicò prevedibilmente l’altro, e
già pregustando la sua reazione indignata.
«No,
credo proprio di no,» lo assecondò invece lui,
lasciandosi sfuggire
un sorrisetto al silenzio basito dell’altro. «Che
c’è? Geloso?»
ridacchiò poi, riscuotendo Kyle dal suo stand-by verbale.
«Se
tu non fossi tu,
Stark, direi che mi stai prendendo per il culo,»
ribatté serissimo
l’avvocato, e Tony si trattenne dallo sbottare apertamente a
ridere per la
pessima scelta di parole.
«Devo
intenderlo in senso lettera–»
«Intendilo
come
ti pare,
ma adesso ascoltami,» lo interruppe l’altro, adesso
probabilmente
paonazzo dall’altro capo del telefono.
Tony si ritenne
soddisfatto per la sua piccola rivincita dopo mesi di allusioni e
battutine su lui e Pepper da parte dell’amico, in combutta
con Ian.
«Ho delle novità,» annunciò
Kyle, dopo essersi assicurato che fosse in ascolto.
Tony si fece attento, per
quanto potesse essere attento nello stato di intontimento causatogli
dalla doccia calda.
«Spara,»
lo incitò, incerto se quel silenzio dovesse essere
interpretato come
un semplice stratagemma per aumentare la suspence,
o come una reticenza da parte dell’avvocato nel riferire una
brutta
notizia.
«Stern
ha appena approvato la tua licenza!» annunciò poi,
squillante.
«Cosa?!»
sputacchiò lui, scansandosi dal getto d’acqua che
aveva inalato
per la sorpresa e finendo quasi per scivolare sul pavimento viscido.
«Mi
hai sentito,» replicò l’altro, che dal
tono stava sicuramente
sogghignando a tutto spiano. «A quanto pare la vostra
chiacchierata
a Washington è servita… non so cosa gli hai
promesso, e non voglio
saperlo, ma l’ha convinto a firmare e la licenza è
valida ad
effetto immediato,» spiegò a macchinetta,
lasciando Tony in un
soffuso stupore e con un sorriso sempre più ampio stampato
in
faccia.
«Immediato?»
ripeté un po’ stolidamente.
«Cioè… insomma… posso uscire
adesso?»
si sincerò, temendo di aver capito male sotto lo scroscio
dell’acqua, e per prevenire fraintendimenti la chiuse,
rimanendo in
attesa di una risposta con lo sgocciolio residuo a fare da sottofondo.
«Intanto
esci dalla doccia, e firma il documento elettronico che ti ho
inviato,» lo incitò il ragazzo. «Poi,
sarai un uomo libero,»
concluse con innegabile soddisfazione.
Tony
non se lo fece ripetere, e due minuti dopo era seduto sul piano del
bagno con le gambe penzoloni e l’accappatoio addosso, intento
a
scorrere un ologramma del documento in questione. Non era sua
abitudine leggere qualcosa prima di firmarlo, ma in questo caso si
impegnò addirittura a visionare clausole e note a
piè di pagina per
fugare ogni dubbio, mentre Kyle attendeva pazientemente in linea.
«Siamo
sicuri che
non sia un bluff,
vero?» insistette per la quinta volta, e il quinto sospiro di
Kyle fece
eco alla sua domanda, stavolta seguito da una risposta.
«Stark,
ho visionato quel documento
almeno una ventina di volte, ho
controllato ogni postilla,
appendice e comma esistente e mi sono
sorbito un’ora
e mezza al telefono con Knight per
assicurarmi che
lascerà cadere l’accusa riguardante le
protesi,» sciorinò
l’altro, palesemente seccato per quell’ultimo,
ingrato compito.
«Ti
sei decisamente meritato quella statua, K,»
commentò Tony a mezza
voce, continuando a rigirarsi in mano l’agglomerato di pixel
olografici. «E anche un altro paio di diavolerie che spero di
completare presto,» aggiunse, e poté quasi sentire
l’aspettativa
di Kyle crescere attraverso la linea telefonica.
Si
sentiva un po’ meschino a far finta che tutto procedesse al
meglio,
ma si stava davvero
impegnando a progettare i tutori per Kyle, tentando di aggirare tutte
le problematiche poste dai reattori, e sperava di realizzarne almeno
un prototipo prima di…
Sbuffò
tra sé, passandosi la mano tra i capelli a districarne le
ciocche
umide. Kyle non si era sorpreso più di tanto quando gli
aveva
rivelato le sue condizioni di salute, confermando semplicemente un
sospetto che aveva da tempo, e Tony aveva apprezzato il fatto che si
fosse sprecato molto poco in commiserazione e molto di più
nel
cercare di rendergli quell’ultimo periodo un po’
più sereno dal
punto di vista legale. Aveva fatto miracoli all’ultima
udienza,
annichilendo Knight e rendendolo quasi del tutto libero dalle grinfie
del governo, non fosse per la questione del controllo di Iron Man, a
cui spettava allo SHIELD porre un freno. In quell’anno e
mezzo
l’aveva salvato innumerevoli volte, scampandogli
probabilmente una
condanna severa che avrebbe anche potuto spedirlo a marcire per un
decennio a Seagate, e tanti saluti all’uomo di ferro. Non
riuscire a
ripagarlo a dovere come gli aveva promesso lo crucciava molto
più di
quanto volesse ammettere, ma Kyle, sebbene riponesse innegabilmente
molte speranze nel suo lavoro, non sembrava intenzionato a
colpevolizzarlo, e si era anzi raccomandato di concentrarsi sul nuovo
reattore. Tony, dal canto suo, non era mai stato così
contento di
aver avviato ufficialmente il Progetto Phoenix, garantendo
all’amico
almeno una chance futura di riprendere a camminare.
«Stark,
sei ancora lì?»
Tony
si rese conto di essere rimasto troppo a lungo in silenzio, e si
riscosse in fretta dai suoi pensieri.
