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Autore: ___MoonLight    14/02/2019    4 recensioni
«Tu sei riuscito a creare qualcosa di buono, non solo per te stesso. Qualcosa in cui credi.»
Tony gli riservò solo un ostinato silenzio, al che Bruce esitò.
«Ci credi ancora, vero?»
«Che importanza ha? Ho mandato tutto in fumo,» replicò piattamente lui.
«Sei già rinato dalle ceneri, Tony. Davvero non puoi farlo ancora?»

L'Afghanistan ha segnato Tony e gli ha donato l'opportunità di cambiare in meglio la sua vita. Ma il destino ha tutte le intenzioni di mettergli nuovamente i bastoni tra le ruote, e l'immagine corazzata che si è costruito e dietro la quale tenta di riparare i torti commessi e quelli subiti non è più abbastanza per proteggerlo. Cosa succede quando l'uomo diventa davvero di ferro, anche senza armatura?
[Storia completa e revisionata]
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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The show must go on




"Tired of lying in the sunshine
Staying home to watch the rain
You are young and life is long
And there is time to kill today"

[Time – Pink Floyd]




13 Maggio, Pacific Highway, 10:45

Gigli o calle? Non ricordava quali preferisse, ma era sicuro che le piacessero entrambi.
Esitò ancora qualche istante davanti al chiosco sul ciglio della strada, sporgendosi fuori dall’Audi decappottabile e tendendo il collo per osservare meglio la schiera di mazzi, vasi e
bouquet che facevano bella mostra sul banchetto. Il fioraio continuava guardarlo fisso con ben poco tatto, neanche gli fosse atterrato davanti Thor, e Tony preferì pensare che fosse per la sua fama, piuttosto che per la mano meccanica che sporgeva dal polsino. Inclinò un poco gli occhiali da sole per mettere meglio a fuoco la scelta floreale, prima di sbuffare insoddisfatto.
«Senta, me li dia entrambi,» concluse, con un gesto verso i due mazzi di fiori bianchi.
Nel dirlo allungò un centone all’inserviente ancora sotto shock, che afferrò la banconota come una reliquia e gli tese in trance i due acquisti.
«Ecco, grazie… no, no, li poggi sul sedile, non mi piace che mi si porgano le cose,» si raccomandò concitato, schivando quell’approccio sgradito. «Tenga il resto e rinnovi la baracca,» disse poi riavviando l’auto, che inserì subito il pilota automatico al primo tocco dell’acceleratore.
«Ma lei è Iron Man?» gli gridò dietro il fioraio, adesso con un sorriso confuso.
«Ogni tanto!» rispose sogghignando Tony, ammiccando da dietro gli occhiali scuri, prima di ruotare il volante con la sinistra e imboccare di nuovo con un rombo la Pacific a picco sul mare.


