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Autore: _Frame_    24/02/2019    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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191. Sequestro e Baratto

 

 

Fuori dalla finestra dell’hotel, l’immagine di Kiev era immutata. Un largo intreccio di strade grigie e nebulose attraverso cui filavano carovane di automezzi tedeschi accompagnati dalle marce dei soldati, ampie e scure colonne di fumo che andavano a fondersi all’ammasso di nuvole, e il chiarore lampeggiante degli incendi ancora accesi nei pressi del Dnepr spogliato dei profili dei ponti fatti esplodere.

Italia raccolse le gambe sulla poltrona su cui era rannicchiato, passò la mano bendata attraverso lo strato di polvere depositato sul vetro della finestra, e incrociò le braccia sul cornicione. Scrutò Kiev dal quarto piano dell’Hotel Continental, attraverso il suo triste riflesso specchiato sul vetro, affacciandosi a quegli occhi annebbiati che non erano più stati in grado di riacquistare la luce. Abbandonò il mento nell’incavo dei gomiti intrecciati, reclinò il capo contro la spalla, e il suo riflesso si abbassò con lui, lasciando che sulla finestra scivolassero altre immagini trasparenti, altre figure che si stavano spostando alle sue spalle.

Romania rientrò nella sala dopo essersi assentato e richiuse la porta, passò affianco a Bulgaria che se ne stava poggiato con una spalla alla parete, le braccia conserte e il capo chino, assonnato, e si stropicciò gli occhi altrettanto stanchi. Ricadde su una delle poltrone, quella accanto a Spagna, e si portò una mano davanti alla bocca per sopprimere uno sbadiglio.

La voce di Germania riacquistò consistenza, “Sì, di questo ci siamo accorti anche noi”, ferma e autoritaria davanti a Ucraina seduta al tavolo dove lui aveva disposto carte e documenti. “Nonostante la liquidazione delle armate all’interno delle sacche, continuiamo a fronteggiare sempre una resistenza molto alta a livello di numero di uomini.” Germania sfogliò qualcosa. Aprì una nuova carta, la spinse davanti a Ucraina, e indicò la scritta più grassa. ‘MOSCA’. “Quanta difesa è presente davanti a Mosca?”

Ucraina incrociò le caviglie sotto la sedia, stropicciò un angolo della camicetta fra le dita, e scosse il capo. “Non molta.” Sistemò il peso sulla seggiola e strinse i pugni bloccati dagli anelli delle manette che già le avevano tatuato spesse bruciature rosse all’altezza dei polsi. Spostò anche lei gli occhi segnati di grigio sulla carta, sul territorio sovietico già in mano alla Wehrmacht, su tutte quelle croci. “Mio fratello sapeva che il vostro attacco si sarebbe concentrato al sud, nella mia nazione, e anche su Leningrado, dato l’attraversamento così rapido dei Paesi Baltici, così ha distribuito l’esercito soprattutto in queste zone. Non conosco il numero preciso delle armate, comunque.” Una sfumatura di malinconia le incrinò la voce arrochita. “Russia durante queste situazioni sa diventare molto volubile, soprattutto se si sente messo alle strette. Potrebbe averle già incrementate con le truppe di riserva. Ne addestra di nuove ogni giorno, e le reclute di certo non mancano, non in un paese popoloso come il suo.”

Prussia sollevò un sopracciglio e inviò un’occhiata sbilenca a Germania. “Starà già evacuando le industrie e salvando tutto quello che gli è possibile spingendo i trasporti verso est.”

Germania annuì senza spostare il pugno dalla carta. “Lo avevo già previsto, in effetti.” Tornò su Ucraina con un’occhiata più dura e inquisitoria, strozzante come le manette che le avevano fatto indossare. “È così?”

Ucraina annuì. “Le evacuazioni e il trasporto delle industrie stanno procedendo da inizio agosto,” confermò. “Abbiamo già trasbordato il laminatoio di Dniepropetrovks e l’acciaieria di Zaporze.”

Austria, l’unico a starsene in piedi affianco al tavolo assieme a Prussia e Germania, si accigliò. “E dove sarebbero diretti?”

“Principalmente negli Urali,” rispose Ucraina. “E in Siberia. Ah, e anche in Kazakistan.”

Prussia fece roteare lo sguardo e allentò il colletto della giacca, si massaggiò il collo facendo scricchiolare le vertebre. “Be’, non rimarrete a secco così facilmente, di questo ormai ci siamo rassegnati.”

Austria camminò dietro il profilo di Prussia e fece scivolare lo sguardo sul territorio racchiuso dalla carta dove aveva combattuto fino a un paio di settimane prima. “Anche durante la sacca a Uman non immaginavamo di trovarci di fronte a un così alto livello di risorse.”

Germania li assecondò. I suoi freddi occhi inquisitori fermi su Ucraina, così fragile in quella gabbia di nemici. “Ci avete nascosto gran parte del vostro potenziale e ci avete tenuto all’oscuro sulla produzione delle armi e dei carri armati, anche quando eravamo alleati. Questo fattore si è rivelato...” Sciolse il pugno e fece tamburellare le dita. La sua fronte rimase aggrottata. “Piuttosto seccante da scoprire.”

“Me ne rendo conto.” Ucraina si strinse nelle spalle, intrecciò le dita facendo trillare il metallo delle manette. “Il fatto è che Russia dispone di un’enorme capacità di ricostruzione. E questo è perché possiamo continuare a contare sulle industrie in Siberia, nonostante voi ci stiate spingendo ad abbandonare quelle del Caucaso. In più...” Guardò più a nord, oltre gli Stati Baltici già solcati dalla furia tedesca. “Se ora a Leningrado contate di tagliare i collegamenti ferroviari e di interrompere gli scambi con la Svezia...”

“Quello che sta succedendo a Leningrado non ti riguarda,” la frenò Germania. “O, meglio, non ti riguarda più.” Risollevò le spalle e si mise a braccia conserte. “Tu pensa alle sorti del tuo paese, e lascia il resto a tuo fratello. Non puoi più fare nulla per lui, ormai.”

“Sì.” Ucraina chinò il capo, quasi avesse ricevuto una mazzata sulla nuca, e il suo sguardo scivolò lontano dalla carta stesa davanti a lei. I suoi occhi si posarono su Italia, sul riflesso della finestra attraverso cui lui la stava spiando, e di nuovo apparvero tristi e colpevoli come se gli stessero chiedendo scusa.

Italia allargò le palpebre e piantò le unghie nelle braccia incrociate sul davanzale, percorso da una saetta di brividi che gli fece accapponare la pelle. Distolse lo sguardo. Si strofinò le maniche e grattò via quella sensazione di disagio, quel formicolio di pericolo che non se n’era ancora andato nonostante si fosse tenuto distante dagli occhi di Ucraina dal momento in cui si era consegnata.

Bulgaria passò dietro Italia, attraversò l’immagine riflessa sulla finestra, spezzando quel contatto, e interruppe lo scambio di sguardi fra i due. Appoggiò il fianco contro il bracciolo della poltrona su cui si era lasciato cadere Romania e sbuffò. “Che palle queste riunioni.” Diede una stiracchiata alle braccia, grattò le ferite ricucite sul petto e sulla guancia, e sistemò la giacca in modo che la stoffa non tirasse i punti ancora freschi. “Perché Germania non ci ha lasciati andare a riposare? Io sono stanco morto e le ferite ricominciano a farmi un male cane. Questo è sfruttamento, merda.”

Romania si prese la fronte, massaggiò le tempie, stropicciò le nocche sulle palpebre annerite dalla stanchezza, e indicò accanto a sé con un cenno del capo. “Fai come lui.”

Su un’altra delle poltrone, Romano era crollato dal sonno, spremuto contro il fianco di Spagna, con la testa accasciata sulla sua spalla, le labbra leggermente socchiuse, l’espressione assopita e l’ombra dei capelli a nascondere gli occhi chiusi. Anche Spagna sonnecchiava a palpebre socchiuse, lo sguardo rivolto fuori da una delle finestre, la testa ciondolante su quella di Romano, e le dita che passavano pigre carezze fra le sue nocche.

Romania strinse le ginocchia al petto, schiacciò i piedi sotto le cosce, e anche lui si abbandonò contro il fianco di Bulgaria poggiato sul bracciolo. “Lui sì che ha capito come funziona la faccenda. Ci conviene riguadagnare più energie che possiamo prima che Germania decida di ripartire.”

“Potremmo sempre convincerlo a farci rimanere qui invece che ripartire per Mosca.” Bulgaria scosse le spalle, abbozzò uno dei suoi sorrisi da furbo, incrinato però dal ricamo di punti sulla guancia. “Tanto per sorvegliare Kiev.”

Se avrà intenzione di ripartire per Mosca.”

“Pft, ovvio che avrà intenzione di andare su Mosca.” Bulgaria voltò il capo e strusciò la nuca sui suoi capelli. “È l’unico obiettivo rimasto, praticamente. Ormai c’è da stare tranquilli. Russia ha le settimane contate.”

Romania affilò le palpebre e una scintilla saettò attraverso le iridi ambrate. “Ma Germania potrebbe sempre decidere di aspettare fino alla prossima primavera prima di invadere Mosca.”

Entrambi tornarono a concentrarsi sul tavolo delle riunioni. Tesero l’orecchio e si isolarono dai brontolii provenienti dall’esterno, dal respirare assopito di Romano, e si lasciarono catturare dalla voce petulante di Austria che aveva preso la parola.

“La Linea Stalin però si è rivelata relativamente semplice da sfondare. Nonostante i bunker, i fortini, e i fossati anticarro, siamo riusciti ad attraversarla più velocemente del previsto. Com’è stato possibile?”

Germania sfilò le nocche dalla carta. “Penso sia dovuto al fatto che la difesa durante i primi giorni di guerra sia stata molto sporadica e disordinata su qualsiasi fronte.”

“Per mio fratello si è trattato di un momento difficile,” specificò Ucraina. “Il vostro tradimento lo ha ferito molto.”

Prussia si strinse lo stomaco e se la rise di gusto. “Oh, povero caro fratellino, non sai quanto ci dispiace di averlo fatto piangere.”