«Sì,
anche se credo di essere sotto shock,» buttò
lì con leggerezza,
pur non riuscendo del tutto a mascherare il suo tono un po’
più
cupo.
«Allora
sbrigati a firmare, così puoi dare una bella notizia alla
tua
rossa,» suggerì smaliziato l’altro,
facendogli scuotere appena la
testa mentre ingrandiva il documento.
Alzò
la sinistra a mezz’aria, ormai per abitudine, poi ci
ripensò con
un mezzo sorrisetto e tracciò la firma
nell’apposita casella con
l’indice della destra. Dubitava di aver mai scritto il
proprio nome
in modo più storto, illeggibile e poco elegante, ma non si
era
neanche mai sentito più soddisfatto di aver firmato un
documento
legale in vita sua: Pepper sarebbe davvero stata fiera di lui. E
a quel proposito, Kyle aveva ragione: era un bel po’ che non
le
dava una bella notizia.
Così ringraziò
l’avvocato, si affrettò
ad asciugarsi e rivestirsi, e uscì rapido dal bagno per
porre
rimedio
al più presto.
***
Ovviamente,
Tony contò sul fatto che l’imbarazzante incontro
di
un’ora
prima fosse magicamente evaporato dalla memoria di Pepper, quando
scese al piano di sotto per cercarla. Si fermò ai piedi
delle scale,
picchiettando a terra il bastone da passeggio mentre si guardava
attorno perplesso, senza scorgere traccia della sua… i suoi
pensieri si arrestarono bruscamente quando gli mancò il
termine
esatto per definirla. S’impegnò a smettere di
cercarlo per
evitare di farsi venire un mal di testa proprio oggi che si sentiva
così bene.
«Pep?»
chiamò infine a voce alta, senza ottenere risposta.
«La
signorina Potts è uscita poco fa per recarsi alle
Industries,» gli
ricordò JARVIS, strappandogli un sospiro insoddisfatto.
Avrebbe
voluto annunciarle la novità di persona, soprattutto dopo
tutti i buoni
propositi che si era imposto la notte prima, ma avrebbe dovuto
aspettare il suo ritorno, sperando che la mole di lavoro non la
trattenesse alle Industries fino a sera – cosa che in
realtà
accadeva spesso da quando avevano inaugurato la Expo.
Sbuffò
di nuovo, e il picchiettio del legno sul pavimento in marmo si
ripeté più
veloce, a rispecchiare la sua insofferenza. Continuava a lanciare
occhiate fuori dalla vetrata realizzando con chiarezza crescente che,
in quel momento, avrebbe semplicemente potuto imboccare la porta di
casa da solo e recarsi ovunque avesse voluto senza timore di
infrangere la legge. Magari si sarebbe attirato molti, troppi sguardi
curiosi, ma i raggi caldi del sole che filtravano in salone
iniziavano ad esercitare su di lui un’attrazione difficile da
contrastare. Gli fu chiaro che non sarebbe mai riuscito ad aspettare
fino al giorno dopo per uscire, così come gli fu chiaro che
non era
più il miliardario playboy che faceva mostra di
sé ovunque andasse,
beandosi dell’ammirazione altrui. Al contrario, avrebbe
volentieri
fatto a meno della sua notorietà… ma tenere un
basso profilo non
gli sarebbe comunque stato possibile, con una benda in faccia e la
vistosa mano meccanica che sbucava a tradimento dal polsino.
Tentennò
sul posto, combattuto, mentre lasciava vagare lo sguardo qua e
là
con fare innervosito. Si sentiva sempre più soffocare dalle
ampie
mura della villa che adesso gli sembravano comunque troppo strette,
dopo averci passato l’ultimo anno e passa. Si
soffermò
automaticamente sulla porta dello studio sulla parete di fondo, in
parte perché l’incubo della notte precedente lo
teneva ancora
sulle spine, in parte perché pensare all’archivio
di suo padre gli
richiamava inevitabilmente quello nella sua testa in cui aveva
stipato tutti i ricordi che nell’ultimo periodo avevano
iniziato a
trapelare contro la sua volontà. Il robottino rosso era
ormai
destinato a sedimentarsi sul fondo del mare, ma rimanevano ancora
molte istantanee ad affollargli la mente. Nel
suo passato c’erano ancora delle porte da chiudere, o forse
da
aprire, e altrettanti punti fermi da mettere.
Meditò
ancora per cinque minuti buoni, avvicinandosi di mezzo passo alla
volta a quella porta che aveva varcato più spesso in un anno
che in
una vita intera; a metà strada si arrestò,
gettò fuori un sonoro
sospirò e cavò fuori di tasca il cellulare,
scorrendo rapido la
lista dei contatti per poi avviare la chiamata.
Il
secondo squillo s’interruppe a metà:
«Stark?
Che ha combinato?» lo interpellò una voce
oscillante tra il
perplesso e l’allarmato che gli suscitò un
sorrisetto.
«Io?
Nulla, Agente,» replicò, esagerando
l’intonazione da bimbo
innocente. «Ma credo di avere un bel po’ di
scartoffie da
smaltire, e pensavo che lo SHIELD sarebbe stato felice di ampliare i
suoi archivi con materiale inedito,» sciorinò a
colpo sicuro,
recuperando nel frattempo la chiave dello studio e varcandone poi la
soglia polverosa.
«Materiale?»
il cigolio inconfondibile di una sedia da ufficio riempì il
breve
silenzio mentre Coulson tentava di raccapezzarsi. «Che tipo
di
materiale?»
«Il
tipo che starebbe meglio rinchiuso al sicuro in un caveau
dello SHIELD, piuttosto che nell’ex-ufficio fatiscente di mio
padre.» Fece
una pausa a effetto, tamburellando le dita meccaniche sullo stipite
mentre la lampadina appesa al soffitto sfrigolava, stentando ad
accendersi. «Con qualche chicca extra sul suo eroe a stelle e
strisce preferito. Le interessa?» continuò con
fare saputo, certo
di essersi già conquistato l’attenzione
dell’Agente.