***


13 Maggio, Villa Stark, tre ore prima…

Il getto della doccia si abbatté piacevolmente sulla sua schiena, rilassando a poco a poco i suoi muscoli contratti. Tony reclinò all’indietro la testa e lasciò che l’acqua calda gli bagnasse anche il volto e i capelli, chiudendolo in una bolla di tepore liquido e accogliente. Stimò di poter resistere in piedi senza appoggi per una ventina di minuti, visto che la protesi si stava dimostrando abbastanza collaborativa dopo l’iniezione di dilitio di quella mattina, che gli aveva anche allargato i polmoni e attenuato le fitte ai moncherini. Il reticolo sul suo petto era ancora visibile sottopelle, ma era impallidito, restringendosi e ritirando i suoi viluppi dalla zona circostante il collo. Poteva quasi fingere che non esistesse, se indossava una maglietta, o se, come adesso, teneva chiuso l’occhio senza abbassare lo sguardo, escludendo anche la luminescenza azzurrina del reattore.
Rimase in catalessi per ancora una decina di secondi, prima di cercare a tentoni lo shampoo per iniziare pigramente a lavarsi, godendosi quel rituale mattutino che lo rimetteva al mondo. Stare sotto la doccia era una delle azioni quotidiane che più gli era mancata durante il suo periodo di quasi-immobilità, e aveva sopportato molto male il fatto di farsi aiutare, di dover stare seduto per lavarsi, o peggio, di usare la vasca da bagno, salvo scoprire che quella era uno dei pochi metodi per alleviare le fitte ai moncherini. Dall’Afghanistan aveva sviluppato un astio represso per l’acqua ferma in generale, fomentato dai suoi incubi in fin di vita non esattamente rassicuranti, e se in passato poteva passare ore a crogiolarsi nella vasca tra schiuma, bolle e sali profumati, magari anche in dolce compagnia, adesso se ne teneva molto lontano e aveva ripreso a starsene il più possibile sotto la doccia non appena era stato in grado di reggersi sulle proprie gambe per più di cinque minuti.
In quel momento, dopo la nottata d’inferno appena passata e le tre ore scarse di sonno, aveva davvero bisogno di bearsi il più possibile sotto il getto d’acqua calda. Anche se, a pensarci bene, virare su una temperatura polare sarebbe stata più appropriato ed efficace, visto lo stato fisico che poco prima l’aveva spinto a dileguarsi dalla vista di Pepper accampando una scusa non molto credibile. Incrociarla a sorpresa in corridoio, appena uscita lei stessa dalla doccia e con addosso nient’altro che un accappatoio, apparentemente in ritardo catastrofico per i suoi appuntamenti alle Industries e perciò incurante del suo stato, non aveva esattamente mitigato la sua tipica “situazione mattutina”. Era svicolato in bagno in fretta e furia cercando di darle il più possibile la schiena, straparlando nel tentativo di mascherare l’inconveniente, e sperava segretamente che lei fosse stata troppo presa a celare a sua volta il proprio viso paonazzo e a tenersi stretto l’accappatoio per dare peso alle sue farneticazioni.
Si trovò a sospirare, sfregandosi le mani sul volto bagnato. Non sapeva bene come definire il loro rapporto, ma tra il suo corpo sfigurato e la decisa ansia che lo coglieva ogni volta che era nel raggio da un metro da lei, vestita o meno che fosse, era più che convinto che fosse troppo presto per qualunque cosa esulasse dal semplice starle vicino. In quei momenti si sentiva un bimbetto delle elementari, non un playboy navigato – e non era nemmeno colpa sua. Si strofinò con irritazione i capelli insaponati, come a scrollarsi di testa quei pensieri su cui non avrebbe dovuto soffermarsi: l’ultima cosa che desiderava era forzare una situazione già abbastanza forzata, almeno dal suo punto di vista. E se il suo corpo decideva di reagire per conto proprio a impulsi naturali, che lo facesse pure: sarebbe sopravvissuto all’imbarazzo, e poteva considerarlo un segno che forse almeno qualcosa di lui funzionasse ancora a dovere. Non aveva tempo, ma era sicuro – sperava – di averne abbastanza per affrontare anche quell'argomento con Pepper. Possibilmente non a parole, e in modi che non aveva intenzione di immaginare nel dettaglio adesso.
Fu provvidenzialmente distratto dalle sue elucubrazioni quando lo squillo del telefono trapassò la cappa di vapore in cui era avvolto, e se da una parte si sentì sollevato, dall’altra lanciò una maledizione contro chiunque lo stesse disturbando con così poco tempismo rompendo la sua parentesi di relax.
«JARVIS, chi è il rompiscatole?»
«Il signor Andrews. Lo metto in attesa?» propose gioviale il maggiordomo.
Tony sbuffò, prendendo seriamente in considerazione l’offerta per poi declinarla, vinto dalla curiosità:
«Passalo sull’interfono,» ordinò, senza chiudere l’acqua né uscire dalla doccia.
«Ehi, buongiorno, Stark!» esordì il ragazzo con inaspettata allegria.
«Sì, sì, buongiorno anche a te, K,» mugugnò lui, impegnandosi a suonare indifferente. «Fa’ in fretta, sono sotto la doccia,» lo incalzò poi, anche se lo scroscio in sottofondo era già abbastanza esplicativo.
«Stai tentando di sedurmi?» indagò malizioso Kyle.
«Ovviamente,» rispose lui serafico mentre si sciacquava i capelli, chiedendosi se quella mattina vi fosse un qualche complotto contro di lui, vista l'insistenza sulla sua vita sessuale.
«Non credo che Virginia sarebbe molto d’accordo,» lo stuzzicò prevedibilmente l’altro, e già pregustando la sua reazione indignata.
«No, credo proprio di no,» lo assecondò invece lui, lasciandosi sfuggire un sorrisetto al silenzio basito dell’altro. «Che c’è? Geloso?» ridacchiò poi, riscuotendo Kyle dal suo stand-by verbale.
«Se tu non fossi
tu, Stark, direi che mi stai prendendo per il culo,» ribatté serissimo l’avvocato, e Tony si trattenne dallo sbottare apertamente a ridere per la pessima scelta di parole.
«Devo intenderlo in senso lettera–»
«Intendilo
come ti pare, ma adesso ascoltami,» lo interruppe l’altro, adesso probabilmente paonazzo dall’altro capo del telefono.
Tony si ritenne soddisfatto per la sua piccola rivincita dopo mesi di allusioni e battutine su lui e Pepper da parte dell’amico, in combutta con Ian. 
«Ho delle novità,» annunciò Kyle, dopo essersi assicurato che fosse in ascolto.
Tony si fece attento, per quanto potesse essere attento nello stato di intontimento causatogli dalla doccia calda.
«Spara,» lo incitò, incerto se quel silenzio dovesse essere interpretato come un semplice stratagemma per aumentare la
suspence, o come una reticenza da parte dell’avvocato nel riferire una brutta notizia.
«Stern ha appena approvato la tua licenza!» annunciò poi, squillante.
«Cosa?!» sputacchiò lui, scansandosi dal getto d’acqua che aveva inalato per la sorpresa e finendo quasi per scivolare sul pavimento viscido.
«Mi hai sentito,» replicò l’altro, che dal tono stava sicuramente sogghignando a tutto spiano. «A quanto pare la vostra chiacchierata a Washington è servita… non so cosa gli hai promesso, e non voglio saperlo, ma l’ha convinto a firmare e la licenza è valida ad effetto immediato,» spiegò a macchinetta, lasciando Tony in un soffuso stupore e con un sorriso sempre più ampio stampato in faccia.
«Immediato?» ripeté un po’ stolidamente. «Cioè… insomma… posso uscire
adesso?» si sincerò, temendo di aver capito male sotto lo scroscio dell’acqua, e per prevenire fraintendimenti la chiuse, rimanendo in attesa di una risposta con lo sgocciolio residuo a fare da sottofondo.
«Intanto esci dalla doccia, e firma il documento elettronico che ti ho inviato,» lo incitò il ragazzo. «Poi, sarai un uomo libero,» concluse con innegabile soddisfazione.
Tony non se lo fece ripetere, e due minuti dopo era seduto sul piano del bagno con le gambe penzoloni e l’accappatoio addosso, intento a scorrere un ologramma del documento in questione. Non era sua abitudine leggere qualcosa prima di firmarlo, ma in questo caso si impegnò addirittura a visionare clausole e note a piè di pagina per fugare ogni dubbio, mentre Kyle attendeva pazientemente in linea.
«Siamo sicuri che non sia un
bluff, vero?» insistette per la quinta volta, e il quinto sospiro di Kyle fece eco alla sua domanda, stavolta seguito da una risposta.
«Stark, ho visionato quel documento almeno una ventina di volte, ho controllato ogni postilla, appendice e comma esistente e mi sono sorbito un’ora e mezza al telefono con Knight per assicurarmi che lascerà cadere l’accusa riguardante le protesi,» sciorinò l’altro, palesemente seccato per quell’ultimo, ingrato compito.
«Ti sei decisamente meritato quella statua, K,» commentò Tony a mezza voce, continuando a rigirarsi in mano l’agglomerato di pixel olografici. «E anche un altro paio di diavolerie che spero di completare presto,» aggiunse, e poté quasi sentire l’aspettativa di Kyle crescere attraverso la linea telefonica.
Si sentiva un po’ meschino a far finta che tutto procedesse al meglio, ma si stava
davvero impegnando a progettare i tutori per Kyle, tentando di aggirare tutte le problematiche poste dai reattori, e sperava di realizzarne almeno un prototipo prima di…
Sbuffò tra sé, passandosi la mano tra i capelli a districarne le ciocche umide. Kyle non si era sorpreso più di tanto quando gli aveva rivelato le sue condizioni di salute, confermando semplicemente un sospetto che aveva da tempo, e Tony aveva apprezzato il fatto che si fosse sprecato molto poco in commiserazione e molto di più nel cercare di rendergli quell’ultimo periodo un po’ più sereno dal punto di vista legale. Aveva fatto miracoli all’ultima udienza, annichilendo Knight e rendendolo quasi del tutto libero dalle grinfie del governo, non fosse per la questione del controllo di Iron Man, a cui spettava allo SHIELD porre un freno. In quell’anno e mezzo l’aveva salvato innumerevoli volte, scampandogli probabilmente una condanna severa che avrebbe anche potuto spedirlo a marcire per un decennio a Seagate, e tanti saluti all’uomo di ferro. Non riuscire a ripagarlo a dovere come gli aveva promesso lo crucciava molto più di quanto volesse ammettere, ma Kyle, sebbene riponesse innegabilmente molte speranze nel suo lavoro, non sembrava intenzionato a colpevolizzarlo, e si era anzi raccomandato di concentrarsi sul nuovo reattore. Tony, dal canto suo, non era mai stato così contento di aver avviato ufficialmente il Progetto Phoenix, garantendo all’amico almeno una chance futura di riprendere a camminare.
«Stark, sei ancora lì?»
Tony si rese conto di essere rimasto troppo a lungo in silenzio, e si riscosse in fretta dai suoi pensieri.
«Sì, anche se credo di essere sotto shock,» buttò lì con leggerezza, pur non riuscendo del tutto a mascherare il suo tono un po’ più cupo.
«Allora sbrigati a firmare, così puoi dare una bella notizia alla tua rossa,» suggerì smaliziato l’altro, facendogli scuotere appena la testa mentre ingrandiva il documento.
Alzò la sinistra a mezz’aria, ormai per abitudine, poi ci ripensò con un mezzo sorrisetto e tracciò la firma nell’apposita casella con l’indice della destra. Dubitava di aver mai scritto il proprio nome in modo più storto, illeggibile e poco elegante, ma non si era neanche mai sentito più soddisfatto di aver firmato un documento legale in vita sua: Pepper sarebbe davvero stata fiera di lui. E a quel proposito, Kyle aveva ragione: era un bel po’ che non le dava una bella notizia. 
Così ringraziò l’avvocato, si affrettò ad asciugarsi e rivestirsi, e uscì rapido dal bagno per porre rimedio al più presto.