Germania lo ignorò come se si fosse trattato di schivare il ronzio di una zanzara. “La difesa attorno a Mosca sarà rafforzata, quindi?” I suoi occhi tornarono sulla mappa. Sulle due autostrade già in mano tedesca che affondavano nella zona della capitale. “Cos’ha in mente? Un’altra linea di fortificazioni?”

Ucraina lo imitò. L’insegna di Mosca si specchiò nei suoi occhi umidi di nostalgia. “So che sono già presenti delle fortificazioni, effettivamente. E che a Mosca stanno mobilitando un gran numero di soldati, operai, cittadini, e persino donne per incrementare la difesa della città. Russia non vi permetterà di impadronirvi della sua capitale con facilità.” Sospirò a fondo. “Non ricommetterà l’errore che lo ha portato a perdere me.”

Prussia appiattì il ghigno, gli passò la voglia di ridere. Lui e Germania si scambiarono un lungo sguardo silenzioso che non riuscì a nascondere una punta di compassione nei confronti della poveretta ammanettata.

Germania tornò su Ucraina, su quegli occhi ancora integri e limpidi nonostante la sconfitta. “Se tu ora ti trovassi al posto mio...” Raccolse lo schienale di una sedia e si sistemò di fronte a lei. Solo il piano del tavolo a separarli. “Come ti comporteresti?” Distese la mano sulla carta, su quella nazione che non era ancora sotto il suo totale dominio. “Conosci il territorio meglio di noi, dopotutto, e immagino ti sarai fatta un’idea della situazione. Avrai cominciato a capire chi fra me e Russia si trova in vantaggio rispetto all’altro.”

“Sì, infatti,” annuì Ucraina. “E se io fossi in te...” Inspirò a fondo e lo guardò negli occhi. “Mi fermerei, Germania. Stabilirei dei quartieri invernali da utilizzare come basi, li proteggerei fino all’arrivo della prossima primavera, e tenterei solo allora uno sfondamento diretto su Mosca.”

Prussia aggrottò le sopracciglia e fece schioccare la lingua. “Sì, ti piacerebbe, eh? Così lasceremmo al fratellino tutto il tempo di riorganizzarsi e di trasportare le altre industrie sempre più a est.”

“Avete chiesto la mia opinione e io ve l’ho data. Siamo quasi alla fine di settembre, la stagione delle piogge si avvicina, e con essa quella del fango.” Il volto di Ucraina si velò di un’espressione più candida e persuadente. “Sapete cos’è la Rasputitsa?”

Anche Italia voltò lo sguardo, scosso da un moto di curiosità. Spagna riaprì un occhio, Ungheria smise di camminare davanti alle finestre, e solo Romano continuò a ronfare.

“Io sì.” Romania risollevò il capo dalla spalla di Bulgaria ma tenne le gambe raccolte sulla poltrona. “È la stagione del fango, giusto? Quando le strade diventano impraticabili per qualsiasi mezzo.”

Ucraina annuì. “Un cucchiaio di pioggia equivale a un secchio di fango. È così che si dice nel mio paese. Non è dell’inverno che dovete preoccuparvi, ma dell’autunno. Il fango è forse un nemico ancor più temibile del gelo quando si tratta di far avanzare un esercito.”

Quelle parole si schiantarono su Italia come un sonoro schiaffo di ripicca sulla guancia. Su di lui si rovesciò il ricordo di tutta la pioggia ghiacciata che lo aveva annaffiato durante la Campagna nei Balcani. Attorno alle gambe s’innalzò il tappeto di terra molle in cui aveva guadato durante l’avanzata, tutto il fango che aveva fatto mangiare al suo esercito durante i primi mesi della campagna militare. Italia tornò a guardare fuori dalla finestra e spinse la fronte contro le braccia incrociate per non dover fronteggiare il suo stesso riflesso, quella maschera di vergogna che si portava ancora appresso nonostante la vittoria su Grecia.

“Fidatevi di me,” disse ancora Ucraina. “Conosco la mia terra e conosco mio fratello. Conosco il suo esercito e il suo modo di agire e di pensare. Russia possiede ancora le risorse per contrastarvi, soprattutto ora che arriveranno anche i sostentamenti di America e Inghilterra.”

Una nera ombra di disappunto si dilatò fra le pareti della camera, brontolò su di loro come una delle nubi incandescenti che stavano soffocando le strade di Kiev.

Prussia fece tamburellare le dita sulle braccia conserte. Un guizzo di impazienza gli arricciò la punta del naso in una smorfia. “Sì, sappiamo della Carta Atlantica.” Compì un piccolo balzo e si sedette sull’angolo del tavolo. Austria lo fulminò e si scostò per non finire calciato dal dondolio dei suoi piedi. “Come l’ha presa Madre Russia, mh?” domandò Prussia. “Contento dei suoi nuovi amichetti?”

“Per dirla tutta...” Ucraina scosse il capo. “No. Non molto.” Graffiò la stoffa dei pantaloni, infilò le dita sotto gli anelli delle manette e strofinò i segni arrossati attorno ai polsi. “Lui in realtà...”

Un’esplosione tuonò fuori dall’hotel e si schiantò contro la facciata che dava sulla strada, fece ronzare le finestre e scosse il lampadario che pendeva dal soffitto.

Ungheria gemette per lo spavento, Italia tirò su il capo dalle braccia, Spagna si girò di scatto, e anche Romano rimbalzò sulla poltrona, svegliato di colpo. “Che caz...” Si strofinò la testa, ancora avvinghiato al braccio di Spagna, e si girò verso la finestra più vicina. Sbatacchiò una palpebra alla volta. “Che merda è successo?”

Italia salì sulle ginocchia, e s’incollò con le mani e la fronte al vetro. Al di là delle schiere di tetti si erse un rigurgito di fumo più denso e ribollente rispetto a quello soffiato dagli incendi. All’eco del tuono seguì uno scricchiolio e un’altra frana, un rumore simile a quello di una slavina di montagna. Italia sgranò gli occhi. “È esploso un palazzo!”

Tutti si precipitarono a guardare. Solo Ucraina rimase seduta, immobile, come se non fosse accaduto nulla.

Prussia si spremette fra le spalle di Austria e Ungheria, schiacciò anche lui la fronte alla finestra, facendosi ombra con la mano, e seguì la massa del fumo risalito da uno degli edifici che si era sfasciato come una torre di fiammiferi e carta. Rimase a bocca aperta. Lo sguardo perplesso ma non ancora allarmato. “Avevi ordinato delle demolizioni?”

“Io non ho ordinato nulla,” ribatté Germania, spaesato quanto lui.

Bulgaria si staccò dalla finestra e inarcò un sopracciglio. “Saranno stati i russi?”

“Ma se sono appena usciti dalla città,” rispose Romania. “Sono evacuati, ormai. È da cinque giorni che stanno facendo piazza pulita.”

“Che sia rimasta gente dentro?” Bulgaria affondò le mani fra i capelli e stridette un guaito di spavento. “Delle spie?”

“Ma che senso avrebbe far saltare in aria la loro stessa città?” sbottò Romano. “Ci siamo qua noi per farlo!”

Prussia masticò un ringhio di frustrazione che gli fece vibrare la mandibola, e si girò verso Ucraina scagliando l’indice sull’immagine del fumo. “Che sta succedendo là fuori, si può sapere?”

Ucraina mantenne lo sguardo fermo davanti a sé, come se stesse parlando con qualcuno seduto dall’altro capo del tavolo. “Opere di sabotaggio.”

Tutti quanti sgranarono le palpebre e rimasero senza fiato. Volarono sguardi allibiti, piccoli singhiozzi di panico trattenuti nel petto, sobbalzi di spavento ed espressioni contratte in maschere di sconcerto.

“L’esercito è ormai fuori dalla città,” proseguì Ucraina, senza cambiare timbro di voce, “ma la Polizia Segreta sta ancora operando per minimizzare l’effetto della vostra presa su Kiev. Scoppieranno altri incendi detonati da comandi a distanza.”

Una scossa di realizzazione fulminò Germania. “State facendo terra bruciata.” E sono stati così abili da piazzare l’esplosivo e a rimanere nascosti senza che io mi accorgessi di nulla? Ma allora... Tornò a rivolgere lo sguardo fuori dalla finestra. I suoi occhi volarono da un edificio all’altro, penetrarono in ogni ala di fumo, in ogni nube di polvere. Cos’altro potrebbero aver fatto senza che io me ne rendessi conto?

Un altro ruggito e un altro schianto rotolarono lungo le strade di Kiev, il vento innalzato scricchiolò sulle finestre e alimentò la rovente cappa di fumo.

La voce di Spagna strappò Germania ai suoi pensieri. “Germania, dobbiamo evacuare l’hotel, subito.” I suoi profondi occhi verdi avevano perso le grigie sfumature del sonno. Bruciavano di tensione. “E anche gli altri edifici del Quartier Generale. Potrebbero esserci altre bombe, siamo tutti in pericolo. Sia noi, sia gli ufficiali, sia tutti i soldati.”

“Tu lo sapevi!” Romano schiacciò i pugni ai fianchi e pestò un passo verso Ucraina. Anche dal suo viso era caduta ogni ombra di stanchezza. “Vuoi farci ammazzare tutti! Esploderemo anche qui, eh? Era questo il vostro piano fin dall’inizio?”

“Non essere idiota,” gli fece Bulgaria. “Anche lei è all’interno dell’edificio, perché mai dovrebbero farlo saltare mentre lei è ancora...”

Una nuova esplosione si schiantò sopra le loro teste, sfondò il piano superiore e picchiò sul tetto, scuotendo la camera come una scatola di latta.

Lo scossone fece quasi cadere Italia dalla poltrona, le luci saltarono, il lampadario traballò, le finestre ronzarono e si creparono all’altezza degli angoli, una cascata di polvere piovve dal soffitto, e il suono crepitante del tetto franato discese le pareti.

Bulgaria sollevò le mani in segno di resa e soppresse l’impulso di mangiarsi la lingua. “Uh, okay, rettifico tutto.”

Italia corse da Germania, gli si appese alla mano. “Germania...”

Germania percepì a malapena quel tocco. Guardò sopra di sé, si riparò dalla cascata di polvere sbriciolata dal soffitto, e di nuovo fuori dalle finestre incrinate. Hanno piazzato l’esplosivo per impedirci di mantenere fisso il Quartier Generale qua a Kiev. Hanno evacuato la città, ma non intendono lasciarcela intatta. Strinse il pugno sotto la mano di Italia. Faranno di tutto per impedirci di sfruttare quello che abbiamo conquistato.