«Di
quanto materiale stiamo parlando?» indagò infatti
Coulson, celando
abbastanza malamente la propria curiosità.
Lo
sguardo di Tony si spostò sulle instabili pile di fascicoli,
dossier
e raccoglitori accatastati sul pavimento, prendendo infine atto della
loro mole complessiva non indifferente.
«Abbastanza
per riempire, diciamo… il bagagliaio della mia R8 senza
comprometterne la tenuta di strada,» stimò infine,
con vivacità.
Udì
un sospiro dall’altro capo.
«Stark,
che diavolo ha intenzione di–»
«Agente,
è libero oggi pomeriggio?»
***
13 Maggio, Santa Monica, 11:30
I
cimiteri si assomigliavano un po’ tutti.
Non
che Tony avesse molta esperienza in materia, ma quella gli sembrava
una nozione abbastanza scontata, considerando che i parametri
rispettati dovevano essere necessariamente sempre gli stessi: lapidi
ordinatamente schierate, alberi e arbusti a stemperare i riflessi
freddi del marmo, prati ben curati che attutivano i passi, e una sorta
di contratto non scritto che imponeva una maggioranza di belle
giornate di sole per le visite ai propri cari – in contrasto
con
quello per una pioggerellina fitta e insistente per i funerali.
Il
Woodlawn Memorial non faceva eccezione, se non per la
particolarità
di essere punteggiato da alte palme dal fusto oscillante, oltre che
dai classici abeti, pioppi e cipressi.
Tony
stava temporeggiando da due minuti buoni nella sottile fascia
d’ombra
del muro di cinta, ad appena qualche passo dal cancello principale.
Si risistemò gli occhiali da sole che continuavano a
scivolargli sul
naso, complice il sole impietoso del mezzogiorno californiano, per
poi lanciare un’occhiata circospetta alle sue spalle, come se
ci
fosse qualcuno ad osservare la sua indecisione. Tutto ciò
che vide
fu la sua Audi bianca parcheggiata dall’altro lato della
strada, in quel
momento fin troppo invitante. Scacciò la tensione dal suo
petto dopo molti minuti di respiri controllati, finché non
si sentì del tutto padrone di se stesso.
Mosse
il primo passo quasi in trance, ripercorrendo le orme invisibili che
aveva lasciato diciotto anni prima. Non era mai tornato lì
dopo il
funerale. Dieci anni prima, con Rhodey, era riuscito ad arrivare fino
a Santa Monica, per poi evitare il cimitero e rifugiarsi nel primo
bar a portata di mano. Un’altra volta, più
recente, era arrivato
fino al cancello ed era rimasto lì, con una mano poggiata
sulla
presenza estranea del reattore infisso di fresco nel proprio petto.
Aveva
rimandato, sempre, prima per rabbia, poi per paura, ultimamente per
una consapevolezza che aveva ormai interiorizzato, ma che non voleva
concretizzare nella forma di una lapide fredda e definitiva. Accelerò
il passo, il mazzo di fiori stretto in una mano e il bastone
nell’altra, anche se avrebbe voluto dirigersi nella direzione
opposta.
Il percorso tracciato quell’unica volta era
cristallino
nella sua memoria troppo minuziosa. Si fermò a colpo sicuro
all’ombra di un pioppo, e lasciò ricadere i fiori
a sfiorare i
fili d’erba un po’ troppo alti. La lapide era
sobria, elegante
nella sua semplicità; solo la fattura del marmo chiaro e
pregiato
lasciava intuire la ricchezza dei proprietari. Una pianta
d’edera
ben curata la incorniciava, seguendone le linee ondulate, col verde
vivace in contrasto con lo sfondo bianco ormai un po’
scurito. In
un cartiglio, sopra ai nomi dei suoi genitori, campeggiava quello di
famiglia: Stark,
nero su bianco. Quasi un ammonimento, così come lo spazio
lasciato
vuoto alla base della lapide. Sotto il cartiglio, in caratteri
sottili e delicati, una citazione: il
domani appartiene a chi si prepara ad affrontarlo oggi. A leggerla, gli sembrava di sentirla recitare
dalla voce bassa e
un po’ roca di suo padre, sovrapposta ai suoi mille detti per
ogni
occasione. Nessuna foto: stupidamente, da ragazzo non aveva voluto
scegliere
neanche quelle per il funerale. Si trovò a cercare gli occhi
castani
e caldi di sua madre, ma incontrò solo la pietra fredda e
venata di
un grigio perlaceo.
Strinse il mazzo di fiori nella mano, rimanendo
immobile, muto.
Si
chiese se dovesse dire qualcosa, se avesse senso salutarli, o se
magari bastasse lasciar scorrere i pensieri per trovare una
connessione, o qualunque cosa cercasse la gente quando si piazzava
davanti a una tomba. Non era ben certo di cosa stesse cercando lui,
ma era abbastanza sicuro di dover posare quei fiori là
davanti, e di
doversi togliere gli occhiali da sole. Adagiò le calle e i
gigli
candidi ai piedi del marmo, sul basamento di marmo più
scuro, per poi
sfilarsi i Ray-Ban e appuntarli
sul taschino della camicia. Rimase accovacciato sul ginocchio
meccanico con lo sguardo all’altezza dei loro nomi.
Maria
Carbonell Stark.
Howard
A. Stark.
Li
lesse più volte, come se non li conoscesse, come se ripetere
quelle
lettere incise su una lapide potesse donare loro un qualche significato
aggiuntivo rispetto a leggerle in un giornale o su un documento. A
posteriori, era lieto di non aver fatto scrivere per esteso il nome
che condivideva con suo padre. All’epoca era stata una
questione di
principio, un ultimo atto di rifiuto verso di lui. Adesso la cosa
aveva sottintesi più tetri. Toccò coi
polpastrelli sensibili lo
spazio vuoto sotto i suoi genitori, percependo la superficie levigata
e fresca nonostante il sole a picco che trapelava oltre le fronde del
pioppo, creando tenui giochi di luce liquida sul bianco.
