Fanfic su artisti musicali > Queen
Segui la storia  |       
Autore: _Lisbeth_    25/02/2019    7 recensioni
Maylor (Brian May/Roger Taylor)
1969/1988
Dal primo capitolo:
- Roger, ti sei mai preoccupato per i sentimenti di qualcuno che non sia Tim? – lo interruppe Brian, calmo. Tranquillo, anche troppo, ma il suo cuore era sprofondato. Non riusciva più ad ascoltare le sue parole, le sue urla, i suoi attacchi e le autocommiserazioni. Per lui importava solo Tim. Era solo, lo aveva appena detto. Solo, senza Tim. E lui cos’era, allora?
Il ragazzo dagli occhi azzurri socchiuse la bocca, fermandosi. Deglutì. – Io… sì. Che razza di…
Brian gli si avvicinò, guardandolo negli occhi, toccandogli leggermente il petto con un dito magro. – Io invece penso proprio di no.
Lo scansò prendendolo per le spalle, facendosi spazio dietro di lui, uscendo dalla camera e chiudendo delicatamente la porta.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian May, Freddie Mercury, John Deacon, Roger Taylor
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 12 - Love of my life, can't you see?
 
Il fumo che proveniva dalla tazza di thè che Brian aveva davanti annebbiava i vetri della finestra, mentre al di là di essi la pioggia batteva forte su Londra. Il ragazzo sospirò dal naso, lasciando andare con la mano una zolletta di zucchero che, tuffandosi nel liquido caldo, lo fece schizzare leggermente. Brian fece una smorfia quando vide delle gocce di thè finirgli sulla camicia.
Non aveva notizie di Roger da ore e stava iniziando a preoccuparsi leggermente. Era convinto che il ragazzo stesse bene, non doveva preoccuparsi. Eppure.
Eppure aveva un presentimento che non lo stava mettendo troppo a suo agio. Sapeva che Roger, quando stava male, tendeva a fare cazzate. Certo non era come lui, che quando era con il morale a terra impiegava il suo tempo in qualcosa di sano e in cui poteva concentrarsi, concedersi di spaziare coi pensieri. Leggeva, ascoltava della musica, suonava, scriveva. Roger, invece, era più incline alla distruzione e, a volte, all’autodistruzione. Per questo avrebbe voluto che fosse rimasto con lui.
- Sto uscendo - gli aveva detto, infilandosi il cappotto e mettendosi le mani in tasca. Brian aveva alzato gli occhi dal libro su cui stava studiando. – Dove hai intenzione di andare?
Il biondo aveva alzato le spalle. – Ho bisogno di distrarmi un attimo. Non torno qui. Vado a casa.
- Tu pensi di andare a Truro da solo?
- Sì.
- Con che macchina?
Roger aveva tirato fuori dalla tasca delle chiavi, facendole tintinnare tra le dita. Brian aveva sospirato. – No. Non è il caso.
- Ma che vuoi? Ho vent’anni e tu non sei mio padre.
- Smettila di fare come una quindicenne ribelle e vedi di farti trovare qui prima che io mi addormenti. 
Roger si era portato una sigaretta alle labbra e aveva annuito, alzato gli occhi al cielo, per poi uscire e sbattere la porta.
Brian non aveva notizie di lui da quel momento. Il ragazzo era come sparito, sebbene alla fine avesse ceduto e lo avesse ascoltato. Erano le due del mattino. O lo stava prendendo in giro, o si era ficcato nei guai. Non sapeva nemmeno dove fosse andato.
Si alzò, dirigendosi verso la base dov’era appoggiato il telefono, tentato di chiamare Winifred Taylor per capire se Roger fosse lì o meno. Solo che non fece nemmeno in tempo a prendere in mano la cornetta, che lo sentì squillare di colpo. Aggrottò la fronte. Qualcuno stava veramente chiamando alle due di notte?
Avvicinò comunque il telefono all’orecchio. – Sì?
Una voce ansimante e acuta parlò dall’altra parte del telefono, mentre Brian poteva sentire, in sottofondo, musica e vociare. – Pronto? Brian May?