Un’altra serie di esplosioni più piccole rimbombarono dai piani superiori. Ci fu uno scroscio di tegole, cemento sbriciolato e legno spaccato, e una vampata di polvere discese il soffitto, riempiendo l’intero quarto piano con una nebbia fitta e lattea. Si spanse un odore da capogiro, di esplosivo e di cemento bruciato.

Romano si riparò e accostò una mano alla bocca per urlare verso gli altri. “Sta per crollare tutto!”

Prussia corse all’uscita e li guidò con una sbracciata. “Fuggiamo, svelti, dobbiamo evacuare!”

Germania mosse solo un passo e si fermò. Ucraina era ancora seduta, come se non l’avesse nemmeno sfiorata il timore che sarebbe potuto crollarle l’edificio sulla testa. Germania provò un moto di ammirazione nei suoi confronti, ma non permise al suo cuore di ammorbidirsi. Fermò Prussia e gli parlò da sopra la spalla. “Prendi Ucraina con te. Non perderla di vista neanche per un istante, non permetterle di separarsi da te nemmeno di un passo. Falla uscire per prima. Io chiudo la fila.”

Altro brontolio sopra di loro. Il lampadario traballò di nuovo, una saetta cristallina attraversò una delle finestre, una delle pareti emise uno scricchiolio cavernoso e una sbriciolata d’intonaco ricadde sul pavimento già sommerso dalla nebbia. Il pavimento riprese pericolosamente a traballare.

Prussia annuì, afferrò al volo. “Lascia fare a me.” Corse in mezzo al fumo e si occupò di Ucraina.

Germania si tenne in disparte per lasciare libera l’uscita della sala e guidò tutti gli altri. “Voi andate, svelti, non lasciate indietro nessuno, non perdetevi di vista.”

Austria raccolse la mano di Ungheria, la fece riparare sotto il suo braccio, ed entrambi seguirono Prussia che era già corso via tenendo Ucraina incatenata a sé. Spagna aiutò Romano, un braccio sopra la sua testa e la mano sulla schiena, e Romania e Bulgaria si spinsero a vicenda.

Altre frane sopra di loro. Qualcos’altro esplose fuori dall’edificio.

“Germania...” Italia gli strinse la manica, si guardò alle spalle. Erano rimasti solo loro due.

Germania gli raccolse la mano, intrecciò le dita alle sue, e gli sorresse una spalla. “Andiamo.” Fece strada. “Stammi vicino e non lasciare la presa.”

Italia annuì e si aggrappò a lui come se non aspettasse di sentirsi dire altro.

Discesero il quarto piano dell’hotel, attraversarono quella nebbia di cemento e percorsero le scale saltando di due gradini alla volta, senza sapere che qualcuno era in agguato e che non avrebbe permesso loro di uscire senza pagare il pedaggio.

 

.

 

Raggiunsero il terzo piano. Italia saltò giù dall’ultimo gradino della scalinata, si tenne stretto alla mano di Germania, e si lasciò guidare attraverso la nebbia di fumo sempre più calda e soffocante che stava riempiendo il corridoio.

Le voci degli altri, affannate dalla corsa e spezzate dai tossiti, si mescolarono al rumore ritmico dei loro passi affrettati, ovattati dal pavimento foderato di tessuto.

“Correte da questa parte!”

“State lontani dalle pareti, non imboccate i corridoi laterali!”

“Seguite la direzione del fumo, non fatevi bloccare dalle fiamme!”

“Svelti, svelti, o qui ci crolla tutto addosso!”

Italia imboccò assieme a Germania la seconda rampa di scale e si guardò alle spalle, fronteggiò il calore del fumo che si stavano lasciando indietro. Un’inconscia scossa di paura gli trafisse i pensieri, gli tinse la vista di rosso, spalancò davanti a lui una sequenza di immagini del soffitto che implodeva, del legno che gli crollava addosso, dei gradini sfondati dai suoi stessi passi, e del suo corpo che precipitava per tre piani, inghiottito dalle fauci dell’esplosione.

Germania strinse la mano sudata di Italia, lo spinse ad accelerare il passo. “Svelto, Italia.”

“S-sì.” Italia obbedì, prese falcate più ampie, ma nelle sue ossa rimase quel brivido, quella sensazione di allarme che gli bisbigliava dietro l’orecchio di non abbassare la guardia e di continuare a guardarsi alle spalle.

Uno scricchiolio, uno spacco più secco. Una colonna di legno si sbriciolò dal soffitto, sfondò la nebbia di fumo, e crollò davanti a loro, innalzando una fiammata di scintille rosse e incandescenti.

Italia mollò la mano di Germania, rimbalzò all’indietro, “Ah!”, sbatté sulla parete e ricadde in ginocchio sulle scale foderate di moquette.

“Italia!” Germania risalì i gradini, calpestò piccole fiammelle che stavano carbonizzando il pavimento, e si chinò per risollevargli le spalle. “Ti sei ferito?”

Italia tremò. Le ginocchia inchiodate sul gradino e le dita aggrappate alla peluria rada della moquette pregna della polvere sempre più fitta e soffocante. Il respiro vibrò fra le labbra, gli occhi appannati di fumo cominciarono a pizzicare all’altezza degli angoli e ad arrossarsi. “I-io...” Il calore del fuoco scottò sulle guance sudate, l’odore del cemento bruciato gli fece venire un capogiro, il fumo appannò la vista, disorientandolo, e si sentì di nuovo schiacciato dalle opprimenti occhiate di Ucraina che gli erano rimaste addosso come impronte sanguinanti. “S-scusa, non...” Non ce la faccio!

Germania lo raccolse con la facilità con cui si solleva da terra un cucciolo di gattino e lo rimise in piedi, reggendolo per le spalle barcollanti fino a che non riprese equilibrio. “Portati davanti a me.” Gli diede una spintarella alla schiena per farlo avanzare sotto il suo sguardo. “Vai verso l’uscita, svelto!”

Ricominciarono a correre.

Italia imboccò per primo la scalinata che portava al piano inferiore, fece di nuovo due gradini alla volta, raggiunse il corridoio – anch’esso pregno di un fumo denso e caldo che toccava il soffitto – e corse verso la zona con l’aria più fresca e nitida, dove respirava meglio.

Germania saltò giù dagli ultimi gradini, superò il profilo di Italia nascosto dal fumo, corso nella direzione opposta, e anche lui finì sommerso dalla nebbia di polvere che gli appannò la vista. Le pareti si deformarono in una spirale grigia, gli trottolarono attorno squagliandosi assieme agli arabeschi di fumo, e gli fecero perdere l’orientamento. “Italia?” Lo cercò a destra e a sinistra. Alzò la voce. “Italia, dove sei?”

“S-sono...” Italia si portò una mano davanti alla bocca per non inalare il fumo e sventolò il braccio libero, anche se non riusciva a vedere Germania. “Sono qui. Sto uscendo.” Si girò. Il fumo si diradò svelando un’ala del corridoio dove non era ancora crollato nulla. Italia la imboccò. “Sto scendendo.”

Germania gli diede retta e raggiunse le scale. Corse lungo i gradini, proseguì la discesa senza di lui. Aggrottò la fronte, un brivido gelato gli morse la nuca, nonostante il bruciore del fumo e delle prime fiamme che si era lasciato alle spalle. Non lo vedo. Ma se dice che ha trovato l’uscita allora forse ha già raggiunto i piani inferiori.  “Non ti fermare,” gridò al vuoto. “Continua a correre, io sono dietro di te!”

Si separarono. Germania scese verso i piani inferiori e Italia proseguì nella direzione sbagliata, ancora fermo nell’ala laterale del terzo piano.

Italia corse squagliando i riccioli di fumo in mezzo alle caviglie. L’eco dei suoi passi affrettati e quello più sottile del suo fiato arrochito rimbalzarono fra le pareti del corridoio di cui non vedeva la fine. Italia si guardò attorno. Solo porte chiuse. Eppure le scale dovrebbero essere... “Germania?” Si fermò, si guardò alle spalle, cercò a destra, a sinistra, e riprese a correre. Il calore delle esplosioni si strinse attorno a lui, attraverso il soffitto corsero altri scricchiolii cavernosi, simili a quello che aveva udito prima del crollo della trave. Italia affrettò il passo, punto da una scossa di paura. “Germania! Romano! Dove siete?” Raggiunse la fine del corridoio. Una parete che si apriva in una finestra ormai annerita dal fumo. Italia sobbalzò sul posto. Oh, no, non è la direzione giusta. Dove sono le scale? Tornò indietro, trovò due rampe di scale che imboccavano direzioni differenti. Si rosicchiò le unghie per placare i bruciori di nervosismo. Quali hanno preso? Quali devo prendere per raggiungerli? Si portò le mani fra i capelli per frenare la spirale di panico sempre più stretta e sempre più soffocante. La testa ricominciò a girare. Mi sono perso? Dov’è finito Germania? Era dietro di me. Tossì due volte, si tappò il naso, gli lacrimarono gli occhi. Se solo non ci fosse tutto questo fumo...

Un’altra frana di legno si sbriciolò dal tetto, si schiantò sulla moquette del pavimento esplodendo in uno scoppio di scintille incandescenti.

Italia scartò di lato. “Ah!” Calpestò una delle fiammelle e arretrò, allontanandosi dal fuoco. Per un soffio. Si strofinò via il sudore dalla faccia e corse verso il corridoio in cui il fumo era più rarefatto, dove le porte delle camere erano chiuse e il calore non era penetrato al loro interno. Devo mettermi al riparo, almeno fino a che Germania non si accorgerà che non ci sono più e verrà a prendermi. Tornerà indietro, sì, non può non accorgersi che non ci sono più davanti a lui. Uscirà, scoprirà che non ci sono più, e tornerà indietro a salvarmi come fa sempre.

Italia si spinse dentro la prima delle camere abbastanza lontane dal fumo, saltò via dalle fiammelle che lo stavano inseguendo, divorando la moquette sotto i suoi piedi, e si prese lo stomaco per tossire gli ultimi rauchi gemiti strozzati. Riprese fiato, si stropicciò gli occhi brucianti, e si guardò attorno.