Tirò le labbra,
passando a sfiorare i solchi delle lettere già incise, della
stella
e della croce accanto ai numeri di ciascuno, tutti più
dolorosi e
allo stesso rassicuranti di quella porzione intonsa che sembrava in sua
attesa.
Si
arrischiò a portare la mano metallica a contatto col marmo,
come se
quel gesto potesse rivelare un’informazione in più
su di sé e
metterli a conoscenza di ciò che gli era successo, per
quanto
considerasse assurda e irrazionale quell’idea. Era uno
scienziato,
un fisico: non credeva nell’aldilà e non aveva
alcuna ragione per
farlo. Eppure, mantenne la protesi a contatto con i loro nomi
– con
loro
– e si impegnò a formulare un pensiero
più definito degli stralci
intermittenti che gli stavano attraversando la testa. Tutti
inesprimibili a parole, né semplici da condensare in
concetti di
senso compiuto.
I
colori sembravano frammentarsi in mille immagini, in ciascuna delle
quali i suoni si accavallavano con gli odori e i sapori si
mescolavano con il tatto. Così pensava alle estati a Malibu
e
non vedeva solo l’oceano immutato, ma sentiva la carezza del
vento
fresco in faccia, che gli faceva assaggiare il mare nella bocca e
aspirare il sale nei polmoni mentre correva tra gli schizzi sul
bagnasciuga, trascinando per mano sua madre sorridente. Pensava al
laboratorio e subito percepiva il saldatore tiepido tra le dita, la
pressione degli occhiali protettivi sul volto e l’odore di
stagno
liquefatto, assieme alla mano forte di suo padre che racchiudeva la
sua, correggendola burberamente e in tono brusco, ma senza mai
stringere troppo nonostante la presa salda e callosa. Pensava alle
note lontane di un pianoforte e subito vedeva i ricami di fiordalisi
sul vestito di sua madre, percepiva quella lieve essenza di rosa che
portava sempre con sé e che non aveva mai capito se fosse
acqua di
colonia o il suo profumo naturale, sentiva le sue labbra che gli
lasciavano un bacio sulla guancia a tre anni, a dieci, a sedici, a
ventuno, e non aveva mai pensato che sarebbe arrivato un ultimo, anche
se l'ultimo era proprio quello che ricordava più
chiaramente. Da
suo padre, non c’era stato nemmeno un primo.
Passò
le dita su quel numero fatidico, 1991, quasi a volerlo cancellare,
per poi rendersi conto della futilità del gesto.
Inspirò a fondo,
coi polmoni più ampi che accettarono grati quel ricambio
d’ossigeno,
pur consapevoli della gabbia che ancora li imprigionava. Si
portò
d’istinto la mano libera al reattore. Per un momento
sperò che,
dovunque fossero, non potessero vederlo e al contempo, intensamente,
sperò anche l’opposto. Sua madre si sarebbe
addolorata, a saperlo in quelle condizioni, ma si sarebbe anche
rallegrata nel vedere tutto ciò che aveva
realizzato, il modo in cui era cambiato in tutti quegli anni; sarebbe
stata lusingata della September Foundation, sarebbe stata orgogliosa di
lui, avrebbe acclamato i suoi
successi come aveva sempre fatto.
Probabilmente l’avrebbe anche redarguito per aver
temporeggiato
così a lungo con Pepper. E per averle distrutto il
pianoforte.
Suo
padre… non riusciva a mettere a fuoco la sua reazione.
Sgomento?
Rifiuto? Forse una punta di dispiacere, ben camuffata sotto rigidi
strati di rughe severe – era suo figlio, doveva
essere
così, era una legge naturale. Magari anche senso di colpa
–
ingiustificato, ma da qualcuno doveva pur aver preso –
perché non
aveva inventato il reattore per salvare e
uccidere suo figlio. Forse sarebbe anche stato fiero
di lui, per una
volta.
Mille domande gli si intrecciarono in testa:
cosa ne avrebbe pensato di Iron Man? Avrebbe apprezzato
l’idea
della Expo e avrebbe approvato il suo retaggio? E le protesi
– le
avrebbe considerate un’aberrazione o un passo verso il
futuro? Le
avrebbe odiate perché sfiguravano suo figlio o ne avrebbe
visto
l’utilità? Lo avrebbe accettato così
com’era, quando non era
riuscito a farlo per ventun anni?
Il cuore iniziò a martellargli nel
petto, accelerando appena, finché non intervenne la voce
ovattata di
sua madre a placare quelle congetture, ad abbracciarlo a prescindere
dalla sua altezza, o età, o aspetto. Lo aveva sempre fatto,
dicendogli che Howard lo rimproverava ad alta voce per poi lodarlo
in disparte; che lo ignorava in sua presenza ma parlava di lui in sua
assenza; che pareva quasi evitarlo quando era a casa, ma chiedeva a
lei con finta indifferenza quando sarebbe tornato dal collegio o dal
MIT per le vacanze. Lui non ci aveva mai creduto, bollando il tutto
come una menzogna per salvarlo ai suoi occhi, per illuderlo di un
affetto che non aveva mai ricevuto sulla propria pelle. E sua madre non
aveva mai davvero provato a colmare il vuoto tra loro, o a rimproverare
suo
padre. La ricordava come il centro del proprio mondo, il sole attorno
al quale ruotava la propria esistenza; ma ogni volta che c'era suo
padre quel sole si oscurava, eclissato, e lui stesso sprofondava nella
sua ombra.