Fece una smorfia. – Sì. Posso darle una mano? Come ha avuto il mio numero?
- Mi chiamo Freddie. Sono amico di Tim Staffell e… E sono con Roger. – sentì il ragazzo sospirare subito dopo. Sollevato, il chitarrista si appoggiò una mano sul cuore. – Dove siete? Roger sta bene?
- Siamo in discoteca. A Brixton. Lui è… Sbronzo. Schifosamente sbronzo e svenuto.
Brian restò per un attimo a fissare il muro, con il cuore che batteva forte. Lo sapeva. Se lo sentiva. E quando Brian aveva un presentimento, quello era quasi sempre vero.
- Sarò lì in dieci minuti.
 
Quando Brian arrivò a Brixton Road, si precipitò fuori dalla macchina con un’ansia tale da invadergli il petto e bloccargli quasi il respiro. Doveva trovare Roger e lo doveva trovare subito.
Vide che un ragazzo, alto più o meno quanto il suo migliore amico, con i capelli neri e il trucco in viso dello stesso colore era appoggiato contro un muretto bianco proprio di fronte alla discoteca di cui quel Freddie stava parlando, mentre cercava disperatamente di sistemarsi qualcosa tra le braccia. Quel “qualcosa”, ora che guardava meglio, aveva capelli color biondo cenere, una camicia a fiori con larghe maniche e pantaloni strettissimi. Quel “qualcosa” era Roger.
Corse verso quello che doveva essere Freddie, cercando di rimanere calmo, sperando che il suo migliore amico stesse bene.
- T-tu sei Freddie? – balbettò, mentre vedeva il ragazzo tirare su la testa di Roger, che era caduta pesantemente all’ingiù. Il moro sospirò, annuendo. – In persona.
Brian guardò Roger, prendendogli la testa tra le mani. Controllò se respirasse, gli tirò due sberle e lo vide socchiudere gli occhi. Il chitarrista sospirò, sollevato. – Rog. Mi senti?
Vide il biondo sorridere appena, ridere, muovere la testa a destra e a sinistra. Sollevò gli occhi socchiusi al cielo.  – Cristo, che bella la luna.
Brian sbatté un paio di volte le ciglia, cercando di tenerlo sveglio mentre Roger, dal suo canto, abbassava del tutto le palpebre, crollandogli tra le braccia a peso morto.
 

 
Era una giornata strana, a Londra. Insolita.
C’era un bel sole, sembrava quasi estate, la nebbia era completamente sparita e non faceva freddo, tirava solo un leggero vento che, stranamente, era piacevole.
I ragazzi ne avevano approfittato, avevano preso le biciclette per fare un giro a Victoria Park dopo aver registrato in studio.
Freddie e Roger erano avanti, nessuno dei due voleva saperne di mollare ed entrambi pedalavano più veloci che potevano. Avevano deciso di fare una gara, a cui John e Brian, data la lieve stanchezza, avevano rifiutato di partecipare. Loro pedalavano lentamente, piano, guardando di tanto in tanto i bambini giocare sull’erba e divertendosi ad assistere ai litigi e agli insulti che si scambiavano il cantante e il batterista.
- Coglione, stai barando! Sono sull’erba e tu sull’asfalto, non funziona così! – sentirono urlare Roger, che cercava di spostarsi dal prato verde che la bici, lenta, stava percorrendo. Freddie rise e continuò a pedalare. – Tesoro, questa è furbizia! Non è barare!
Roger riuscì finalmente a schiodarsi, raggiungendo il moro, ansimante. Pedalò ancor più veloce e riuscì a superarlo, seppur con fatica. – La furbizia non ti serve, resto comunque più veloce di te! – ansimò, sebbene avesse rischiato di inciampare e cadere dalla bicicletta. Per due volte.
Freddie, dal canto suo, si alzò dal sellino, pedalando tenendosi semplicemente con le dita al manubrio, superando immediatamente Roger. Il biondo frenò, ansimante, per poi ricominciare a spingere con i piedi sui pedali. – Farrokh!
- Sarai anche più veloce, ma io sono più sveglio!
- Io ti ammazzo!