Spesse tende erano tirate davanti alle finestre, rendendo l’ambiente buio, tanto che non riusciva a distinguere la parete di fondo. Un unico filo di luce penetrava dallo spacco nella stoffa, attraversava il pavimento, e si univa al riverbero rossiccio proveniente dal corridoio alle sue spalle.

Una presenza ostile e nemica lo sorprese con la stessa violenza di una pugnalata alle spalle.

Italia rimbalzò e cacciò un gemito, come se le fiamme fossero entrate e gli avessero bruciato la nuca. Si abbracciò le spalle. Rabbrividì. Cosa...

Uno spostamento d’aria dietro di lui, uno sfrecciare di ombre estranee captato dalla coda dell’occhio, e di nuovo quella sensazione da brivido che gli fece accapponare la pelle.

Italia si girò di scatto, fronteggiò un’altra buia parete della camera. C’è qualcuno? Non c’era nessuno. Sento che c’è qualcuno. Compì un paio di passi all’indietro, lontano dalla luce proveniente dal corridoio, e tese l’orecchio. Scavò con lo sguardo nel fumo scivolato sul pavimento che stava imbottendo anche l’ambiente della sala. La sua mano destra bruciò, guidata dall’istinto di afferrare la pistola che pesava all’altezza della cinta, di usarla per proteggersi. Cos’è questa presenza? Non riesco a...

Due figure scivolarono fuori dall’oscurità, distesero le armi scintillanti, spinsero Italia ad arretrare.

“C-chi...” A Italia tremò il respiro, reso più amaro dal fiotto di paura scivolato fra le guance. “Chi sie...”

L’ombra si abbassò, la luce proveniente dal corridoio batté sulle due sagome, delineò i profili di Lituania e Bielorussia tenuti nascosti dalla penombra.

Italia trasse un sospiro scandalizzato. Li riconobbe. “Voi? Ma...” Una serpe di brividi risalì la schiena, gli fece tremare la spina dorsale. Gli girò la testa e la camera trottolò su se stessa. “Non è possibile,” soffiò. “La città era vuota, era evacuata, era solo Ucraina che...”

Le parole che Ucraina aveva pronunciato dopo le prime esplosioni gli martellarono nei ricordi. “L’esercito è ormai fuori dalla città, ma la Polizia Segreta sta ancora operando per minimizzare l’effetto della vostra presa su Kiev. Scoppieranno altri incendi detonati da comandi a distanza.”

Italia realizzò. Gli occhi sgranati s’infossarono in un’ombra di terrore, il cuore gli cadde nello stomaco. “Siete sempre stati qua.” Una scossa di allarme e pericolo lo graffiò attraverso la cicatrice sul petto, rievocando il dolore del proiettile dentro di lui. Doveva difendersi. Italia compì un passo all’indietro e gettò la mano alla pistola, agguantandone il calcio.

Bielorussia fece scattare la sicura del fucile, le sue mani si contrassero sull’arma. “Non toccarla.” Lo raggiunse e gli spinse la volata sotto il mento. “Ti conviene fare il bravo, sgorbietto, o potresti finire in un mare di guai ancor prima di aver lasciato Kiev.”

Il fucile di Bielorussia era una lama spinta sotto la sua gola che avrebbe potuto decapitarlo solo con una flessione dell’indice.

Italia sudò freddo ma tenne il respiro controllato. Continuò a ripetersi che... No, no, non è possibile. Non possono essere qui a Kiev. Ucraina ci aveva detto che...

Il ricordo di Ucraina riemerse in mezzo al fumo, il suo viso basso e colpevole, gli occhi lucidi di tristezza, quel suo mormorio, “Perdonami”, e quello sguardo addolorato che gli era rimasto impresso nel cuore.

Di nuovo Italia capì. Lei lo sapeva. I suoi occhi si colmarono di un’angoscia nera. Lei sapeva che sarebbe successo questo? Sapeva di non essere sola e sapeva che gli altri non avrebbero abbandonato Kiev? Sapeva che sarebbe finita così? Per questo ha continuato a guardarmi per tutto il tempo?

“Cosa...” Italia inviò una serie di scosse ai muscoli delle gambe – scappare, scappare, devo scappare subito –, ma non riuscì a scollare un piede da terra. “Cosa volete?” Indurì lo sguardo, trattenne le lacrime di disperazione e tenne gli occhi alti, carichi del rossore delle fiamme sempre più vicine. Li guardò entrambi. “Volete liberare Ucraina? Ma allora perché le avete permesso di consegnarsi se...”

“Zitto!” Bielorussia gli colpì lo sterno col fucile e lo fece sbattere contro una delle seggiole. “Non aprire quella tua bocca di merda, non osare pronunciare il nome di mia sorella, risparmia il fiato.” Affilò un sorriso maligno coronato dall’ombra della camera. “Te ne servirà parecchio da ora in poi, credimi.”

“Io non...” Gli occhi di Italia volarono oltre le spalle di Bielorussia, oltre la scintilla metallica che brillava lungo la volata del fucile, e si posarono sullo spazio luminoso proveniente dalla porta aperta.

Il suo cuore inviò una preghiera silenziosa, visualizzò l’immagine di Germania che si materializzava sulla soglia, che accorreva a salvarlo, a liberarlo da quella trappola e a guidarlo verso l’uscita dove sarebbe crollato fra le braccia di Romano, salvo e al sicuro. Non accadde nulla.

Italia strinse le palpebre, scagliò un braccio contro il fucile che Bielorussia gli puntava al petto, e si diede uno slancio per sfrecciare fra lei e Lituania, a costo di tuffarsi nel fuoco e a costo di prendersi un paio di pallottole nella schiena. “Non mi farò sconfiggere qui!”

Un paio di braccia lo circondarono, s’incrociarono all’altezza del suo petto, incatenandolo, e lo tirarono indietro facendolo sprofondare in un corpo morbido, in un intenso profumo di spezie, di terra di campi, di ghiaccio e di vodka. Un profumo così vivo nonostante l’ambiente intriso di fumo. “Te ne vai di già, Italia?” Dietro l’orecchio, lo solleticò una soffice voce che conosceva. “Ma come?” Una mano inguantata gli percorse il profilo tondo del viso, gli tappò la bocca, arrestando un suo gemito di spavento, e trattenne la guancia di Italia contro la sua. Lo toccò un sorriso a sfioro dei capelli assieme alla consistenza più dura e fredda di una pistola sulla tempia. “Proprio ora che cominciavo a divertirmi?”

Una botta di paura martellò sotto la pressione della pistola spinta fra le ciocche. Quell’ondata di gelo si condensò attraverso il viso sbiancato di Italia, sotto la mano di Russia schiacciata contro le sue labbra diventate amare come bile, attorno al braccio che gli soffocava il respiro nel petto, attraverso la schiena premuta su quel corpo morbido ma freddo come neve. Era in trappola.

Russia strinse la presa delle braccia, sollevò il sorriso sfiorando l’orecchio di Italia col suo respiro. “Ora ti è passata la voglia di fare il coraggioso, vero?”

Bielorussia sogghignò. Lituania si limitò a tenere il fucile sollevato ma distanziò lo sguardo da quella scena.

Una dolorosa sensazione di vuoto e solitudine picchiò sul petto di Italia, pesante come la botta data dal fucile di Bielorussia. Un primo groppo di lacrime e disperazione risalì la gola, finì soffocato dalla mano di Russia premuta sulle sue labbra, gli velò gli occhi già brucianti e appannati dal fumo.

Italia raccolse un ultimo slancio di energie, lo inviò alle gambe tremanti, pestò un passo e diede uno strattone con le spalle. Si ritrovò accasciato di nuovo fra le braccia di Russia, ferme e solide attorno a lui come una presa di marmo.

“Non ti muovere.” La mano che impugnava la pistola gli sfregò la bocca di fuoco fra i capelli, facendogli sentire il marcio alito di piombo. “Non mi costringere a farti del male. Mi servi tutto intero, piccolo Italia.”

Italia soffocò un gemito di terrore contro la sua mano inguantata e si aggrappò alle braccia che lo tenevano incatenato, affondando le unghie nella manica. Ricominciò a tremare. I muscoli divennero pesanti, come fatti di gesso, lo inchiodarono a terra. Il cuore accelerò, dandogli l’impressione di star per uscire dal petto. I suoi occhi, colmi di un pianto che non si era ancora sciolto, si fossilizzarono sull’apertura della porta. La sua testa gridò mille volte il nome di Germania, lo supplicò di comparire, di salvarlo dalla prigionia di Russia, di portarlo lontano.

Russia lo strinse più forte premendo il peso delle braccia sulle costole. Guancia su guancia, il tepore del suo respiro dietro l’arco dell’orecchio, i capelli a strofinare sulla sua tempia sudata, e la sciarpa a pizzicare sul collo scoperto. “Che guaio, Italia. Ti sei cacciato proprio un brutto, brutto pasticcio.” La mano inguantata di Russia scivolò dalla sua bocca e salì a carezzargli i capelli. Gesti caldi e affettuosi. “Ora cosa credi che farà Germania quando saprà che tu sei nostro ostaggio? Credi che sarà disposto a mandare tutti suoi piani all’aria pur di venire a salvarti? Ovvio che sì. Io e te conosciamo bene la risposta.” Gli raccolse una ciocca castana e la arrotolò più volte fra le punte delle dita. Sgradevoli brividi di terrore e disgusto discesero la nuca di Italia, come una serie di unghiate lungo la schiena. “Sappiamo che tu per Germania vali più di qualsiasi guerra.” Le labbra di Russia s’inarcarono in un sorriso più fine e tagliente. Le sue parole assunsero un tono d’accusa e di scherno. “Hai rovinato tutto, Italia. Tutta la sua campagna militare, tutte le battaglie per cui ha duramente lottato, tutti gli sforzi che lo hanno portato fino a qui. Come farai a guardarlo in faccia, da ora in poi? Come farai a chiedergli scusa?”

Italia strinse i denti. Quelle frasi affondarono dentro di lui come una corona di spade attorno al cuore. “N-no,” sibilò, soffocato dal pianto incastrato in gola. “No, non è vero.” Non è vero che ho rovinato tutto, non è vero che Germania non potrà più combattere, non è vero che perderà la guerra per colpa mia. “Ti...” Strinse le mani attorno al braccio di Russia, avanzò di un passo, tornò ad accasciarsi, debole, e singhiozzò. “Ti prego, lasciami andare.”