Adesso vedeva una logica nelle azioni dei suoi genitori, per quanto non
sempre giustificabile; e per quanto la
distanza tra lui e suo padre rimanesse incolmabile, la sentiva un
po’
meno dolorosa e insondabile. Forse anche sopportabile.
Fissò di nuovo i nomi di sua madre e di suo padre,
chiedendosi se fosse giusto accettare i loro difetti solo quando aveva
scoperto i propri, e se fosse una beffa del caso accettarne la morte
proprio adesso che lui riusciva a scorgerla sul suo cammino. Non
ritenne sensato darsi risposta. Aveva
pensato di venire lì per aprire
una porta o per chiuderla, un qualcosa che in quel periodo si stava
impegnando a fare con dedizione. Si rendeva conto solo ora che non
c’era alcuna porta: quella che aveva davanti era una semplice
soglia. Ciò la rendeva solo più spaventosa, e il
pensiero gli causò
un vuoto allo stomaco. Si affrettò a
scacciare quell’immagine
troppo evocativa, stemperata dal fatto che forse, contro tutta la sua
logica ferrea e leggi scientifiche, dall'altra parte ci sarebbe stato
qualcuno ad aspettarlo.
Sfiorò di nuovo i nomi, schiudendo
la bocca senza produrne alcun suono. Quelle
parole semplici e fondamentali gli rimasero ancora una volta incastrate
in gola,
trattenute dalla rete dei suoi stessi pensieri. Gliene
sfuggì
un’altra, anch’essa silenziosa, un
“grazie” che aveva pensato per la maggior parte
della sua infanzia, mentre suonava un pianoforte sotto gli
occhi di
sua madre o ammirava gli armeggi di suo padre in laboratorio, e che
forse aveva poi formulato altre volte due anni prima,
quando l’unica luce a
rischiarare la grotta era stata quella azzurrina che gli aveva
regalato suo padre.
Fissò
la lapide, sentendosi smarrito ma anche insolitamente calmo, con
altri ricordi dolceamari che lo lambivano ritmicamente, come una
risacca continua e pacifica a cui non avrebbe voluto sottrarsi.
Inforcò
di nuovo gli occhiali da sole, adocchiando un’ultima volta lo
spazio vuoto che sembrava fissarlo di rimando dal marmo lucido della
tomba, e sollevò il mento quasi con sfida verso quella
soglia ormai
terribilmente vicina, a cui però si rifiutava di consegnarsi
già
da adesso.
Si
rialzò in piedi, con una lieve fitta al moncherino per la
posizione
scomoda tenuta troppo a lungo. Non sapeva quantificare quanto tempo
fosse rimasto lì, ma per essere la prima volta in
diciott’anni gli
sembrava abbastanza.
Allungò
un’ultima volta la mano sensibile verso la lapide,
accarezzandone
il profilo ricoperto d’edera, per poi staccarsene riluttante,
e al
contempo sollevato.
Si avviò fuori dal cimitero con passo più
lieve, come se una parte di lui fosse rimasta inginocchiata
là
davanti, a continuare un discorso rimasto a lungo in sospeso.
***
13 Maggio, Santa Monica, 13:30
Essendo
un infrasettimanale, a quell’ora non c’era molto
viavai sul
lungomare, occupato solo da un gruppetto di adolescenti che aveva
preferito la spiaggia alla scuola, qualche coppietta a braccetto, e
sporadici
atleti intenti a fare jogging a dispetto della temperatura
già
infernale nonostante fosse solo maggio. Anche il bancone e i tavoli
all’aperto di Perry’s contavano pochi avventori,
per lo più
pensionati in cerca di un po’ di refrigerio e di una partita
a
poker a due passi dall’oceano.
Tony
si attirò non pochi sguardi nell’attraversare il
piazzale
antistante il locale, ma nessuno lo importunò, anche se
intravide un
passante sfoderare spudoratamente il proprio telefono per
immortalarlo. Lo ignorò, calcandosi per bene gli occhiali da
sole in
faccia e ignorando la scossa di disagio che sembrava tirarlo per la
giacca, indirizzandolo verso la sua auto per tornare a casa, al
riparo da sguardi estranei. Trattenne quell’impulso, e anche
quello
di slacciare un altro bottone della camicia, per non rischiare di
scoprire accidentalmente le venature plumbee sottostanti. La sua
insofferenza al caldo non era scemata, ma si rassegnò a
tollerarlo
in silenzio: preferiva cuocere a fuoco lento nel suo completo di lino a
maniche lunghe, piuttosto che scoprire un centimetro di troppo del
braccio meccanico.
Si
accostò al bancone, preannunciato dal ticchettio che
accompagnava i
suoi passi, e richiamò l’attenzione del barman
voltato di spalle
battendo sul piano di legno con le nocche metalliche. L’uomo
si girò, rimase per un secondo
bloccato dallo stupore con uno shaker a mezz’aria, e si
aprì poi in
un sorriso incredulo.
«Signor
Stark!» lo accolse, facendoglisi incontro. «Non mi
aspettavo di
rivederla,» confessò, non potendo fare a meno di
adocchiare
fugacemente la mano artificiale posata sul bancone, ma Tony non se ne
ebbe a male.
«Tendo
sempre a sovvertire le aspettative,» replicò
invece con un mezzo
sorrisetto compiaciuto, sedendosi sullo sgabello.
Nei
mesi estivi, quando gli capitava di essere a Santa Monica, era una
sorta di habitué
di quel bar un po’ sgangherato. Non era il tipo
di posto dove ci si sarebbe aspettati di trovare Tony Stark, e Perry,
un omone hawaiano tatuato, baffuto, con un bandana perennemente
legata in testa e una Harley parcheggiata lì accanto a
confermare
gli stereotipi, si era sempre impegnato a non diffondere troppo la
voce.
«Cosa
beve? Offre la casa,» arrivò subito al dunque,
senza perdersi in
chiacchiere come suo solito, ma evidentemente contento di aver
recuperato un cliente del suo calibro.