***


Ovviamente, Tony contò sul fatto che l’imbarazzante incontro di un’ora prima fosse magicamente evaporato dalla memoria di Pepper, quando scese al piano di sotto per cercarla. Si fermò ai piedi delle scale, picchiettando a terra il bastone da passeggio mentre si guardava attorno perplesso, senza scorgere traccia della sua… i suoi pensieri si arrestarono bruscamente quando gli mancò il termine esatto per definirla. S’impegnò a smettere di cercarlo per evitare di farsi venire un mal di testa proprio oggi che si sentiva così bene.
«Pep?» chiamò infine a voce alta, senza ottenere risposta.
«La signorina Potts è uscita poco fa per recarsi alle Industries,» gli ricordò JARVIS, strappandogli un sospiro insoddisfatto.
Avrebbe voluto annunciarle la novità di persona, soprattutto dopo tutti i buoni propositi che si era imposto la notte prima, ma avrebbe dovuto aspettare il suo ritorno, sperando che la mole di lavoro non la trattenesse alle Industries fino a sera – cosa che in realtà accadeva spesso da quando avevano inaugurato la Expo.
Sbuffò di nuovo, e il picchiettio del legno sul pavimento in marmo si ripeté più veloce, a rispecchiare la sua insofferenza. Continuava a lanciare occhiate fuori dalla vetrata realizzando con chiarezza crescente che, in quel momento, avrebbe semplicemente potuto imboccare la porta di casa da solo e recarsi ovunque avesse voluto senza timore di infrangere la legge. Magari si sarebbe attirato molti, troppi sguardi curiosi, ma i raggi caldi del sole che filtravano in salone iniziavano ad esercitare su di lui un’attrazione difficile da contrastare. Gli fu chiaro che non sarebbe mai riuscito ad aspettare fino al giorno dopo per uscire, così come gli fu chiaro che non era più il miliardario playboy che faceva mostra di sé ovunque andasse, beandosi dell’ammirazione altrui. Al contrario, avrebbe volentieri fatto a meno della sua notorietà… ma tenere un basso profilo non gli sarebbe comunque stato possibile, con una benda in faccia e la vistosa mano meccanica che sbucava a tradimento dal polsino.
Tentennò sul posto, combattuto, mentre lasciava vagare lo sguardo qua e là con fare innervosito. Si sentiva sempre più soffocare dalle ampie mura della villa che adesso gli sembravano comunque troppo strette, dopo averci passato l’ultimo anno e passa. Si soffermò automaticamente sulla porta dello studio sulla parete di fondo, in parte perché l’incubo della notte precedente lo teneva ancora sulle spine, in parte perché pensare all’archivio di suo padre gli richiamava inevitabilmente quello nella sua testa in cui aveva stipato tutti i ricordi che nell’ultimo periodo avevano iniziato a trapelare contro la sua volontà. Il robottino rosso era ormai destinato a sedimentarsi sul fondo del mare, ma rimanevano ancora molte istantanee ad affollargli la mente. Nel suo passato c’erano ancora delle porte da chiudere, o forse da aprire, e altrettanti punti fermi da mettere.
Meditò ancora per cinque minuti buoni, avvicinandosi di mezzo passo alla volta a quella porta che aveva varcato più spesso in un anno che in una vita intera; a metà strada si arrestò, gettò fuori un sonoro sospirò e cavò fuori di tasca il cellulare, scorrendo rapido la lista dei contatti per poi avviare la chiamata.
Il secondo squillo s’interruppe a metà:
«Stark? Che ha combinato?» lo interpellò una voce oscillante tra il perplesso e l’allarmato che gli suscitò un sorrisetto.
«Io? Nulla, Agente,» replicò, esagerando l’intonazione da bimbo innocente. «Ma credo di avere un bel po’ di scartoffie da smaltire, e pensavo che lo SHIELD sarebbe stato felice di ampliare i suoi archivi con materiale inedito,» sciorinò a colpo sicuro, recuperando nel frattempo la chiave dello studio e varcandone poi la soglia polverosa.
«Materiale?» il cigolio inconfondibile di una sedia da ufficio riempì il breve silenzio mentre Coulson tentava di raccapezzarsi. «Che tipo di materiale?»
«Il tipo che starebbe meglio rinchiuso al sicuro in un
caveau dello SHIELD, piuttosto che nell’ex-ufficio fatiscente di mio padre.» Fece una pausa a effetto, tamburellando le dita meccaniche sullo stipite mentre la lampadina appesa al soffitto sfrigolava, stentando ad accendersi. «Con qualche chicca extra sul suo eroe a stelle e strisce preferito. Le interessa?» continuò con fare saputo, certo di essersi già conquistato l’attenzione dell’Agente.
«Di quanto materiale stiamo parlando?» indagò infatti Coulson, celando abbastanza malamente la propria curiosità.
Lo sguardo di Tony si spostò sulle instabili pile di fascicoli, dossier e raccoglitori accatastati sul pavimento, prendendo infine atto della loro mole complessiva non indifferente.
«Abbastanza per riempire, diciamo… il bagagliaio della mia R8 senza comprometterne la tenuta di strada,» stimò infine, con vivacità.
Udì un sospiro dall’altro capo.
«Stark, che diavolo ha intenzione di–»
«Agente, è libero oggi pomeriggio?»