Russia scosse il capo. “Non posso proprio farlo, temo.” Gli strinse la mano fra i capelli per tenergli il capo fermo e dritto. “Ora verrai con noi. Se Germania ti verrà a salvare, inseguendoci fino a Mosca, lo ucciderò e morirà. Se invece ti lascerà a noi senza riconsegnarci Ucraina, sarai tu quello a morire.” La spinta della pistola sulla sua tempia gli graffiò la pelle. La voce di Russia divenne un alito ghiacciato, di colpo grave e cupo. “La prossima volta magari imparerete a non mettere le mani sulle mie sorelle o sulle altre nazioni che mi appartengono.”

Italia non riuscì più a trattenere il pianto. I suoi occhi traboccarono. Copiose e amare lacrime di resa e abbandono, gli inondarono le guance e rotolarono fra le dita di Russia. Singhiozzò. Dentro di lui crebbe solo il desiderio di gettarsi con le ginocchia a terra, di premere le mani sul viso, e di lasciarsi affogare nel suo stesso pianto disperato.

Il tocco umido e caldo delle lacrime attraversò la stoffa del guanto di Russia e gli bagnò la pelle. Sul suo volto si dipinse un’espressione addolorata. “Oh, no. Non fare così, suvvia.” Russia asciugò le lacrime di Italia – se ne aggiunsero subito altre – e gli carezzò ancora i capelli, il profilo della guancia. Lo tenne stretto a sé e gli posò la fronte sulla nuca. “Non piangere, Italia,” disse con tono compassionevole. “Non devi essere triste, perché stai per prendere parte a qualcosa di più grande di te e dovresti esserne onorato. E magari, quando io vincerò la guerra, potrei anche decidere di risparmiarti, e così tu potrai stare con me per sempre.” Soffiò una risata allegra e compiaciuta, così tiepida attraverso le ciocche di capelli sfiorate dalle sue labbra. “Sì, penso proprio che potrei decisamente affezionarmi a uno come te. E ti tratterei di certo con miglior riguardo di Germania.”

Sopra le loro teste, gli ultimi scricchiolii saettarono attraverso il soffitto, aprirono ampie crepe a forma di ragnatele nate dagli angoli e districate fino ai lampadari spenti e traballanti.

Russia guardò in alto, seguito anche da Bielorussia e Lituania. “Sta per crollare.” Spinse Italia in avanti di un passo, tenendo la pistola schiacciata sulla sua tempia, e chiamò gli altri due con un cenno. “Usciamo da qui prima di rimanere intrappolati.” Avvolse di nuovo la bocca di Italia, gli schiacciò il viso fra le dita, e accostò il sorriso alla sua guancia bagnata di lacrime. La sua voce trillò di gioia. “Abbiamo un piccolo riscatto da consegnare.”

 

.

 

Germania fu l’ultimo a saltare fuori dall’hotel prima che brillasse l’ultima carica. Scavalcò gli ultimi tre gradini d’ingresso, pestò l’asfalto su cui già giacevano alcuni detriti schizzati via dagli scoppi, e finì strattonato via dalla mano di Prussia che si era gettato a sottrarlo all’ultimo crollo.

Dietro di lui, la struttura dell’hotel si sbriciolò. Lo scheletro si ripiegò verso il centro, come un intreccio di bastoncini, e l’abbraccio di calore lo fece accartocciare e sprofondare in una valanga di fumo. Il bruciore dell’esplosione avvampò, inghiottì cemento e legno, e rigurgitò un alito nero che si dilatò in una nube catramosa, seguito dallo scoppiettio delle fiamme che stavano cominciando a espandersi dal cadavere dell’edificio.

Germania riprese fiato tenendosi stretto alle ginocchia flesse, e si strofinò la nuca dove permaneva il calore scottante del fuoco da cui era fuggito. Sentiva ancora il peso del fumo gravare sui polmoni. Gli dolevano le gambe e la schiena ricurva tremava sotto le rauche boccate d’aria.

Attorno a lui, tossiti resi pesanti dal fumo, e un coro di voci trascinate, lamentose.

“C’è mancato un soffio.” Altro tossito.

“Merda, ancora un secondo e finivamo schiacciati.”

“Peggio.” Rumore di mani che battono sulla stoffa bruciacchiata, di passi scricchiolanti. “Finivamo arrosto. Guarda che incendio.”

Germania buttò l’occhio alle sue spalle, ma solo poche fiamme brillavano da dietro i bitorzoli di fumo, gonfi e spumeggianti, sospinti dalle risacche di vento gettate da un’altra esplosione che aveva tuonato dal lato opposto della strada.

“West.”

Germania si girò al richiamo.

Prussia affidò Ucraina ad Austria, si spostò i capelli dal viso sbavato dal nero del fumo, si grattò l’orecchio, e gli tornò vicino. “Sei tutto intero?”

Germania scosse il capo. “Non pensare a me.” Strinse anche lui le dita fra le ciocche sudate e tirate all’indietro, e soppresse un formicolio di disagio rimasto sotto i polpastrelli. Un freddo senso di mancanza che lo bucò in fondo al cuore.

Si guardò attorno – la vista ancora appannata dalle goccioline di sudore e dalle alitate di fumo – e mise a fuoco la strada, sempre guidato da quel brivido che lo spingeva a non battere le ciglia, a non distrarsi, a continuare a cercare – a cercare cosa? Si soffermò su Romano.

Spagna lo aiutò a rimanere in piedi dopo la corsa, dopo avergli protetto la testa sotto il braccio, e gli spazzolò via alcuni detriti rimasti sulle spalle. “Stai bene?”

Romano tossicchiò. Si ripulì i capelli pieni di polvere e annuì. “Sì, sì, non è nulla.” Si guardò attorno anche lui, sbatté le palpebre arrossate. “Sono solo...” La sua espressione raggelò, fulminata dalla stessa scossa di vuoto e mancanza che aveva colto anche Germania. Un brivido lo punse, gli fece dimenticare del fiatone, del dolore ai muscoli delle gambe, e dei polmoni soffocati dal fumo. Lo pietrificò. “Un momento...” I suoi occhi volarono in ogni angolo della strada, squadrarono ogni presente. Spagna accanto a lui; Austria che stava battendo la mano sulla schiena di Ungheria che tossiva, in preda agli spasmi; Ucraina sotto il suo occhio vigile; Bulgaria che saltellava per scrollarsi di dosso delle fiammelle che gli avevano bruciato l’orlo dei pantaloni, sorretto per la spalla da Romania; e Germania, il più vicino alle macerie, l’ultimo a essere uscito dall’hotel prima che finisse di crollare. A Romano si gelò il sangue. Deglutì, ma trovò solo un buco nello stomaco. “Dov’è Veneziano?”

Spagna rimase a bocca aperta, l’espressione di sasso. Si girò di scatto verso Prussia, si aggrappò alla speranza di una risposta. Prussia sbatté le palpebre, il viso di sale come il suo, e guardò Ungheria e Austria che erano lo specchio della sua espressione. Persino Bulgaria e Romania incrociarono uno sguardo inquisitorio. Ucraina chinò la fronte, si girò di profilo, strinse i pugni ammanettati, schivò le loro occhiate e scappò dalla risposta che già conosceva.

Germania tornò a posare lo sguardo sul rudere dell’hotel. Gli occhi lucidi e allarmati, ma ancora freddi. Il battito del cuore regolare. “Era con me.” Strinse fra le dita la sensazione della mano di Italia stretta alla sua, della piccola spinta che gli aveva posato sulla schiena per farlo avanzare davanti a lui. “L’ho fatto scendere per primo mentre stavamo correndo, ed era davanti a me. L’ho visto fare le scale, l’ho sentito rispondere quando l’ho chiamato. Doveva essere già qui prima di me.”

Romano inspirò, trattenne l’aria ribollente che gli diede l’idea di implodere come aveva fatto l’hotel, contrasse le mani che già pulsavano dalla voglia di spaccargli le costole a suon di pugni, e gli si gettò addosso. “Hai perso mio fratello?” Stritolò la giacca di Germania e scagliò l’indice addosso alle macerie. “Lui è ancora là dentro e quel posto di merda è appena saltato in aria! Avrà finito per spappolarlo! E tu l’hai lasciato là dentro?”

Germania non si lasciò scuotere. Solo un pensiero a ronzargli nella testa assieme alle ultime immagini di Italia: No, non può essere, deve per forza essere uscito prima di me, l’ho visto scendere le scale, ho sentito la sua voce, Italia deve essere in salvo. “Torniamo a cercarlo.” Si sfilò dalla morsa di Romano e si rivolse anche agli altri. “Dividiamoci e torniamo a cercarlo fra le macerie. Non può essere rimasto troppo indietro, e se...”

“Cercavate questo?”

Un’ombra si erse dall’alto delle macerie, si spianò lungo la strada e gettò su di loro un’ondata di gelo siberiano che rese il cielo nero e che congelò il calore dell’esplosione.

Russia sorrise nel mezzo delle fiamme, circondato da spennellate di fumo e toccato di profilo dalla luce rossiccia che diede al suo sguardo una sfumatura ancora più accesa e ardente. Italia giaceva ostaggio fra le sue braccia, come un trofeo, ma ancora in piedi sulle sue gambe tremanti. La mano di Russia premuta sulla bocca e le lacrime a sgorgare da quegli occhi carichi di terrore.

Italia strinse le palpebre, spremette altri fiotti di lacrime, cacciò un grido soffocato dentro la mano di Russia, strattonò le spalle di lato e sollevò il viso. Liberò le labbra, prese fiato, e lanciò un urlo verso Germania. “Germaniaaa!”

Quel grido silurò l’anima di Germania, gli entrò nel cuore e scucì una cicatrice sanguinante di cui non conosceva nemmeno l’esistenza.

Romano fu il primo a precipitarsi in avanti, a spaccare il silenzio col suo nome. “Veneziano!”

Spagna lo bloccò prima che potesse tuffarsi fra le macerie, in mezzo al calore del fuoco, ma anche i suoi occhi si soffermarono su quell’immagine che strideva dentro di lui come un’unghiata sul vetro. Luccicarono di paura e di dolore. “Ita...”