«Un
Tequila Sunrise,» accettò un po’
colpevole Tony, conscio
che non avrebbe dovuto bere, ma ignorando in blocco il suo buonsenso e
i
moniti di Ian. «E un cheeseburger,» aggiunse,
concludendo che non
potesse esserci cibo migliore per celebrare una riacquistata
libertà.
Un
quarto d’ora dopo, era intento a testare i propri nervi nel
riuscire
a mangiare senza dare spettacolo, ovvero limitando al minimo
l’uso
della protesi per evitare disastri e sguardi indiscreti. Non se la
stava cavando così male, ed era lieto che, tra un ordine e
l’altro,
Perry fulminasse con lo sguardo chiunque lo fissasse troppo a lungo.
Così si sarebbe almeno risparmiato di attivare il suo
sarcasmo
devastante e molto poco politicamente corretto per scrollarsi di
dosso i curiosi.
A
metà del suo cheeseburger si vide comparire a sorpresa un
Mojito
sotto al naso, al che fu costretto a richiamare il barman con un
sospiro.
«Perry,
grazie, ma non
l’ho ordinato,»
disse controvoglia.
«Glielo
offre quel signore laggiù,»
replicò l'altro, accennando dietro di lui.
Tony
si voltò, inquadrando un vecchietto dai capelli bianchi
tirati
indietro con la brillantina e la bocca sormontata paio di baffetti
curati.
L’impressione
di serietà era stemperata dagli ampi Ray-Ban dalle lenti
arancioni
che spiccavano sul suo largo naso, e dalla maglietta con la stampa a
colori
vivaci “Legends
Never Die”. Vedendosi indicato,
sfoggiò un ampio
sogghigno e sollevò il proprio bicchiere nella sua
direzione, in un
brindisi che Tony ricambiò un po’ incerto a
mo’ di
ringraziamento, col volto incrinato a sua volta da un mezzo
sorrisetto.
Si
voltò di nuovo ed esitò prima di bere, per poi
pensare che non
sarebbe certo stato quello strappo alla regola ad ucciderlo. Stava
giusto per prendere il primo sorso, quando si vide sfilare il
bicchiere da sotto il naso con la stessa rapidità con cui
era
comparso. Sollevò
la testa, già pronto a infuriarsi per un qualche scherzo di
cattivo
gusto, e si trovò a fissare due occhi molto verdi e molto
divertiti,
incorniciati da folti capelli rossi.
«Buon
Dio!» sbottò, ritraendosi e sobbalzando per la
sorpresa, e Nataša
accolse quella reazione con un sorrisino un po’ perfido.
«Ciao,
Stark,» lo salutò, sorseggiando tranquilla il suo
drink. «Tutto
bene?»
«Non
se mi fai prendere un infarto,» soffiò lui,
portandosi una mano al
petto con fare teatrale.
Scrutò
la donna, in borghese con una semplice camicetta color sabbia e un
paio di jeans, e con i capelli più corti rispetto
all’ultima volta
che l’aveva vista. Il suo volto era illeggibile come sempre,
se non
per l’espressione furbetta che faceva capolino nella piega
delle
sue labbra. A parte la sua comparsa decisamente poco delicata, era
contento di vederla.
«Cos’è,
Coulson ha dato buca?» si riprese infine Tony, scrollando la
testa
prima di addentare ciò che rimaneva del panino.
«Le
sembro il tipo che dà buca?»
A
Tony quasi andò di traverso il boccone nel vedersi comparire
l’Agente dall’altro lato, ma riuscì a
non soffocarsi e a non
terminare la propria carriera riverso sul bancone di un bar come gli
era sempre stato pronosticato. Deglutì, un po’
rosso in volto.
«La mia salute è già precaria, vedete
di non accelerare il
processo,» sbottò, con umorismo un po’
nero, sfoggiando un
sorrisetto nel vedere il cambio d’espressione sui loro volti
a far loro capire che li stava prendendo in giro.
Coulson
era come sempre impeccabile nel suo sobrio completo nero, che passava
però molto poco inosservato in quella località
balneare. Si lanciò
un’occhiata attorno, constatando che a quel punto avevano
decisamente attirato l’attenzione degli avventori –
e dire che
quei due dovevano essere spie d’alto livello.
«Cambiamo
aria,» bofonchiò, per poi scivolare giù
dallo
sgabello e lasciare di
nascosto una generosa mancia a Perry, che altrimenti non
l’avrebbe
mai accettata.
Si
avviarono senza parlare verso la sua auto, che aveva lasciato nei
pressi del pontile per farsi una passeggiata. La brezza era tesa, ma
non fastidiosa, e gli spazzava indietro i capelli in modo piacevole,
quasi a ricordargli cosa si provasse a stare all’aria aperta.
Dopo
un centinaio di metri, notò che Nataša aveva
un’espressione
innegabilmente soddisfatta stampata in volto, e la sorprese ad
occhieggiare i suoi passi zoppicanti con occhio attento, al che si
lasciò sfuggire un sogghigno.
«Sono
migliorato?» la stuzzicò, azzardando un volteggio
col bastone
mentre camminava più impettito.
«Discretamente,»
gli concesse, senza sbilanciarsi. «Hai fatto
esercizio?»
«Non
molto, in realtà,» confessò Tony, un
po’ reticente a spiegarne
il motivo.
Nataša
sembrò intuirlo lo stesso, perché
adocchiò il reattore e non
insistette, per poi dargli un leggero spintone.
«Lavativo,»
lo rimbrottò.
Tony si limitò ad alzare le
spalle, accettando
quell’accusa giocosa, che allontanava discorsi troppo cupi da
fare
sotto quel sole incastonato in un cielo sgombro da nubi. Coulson
li osservava, pacato ed enigmatico come sempre, e Tony si
trovò
ancora una volta a sorprendersi per il fatto che si fosse presentato
lì nonostante lo scarso anticipo.