Continuarono così per una buona mezz’ora, mentre Brian e John, stesi sul prato, il più grande appoggiato con i gomiti sull’erba e il bassista sdraiato con le braccia dietro alla testa, si godevano la pace e la calma di quel momento, dopo aver legato le biciclette ad un albero.
La suddetta pace non durò nemmeno dieci minuti.
- Ti odio! Non hai vinto. Hai approfittato anche del fatto che io fossi caduto dalla bici. Sei un bastardo. – Roger, i capelli crespi ed elettrizzati sopra alla testa, si sedette accanto a Brian sbuffando, mentre Freddie sorrideva divertito con le mani appoggiate sui fianchi. – Oh, peccato che io sia caduto ben tre volte, dalla bici. E mi sia anche sbucciato un ginocchio. Eppure, ho vinto.
- Ti sei fatto male? – domandò John, lanciando un’occhiata al cantante, che sollevò le spalle e restò in piedi. – Nah.
Brian avvolse un braccio attorno alle spalle del biondo, baciandogli dolcemente una tempia e accarezzandogli la schiena. – Almeno non ti sei sbucciato un ginocchio.
- Perdere è peggio che farsi male.
- Quanto sei infantile! – esclamò John, dando un morso al panino che aveva portato nello zaino, porgendo gli altri tre ai ragazzi. Roger sbuffò, afferrando il suo quasi con violenza. – Io? Infantile?
- Sì. – dissero in coro gli altri tre, guardandosi poi a vicenda, leggermente confusi.
- Fanculo. Qui ce l’avete tutti con me.
Brian prese il suo ragazzo tra le braccia. Lo baciò dolcemente sotto gli occhi di John e Freddie e quest’ultimo fece una smorfia. – Deacy, piccolo, io direi proprio di lasciare a questi due conigli arrapati il loro spazio. Piuttosto, non è che hai portato un cerotto?
Il bassista alzò gli occhi al cielo, mettendo una mano in tasca e tirando fuori una scatola che quella mattina, completamente sicuro che qualcuno si sarebbe fatto male, aveva riempito con disinfettante, ovatta, cerotti e garze.
- Bene! Perché credo che il mio ginocchio stia andando in cancrena.
John si alzò, prese Freddie sotto braccio e si allontanò, lasciando Roger e Brian lì, l’uno stretto all’altro, su quel prato isolato.
Il biondo aggrottò la fronte. – L’hai fatto apposta?
- Secondo te?
- Sei il solito depravato. Se ci vedesse qualche bigotto?
Brian sorrise, baciandolo dolcemente mentre Roger gli appoggiava una mano dietro alla nuca, sistemandosi a cavalcioni su di lui. – A me non interessa. A te?
Il più piccolo alzò le spalle. – Non direi.
Sulle labbra del chitarrista spuntò un ghigno che fece inclinare la testa di Roger verso destra. – Che c’è?
Non passò nemmeno una frazione di secondo, che il biondo sentì le dita affusolate di Brian infilarsi sotto alla sua maglietta e muoversi velocemente sui suoi fianchi, facendolo scoppiare a ridere mentre scivolava sull’erba, senza fiato. Il chitarrista si sistemò meglio sopra di lui, continuando a solleticargli la pancia e il collo, beandosi della risata chiara e quasi da bambino del suo ragazzo.
Nel sentire quella risata, nel vedere quel sorriso, nel toccare quella pelle, si chiese come avesse fatto, per anni, a lasciare che tutto ciò che aveva davanti non fosse suo. Stava per lasciarsi scappare quel prezioso, divertente, intelligente, eccentrico ragazzo dai capelli biondi, che in quel momento lo stava facendo sentire speciale, fortunato e felice. Mise a freno le dita, guardando il suo ragazzo ansimare e ridere dolcemente. Fece scappare un sorriso anche a lui che, con tutto l’amore del mondo, gli sfiorò una guancia con una mano, osservandolo.
Guardando Roger poteva dire di sentirsi quasi in paradiso. Guardare quegli occhi così grandi e azzurri, quel sorriso sincero e sereno, quei capelli biondi sparsi sull’erba, gli faceva battere forte il cuore, lo faceva sentire a casa.
