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Autore: WhiteLight Girl    24/02/2019    1 recensioni
Papillon è stato sconfitto e Gabriel Agreste è in prigione; Marinette non ricorda come sia successo, né riesce a smettere di preoccuparsi per la sparizione improvvisa di Adrien. Con Chat Noir che le si rivolta contro e cerca di ucciderla, Maestro Fu irreperibile e la scatola dei Miraculous dispersa, Ladybug si ritrova da sola a cercare di capire cosa sia successo dopo che, durante la battaglia finale contro il suo peggior nemico, ha perso i sensi.
Genere: Angst, Dark, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Gabriel Agreste, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Plagg, Tikki
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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PEZZI DI UN PUZZLE - 1

La finestra dell’antro di Papillon era chiusa; nessuno aveva osato portare via le sue farfalle ed il nastro della polizia era anche lì, attorno alla botola di accesso, ed era intatto. Ladybug lo strappò per muoversi nella stanza, mentre Carapace la guardava intimorito.

«Davvero possiamo? Non è un crimine?» domandò.

Scrollò le spalle. «Sono certa che faranno un’eccezione.» gli disse.

Trovò subito la macchia di sangue secco sul pavimento, accanto ad essa c’era un numero che la indicava come prova; Ladybug tremò al pensiero che attraverso esso avrebbero potuto rintracciarla, ma non poteva più farci nulla. Strinse il braccio a sé, premendo le dita sulla ferita come per ricordarsi che era stato tutto reale, e chinò il capo.

Carapace fu il primo ad avere il coraggio di rompere il silenzio, o forse semplicemente non si era reso conto di quanto essere lì la disturbasse.

«È qui che è successo?» domandò.

Ladybug annuì, cercando di riportare alla memoria un ricordo qualunque di ciò che era avvenuto in quella stanza.

«Chat Noir mi ha contattata per dirmi che aveva scoperto la vera identità di Papillon, siamo venuti qui per affrontarlo, speravo che negasse tutto e dimostrasse la sua innocenza, ma non l’ha fatto.» rivelò.

Inspirò, l’aria era fredda e sapeva di terra, forse perché proveniva dal giardino attraverso la finestra a cui ora mancava il vetro.

«Adrien era in casa, quando è successo?»

«Non lo so, può darsi. Non sembrava che ci fosse. Sinceramente ero così concentrata su Gabriel Agreste che non l’ho cercato quanto avrei dovuto. Chat Noir mi ha assicurato che sarebbe stato bene, però.»

Forse non avrebbe dovuto ascoltarlo, sarebbe stato meglio fermarsi a controllare prima di cercare Gabriel Agreste, ma non aveva avuto alcun motivo per non credergli, quando l’aveva detto, quindi si era fidata di lui. Solo in quel momento realizzò che avrebbe potuto essere lo sbaglio più grande della sua vita.

«Credi che lui stia bene?» domandò Carapace.

Ladybug sentì gli occhi pizzicare, la ferita al braccio pulsò per un istante come se fosse fresca, ma subito il dolore si acquietò tornando nell’angolo della mente da cui era sfuggito, soffocato dalla voglia di piangere e gridare per smorzare quella insistente sensazione di non essere all’altezza e di essere un fallimento.

«Non lo so!» sbottò. «Non so dove fosse e non so dove sia e mi dispiace! Questa è tutta colpa mia!»

Sentì le prime lacrime scivolarle giù per la guancia, le asciugò in fretta, sperando che Carapace non le notasse, ma probabilmente lui l’aveva già fatto.

«Non è colpa tua, potrebbe non esserlo mai. Di Gabriel, voglio dire del signor Agreste, probabilmente, ma non tua.» rispose lui, tendendo una mano come per volerla confortare.

Ladybug scosse il capo, consapevole che nessuna rassicurazione avrebbe potuto cambiare le cose o farla sentire meno in colpa. Il passato era passato, l’unica cosa che poteva fare era imparare dai suoi errori per evitare di rifarli e per questo doveva impedirsi di sottovalutarli e lasciarli scivolare via. «Avrei dovuto preoccuparmi di più di Adrien, però, ed assicurarmi che stesse bene.»

Carapace le si avvicinò, sorrise e le sfiorò un braccio. «Adrien sa badare a sé stesso e di sicuro non ti incolpa affatto per quello che è successo, né per non averlo trovato.»

Con un sospiro, Ladybug pensò che avrebbe voluto potergli credere. Avere Carapace lì con lei era bello, decise, quasi come avere al suo fianco Chat Noir, anche se lui sarebbe rimasto sempre unico ed insostituibile. Sorrise.

«Come lo sai?» domandò. Premette le labbra e le mordicchiò, sforzandosi di sorridere quel tanto bastava perché Carapace potesse intuire la sua gratitudine.

Le guance di lui si fecero rosse, lo vide arretrare e sollevare i palmi. «Oh! Beh... Dalle interviste sembra un tipo tosto... Ed è un tuo grande fan, quindi non potrebbe mai incolparti.»

Ladybug rise, anche se la cosa non la divertiva affatto.

«Certo.» sospirò. «Peccato che non sia così infallibile e coraggiosa come un supereroe dovrebbe essere.»

Si guardò attorno, dove le farfalle celavano parte delle macchie di sangue che imbrattavano il pavimento, tra la polvere e cocci di vetro. Il vento freddo entrava dalla vetrata in frantumi, ma il ferro battuto della decorazione era ancora intatto e sembrava quasi di essere in una cella dalle sbarre dall’aria particolarmente bizzarra.