«Era
a Portland anche oggi, Agente?» chiese sfacciato, quando fu
costretto a rallentare un po’ il passo per una fitta molesta.
«Crede
che sarei qui, se fossi stato a Portland?» sollevò
le sopracciglia
lui.
«Non
so se posso fare concorrenza a Audrey,» ammise, storcendo la
bocca
insoddisfatto.
«Tu,
invece? Come mai da solo?» indagò
Nataša, con altrettanta poca
discrezione e cogliendo la palla al balzo.
Tony
esitò, ringraziando gli occhiali che celavano il suo
sguardo,
per poi rinunciare a svicolare alla domanda.
«Pepper
è impegnata alle Industries. In realtà non sa
neanche della
licenza, e di conseguenza…»
«…
non sa che sei qui,» concluse Nataša, quasi
rassegnata.
«Povera
donna,» chiosò l’altro. «Spero
che tu sia raggiungibile,» aggiunse
in tono inquisitore.
Tony
annuì, evitando di rivelare di aver dimenticato
più o meno
volontariamente il telefono a casa. Non volle pensare al centinaio
di chiamate perse che doveva aver ricevuto da lei. Aveva voluto
quella mattinata solo per sé, senza interferenze esterne di
alcun
tipo. E dopotutto le aveva lasciato un biglietto: non era certo
così
scriteriato.
Arrivati
alla sua auto Tony aprì il portabagagli, nel quale erano
stipati gli
scatoloni con le scartoffie di suo padre e della SSR. Coulson
annuì,
interessato, scorrendo i titoli di qualche dossier –
casualmente proprio quelli sul Progetto: Rebirth.
«Allora,
accettate l’offerta o devo portare tutto al
macero?» li incalzò Tony.
«Certo...» borbottò Coulson, perso nella
lettura di un dossier del '45.
«Altro materiale da digitalizzare. Hill sarà
contenta,» commentò
poi, in un misto indecifrabile di rassegnazione e soddisfazione.
«Tu
no?» lo rimbeccò Nataša, a sua volta
non propriamente entusiasta
di fronte al nuovo carico di lavoro.
«Fury
di sicuro,» concluse l'agente, accigliato.
«“Grazie
per il pensiero, Tony, te ne saremo eternamente
grati”,» cinguettò
il suddetto alle loro spalle, incrociando le braccia con fare
risentito.
«Ci
saranno davvero
utili,» lo rassicurò
Nataša, alzando gli occhi al
cielo. «Per te lo sono stati?» chiese poi, in tono
eloquente.
«Marginalmente,»
sviò lui, ticchettando a terra col bastone e fissandosi la
punta
delle scarpe, prima di superare la donna e salire al posto di guida per
troncare la questione. «Siete venuti da comuni mortali o
c’è un
Quinjet nascosto da qualche parte?» cambiò
discorso poi, avviando
il motore e facendo loro cenno di salire.
«Lola
è parcheggiata in città,» lo
indirizzò Coulson, sporgendosi da
dietro con uno sguardo preoccupato alla sua mano
meccanica sul volante.
Tony
sospirò, staccò platealmente entrambe le mani e
lasciò che la
macchina partisse in modalità automatica, riservandogli uno
sguardo
seccato dallo specchietto retrovisore; colse Nataša
sogghignare tra
sé per quello scambio silenzioso, e cercò di
stemperare un po’ il
suo cipiglio.
Venti
minuti dopo, avevano finito di trasferire gli scatoloni nel cofano di
Lola, e
Tony si apprestò a salutarli sbrigativamente per fare
ritorno alla villa, prima che
Pepper si preoccupasse troppo. Si era incupito, non sapeva dire
neanche lui perché; forse il ripensare alle ore perse a
scartabellare inutilmente l’archivio di suo padre
l’aveva irritato, o forse
era solo il palladio che influiva sul suo umore. Prima che potesse
congedarsi, Coulson gli fece cenno di aspettare.
«Ho
anch’io qualcosa per lei,» annunciò,
chinandosi oltre la portiera
per prelevare una scatola dal sedile del passeggero.
Lo
sguardo di Tony fu subito attratto dal simbolo dello SHIELD impresso
sul coperchio.
«Cos’ha
per me, Agente? Prove scomode per macchiarmi la reputazione?»
buttò
lì, celando la propria curiosità e incrociando le
mani dietro la
schiena per evitare di prendere direttamente la scatola.
Coulson
intuì la sua riluttanza e si limitò a poggiarle
nella sua macchina
con un sospiro, mentre Nataša aspettava poggiata sul muso di
Lola.
«Materiale
saltato fuori durante la digitalizzazione. Ho pensato che le avrebbe
fatto piacere riaverlo.»
Tony
aggrottò le sopracciglia e adocchiò meglio la
scatola. Mascherò
con successo il secondo o terzo quasi-infarto della giornata quando
mise a
fuoco la scritta sul lato finora celato: “Proprietà
di H. Stark”.
Dovette frenare le proprie mani dall’aprirla qui e ora, e le
strinse invece sul bastone, simulando indifferenza.
«Che
genere di materiale?» chiese svogliato, fissando le lettere
del nome
di suo padre con un lieve effetto déjà-vu.
«Privato,»
fu tutto ciò che offrì Coulson. «Niente
che possa interessare allo
SHIELD. Credo che spetti a lei decidere cosa farne,»
esplicò
infine, vedendolo ancora scettico.
Tony
percepì la propria trepidazione scemare un poco, ma
scrollò le
spalle, senza esternare nulla di ciò che stava provando. Se
loro non
avevano trovato nulla d’interessante, non voleva dire che non
ci
fosse davvero
nulla. Avrebbe dovuto indagare più a fondo di persona. E
smettere di farsi così tante aspettative.
«Grazie,
suppongo… avevo bisogno di qualche altro memento di mio
padre in
giro,» minimizzò, stringendo poi la mano a Coulson
con la sinistra e stemperando il proprio commento un po' ingrato con un
tono ironico.