***


13 Maggio, Santa Monica, 11:30

I cimiteri si assomigliavano un po’ tutti.
Non che Tony avesse molta esperienza in materia, ma quella gli sembrava una nozione abbastanza scontata, considerando che i parametri rispettati dovevano essere necessariamente sempre gli stessi: lapidi ordinatamente schierate, alberi e arbusti a stemperare i riflessi freddi del marmo, prati ben curati che attutivano i passi, e una sorta di contratto non scritto che imponeva una maggioranza di belle giornate di sole per le visite ai propri cari – in contrasto con quello per una pioggerellina fitta e insistente per i funerali.
Il Woodlawn Memorial non faceva eccezione, se non per la particolarità di essere punteggiato da alte palme dal fusto oscillante, oltre che dai classici abeti, pioppi e cipressi. 
Tony stava temporeggiando da due minuti buoni nella sottile fascia d’ombra del muro di cinta, ad appena qualche passo dal cancello principale. Si risistemò gli occhiali da sole che continuavano a scivolargli sul naso, complice il sole impietoso del mezzogiorno californiano, per poi lanciare un’occhiata circospetta alle sue spalle, come se ci fosse qualcuno ad osservare la sua indecisione. Tutto ciò che vide fu la sua Audi bianca parcheggiata dall’altro lato della strada, in quel momento fin troppo invitante. Scacciò la tensione dal suo petto dopo molti minuti di respiri controllati, finché non si sentì del tutto padrone di se stesso.
Mosse il primo passo quasi in trance, ripercorrendo le orme invisibili che aveva lasciato diciotto anni prima. Non era mai tornato lì dopo il funerale. Dieci anni prima, con Rhodey, era riuscito ad arrivare fino a Santa Monica, per poi evitare il cimitero e rifugiarsi nel primo bar a portata di mano. Un’altra volta, più recente, era arrivato fino al cancello ed era rimasto lì, con una mano poggiata sulla presenza estranea del reattore infisso di fresco nel proprio petto.
Aveva rimandato, sempre, prima per rabbia, poi per paura, ultimamente per una consapevolezza che aveva ormai interiorizzato, ma che non voleva concretizzare nella forma di una lapide fredda e definitiva. Accelerò il passo, il mazzo di fiori stretto in una mano e il bastone nell’altra, anche se avrebbe voluto dirigersi nella direzione opposta. 
Il percorso tracciato quell’unica volta era cristallino nella sua memoria troppo minuziosa. Si fermò a colpo sicuro all’ombra di un pioppo, e lasciò ricadere i fiori a sfiorare i fili d’erba un po’ troppo alti. La lapide era sobria, elegante nella sua semplicità; solo la fattura del marmo chiaro e pregiato lasciava intuire la ricchezza dei proprietari. Una pianta d’edera ben curata la incorniciava, seguendone le linee ondulate, col verde vivace in contrasto con lo sfondo bianco ormai un po’ scurito. In un cartiglio, sopra ai nomi dei suoi genitori, campeggiava quello di famiglia:
Stark, nero su bianco. Quasi un ammonimento, così come lo spazio lasciato vuoto alla base della lapide. Sotto il cartiglio, in caratteri sottili e delicati, una citazione: il domani appartiene a chi si prepara ad affrontarlo oggi. A leggerla, gli sembrava di sentirla recitare dalla voce bassa e un po’ roca di suo padre, sovrapposta ai suoi mille detti per ogni occasione. Nessuna foto: stupidamente, da ragazzo non aveva voluto scegliere neanche quelle per il funerale. Si trovò a cercare gli occhi castani e caldi di sua madre, ma incontrò solo la pietra fredda e venata di un grigio perlaceo.
Strinse il mazzo di fiori nella mano, rimanendo immobile, muto.
Si chiese se dovesse dire qualcosa, se avesse senso salutarli, o se magari bastasse lasciar scorrere i pensieri per trovare una connessione, o qualunque cosa cercasse la gente quando si piazzava davanti a una tomba. Non era ben certo di cosa stesse cercando lui, ma era abbastanza sicuro di dover posare quei fiori là davanti, e di doversi togliere gli occhiali da sole. Adagiò le calle e i gigli candidi ai piedi del marmo, sul basamento di marmo più scuro, per poi sfilarsi i Ray-Ban e appuntarli sul taschino della camicia. Rimase accovacciato sul ginocchio meccanico con lo sguardo all’altezza dei loro nomi.