Brian si stese affianco al ragazzo, continuando a sorridergli, scostandogli una ciocca di capelli dietro all’orecchio. Sentì che quel momento fosse perfetto. Sentì il sangue pulsare veloce, la testa alleggerirsi. Sarebbe potuto restare a guardare e accarezzare Roger per tutta la vita.
Non seppe esattamente cosa lo spinse a sussurrare quelle parole, non gli importò di nulla, non badò al peso che potessero avere. Semplicemente, le pronunciò. Gli sfuggirono dalle labbra senza esser collegate in alcun modo ai pensieri. – Ti amo.
Il cuore di Roger si fermò, per poi ricominciare a battere velocemente mentre milioni di emozioni e sensazioni diverse si affollavano nella sua testa e gli riempivano il petto.
“Ti amo”.
Quelle due semplici, dolci parole si ripetevano nella sua testa mentre lui quasi non riusciva a respirare. Brian era l’unica persona da cui avrebbe mai voluto sentire quelle parole, ed era l’unica persona a cui avrebbe voluto dirle. Il sorriso del ragazzo che aveva davanti, quelle mani callose ma morbide che gli accarezzavano le guance, quegli occhi castani e luccicanti, gli fecero sentire chiaramente ciò che Brian gli aveva appena detto.
“Ti amo”.
“Ti amo”.
“Ti amo”.
Il sorriso di Roger si aprì sulle sue labbra rosee, che Brian catturò subito dopo, facendole combaciare con le sue.
- Ti amo anch’io, Bri. – balbettò il minore. Il riccio lo trovò adorabile. Gli accarezzò una guancia, attirandolo a sé. Lasciò che Roger chiudesse gli occhi, rilassandosi tra le sue braccia mentre Brian sentiva che avrebbe potuto volare.
 

 
La ragazza che Roger si ritrovò davanti era bella come anni prima. Alta, elegante e fine, con i capelli castani a caschetto e quella frangia morbida che le copriva la fronte. Aveva una chitarra dentro alla custodia sulla spalla destra, portava una giacca pesante e una sciarpa rossa attorno al collo, le calze nere di nylon la riparavano dal freddo e la gonna verde le arrivava alle ginocchia.
La vide sorridergli educatamente, tenendo le labbra chiuse mentre due fossette si formavano sulle guance chiare.
Roger aprì di rimando un sorriso, guardandola sedersi davanti a lui al tavolino del bar.
- Scusami, sono un po’ in ritardo. E’ che ho appena finito di fare una lezione di chitarra a Brenda, la mia cuginetta. – Elena si sfilò il cappotto, infilando la sciarpa rossa dentro una delle maniche e appoggiandolo dietro alla propria sedia. Il biondo alzò le spalle. – Di solito sono io quello in ritardo. Anche perché sono qui da cinque minuti e l’appuntamento sarebbe dovuto essere un quarto d’ora fa.
La ragazza sorrise. Si erano sempre piaciuti a vicenda, c’era sempre stata un’intesa tra loro, anche se Roger tendeva ad essere sempre tanto protettivo nei confronti di Brian, soprattutto dopo che i due si erano lasciati. Ma da quando il ragazzo gli aveva spezzato il cuore, quella mattina del 1969, il biondo si era scusato almeno un centinaio di volte con la ragazza per averla trattata come se fosse una stronza. Elena aveva sempre riso, scuotendo la testa e rassicurandolo, dicendogli che non doveva preoccuparsi, che era normale difendere il proprio migliore amico. Seppur fosse in torto e gli avesse mentito su tutto.
- Di cosa vorresti parlarmi? – gli chiese la ragazza. Roger non sapeva bene cosa risponderle. Le aveva chiesto di incontrarsi in quel piccolo bar, forse solo per sfogarsi con qualcuno. Aveva bisogno di parlare con lei, semplicemente perché necessitava avere risposte. Sospirò. – Ti fa male, parlare di Brian?
La ragazza sbatté le ciglia un paio di volte. Trasse un profondo respiro. – Be’, io…
- Cosa posso portarvi? – la voce della cameriera interruppe quella di Elena, facendo alzare la testa a entrambi. Roger guardò la ragazza, schiarendosi la gola. – Un caffè e una porzione di pancake.