Romano gonfiò i muscoli, pestò un passo che spaccò una maceria sotto la suola, e si liberò spalancando i gomiti contro le braccia di Spagna. “Mollalo, razza di bastardo! Lascialo andare!”

Ungheria si portò le mani alla bocca e sbiancò. Guardò Austria con solo un pensiero a ronzarle nella testa ovattata di paura: Fa’ qualcosa, fa’ qualcosa, ti prego, fa’ qualcosa.

Ucraina si tenne distante, non riuscì a fronteggiare quella scena.

Russia tornò a tappare la bocca di Italia, a bagnarsi delle lacrime sgorgate dai suoi occhioni terrorizzati, ed esibì un caldo sorriso soddisfatto. “È davvero un peccato che ve lo siate perso. Dovreste ringraziarmi per averlo recuperato al posto vostro. Ma non vi preoccupate.” Passò altre soffici carezze fra i capelli di Italia toccati anche dalla bocca della pistola. “Prometto che avrò cura di lui fintanto che rimarrà con me.”

Romano vide rosso. Quel braccio allacciato attorno al corpo di suo fratello, quell’ombra mastodontica a tenerlo inghiottito e prigioniero, quella mano premuta sul suo viso lacrimante e quelle soffici carezze fra i suoi capelli. Raggiunse la sua pistola. “Lurido bastardo psicopatico del cazzo.” La estrasse, impennò la mira sulla testa di Russia. “Togligli quelle fottute mani di dosso, o...”

Questa volta fu Prussia a bloccarlo. “No, non farlo!”

“Ma che cazzo dici?” Romano ribollì e dovette spremere le dita sulla pistola per contenersi da sparare in faccia pure a lui. “Io quello lo scuoio vivo, gli strappo le budella dalla pancia e...”

“Russia ha una pistola puntata alla testa di tuo fratello,” esclamò Prussia, senza mollargli il polso. “È lui quello che detta le regole. Se muovi solo un dito gliela farà saltare.”

Romano rabbrividì, i tremori gli scossero il braccio, raggiunsero la mano di Prussia che si fece ancora più granitica attorno all’osso. Guardò di nuovo l’arma affondata fra i capelli di Italia, guardò la sua pistola che non poteva sparare, guardò in mezzo ai piedi, dove il terreno cominciò a vacillargli sotto le gambe, a sfaldarsi, a risucchiarlo in una spirale molle che gli fece ballare le ginocchia. La vista si sdoppiò. “No...” Gli mancò l’aria. Le mani persero sensibilità, la pistola cadde dalle dita ma lui non udì nemmeno il crack! contro l’asfalto. “No, no, perché?” Barcollò, le vertigini lo aggredirono. “Perché sta succedendo? Non...” Spagna si fiondò a sorreggerlo. Il suo unico appiglio per non crollare.

Il fumo nero delle macerie soffiò contro Russia, incupì la sua espressione, gli scosse i capelli sulla fronte carica d’ombra, agitò i lembi della sciarpa attorno alle gambe, rese la sua figura più alta e imponente in quella posizione di sovranità. “È venuto finalmente il tempo di pareggiare i conti, Germania, proprio come ti avevo promesso.” Staccò la pistola dalla tempia di Italia e la rivolse verso il basso. Un monito per Germania. “Italia in cambio di mia sorella, Germania. Se sei d’accordo, allora ci vediamo a Mosca per il baratto. È una proposta più che onesta, mi sembra.” Il suo sorriso tremolò di eccitazione, di una scintilla carica d’entusiasmo sbocciata anche nei suoi occhi nebulosi. “Sempre che riusciate a raggiungere la mia capitale prima dell’inverno. E sempre ammesso che io ti dia il permesso di metterci piede.”

Il mondo attorno a Germania si trasformò in un largo e cupo spazio nero senza suoni. Una mano affondò nel suo petto e allargò uno strappo sanguinante in quella ferita di cui ignorava l’esistenza, gli rubò il tepore di Italia, il senso di pace donato dai suoi abbracci, i guizzi di gioia ricevuti dai suoi sorrisi, la sensazione morbida del suo tocco sul viso, l’allegria della sua voce. Gli lasciò un’anima fredda e buia, come se il sole si fosse spento, cancellò ogni colore dal suo mondo. La croce di ferro gli pesò sul petto, per la prima volta si fece insostenibile, un cappio di filo spinato allacciato alla gola sanguinante.

Italia...

Nemmeno lui riuscì a credere di trovare la forza di rimanere in piedi.

 

.

 

Il peso del proiettile che ancora custodiva nella tasca interna della giacca, proprio sopra il suo cuore, gli si piantò nel petto, gli perforò le costole e gli bucò l’anima come se fosse stato lui quello a ricevere il morso dello sparo, quel fantasma proveniente dalla Campagna nei Balcani. Davanti ai suoi occhi sgranati si dilatò una nube color piombo che inghiottì l’immagine di Italia imprigionato fra le braccia di Russia. Gli mandò l’anima in pezzi, uno schianto cristallino simile a quello di una boccia di vetro che esplode dopo una caduta. Risucchiò ogni grammo di forze dal suo corpo, rese le membra molli, il cuore pesante, e la mente bianca, distante da tutto.

La voce di Spagna giunse da lontano, “... no! Romano!”, gli attraversò la testa ma finì soffiata via come un alito di vento. “Roma...” Una presa salda attorno alle sue spalle. La voce di Spagna più vicina, “Guardami, Romano!”, scossa anch’essa da un sussulto di timore. “Non chiudere gli occhi, continua a respirare, non...”

Il fischio nelle orecchie spezzò le parole di Spagna. Risucchiò Romano nel baratro nero dove solo la sua stessa voce riecheggiava nitida. Respirare? Dischiuse le labbra, trasse solo un singhiozzo, e il fiato si bloccò in gola. Fu la stessa sensazione soffocante che aveva provato quando era caduto nelle acque del Kalamas, in Grecia. Sorse il gelo delle acque nere che lo avvolsero, paralizzandogli i muscoli e schiacciandogli i polmoni. Il vortice lo risucchiò di nuovo nel suo occhio e lo spinse verso il basso, nella stessa bolla ovattante in cui si era quasi lasciato morire l’anno prima.

Romano si aggrappò a un sorso d’aria, si appese a un braccio di Spagna, ma il fiato venne meno. Non... Lo colpì una botta di vertigini. Il mondo si capovolse. Riesco... Le sue dita rilasciarono la presa, scivolarono dal braccio di Spagna a cui erano aggrappate, troppo deboli. Prima ancora che se ne potesse rendere conto, stava già cadendo.

“Romano!”

Due paia di braccia lo sorressero.

Prussia lo acchiappò per il bacino, calciò via una maceria scoppiata dall’esplosione dell’hotel, e assieme a Spagna fece stendere Romano in un punto della strada dove non rischiava di premere sugli spuntoni di asfalto e cemento.

Spagna gli fece adagiare le spalle, e aprì una mano dietro la sua nuca per non fargli battere la testa sul duro. “Respira.” La voce ferma, senza alcun turbamento a scuoterla, e i suoi occhi di nuovo vicini, di nuovo brillanti attraverso la patina sfocata che gli chiazzava la vista. “Respira, non ti agitare, respira con me, così, da bravo, segui la mia voce.” La sua mano sulla guancia. Un tocco tiepido sulla pelle tremante e gelata dalla paura. “Tranquillo.”

Romano contrasse i muscoli. Il battito del cuore accelerò, in cerca della metà perduta che gli era stata strappata via. Rauche boccate d’ossigeno fecero tremare le labbra diventate bianche come gesso, gli occhi spalancati nel vuoto fissarono il cielo diventato color pece, le mani fredde e torte come rami si appesero all’aria, quasi a raggiungere l’ultima immagine che aveva di Italia, a tenersela stretta, a scavare negli ultimi ricordi di lui. Se n’è andato, se n’è andato, se n’è...

Davanti a Romano sfilarono le ultime occhiate schive che si erano rivolti, quegli sguardi freddi e distaccati, carichi di risentimento. Le ultime parole crudeli. “Io non mi posso più fidare di te, Veneziano. È questo che sta succedendo fra di noi, è questo che stiamo cercando di dirci.” Le ultime frasi d’odio che non avrebbe più potuto rimangiarsi, e le scuse che non avrebbe più potuto rivolgergli.

L’ho perso?

Le lacrime sorsero, sciolte dalla botta di dolore affondata nel petto, e si raccolsero fra le palpebre brucianti. Romano trasse un primo singhiozzo, ma si soffocò. Il pianto si sciolse, rotolò dagli angoli degli occhi, scivolò lungo le guance, le tempie, e gocciolò sull’asfalto su cui era steso. Seguirono altre lacrime, sempre più abbondanti e sempre più amare.

Romano si aggrappò al braccio di Spagna, strinse gli occhi, spinse la nuca all’indietro e continuò a piangere, a sorseggiare singhiozzi d’aria, a svuotarsi di quel dolore senza fine.

Spagna gli passò un’altra carezza sulla guancia bagnata di lacrime, gli scostò i capelli dalla fronte, gli massaggiò la nuca che teneva sollevata dalla strada. “Va tutto bene, tutto bene,” annuì. “Respira. Resta con me.”

Lontano da loro, Ungheria teneva ancora le mani premute sulla bocca. L’espressione pallida e sconvolta, gli occhi ancora spalancati nel punto dove Russia si era volatilizzato reggendo Italia fra le braccia, trascinando via il suo disperato grido d’aiuto. I singhiozzi di Romano la raggiunsero, furono una coltellata al cuore. Scoppiò a piangere anche lei.

Ungheria si lasciò avvolgere da un braccio di Austria, bisognosa di farsi sorreggere per non crollare, e gli bagnò la spalla di lacrime, tremando e ingoiando a forza quegli spasmi di paura e dolore che le stavano sfasciando il petto.

Austria la strinse, le scostò i capelli dalla spalla, le massaggiò la schiena per placare i singhiozzi. Rimase integro per entrambi. “Andremo a riprenderlo.”