Maria Carbonell Stark
. Howard A. Stark.
Li lesse più volte, come se non li conoscesse, come se ripetere quelle lettere incise su una lapide potesse donare loro un qualche significato aggiuntivo rispetto a leggerle in un giornale o su un documento. A posteriori, era lieto di non aver fatto scrivere per esteso il nome che condivideva con suo padre. All’epoca era stata una questione di principio, un ultimo atto di rifiuto verso di lui. Adesso la cosa aveva sottintesi più tetri. Toccò coi polpastrelli sensibili lo spazio vuoto sotto i suoi genitori, percependo la superficie levigata e fresca nonostante il sole a picco che trapelava oltre le fronde del pioppo, creando tenui giochi di luce liquida sul bianco. Tirò le labbra, passando a sfiorare i solchi delle lettere già incise, della stella e della croce accanto ai numeri di ciascuno, tutti più dolorosi e allo stesso rassicuranti di quella porzione intonsa che sembrava in sua attesa.
Si arrischiò a portare la mano metallica a contatto col marmo, come se quel gesto potesse rivelare un’informazione in più su di sé e metterli a conoscenza di ciò che gli era successo, per quanto considerasse assurda e irrazionale quell’idea. Era uno scienziato, un fisico: non credeva nell’aldilà e non aveva alcuna ragione per farlo. Eppure, mantenne la protesi a contatto con i loro nomi – con
loro – e si impegnò a formulare un pensiero più definito degli stralci intermittenti che gli stavano attraversando la testa. Tutti inesprimibili a parole, né semplici da condensare in concetti di senso compiuto.
I colori sembravano frammentarsi in mille immagini, in ciascuna delle quali i suoni si accavallavano con gli odori e i sapori si mescolavano con il tatto. Così pensava alle estati a Malibu e non vedeva solo l’oceano immutato, ma sentiva la carezza del vento fresco in faccia, che gli faceva assaggiare il mare nella bocca e aspirare il sale nei polmoni mentre correva tra gli schizzi sul bagnasciuga, trascinando per mano sua madre sorridente. Pensava al laboratorio e subito percepiva il saldatore tiepido tra le dita, la pressione degli occhiali protettivi sul volto e l’odore di stagno liquefatto, assieme alla mano forte di suo padre che racchiudeva la sua, correggendola burberamente e in tono brusco, ma senza mai stringere troppo nonostante la presa salda e callosa. Pensava alle note lontane di un pianoforte e subito vedeva i ricami di fiordalisi sul vestito di sua madre, percepiva quella lieve essenza di rosa che portava sempre con sé e che non aveva mai capito se fosse acqua di colonia o il suo profumo naturale, sentiva le sue labbra che gli lasciavano un bacio sulla guancia a tre anni, a dieci, a sedici, a ventuno, e non aveva mai pensato che sarebbe arrivato un ultimo, anche se l'ultimo era proprio quello che ricordava più chiaramente. Da suo padre, non c’era stato nemmeno un primo.
Passò le dita su quel numero fatidico, 1991, quasi a volerlo cancellare, per poi rendersi conto della futilità del gesto. Inspirò a fondo, coi polmoni più ampi che accettarono grati quel ricambio d’ossigeno, pur consapevoli della gabbia che ancora li imprigionava. Si portò d’istinto la mano libera al reattore. Per un momento sperò che, dovunque fossero, non potessero vederlo e al contempo, intensamente, sperò anche l’opposto. Sua madre si sarebbe addolorata, a saperlo in quelle condizioni, ma si sarebbe anche rallegrata nel vedere tutto ciò che aveva realizzato, il modo in cui era cambiato in tutti quegli anni; sarebbe stata lusingata della September Foundation, sarebbe stata orgogliosa di lui, avrebbe acclamato i suoi successi come aveva sempre fatto. Probabilmente l’avrebbe anche redarguito per aver temporeggiato così a lungo con Pepper. E per averle distrutto il pianoforte.
Suo padre… non riusciva a mettere a fuoco la sua reazione. Sgomento? Rifiuto? Forse una punta di dispiacere, ben camuffata sotto rigidi strati di rughe severe – era suo figlio,
doveva essere così, era una legge naturale. Magari anche senso di colpa – ingiustificato, ma da qualcuno doveva pur aver preso – perché non aveva inventato il reattore per salvare e uccidere suo figlio. Forse sarebbe anche stato fiero di lui, per una volta.
Mille domande gli si intrecciarono in testa: cosa ne avrebbe pensato di Iron Man? Avrebbe apprezzato l’idea della Expo e avrebbe approvato il suo retaggio? E le protesi – le avrebbe considerate un’aberrazione o un passo verso il futuro? Le avrebbe odiate perché sfiguravano suo figlio o ne avrebbe visto l’utilità? Lo avrebbe accettato così com’era, quando non era riuscito a farlo per ventun anni?
Il cuore iniziò a martellargli nel petto, accelerando appena, finché non intervenne la voce ovattata di sua madre a placare quelle congetture, ad abbracciarlo a prescindere dalla sua altezza, o età, o aspetto. Lo aveva sempre fatto, dicendogli che Howard lo rimproverava ad alta voce per poi lodarlo in disparte; che lo ignorava in sua presenza ma parlava di lui in sua assenza; che pareva quasi evitarlo quando era a casa, ma chiedeva a lei con finta indifferenza quando sarebbe tornato dal collegio o dal MIT per le vacanze. Lui non ci aveva mai creduto, bollando il tutto come una menzogna per salvarlo ai suoi occhi, per illuderlo di un affetto che non aveva mai ricevuto sulla propria pelle. E sua madre non aveva mai davvero provato a colmare il vuoto tra loro, o a rimproverare suo padre. La ricordava come il centro del proprio mondo, il sole attorno al quale ruotava la propria esistenza; ma ogni volta che c'era suo padre quel sole si oscurava, eclissato, e lui stesso sprofondava nella sua ombra.
Adesso vedeva una logica nelle azioni dei suoi genitori, per quanto non sempre giustificabile; e per quanto la distanza tra lui e suo padre rimanesse incolmabile, la sentiva un po’ meno dolorosa e insondabile. Forse anche sopportabile.
Fissò di nuovo i nomi di sua madre e di suo padre, chiedendosi se fosse giusto accettare i loro difetti solo quando aveva scoperto i propri, e se fosse una beffa del caso accettarne la morte proprio adesso che lui riusciva a scorgerla sul suo cammino. Non ritenne sensato darsi risposta.
Aveva pensato di venire lì per aprire una porta o per chiuderla, un qualcosa che in quel periodo si stava impegnando a fare con dedizione. Si rendeva conto solo ora che non c’era alcuna porta: quella che aveva davanti era una semplice soglia. Ciò la rendeva solo più spaventosa, e il pensiero gli causò un vuoto allo stomaco. Si affrettò a scacciare quell’immagine troppo evocativa, stemperata dal fatto che forse, contro tutta la sua logica ferrea e leggi scientifiche, dall'altra parte ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarlo.
Sfiorò di nuovo i nomi, schiudendo la bocca senza produrne alcun suono. Quelle parole semplici e fondamentali gli rimasero ancora una volta incastrate in gola, trattenute dalla rete dei suoi stessi pensieri. Gliene sfuggì un’altra, anch’essa silenziosa, un “grazie” che aveva pensato per la maggior parte della sua infanzia, mentre suonava un pianoforte sotto gli occhi di sua madre o ammirava gli armeggi di suo padre in laboratorio, e che forse aveva poi formulato altre volte due anni prima, quando l’unica luce a rischiarare la grotta era stata quella azzurrina che gli aveva regalato suo padre.
Fissò la lapide, sentendosi smarrito ma anche insolitamente calmo, con altri ricordi dolceamari che lo lambivano ritmicamente, come una risacca continua e pacifica a cui non avrebbe voluto sottrarsi.
Inforcò di nuovo gli occhiali da sole, adocchiando un’ultima volta lo spazio vuoto che sembrava fissarlo di rimando dal marmo lucido della tomba, e sollevò il mento quasi con sfida verso quella soglia ormai terribilmente vicina, a cui però si rifiutava di consegnarsi già da adesso.
Si rialzò in piedi, con una lieve fitta al moncherino per la posizione scomoda tenuta troppo a lungo. Non sapeva quantificare quanto tempo fosse rimasto lì, ma per essere la prima volta in diciott’anni gli sembrava abbastanza.
Allungò un’ultima volta la mano sensibile verso la lapide, accarezzandone il profilo ricoperto d’edera, per poi staccarsene riluttante, e al contempo sollevato.
Si avviò fuori dal cimitero con passo più lieve, come se una parte di lui fosse rimasta inginocchiata là davanti, a continuare un discorso rimasto a lungo in sospeso.