La cameriera annotò ciò che le era stato detto sul block notes che aveva tra le mani. – E per la signorina?
- Un frappè al cioccolato.
La ragazza sorrise, portando via i menù e lasciando continuare Elena. – Vedi, io… Non pensavo mi avessi chiesto di venire qui per parlare di qualcun altro, Roger.
- No, no, non… Non ho intenzione di insultarlo, se è ciò che pensi. – la fermò il ragazzo, mettendo le mani davanti a sé. – Solo… Ho bisogno di parlarti.
- Di Brian?
- No. Non proprio, almeno. – respirò profondamente. – Ecco, io… Ho bisogno di parlarti di me. E… E anche di Brian. Circa.
- Oh.  – Elena annuì. – Ma in che senso?
Roger iniziò a gesticolare frettolosamente con le mani. – E’ che… Io e Brian non ci parliamo da giorni, perché io sono arrabbiato con lui. Tanto arrabbiato. Così arrabbiato che potrei ucciderlo. No, non ucciderlo, ci starei male. Ecco, io…
Elena sorrise, intenerita dall’atteggiamento impacciato e confuso del ragazzo. – E come mai?
- Perché mi ha mentito. Su tante cose. – non accennò alle bugie che Brian gli aveva raccontato su Elena. – E poi… Mi piace. Solo, io… Io non piaccio a lui.
La ragazza sospirò, abbassando di poco lo sguardo. – E lui è arrabbiato con te?
- No. Con che coraggio potrebbe?
Elena annuì. – Ne hai parlato con lui? Gli hai detto perché sei arrabbiato?
La cameriera tornò da loro, appoggiando davanti ai due ragazzi i rispettivi piatti ordinati. Roger tagliò un pezzo di pancake e lo mangiò. – Sì. Ma ero arrabbiato. Lo sono ancora, ma non com’ero quel giorno. Non ho concluso molto.
La ragazza alzò per un attimo lo sguardo, pensierosa. – E lui cos’ha fatto?
- Niente.
- Niente di niente? – aggrottò la fronte. – Non credo.
- Be’, ha cercato di riavvicinarsi a me. Ma non credevo di essere pronto a fidarmi. Quindi gli ho tirato un pugno in faccia.
La bruna spalancò gli occhi. – Che cosa?!
Il giovane batterista sospirò alzando le spalle. – Mi è sfuggita la mano.
Elena sospirò. – Rog. – prese un sorso dal proprio frappè. – E’ normale che tu sia arrabbiato. Però… Non rovinare il rapporto che hai con Brian. Non mandare tutto a rotoli solo per un rifiuto. E poi, forse, quel giorno era solo confuso. Non fartelo scappare, tu che ne hai la possibilità. – sospirò ancora. – Brian è un ragazzo intelligente, dolce, gentile. Ma anche tanto, tanto fragile. Sicuramente non vuole perderti.
- Ma…
- Ascoltami, Roger. – lo interruppe. – Non ne vale la pena. Non vale la pena provare rancore, non vale la pena allontanarti da lui. Ti vuole tanto bene, Roger. Sono sicura che te ne vuole di più di quanto immagini. E quindi, Roger, continua a lottare. Non lasciarti scappare Brian, perché sono sicura che Brian non si lascerà scappare te.
 

 
- Ah, ho vinto! Ho vinto contro Brian Harold May a Scarabeo! – esclamò John, saltando dal divano con un sorriso fiero e soddisfatto stampato sul viso. Brian sospirò, alzando le spalle e guardando Roger che buttava all’aria il gioco e Freddie che rideva.
- E va bene, il Nobel per l’abilità nel trovare delle parole va a John Richard Deacon. Ora, però, io ho fame. – disse Brian, prendendo la scatola che Roger aveva ribaltato e sistemando la stanza. – E sarebbe il turno di Freddie, oggi.
- Che palle. Non può farlo Roger? Non fa niente dalla mattina alla sera.
- Roger – lo interruppe il biondo, parlando in terza persona di se stesso. – Ha cucinato ieri. E avete anche gradito parecchio.