Ungheria strinse gli occhi e scosse il capo. “Se solo non l’avessimo perso di vista. Se solo...” I singhiozzi batterono alla radice del naso, sulla frattura, ma il senso di rimorso le fece ancora più male. “Se solo fossi rimasta con lui.”

“Non è colpa tua,” le rispose Austria. “Non è colpa di nessuno.” Tenne anche lui gli occhi bassi, nascose quell’ombra di preoccupazione che rese anche il suo cuore più pesante. “Ma salveremo Italia. Germania non permetterà mai che rimanga prigioniero di Russia, non si darà pace fino a che non l’avrà liberato.”

Sommerso dai fumi grigi soffiati dalle ultime fiamme che bruciavano fra le macerie dell’hotel, celato dall’ombra della facciata che si era riversata ai suoi piedi, Germania teneva ancora lo sguardo alto, gli occhi aperti su quella scena appena volatilizzata che però gli era rimasta addosso come un chiodo nel cranio, come un proiettile nel cuore. Si guardò le mani. Le strinse, le riaprì. Erano fredde. Non c’era più il tepore della mano di Italia, quel tocco che avevano condiviso prima di separarsi, prima che il fumo li dividesse. Germania si voltò.

Spagna e Prussia fecero mettere seduto Romano, e lui si aggrappò alle spalle di Spagna, affondò il viso nel suo petto, e si rannicchiò fra le sue braccia che continuavano a carezzargli i capelli e a strofinargli la schiena.

Lo stesso dolore attraversò anche Germania. Dentro di lui sorse il bisogno di chinarsi, di stringere le spalle di Romano, di guardarlo negli occhi e di assicurargli che si sarebbero ripresi Italia, che si sarebbe risolto tutto, che Russia non gli avrebbe fatto nemmeno un graffio, e che non avrebbe mai più permesso che accadesse qualcosa di simile.

Lo raggiunse. “Romano...”

Romano, nascosto nel guscio formato dalle braccia di Spagna, strinse i denti in un ringhio e spremette altre lacrime fuori dalle palpebre. Un’altra ondata di pianto bruciante e rabbioso sorse dal petto, gli ribollì nel sangue, gli mandò a fuoco le guance, fece tremare le spalle rannicchiate, gonfiò il cuore che gli galoppava nelle orecchie.

Germania scese a sua volta sulle ginocchia. “Romano, guardami.”

Gli occhi di Romano s’iniettarono di un rosso acceso che gli riempì il bianco attorno all’iride, lacrimarono un pianto ardente d’ira, s’infiammarono dello stesso fuoco che gli fluiva nel sangue.

Romano sgusciò via dalle braccia di Spagna e aggredì Germania con un ruggito. “Tu!” Lo scagliò sulla strada, finendo a terra assieme a lui.

Tutti si allontanarono, Spagna rimbalzò in piedi. “Romano!”

“Tu, come...” Romano spremette le mani sulle spalle di Germania, si morse il labbro, succhiò un’aspra sorsata di fiato, e gli sbraitò contro. “Come merda hai potuto?”

Germania gli strinse un polso, affrontò quegli occhi che avrebbero potuto incenerirlo. “Romano...”

“Come cazzo hai potuto permettere che accadesse? Questo...” Romano gli diede uno strattone coi pugni e gli sbatté di nuovo le spalle sull’asfalto. “Questo è solo colpa tua! Eri tu che dovevi tenerlo d’occhio, eri tu quello che aveva promesso che non gli sarebbe mai successo niente, eri tu quello che doveva proteggerlo! Non sei tu quello che ha scatenato tutta questa cazzo di guerra solo per tenerti incollato a mio fratello?” Le lacrime gocciolarono dal viso arrossato e piovvero sulle guance di Germania, trasparenti come gemme. “Perché hai permesso che lo portassero via?” boccheggiò Romano. “Perché?”

“Romano, ascoltami.” Germania fece scivolare via il suo peso, ricadde a sedere tenendogli saldo il braccio. “Io...”

“È colpa tua!” Romano gonfiò il pugno e glielo scaricò sul petto. “È tutta colpa tua se adesso Russia me l’ha portato via per sempre! Solo...” Un altro pugno sulla spalla. “Colpa tua! Non può...” Sollevò di nuovo il pugno – le nocche gonfie e arrossate – ma lo fece ricadere sul fianco. Il muscolo del braccio tremò, il fiato di Romano batté rapido fra le labbra schiuse, il pianto continuò a scorrere senza che lui se ne rendesse conto. Gli occhi si persero di nuovo nel vuoto, nel baratro nero. “Non può essere.” Scosse il capo, deglutì il sapore amaro delle lacrime. “Non può averlo fatto. Non possono avermelo portato via così. Non così. Non dopo che non ho nemmeno potuto dirgli...” Che mi dispiace, che non è vero che non posso più fidarmi di lui, e che non è vero che non ho più fiducia nella mia nazione. Oh, merda, perché è dovuto succedere proprio adesso?

Accasciò la fronte contro la spalla di Germania che aveva appena picchiato. Abbassò il tono. “Tu non capisci.” Strizzò le dita sul suo braccio, rallentò il respiro, placò il martellare del cuore. “L’ultima cosa che gli ho detto è che non potevo più fidarmi di lui, non capisci?” Strizzò il pugno, vi raccolse dentro tutto il suo rimorso, tutta la vergogna di farsi vedere in viso. “L’ultima cosa che gli ho detto è che non potevo più fidarmi della mia stessa nazione. E se gli dovesse succedere qualcosa...” Un singhiozzo lo scosse. Piovvero altre lacrime. “L’ultimo ricordo che avrà di me sarà quella stupida litigata! Non ho potuto nemmeno chiedergli scusa. E adesso Russia...” Si strofinò una mano sul viso, tenne quella aperta contro la fronte, nascondendo gli occhi affogati in quel baratro nero. “Cosa gli farà? Oh, Dio, cosa gli...” Una spirale di terrore gli soffocò il cuore, contrasse di nuovo il battito come se avesse incassato un pugno fra le costole. “Cosa gli farà?” Nella sua testa riecheggiarono le grida di Italia che non avrebbe potuto placare, quei pianti che non avrebbe potuto consolare. Si spalancò l’immagine del suo corpo rannicchiato in un angolino buio, dietro le sbarre di una prigione, stretto dalla morsa delle catene e dalle mani di quel gigante di ghiaccio che avrebbe potuto frantumarlo e bagnarsi del suo sangue solo flettendo le falangi. E lui non sarebbe potuto accorrere per liberarlo, per stringerlo e portarlo via. Gli tornò a girare la testa.

Una voce flebile e calma si fece spazio attraverso quel sudario di cordoglio. “Non gli farà del male.”

Ucraina catturò gli sguardi di tutti. Sguardi ancora scossi e spaesati che la fissarono quasi si fossero dimenticati che lei fosse ancora lì con loro. I polsi ammanettati, le mani sul ventre, ma la schiena dritta, lo sguardo ancora integro, e gli stessi occhi limpidi con cui si era consegnata. Ora però dava l’idea di essere lei quella libera, e loro i prigionieri intrappolati nelle catene di quel ricatto. “Russia non ha catturato Italia con il pretesto di fargli del male,” disse Ucraina, “ma solo con quello di riavere me in cambio. Se riotterrà quello che vuole, allora lui non correrà alcun pericolo.”

Bulgaria si mise a braccia conserte e inarcò l’estremità di un sopracciglio. “Hai detto poco,” commentò con una certa impertinenza. “Come se per arrivare da qua a Mosca ci volesse il tempo di una scampagnata.”

Romano si strofinò il braccio sul viso, per ripulirsi dalle ultime gocce di pianto, e tornò ad aggrottare la fronte, a fulminare Ucraina con quegli occhi iniettati di rosso. “Tu lo sapevi.” Si rialzò da terra, scollandosi da Germania, e le marciò contro. “Tu sapevi che sarebbe successo, sapevi che Russia voleva rapirlo. E ce l’hai tenuto nascosto!”

Questa volta fu Romania a guardarlo storto, con la stessa perplessità stampata sul volto di Bulgaria. “E cosa pretendevi? Che ci mettesse in guardia e che rivelasse i piani di Russia?”

Ucraina non arretrò di un passo, nemmeno davanti alla fiammante furia con cui Romano le si era piazzato di fronte. “Sì, io sapevo già tutto. Ma non ho potuto fare niente per impedire che accadesse, non ho potuto fare nulla per contrastare la volontà di mio fratello.” Socchiuse le palpebre, abbassò la fronte. “Mi dispiace.”

“Stronzate!” Romano tornò a schiacciare i pugni fino a far pulsare le vene fra le nocche. “Tu...” Piegò un gomito, contrasse il muscolo del braccio, e guadagnò uno slancio all’indietro.

Spagna gli fu addosso e gli bloccò il braccio prima che potesse colpirla come aveva fatto con Germania.

Romano diede uno strattone di spalle. “Tu avresti potuto dircelo!” urlò contro Ucraina.  Scalciò l’aria e strusciò i piedi sull’asfalto. Altre lacrime di furia stillarono dagli occhi gonfi e arrossati. “Tu avresti potuto metterci in guardia, avresti potuto convincere quello psicopatico di tuo fratello a trovare un altro modo di...”

“Di fare cosa?” disse Ucraina. “Di difendersi?” Si posò sul petto una mano imprigionata. “So benissimo che Russia è stato crudele nel compiere un gesto del genere, ma come avrei potuto impedirgli di farlo? Come avrei mai potuto biasimarlo di una scelta del genere? Anche lui sta cercando di vincere una guerra, anche lui sta cercando di difendere il suo paese e il suo popolo, e anche lui ha qualcuno da proteggere, proprio come voi. E sono sicura che anche voi in fondo capiate perfettamente le sue ragioni. Tutti noi saremmo capaci di crudeltà simili se si trattasse della salvaguardia della nostra nazione.” Spostò gli occhi su ognuno di loro. “E voi lo sapete.”

Tutti schivarono i suoi occhi, martellati da quella verità dura come grandine. Stettero zitti. Solo il brontolio delle ultime esplosioni e delle ultime frane di edifici a riempire il silenzio tombale che regnava su Kiev.