Il vetro era all’interno, realizzò Ladybug, quindi l’esplosione doveva essere arrivata dall’esterno o qualcosa di simile. Ciò avrebbe potuto spiegare anche la ragione per cui non c’erano bruciature all’interno della stanza, ammesso che non si fosse trattato di qualcos’altro. Si piegò sulla macchia ormai secca di sangue, osservandone i contorni sbavati trattenendo la nausea.

«Cosa stiamo cercando?» le chiese Carapace.

Gli fu immensamente grata per aver interrotto il flusso dei suoi pensieri, si sollevò e tornò a guardarlo. «Qualcosa,» spiegò «qualunque cosa possa aiutarci a capire dove sia Adrien e magari anche cosa sia accaduto a Chat Noir.»

Carapace annuì. «Credi che suo padre gli abbia fatto del male? Ad Adrien, intendo.»

«Non lo so.» ammise con il cuore pesante. Strinse il pugno. «Ma voglio sperare che se ne sia andato di sua spontanea volontà.»


Marinette riemerse dall’incoscienza con fatica, forse solo grazie al dolore pungente

al braccio, e rimase ad aspettare che l’intontimento svanisse mentre quella era la sola cosa che sentiva.

Si sforzò di aprire un occhio, strizzando l’altro mentre cercava di abituarsi alla luce del sole. A quell’ora del mattino, almeno non le arrivava dritta in faccia come avrebbe fatto di lì a poche ore, ma disegnava la sagoma squadrata della sua botola sulla parete. Stropicciò un palmo sulla palpebra e trattenne uno sbadiglio, poi si rigirò su un fianco, tendendo il braccio dolorante verso lo sghembo quadrato di luce. Fu allora che vide la benda attraverso gli occhi pesanti; le ciglia rendevano quella e tutto il resto sfocato ed avrebbero continuato a farlo finché non fosse riuscita a svegliarsi abbastanza per sollevare le palpebre. Sussultò, fu improvvisamente sveglia, ma la luce continuò a darle fastidio anche mentre ripensava al pomeriggio precedente.

Si mise a sedere, ricordando che era stata faccia a faccia con Papillon, che l’aveva sfidato dopo che lui aveva ammesso la sua vera identità e l’aveva affrontato assieme a Chat Noir ma, con un rantolo, si rese conto che non aveva idea di come fosse andata a finire. Ricordava i primi colpi, le prime minacce, di essersi difesa dalle farfalle che le offuscavano la vista, poi nient’altro.

Sfiorò la benda con le dita e si morse il labbro. «Tikki.» disse.

La trovò tra le zampe del suo gatto di peluche, inerme, e la scosse con un dito per assicurarsi che stesse bene. Respirava, sembrava dormisse.

Tikki dischiuse le palpebre lentamente, la testolina le ricadde indietro quando la sollevò tra le mani per avvicinarla al volto. «Marinette.» disse.

Le sorrise. «Che è successo?»

Tikki sbatté gli occhi, sembrò pensarci per alcuni secondi, poi rispose: «Abbiamo affrontato Papillon?»

Il dubbio espresso in quelle parole fece gemere Marinette, che guardò il resto della sua stanza alla ricerca di un cenno o di un indizio. Sentì Tikki agitarsi sul proprio palmo.

«Marinette!» esclamò il piccolo Kwami. «I tuoi orecchini.»

Spostò Tikki su una mano e portò le dita all’orecchio; si ritrovò a premere i polpastrelli contro il lobo nudo, senza alcun segno del suo Miraculous. Sgranò gli occhi.

«No!»

Balzò in piedi, non c’era più nessuna traccia di sonno o intontimento; la paura e la preoccupazione avevano sostituito ogni cenno di qualunque altra cosa. Con un sospiro di sollievo, dopo appena pochi secondi di panico, trovò gli orecchini abbandonati sul proprio comodino, premuti uno contro l’altro come se chiunque li avesse poggiati lì avesse voluto essere sicuro che non scivolassero per terra.

Poggiò Tikki sulle ginocchia e li prese tra le dita, rimettendoli alle orecchie con un gesto meccanico.

«Credi che li abbia usati?» domandò Marinette.

Il pensiero le faceva inorridire al punto che quasi pensò di toglierli ancora, come se attraverso essi Papillon avrebbe potuto toccare anche lei, ma sapeva che averli addosso sarebbe stato più sicuro. Quello che non sapeva, però, era se Gabriel Agreste l’avesse vista detrasformata e se ora conoscesse la sua vera identità. Sarebbe andato a cercarla? Sarebbe dovuta fuggire e mettere al sicuro la propria famiglia?

No, decise. Se Gabriel Agreste avesse voluto farle del male gliene avrebbe già fatto, di certo non avrebbe permesso che tornasse a casa, né le avrebbe restituito gli orecchini. L’unica spiegazione logica a quello che le era successo quella mattina, era che Chat Noir fosse riuscito a sconfiggere Papillon da solo e poi l’avesse riportata a casa.

Scese in salotto ancora in pigiama, i suoi genitori la aspettavano e la colazione era pronta, ma lei non aveva fame. Sedette al tavolo, anche se i suoi occhi non si staccavano dallo schermo del televisore, dove sembrava stessero viaggiando le risposte a parte delle sue domande.

Gabriel Agreste era stato arrestato, Chat Noir aveva assistito personalmente alla scena, assicurandosi dall’altezza di uno dei tetti poco distanti che tutto andasse come previsto.

Il giornalista annunciò quasi con sollievo che Papillon aveva deciso volontariamente di consegnarsi alla giustizia.

Il braccio tornò a pulsare, sfiorò la benda chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare al riguardo.

   
 
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