- Siamo fortunati ad essere ancora vivi. – sospirò John, guadagnandosi un’occhiataccia dal ventiquattrenne e sorridendogli di rimando.
Il telefono squillò.
John si alzò dal divano, avvicinandosi alla cornetta e sollevandola. – Pronto?
La reazione che ebbe gli fece guadagnare l’attenzione dei ragazzi. Prima spalancò gli occhi, poi iniziò a balbettare. – Sì, John Deacon. Mi dica.
Il bassista attese la risposta dall’altra parte del telefono. Quando gli giunse all’orecchio, puntò lo sguardo su Roger. – Sì, è qui con me.
Roger aggrottò la fronte. John allontanò la cornetta, mimando, con le labbra “la polizia”. Il biondo spalancò gli occhi. Aveva fatto qualcosa di male?
- Glielo passo. Buona giornata. – John passò la cornetta al biondo che, dubbioso e incerto, la avvicinò all’orecchio. – Sì?
- Lei è il figlio di Michael Meddows Taylor? – sentì, dall’altra parte. Il cuore gli si fermò per un attimo. Deglutì. – Sì.
Brian notò l’espressione sul viso di Roger. La notarono tutti e tre. Il riccio gli fu vicino in un secondo.
- Suo padre è evaso.
Un colpo al cuore.
- E’ entrato in casa della signora Winifred Taylor.
Un secondo colpo al cuore.
- C’era una ragazza, dentro quella casa.
Un altro.
- Era sua sorella.
Roger stava tremando. Brian gli afferrò la mano e gliela strinse forte. I pensieri si stavano affollando nella testa di Roger come formiche. – Clare. – la sua voce si fece tremante e colma di ansia. – Come sta Clare?
- Ho bisogno che lei venga subito qui.
 
Roger scese dalla macchina con il cuore che batteva a mille. C’era Brian, con lui. Aveva insistito ad accompagnarlo, non lo avrebbe lasciato da solo nemmeno per un secondo.
Il suo cuore sprofondò.
C’era un’ambulanza, paramedici ovunque. Polizia ovunque.
Un uomo in divisa lo raggiunse, gli appoggiò una mano sulla spalla. – Roger Meddows Taylor?
- Dov’è mia sorella? Dov’è Clare?
- E’ dentro casa. Stiamo…
Roger non si fece dire altro. Si divincolò, scansandosi e correndo dentro l’appartamento, con il cuore a mille, il terrore e una piccola, minima speranza gli scorrevano nel sangue. Spalancò la porta, si guardò intorno, senza vedere nessuno. Deglutì. – Clarie? – chiamò. Non ottenne risposta.
- Clarie? – ripeté, più forte.
- Clarie? – urlò. Ormai l’ansia si era presa possesso di lui, lo aveva invaso, sommerso. Lo soffocava, incatenava. Corse al piano di sopra, aprì la porta della camera che lui e Clare condividevano, una volta trasferiti a Londra.
Rivide le immagini del suo precedente incubo, sperando di risvegliarsi, sperando di sentire presto la voce di Brian chiamarlo per fargli aprire gli occhi.
Si rese conto che non avrebbe visto mai più il sorriso di Clare. Si rese conto che non avrebbe mai potuto avere dei nipotini, che non avrebbe mai potuto vedere sua sorella sposarsi.
Non avrebbero più potuto litigare, punzecchiarsi, spalleggiarsi, proteggersi, difendersi.
Roger crollò in ginocchio, gli occhi che si riempivano di lacrime che per un momento gli oscurarono la vista, portandola via dal corpo riverso a terra e senza vita della sorella.
Non riusciva a parlare, gli mancava l’aria.
“Ti voglio bene, Roger. Qualsiasi cosa accada, io resterò sempre tua sorella. Sarò sempre dalla tua parte, Roggie”. La voce della sorella si ripeteva nella sua testa, l’immagine del suo sorriso era impressa negli occhi azzurri di Roger.
- No. – sussurrò, con quel filo di voce che gli rimaneva. – No.