«Si
riguardi, Stark. Contiamo ancora su di lei,» si
congedò altrettanto
in fretta lui.
«Non
su Iron Man?» lo rimbeccò pronto, memore delle sue
parole.
«C’è
differenza?» sorrise l’altro sibillino,
già salendo in macchina,
e Tony si lasciò scappare di rimando un sorrisetto un
po’ stupito.
Nataša
gli si fece incontro con un istante d’esitazione, lo sguardo
basso e le braccia
incrociate sotto il seno, esattamente come quando l’aveva
salutato
alla fine della fisioterapia. Tony la scrutò sospettoso.
«Romanov,
se hai intenzione di mettermi KO con una delle tua mosse ninja,
non–»
Si
lasciò abbracciare, anche se aveva riconosciuto
l’intento e
avrebbe potuto scostarsi facilmente, ma ricevere un abbraccio da
Nataša era un evento epocale e non aveva intenzione di
rifiutarlo. A quel contatto percepì un lieve
picco di disagio che si sforzò di camuffare, anche se era
difficile
nascondere qualcosa alla spia.
«Noi
siamo sempre all’Helicarrier,» proferì
la donna, staccandosi dopo averlo
stretto un'ultima volta po’ più forte.
«Lo sai, no?»
«Lo
so,» confermò lui, con un piccolo sbuffo.
«Anch’io sono sempre
alla Villa,» aggiunse poi, alzando le spalle e stando al
gioco.
«Spero
che ora non ci sarai proprio sempre,»
gli ricordò lei, inclinando
le labbra in un raro sorriso, e Tony si limitò ad annuire in
risposta.
«Tra
un paio di settimane potrebbe venirmi voglia di organizzare una festa
coi fiocchi, in onore dei vecchi tempi,» si lasciò
sfuggire poi,
con vaghezza e un velo di mestizia nel pensare al suo compleanno ormai
così vicino. «Di’ al resto
della banda di
tenersi libero, o potrei davvero offendermi,»
scherzò poi,
alleggerendo le proprie parole.
Nataša annuì senza commentare, e Tony
poté giurare di aver visto i suoi
occhi farsi un po’ lucidi un attimo prima che si girasse
di scatto per risalire in macchina.
«Vedremo,
Stark,» gli disse soltanto, senza guardarlo, e lui lo
interpretò come un deciso sì.
«E
non combini disastri... se vuole festeggiare, la villa le serve
intera,» gli ricordò Coulson, prima di partire e
svoltare ben presto dietro il primo angolo.
Tony
si sedette a sua volta in macchina, senza mettere in moto e guardando
di sottecchi la scatola accanto a lui. Si costrinse a non aprirla, o
avrebbe finito per perdersi documenti di vitale importanza in giro
per Santa Monica.
Guardò
l’orologio, realizzando che erano quasi le quattro e che non
sarebbe arrivato a casa prima di un’altra mezz’ora.
Si lasciò
scorrere addosso la giornata e, a parte un velo di stanchezza e
qualche doloretto sopportabile, realizzò di sentirsi bene, a
dispetto della nottataccia trascorsa. Inspirò a fondo
l’aria
marina che s’inoltrava fino alle strade interne, e
tamburellò una
marcetta vivace sul volante, con un sorrisetto a tirargli le labbra
nel pensare a Pepper che probabilmente lo aspettava a casa. Si
sentì
stringere lo stomaco, ma non con la solita ansia: fu uno strattone
piacevole che gli trasmesse solo un quieto senso di aspettativa e
impazienza di rivederla, come quelle rare volte in cui era stato in un
viaggio d'affari in capo al mondo senza di lei.
Il
suo sorriso s’inclinò in una smorfia,
rammentandosi che forse lei
non l’avrebbe accolto proprio a braccia aperte, dopo un
giorno
d’assenza improvvisa e assolutamente ingiustificata passato
chissà
dove, lasciandola in apprensione per lui. Si grattò la nuca,
meditabondo e molto poco propenso a rovinare la giornata a entrambi per
una sua leggerezza,
ma un piano in verità molto semplice gli si formò
subito in testa,
convincendolo a girare la chiave per mettersi in marcia, con
un’espressione furbetta stampata in faccia.
Sapeva
esattamente come farsi perdonare.
Note Dell'Autrice:
Salve!
Sono in ritardo? Direi assolutamente di sì, ma tra esami vari, disguidi accademici e compagnia bella questo periodo è stato un disastro.
A parte i miei casini... la scena di Tony che visita i suoi è preventivata da circa sei mesi ed è una grande soddisfazione riuscire a portarla "sullo schermo". Spero che il modo in cui l'ho rappresentata vi sia piaciuto (ci tengo a specificare che non vi è un perdono totale nei confronti di Howard, piuttosto un abbandono del rancore).
Il capitolo, sebbene con molto ritardo, è dedicato a Stan Lee <3 Inserire un suo cameo nella storia subito dopo la sua morte sarebbe stato forzato, e ho preferito concedergli uno spazio più dignitoso, sperando anche di avervi sorpreso, come fa lui in ogni film Marvel :)
Ah, maliziosetti, se a inizio capitolo avete pensato male, avete pensato benissimo u.u
Per tutto il resto
Ringrazio T612, Emyclarinet, _Atlas_ ed Enigmista96 per aver recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno recentemente aggiunto la storia tra le seguite, preferite e ricordate <3 Non sapete quanto mi fate felice <3
Spero di riuscire ad aggiornare presto, e sicuramente non con così tanto ritardo come a questo giro :)
Un bacione e hasta la vista,
-Light-
P.S. La citazione sulla tomba degli Stark è da attribuire a Malcom X.
P.P.S. Il capitolo ha cambiato titolo un qualcosa come dieci volte, poi è arrivato il film Bohemian Rhapsody a ricordarmi che amo i Queen <3