***


13 Maggio, Santa Monica, 13:30

Essendo un infrasettimanale, a quell’ora non c’era molto viavai sul lungomare, occupato solo da un gruppetto di adolescenti che aveva preferito la spiaggia alla scuola, qualche coppietta a braccetto, e sporadici atleti intenti a fare jogging a dispetto della temperatura già infernale nonostante fosse solo maggio. Anche il bancone e i tavoli all’aperto di Perry’s contavano pochi avventori, per lo più pensionati in cerca di un po’ di refrigerio e di una partita a poker a due passi dall’oceano.
Tony si attirò non pochi sguardi nell’attraversare il piazzale antistante il locale, ma nessuno lo importunò, anche se intravide un passante sfoderare spudoratamente il proprio telefono per immortalarlo. Lo ignorò, calcandosi per bene gli occhiali da sole in faccia e ignorando la scossa di disagio che sembrava tirarlo per la giacca, indirizzandolo verso la sua auto per tornare a casa, al riparo da sguardi estranei. Trattenne quell’impulso, e anche quello di slacciare un altro bottone della camicia, per non rischiare di scoprire accidentalmente le venature plumbee sottostanti. La sua insofferenza al caldo non era scemata, ma si rassegnò a tollerarlo in silenzio: preferiva cuocere a fuoco lento nel suo completo di lino a maniche lunghe, piuttosto che scoprire un centimetro di troppo del braccio meccanico.
Si accostò al bancone, preannunciato dal ticchettio che accompagnava i suoi passi, e richiamò l’attenzione del barman voltato di spalle battendo sul piano di legno con le nocche metalliche. L’uomo si girò, rimase per un secondo bloccato dallo stupore con uno shaker a mezz’aria, e si aprì poi in un sorriso incredulo.
«Signor Stark!» lo accolse, facendoglisi incontro. «Non mi aspettavo di rivederla,» confessò, non potendo fare a meno di adocchiare fugacemente la mano artificiale posata sul bancone, ma Tony non se ne ebbe a male.
«Tendo sempre a sovvertire le aspettative,» replicò invece con un mezzo sorrisetto compiaciuto, sedendosi sullo sgabello.
Nei mesi estivi, quando gli capitava di essere a Santa Monica, era una sorta di habitué di quel bar un po’ sgangherato. Non era il tipo di posto dove ci si sarebbe aspettati di trovare Tony Stark, e Perry, un omone hawaiano tatuato, baffuto, con un bandana perennemente legata in testa e una Harley parcheggiata lì accanto a confermare gli stereotipi, si era sempre impegnato a non diffondere troppo la voce.
«Cosa beve? Offre la casa,» arrivò subito al dunque, senza perdersi in chiacchiere come suo solito, ma evidentemente contento di aver recuperato un cliente del suo calibro.
«Un Tequila Sunrise,» accettò un po’ colpevole Tony, conscio che non avrebbe dovuto bere, ma ignorando in blocco il suo buonsenso e i moniti di Ian. «E un cheeseburger,» aggiunse, concludendo che non potesse esserci cibo migliore per celebrare una riacquistata libertà.
Un quarto d’ora dopo, era intento a testare i propri nervi nel riuscire a mangiare senza dare spettacolo, ovvero limitando al minimo l’uso della protesi per evitare disastri e sguardi indiscreti. Non se la stava cavando così male, ed era lieto che, tra un ordine e l’altro, Perry fulminasse con lo sguardo chiunque lo fissasse troppo a lungo. Così si sarebbe almeno risparmiato di attivare il suo sarcasmo devastante e molto poco politicamente corretto per scrollarsi di dosso i curiosi.
A metà del suo cheeseburger si vide comparire a sorpresa un Mojito sotto al naso, al che fu costretto a richiamare il barman con un sospiro.