Si avvicinò alla sorella, ormai ventenne, bellissima, intelligente, dolce, speciale. Le prese la mano, le accarezzò i capelli biondi come i suoi, le lacrime che non smettevano di scendere dagli occhi azzurri increduli. Qualcosa si spezzò dentro di lui. Crollava tutto a pezzi, come un castello di carte.
Iniziò a scuotere la sorella, urlando.
- Clarie! – strillò. – Clare! Clarie! – Roger sentì di poter impazzire. Sentiva la testa scoppiare, il cuore sanguinare.
Alzò lo sguardo, lentamente. Il dolore si trasformò in ira, pazzia. Senza dire nulla, senza urlare, senza proferire un solo suono, si alzò in piedi. Scese le scale, uscì dalla casa. E lì lo vide. Circondato da poliziotti, ammanettato, immobilizzato. Le gambe si mossero da sole, spinte dalla rabbia e dall’odio. Gli fu addosso in un attimo.
I colpi erano fortissimi, le urla di Roger ancora di più. Lo colpì una, due, tre, quattro, cinque volte. Ansimava, gridava, e in quei pugni ci mise tutto l’odio che aveva represso per anni. Vide suo padre sanguinare, dimenarsi, urlare. Aveva ucciso Clare. Aveva ucciso Clare e meritava solo di provare il dolore che la ragazza aveva dovuto sopportare.
Aveva ucciso Clare e doveva morire.
Due forti braccia afferrarono Roger, tirandolo via dal corpo del padre. Il ragazzo urlò, sferrò pugni e calci.
Il suo cuore stava cadendo a pezzi, stava crollando come il suo mondo.
Clare.
Il sorriso di Clare.
Gli occhi di Clare, così simili ai suoi.
La voce dolce ed entusiasta di Clare.
Clare gli aveva salvato la vita, una volta. E lui non era riuscito a salvare la sua.
 

 
- Roger, piccolo. – la voce di Winifred tremava di gioia, mentre la donna teneva tra le braccia quel piccolo fagottino in fasce. Il fratellino di quella nuova vita, di quella nuova creatura le si avvicinò, timido e felice, accarezzando dolcemente la testa della piccola, ancora senza nome, sorridendo. Roger non sapeva dove fosse il suo papà, lì con lui c’erano solo sua madre e la sua nuova sorellina, ma non ci fece tanto caso. Il viso addormentato e sereno della bimba lo fece ridere, mentre le afferrava un piccolo pugno chiuso, accarezzandoglielo dolcemente. – Ciao, sorellina. Io sono Roger.
Winifred sorrise, accarezzando i capelli dorati del suo prezioso bambino. – Ha i tuoi stessi occhi, sai, Roggie?
Il ragazzino alzò la testa, guardò sua madre affascinato, gli occhioni blu che luccicavano. – Davvero?
- Sì. Sono grandi e azzurri, proprio come i tuoi.
- Sarà bellissima, allora!
La donna rise, asciugandosi le lacrime e baciando la fronte di suo figlio. – Non ha ancora un nome, però.
Il bambino guardò la piccola sorella, continuando a stringerne la mano tra le dita. – Possiamo chiamarla come te.
Winifred gli accarezzò una guancia. – Ma no, Rog. Tu sei tanto creativo, sono sicura che troverai un bellissimo nome, completamente nuovo.
Roger sbatté le lunghe ciglia, sospirando e pensandoci un attimo su. Guardò la bambina, poi guardò la mamma. – Mi piace tanto il nome Clare. E’ semplice e suona bene.
Sua madre gli sorrise dolcemente. – E’ un nome perfetto.  
Gli porse la bambina e gliela lasciò prendere in braccio, seppur sapesse che suo figlio, anche avendo appena quattro anni, non fosse molto delicato. Ma non ci badò molto. Sapeva che Roger, quando voleva, sapeva essere dolce e attento.
Vide il bambino baciare il naso della sorellina, cullarla dolcemente. Roger si avvicinò, piano, alla bimba, sussurrando qualcosa che Winifred nemmeno sentì.
- Ti proteggerò sempre, Clare.

 
   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Queen / Vai alla pagina dell'autore: _Lisbeth_