Prussia si distaccò dal gruppo – i passi secchi e pesanti su quell’asfalto scottante e sbriciolato – e raggiunse Germania che nel frattempo si era rialzato da terra. “West.” Gli tenne stretta la mano sul muscolo del braccio, lo catturò nel rosso dei suoi occhi, gli ripeté quella domanda che gli aveva già posto tante volte da quando era cominciata la guerra. “Che si fa ora?”

Germania fronteggiò di nuovo le spoglie dell’hotel crollato, il fumo nero che sorgeva dalle macerie, quell’ala di vapore scuro dietro cui Russia era scomparso assieme a Italia, e ingollò un amaro groppo di rimorso. Un pugno di dolore picchiò di nuovo sul suo petto, più violento di tutti i cazzotti che la furia di Romano gli aveva scaricato addosso. “L’ultimo ricordo che avrà di me sarà quella stupida litigata!”

E io? si domandò Germania. Qual è l’ultimo ricordo che avrò io di Italia?

Il suo corpicino esile ingabbiato fra le braccia di Russia, una mano inguantata premuta sul suo busto e l’altra a sorreggergli il viso inondato di lacrime. I suoi occhi terrorizzati, quello sguardo che implorava aiuto, il suo ultimo grido rivolto a lui. Solo a lui. “Germaniaaa!” Il grido che avrebbe risuonato nelle sue orecchie e che lo avrebbe torturato fino a che non lo avrebbe ritrovato, fino a che non lo avrebbe di nuovo stretto fra le sue braccia.

Quante volte Italia si ritroverà a gridare il mio nome, ora che sarà distante da me? Quante altre volte dovrà chiedere aiuto prima che io possa essere in grado di trarlo in salvo?

Germania strinse i pugni per rimanere integro, per non sentirsi spezzare e per non assecondare il rumore scricchiolante del suo animo accartocciato in quella massa di dolore che lo divorava da dentro.

Romano ha ragione. La colpa è stata mia. Io non sono mai stato in grado di proteggere Italia.

Evocò il ricordo risalente all’inverno passato, quando gli aveva posato la mano sul petto nudo, sopra la cicatrice a forma di lisca di pesce che attraversava il battito del cuore. Tornò il tepore della pelle morbida e tiepida, ancora umida del bagno caldo, e quel palpito morbido ma carico di vita che assecondava le vibrazioni del suo respiro. Tornò anche lo stesso senso di impotenza che lo aveva aggredito alla vista della cicatrice, quando aveva immaginato Italia sanguinante, trafitto dallo sparo del proiettile, steso a terra e solo, senza nessuno a soccorrerlo e a salvargli la vita.

Dentro Germania sorse il desiderio di gettarsi in ginocchio, di spremere la terra sbriciolata fra le dita, e di maledire quella nazione su cui aveva già spanto fiumi di sangue e su cui tanti condottieri prima di lui avevano rovesciato diluvi di piombo e seminato campi di cadaveri sotto i loro passi, senza mai riuscire a renderla loro. Conoscevo i rischi e le responsabilità di cui mi sarei dovuto fare carico quando ho deciso di invadere l’Unione Sovietica. Ma le conseguenze delle mie azioni non sarebbero dovute ritorcersi su nessun altro all’infuori di me. E ora che Italia è...

Scivolò dalla presa di Prussia, gli diede la schiena per nascondere la sua espressione rabbuiata, e affondò le mani fra i capelli. Strinse gli occhi per sopprimere quei lampi di umiliazione affondati fra le palpebre. Vincere la guerra? Riconquistare l’onore perduto della mia nazione e ridarle la dignità che le è stata sottratta? Portare la Germania sulla vetta che le spetta e sconfiggere tutti i paesi che mi contrastano? Chi voglio illudere? Il peso della croce di ferro, quel simbolo tramandato dalle mani di suo fratello, gravò sullo sterno. Un peso appuntito e vibrante, in bilico come una Spada di Damocle. Come posso farmi carico di una responsabilità così grossa se non riesco nemmeno a proteggere Italia?

Germania soffrì per come aveva trattato freddamente Italia durante gli ultimi mesi di guerra, per tutto quello che aveva preteso da lui, per il suo atteggiamento distaccato davanti alle sue paure, per come non era stato in grado di incoraggiarlo davanti alla fatica e al dolore.

L’ultima immagine che avrà di me...

Le loro mani che si separavano, il fumo che spezzava il loro legame, le loro strade che si dividevano, e Germania che correva via senza di lui, abbandonandolo fra le braccia del nemico.

Prussia si accorse del suo sguardo vacillante, di quegli occhi persi, di quel guscio di dolore in cui si era rintanato per non farsi raggiungere. “West.” Lo strinse per una spalla, lo guardò dritto negli occhi e tornò a essere lui il capo. “Ce lo riprenderemo, West. Ti prometto che ce lo riprenderemo. Nel giro di qualche settimana avremo raggiunto Mosca, libereremo Ita, e allora sarà Russia a pentirsi di quello che ha fatto.” La presa salda sui suoi muscoli, lo sguardo fermo ma rassicurante. “Guarda che Ita è più forte di quello che sembra, e vedrai che nemmeno lui permetterà di farsi strapazzare da Russia. Resisterà. Resisterà meglio di quello che credi, fidati di me.”

Germania si caricò di quella speranza, non aveva scelta, e si guardò attorno.

Romano era di nuovo crollato a terra, sorretto solo dalle braccia di Spagna e aggrappato alle sue spalle. Tremava. Aveva ripreso a piangere tenendo il viso nascosto come un bambino, consolato solo dai suoi mormorii e dalle sue carezze strofinate sulla schiena.

Germania tornò a indurire i tratti del volto, a innalzare una gabbia d’acciaio attorno al suo cuore. Ha ragione, non è questo il momento di lasciarsi andare, e devo essere io il primo a darne l’esempio. Se non sono in grado di guidarli e sostenerli, allora non merito nemmeno di continuare a dirigere una guerra di tale calibro. Devo tornare a comportarmi da degno comandante. Inspirò. Chiuse gli occhi. Rallentò i palpiti che battevano contro le tempie indolenzite da tutta quella tensione. Devo reagire e devo farlo subito. Non posso farmi sconvolgere anch’io. Tutti loro hanno bisogno di una guida per proseguire, e anche il mio esercito ha bisogno che io resti integro. Devo riguadagnare in fretta la lucidità prima che Russia possa compiere altri passi davanti a me. Fino a prova contraria, dopotutto... Riaprì gli occhi su Kiev rasa al suolo, sui fumi neri che erano gli ultimi respiri esalati dalla città calpestata dalla Wehrmacht. Rimango sempre io quello in vantaggio.

Attorno a loro, altre esplosioni lampeggiarono attraverso il cielo, frane di edifici scrosciarono sulle strade più vicine, i rombi dei motori si innalzarono verso le nuvole, e l’odore acre dei fumi aumentò, facendosi aspro e graffiante, soffocante come un sacchetto avvolto attorno alla testa.

Bulgaria si portò al centro della strada, lontano dalle ombre degli edifici ancora in piedi. Guardò verso il cielo e tese la mano davanti alla fronte. “Ma quante bombe hanno piazzato? Possibile che non ci siamo resi conto di niente?”

“È opera del NKVD,” rispose Ucraina. “Della Polizia Segreta.” Si rivolse anche agli altri con la stessa espressione mite ma non sconfitta. “Non illudetevi. Finché rimarrete fra le mura di Kiev non sarete mai completamente al sicuro.”

Bulgaria sbuffò e trattenne un risolino. “Grazie tante, eh.” Romania gli piantò una gomitata sul fianco.

Germania si soffermò sullo sguardo di Ucraina, sul suo viso tondo incorniciato da ciocche bionde, su quegli occhi azzurri che non si erano mai lasciati piegare, e provò un istintivo fiotto di rabbia nera nei suoi confronti. Solo ora riconobbe la forza dei suoi occhi. Una forza diversa da quella brutale e distruttiva di Russia, ma una forza che l’aveva comunque tenuta in vita. Perché mi sono lasciato impietosire? Perché ho esitato davanti a lei? La vide di nuovo camminare in mezzo alla strada, con il fumo alle ginocchia, le mani alzate e il panno bianco in pugno. Germania aveva permesso che venisse loro incontro come un capriolo ferito che zoppica in mezzo al branco di lupi, chiedendo pietà. Aveva esitato nonostante l’odore del sangue che lo aveva reso ancora più assetato. Aveva accettato di non farla sbranare. Non avrei dovuto avere pietà di lei. Avrei dovuto ucciderla subito, avrei dovuto annichilirla come ho fatto con Grecia alle Termopili. Se Ucraina ora fosse morta, Russia non avrebbe avuto nulla con cui ricattarmi, e Italia sarebbe ancora con me.

Tornò a respirare l’aria ferrosa delle Termopili, quell’acre olezzo di pioggia, fango, terra franata, rocce sbriciolate, polvere da sparo, lubrificante per armi e sangue a fiumi. Rivide l’abbraccio di Italia che era riuscito a strappare la pistola dalla fronte di Grecia, quel tocco di umanità che poi non era comunque riuscito ad arrestare l’impulso di Germania, la sua furia cieca. Tornò la voglia di afferrare Ucraina, di piantarle la pistola alla nuca come aveva fatto con Grecia, di premere il grilletto e di lasciare che stramazzasse al suolo in un lago di sangue.

In questo mondo non esiste spazio per la pietà, o per la compassione. Ho provato a seguire il mio lato umano risparmiando la vita di Ucraina, e queste sono le conseguenze. La colpa di tutto questo... Riversò tutta la rabbia su se stesso. È solo mia.

“Ucraina rimarrà sotto la mia stretta custodia, da adesso in avanti.” Germania si lasciò trascinare da quell’infuocato fiume di rimorso e che lo inghiottì nelle sue spire gridando vendetta. “Se Russia vuole un baratto, questo è proprio quello che avrà. Qualsiasi cosa succederà a Italia si riverserà su di lei, sul suo paese, sulla sua gente. E alla fine...” Stritolò i pugni. Giurò a se stesso che avrebbe soffocato fino all’ultimo granello di terra sovietica, che sarebbe stato lui a spremere gli ultimi battiti del cuore che avrebbe strappato dal petto di Russia, che si sarebbe bagnato le mani del sangue di qualsiasi uomo o nazione che gli avrebbe sbarrato il cammino. “Sarà lui a pentirsi di questo gesto.”

   
 
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