«Perry, grazie, ma n
on l’ho ordinato,» disse controvoglia.
«
Glielo offre quel signore laggiù,» replicò l'altro, accennando dietro di lui.
Tony si voltò, inquadrando un vecchietto dai capelli bianchi tirati indietro con la brillantina e la bocca sormontata paio di baffetti curati.
L’impressione di serietà era stemperata dagli ampi Ray-Ban dalle lenti arancioni che spiccavano sul suo largo naso, e dalla maglietta con la stampa a colori vivaci “Legends Never Die”. Vedendosi indicato, sfoggiò un ampio sogghigno e sollevò il proprio bicchiere nella sua direzione, in un brindisi che Tony ricambiò un po’ incerto a mo’ di ringraziamento, col volto incrinato a sua volta da un mezzo sorrisetto.
Si voltò di nuovo ed esitò prima di bere, per poi pensare che non sarebbe certo stato quello strappo alla regola ad ucciderlo. Stava giusto per prendere il primo sorso, quando si vide sfilare il bicchiere da sotto il naso con la stessa rapidità con cui era comparso. Sollevò la testa, già pronto a infuriarsi per un qualche scherzo di cattivo gusto, e si trovò a fissare due occhi molto verdi e molto divertiti, incorniciati da folti capelli rossi.
«Buon Dio!» sbottò, ritraendosi e sobbalzando per la sorpresa, e Nataša accolse quella reazione con un sorrisino un po’ perfido.
«Ciao, Stark,» lo salutò, sorseggiando tranquilla il suo drink. «Tutto bene?»
«Non se mi fai prendere un infarto,» soffiò lui, portandosi una mano al petto con fare teatrale.
Scrutò la donna, in borghese con una semplice camicetta color sabbia e un paio di jeans, e con i capelli più corti rispetto all’ultima volta che l’aveva vista. Il suo volto era illeggibile come sempre, se non per l’espressione furbetta che faceva capolino nella piega delle sue labbra. A parte la sua comparsa decisamente poco delicata, era contento di vederla.
«Cos’è, Coulson ha dato buca?» si riprese infine Tony, scrollando la testa prima di addentare ciò che rimaneva del panino.
«Le sembro il tipo che dà buca?»
A Tony quasi andò di traverso il boccone nel vedersi comparire l’Agente dall’altro lato, ma riuscì a non soffocarsi e a non terminare la propria carriera riverso sul bancone di un bar come gli era sempre stato pronosticato. Deglutì, un po’ rosso in volto.
«La mia salute è già precaria, vedete di non accelerare il processo,» sbottò, con umorismo un po’ nero, sfoggiando un sorrisetto nel vedere il cambio d’espressione sui loro volti a far loro capire che li stava prendendo in giro.
Coulson era come sempre impeccabile nel suo sobrio completo nero, che passava però molto poco inosservato in quella località balneare. Si lanciò un’occhiata attorno, constatando che a quel punto avevano decisamente attirato l’attenzione degli avventori – e dire che quei due dovevano essere spie d’alto livello.
«Cambiamo aria,» bofonchiò, per poi scivolare giù dallo sgabello e lasciare di nascosto una generosa mancia a Perry, che altrimenti non l’avrebbe mai accettata.
Si avviarono senza parlare verso la sua auto, che aveva lasciato nei pressi del pontile per farsi una passeggiata. La brezza era tesa, ma non fastidiosa, e gli spazzava indietro i capelli in modo piacevole, quasi a ricordargli cosa si provasse a stare all’aria aperta. Dopo un centinaio di metri, notò che Nataša aveva un’espressione innegabilmente soddisfatta stampata in volto, e la sorprese ad occhieggiare i suoi passi zoppicanti con occhio attento, al che si lasciò sfuggire un sogghigno.
«Sono migliorato?» la stuzzicò, azzardando un volteggio col bastone mentre camminava più impettito.
«Discretamente,» gli concesse, senza sbilanciarsi. «Hai fatto esercizio?»
«Non molto, in realtà,» confessò Tony, un po’ reticente a spiegarne il motivo.
Nataša sembrò intuirlo lo stesso, perché adocchiò il reattore e non insistette, per poi dargli un leggero spintone.
«Lavativo,» lo rimbrottò.
Tony si limitò ad alzare le spalle, accettando quell’accusa giocosa, che allontanava discorsi troppo cupi da fare sotto quel sole incastonato in un cielo sgombro da nubi. Coulson li osservava, pacato ed enigmatico come sempre, e Tony si trovò ancora una volta a sorprendersi per il fatto che si fosse presentato lì nonostante lo scarso anticipo.
«Era a Portland anche oggi, Agente?» chiese sfacciato, quando fu costretto a rallentare un po’ il passo per una fitta molesta.
«Crede che sarei qui, se fossi stato a Portland?» sollevò le sopracciglia lui.
«Non so se posso fare concorrenza a Audrey,» ammise, storcendo la bocca insoddisfatto.
«Tu, invece? Come mai da solo?» indagò Nataša, con altrettanta poca discrezione e cogliendo la palla al balzo.
Tony esitò, ringraziando gli occhiali che celavano il suo sguardo, per poi rinunciare a svicolare alla domanda.
«Pepper è impegnata alle Industries. In realtà non sa neanche della licenza, e di conseguenza…»
«… non sa che sei qui,» concluse Nataša, quasi rassegnata.
«Povera donna,» chiosò l’altro. «Spero che tu sia raggiungibile,» aggiunse in tono inquisitore.
Tony annuì, evitando di rivelare di aver dimenticato più o meno volontariamente il telefono a casa. Non volle pensare al centinaio di chiamate perse che doveva aver ricevuto da lei. Aveva voluto quella mattinata solo per sé, senza interferenze esterne di alcun tipo. E dopotutto le aveva lasciato un biglietto: non era certo così scriteriato.
Arrivati alla sua auto Tony aprì il portabagagli, nel quale erano stipati gli scatoloni con le scartoffie di suo padre e della SSR. Coulson annuì, interessato, scorrendo i titoli di qualche dossier – casualmente proprio quelli sul Progetto: Rebirth.
«Allora, accettate l’offerta o devo portare tutto al macero?» li incalzò Tony.
«Certo...» borbottò Coulson, perso nella lettura di un dossier del '45. «Altro materiale da digitalizzare. Hill sarà contenta,» commentò poi, in un misto indecifrabile di rassegnazione e soddisfazione.
«Tu no?» lo rimbeccò Nataša, a sua volta non propriamente entusiasta di fronte al nuovo carico di lavoro.
«Fury di sicuro,» concluse l'agente, accigliato.
«“Grazie per il pensiero, Tony, te ne saremo eternamente grati”,» cinguettò il suddetto alle loro spalle, incrociando le braccia con fare risentito.
«Ci saranno davvero utili,» lo rassicurò Nataša, alzando gli occhi al cielo. «Per te lo sono stati?» chiese poi, in tono eloquente.
«Marginalmente,» sviò lui, ticchettando a terra col bastone e fissandosi la punta delle scarpe, prima di superare la donna e salire al posto di guida per troncare la questione. «Siete venuti da comuni mortali o c’è un Quinjet nascosto da qualche parte?» cambiò discorso poi, avviando il motore e facendo loro cenno di salire.
«Lola è parcheggiata in città,» lo indirizzò Coulson, sporgendosi da dietro con uno sguardo preoccupato alla sua mano meccanica sul volante.
Tony sospirò, staccò platealmente entrambe le mani e lasciò che la macchina partisse in modalità automatica, riservandogli uno sguardo seccato dallo specchietto retrovisore; colse Nataša sogghignare tra sé per quello scambio silenzioso, e cercò di stemperare un po’ il suo cipiglio.
Venti minuti dopo, avevano finito di trasferire gli scatoloni nel cofano di Lola, e Tony si apprestò a salutarli sbrigativamente per fare ritorno alla villa, prima che Pepper si preoccupasse troppo. Si era incupito, non sapeva dire neanche lui perché; forse il ripensare alle ore perse a scartabellare inutilmente l’archivio di suo padre l’aveva irritato, o forse era solo il palladio che influiva sul suo umore. Prima che potesse congedarsi, Coulson gli fece cenno di aspettare.
«Ho anch’io qualcosa per lei,» annunciò, chinandosi oltre la portiera per prelevare una scatola dal sedile del passeggero.
Lo sguardo di Tony fu subito attratto dal simbolo dello SHIELD impresso sul coperchio.
«Cos’ha per me, Agente? Prove scomode per macchiarmi la reputazione?» buttò lì, celando la propria curiosità e incrociando le mani dietro la schiena per evitare di prendere direttamente la scatola.
Coulson intuì la sua riluttanza e si limitò a poggiarle nella sua macchina con un sospiro, mentre Nataša aspettava poggiata sul muso di Lola.
«Materiale saltato fuori durante la digitalizzazione. Ho pensato che le avrebbe fatto piacere riaverlo.»
Tony aggrottò le sopracciglia e adocchiò meglio la scatola. Mascherò con successo il secondo o terzo quasi-infarto della giornata quando mise a fuoco la scritta sul lato finora celato: “Proprietà di H. Stark”. Dovette frenare le proprie mani dall’aprirla qui e ora, e le strinse invece sul bastone, simulando indifferenza.
«Che genere di materiale?» chiese svogliato, fissando le lettere del nome di suo padre con un lieve effetto
déjà-vu.
«Privato,» fu tutto ciò che offrì Coulson. «Niente che possa interessare allo SHIELD. Credo che spetti a lei decidere cosa farne,» esplicò infine, vedendolo ancora scettico.
Tony percepì la propria trepidazione scemare un poco, ma scrollò le spalle, senza esternare nulla di ciò che stava provando. Se loro non avevano trovato nulla d’interessante, non voleva dire che non ci fosse
davvero nulla. Avrebbe dovuto indagare più a fondo di persona. E smettere di farsi così tante aspettative.
«Grazie, suppongo… avevo bisogno di qualche altro memento di mio padre in giro,» minimizzò, stringendo poi la mano a Coulson con la sinistra e stemperando il proprio commento un po' ingrato con un tono ironico.
«Si riguardi, Stark. Contiamo ancora su di lei,» si congedò altrettanto in fretta lui.
«Non su Iron Man?» lo rimbeccò pronto, memore delle sue parole.
«C’è differenza?» sorrise l’altro sibillino, già salendo in macchina, e Tony si lasciò scappare di rimando un sorrisetto un po’ stupito.
Nataša gli si fece incontro con un istante d’esitazione, lo sguardo basso e le braccia incrociate sotto il seno, esattamente come quando l’aveva salutato alla fine della fisioterapia. Tony la scrutò sospettoso.
«Romanov, se hai intenzione di mettermi KO con una delle tua mosse ninja, non–»
Si lasciò abbracciare, anche se aveva riconosciuto l’intento e avrebbe potuto scostarsi facilmente, ma ricevere un abbraccio da Nataša era un evento epocale e non aveva intenzione di rifiutarlo. A quel contatto percepì un lieve picco di disagio che si sforzò di camuffare, anche se era difficile nascondere qualcosa alla spia.
«Noi siamo sempre all’Helicarrier,» proferì la donna, staccandosi dopo averlo stretto un'ultima volta po’ più forte. «Lo sai, no?»
«Lo so,» confermò lui, con un piccolo sbuffo. «Anch’io sono sempre alla Villa,» aggiunse poi, alzando le spalle e stando al gioco.
«Spero che ora non ci sarai proprio sempre,» gli ricordò lei, inclinando le labbra in un raro sorriso, e Tony si limitò ad annuire in risposta.
«Tra un paio di settimane potrebbe venirmi voglia di organizzare una festa coi fiocchi, in onore dei vecchi tempi,» si lasciò sfuggire poi, con vaghezza e un velo di mestizia nel pensare al suo compleanno ormai così vicino. «Di’ al resto della banda di tenersi libero, o potrei davvero offendermi,» scherzò poi, alleggerendo le proprie parole.
Nataša annuì senza commentare, e Tony poté giurare di aver visto i suoi occhi farsi un po’ lucidi un attimo prima che si girasse di scatto per risalire in macchina.
«Vedremo, Stark,» gli disse soltanto, senza guardarlo, e lui lo interpretò come un deciso sì.
«E non combini disastri... se vuole festeggiare, la villa le serve intera,» gli ricordò Coulson, prima di partire e svoltare ben presto dietro il primo angolo.
Tony si sedette a sua volta in macchina, senza mettere in moto e guardando di sottecchi la scatola accanto a lui. Si costrinse a non aprirla, o avrebbe finito per perdersi documenti di vitale importanza in giro per Santa Monica.
Guardò l’orologio, realizzando che erano quasi le quattro e che non sarebbe arrivato a casa prima di un’altra mezz’ora. Si lasciò scorrere addosso la giornata e, a parte un velo di stanchezza e qualche doloretto sopportabile, realizzò di sentirsi bene, a dispetto della nottataccia trascorsa. Inspirò a fondo l’aria marina che s’inoltrava fino alle strade interne, e tamburellò una marcetta vivace sul volante, con un sorrisetto a tirargli le labbra nel pensare a Pepper che probabilmente lo aspettava a casa. Si sentì stringere lo stomaco, ma non con la solita ansia: fu uno strattone piacevole che gli trasmesse solo un quieto senso di aspettativa e impazienza di rivederla, come quelle rare volte in cui era stato in un viaggio d'affari in capo al mondo senza di lei.
Il suo sorriso s’inclinò in una smorfia, rammentandosi che forse lei non l’avrebbe accolto proprio a braccia aperte, dopo un giorno d’assenza improvvisa e assolutamente ingiustificata passato chissà dove, lasciandola in apprensione per lui. Si grattò la nuca, meditabondo e molto poco propenso a rovinare la giornata a entrambi per una sua leggerezza, ma un piano in verità molto semplice gli si formò subito in testa, convincendolo a girare la chiave per mettersi in marcia, con un’espressione furbetta stampata in faccia.
Sapeva esattamente come farsi perdonare.




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Note Dell'Autrice:

Salve!
Sono in ritardo? Direi assolutamente di sì, ma tra esami vari, disguidi accademici e compagnia bella questo periodo è stato un disastro.
A parte i miei casini... la scena di Tony che visita i suoi è preventivata da circa sei mesi ed è una grande soddisfazione riuscire a portarla "sullo schermo". Spero che il modo in cui l'ho rappresentata vi sia piaciuto (ci tengo a specificare che non vi è un perdono totale nei confronti di Howard, piuttosto un abbandono del rancore).
Il capitolo, sebbene con molto ritardo, è dedicato a Stan Lee <3 Inserire un suo cameo nella storia subito dopo la sua morte sarebbe stato forzato, e ho preferito concedergli uno spazio più dignitoso, sperando anche di avervi sorpreso, come fa lui in ogni film Marvel :)
Ah, maliziosetti, se a inizio capitolo avete pensato male, avete pensato benissimo u.u
Per tutto il resto c'è Mastercard, sono più che disponibile a fornire chiarimenti su trama, dettagli&co, che questo capitolo è una miniera d'informazioni :P

Ringrazio T612, Emyclarinet, _Atlas_ ed Enigmista96 per aver recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno recentemente aggiunto la storia tra le seguite, preferite e ricordate <3 Non sapete quanto mi fate felice <3
Spero di riuscire ad aggiornare presto, e sicuramente non con così tanto ritardo come a questo giro :)
Un bacione e hasta la vista,

-Light-

P.S. La citazione sulla tomba degli Stark è da attribuire a Malcom X.
P.P.S. Il capitolo ha cambiato titolo un qualcosa come dieci volte, poi è arrivato il film Bohemian Rhapsody a ricordarmi che amo i Queen <3

 
   
 
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