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Autore: _Sunspear_    17/03/2019    6 recensioni
||Storia interattiva|| ||Nuove iscrizioni aperte capitolo 5||
Dopotutto, lei era diventata fredda e malinconica come l’inverno, ma non sapeva che da qualche altra parte, qualcun altro, la pensava alla stessa maniera. Solo che quel qualcuno aveva molto più potere e sangue freddo della ragazza spezzata.
Genere: Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Ciao ragazzi!

Brevissima nota prima di cominciare.

Lo ammetto, sono un abbastanza emozionata di ricominciare questa storia: non è sicuramente stata il mio più grande rimorso, ma sentivo che in questo specifico periodo della mia vita avevo bisogno di portare a termine qualcosa. E mi sono detta: “perché non partire da qui?”. Ed eccomi qua.

Ringrazio ognuno di voi per il supporto e la partecipazione. I vostri personaggi erano tutti bellissimi, perciò ho scelto di renderli tutti protagonisti (chi più chi meno ovviamente. Ma state certi che ogni personaggio avrà il suo momento per brillare). Ovviamente, onde evitare confusione  e incomprensioni, verranno presentati nel corso della storia. Alcuni dei personaggi scelti in precedenza continueranno a far parte attivamente della storia: nella trama che ideai tanto tempo fa, la loro presenza è essenziale, soprattutto quella di un paio in particolare. Non voglio dilungarmi troppo, in fondo siete qui per la storia non per le mie pippe mentali ;.;

Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento e non preoccupatevi se il vostro personaggio non è ancora presente, apparirà presto 😉

Ci vediamo a fine capitolo ♡

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Insomnia

 

 

“Lamia era una bellissima regina della Libia, talmente bella da catturare il cuore del divino Zeus. Da lui ebbe un bel bambino, ma certamente non bello come te”, Jackie sorrise dolcemente e massaggiò il pancino di sua figlia, stesa di fianco a lei, il cuore carico d’amore. Era una fredda sera di marzo al Campo Mezzosangue, l’umido sembrava penetrare all’interno delle carni e delle ossa. Era stata una giornata particolarmente monotona: il freddo costringeva i pochi semidei presenti al campo a rimanere chiusi nelle proprie cabine, molte attività erano state sospese: prendere un raffreddore sarebbe stato altamente controproducente. Jackie aveva deciso di isolarsi completamente insieme alla sua bambina. Be’, quasi completamente. Chloe non l’aveva lasciata quasi mai da sola in quelle settimane, turbata come lei dal clima insolito e il morale negativo a seguito dell’incidente con la figlia di Moros. Quello, più di qualsiasi altra cosa, aveva turbato la figlia di Imeneo; sentiva come se un’aura negativa circondasse quella mezzosangue e l’ultima cosa che voleva era che qualcosa di potenzialmente pericoloso si avvicinasse alla sua amata Annie. La sua piccola, preziosa Annie, che in quel momento, fasciata nel suo pigiamino di pile rosa con i coniglietti bianchi, era rannicchiata sul suo letto sotto al piumone, in mezzo a lei e Chloe, che le stava accarezzando la testolina bionda.

Jackie si sentiva leggera, in pace con se stessa, mentre due grandi paia di occhi verdi la stavano guardando con curiosità. Continuò il racconto: “come c’era d’aspettarsi, sua moglie Era si arrabbiò molto…”

“Ea…?”, sembrò domandare Annie, aggrottando le sopracciglia bionde e agitandosi sotto al piumone. Sembrava che il nome non le piacesse particolarmente. Chloe ridacchiò, continuando ad accarezzare i ciuffi dorati della bambina.

“Fidati, ma petite fille, non vuoi davvero conoscerla”

Jackie rabbrividì. Aveva sempre avuto un debole per la voce di Chloe, soprattutto quando parlava in francese. La figlia di Ilizia le aveva raccontato che la sua prima matrigna veniva da Tolosa e che sin da subito aveva voluto insegnare alla dolce figlia del suo nuovo compagno, Julian Cartwright, la sua lingua d’origine, sostenendo che un bel visino come il suo doveva conoscere la lingua dell’amore. Ogni volta che sentiva la bionda pronunciare con la sua incantevole voce qualche parola in francese, Jackie ringraziava mentalmente la donna.

“Volete smetterla di interrompermi voi due? Sto cercando di raccontare una storia!”, le rimbrottò scherzosamente Jackie, sforzandosi di non sorridere.

“Scusami tesoro, ma la colpa è tutta di questa signorinella”, fece Chloe. Si mise a gambe incrociate e sfilò Annie da sotto le coperte, mettendola seduta tra le proprie gambe e giocherellando con le sue manine. Annie ridacchiò, apprezzando tutte quelle attenzioni.

Jackie riprese a parlare: “come dicevo, Era si arrabbiò molto e decise di vendicarsi, uccidendo tutti i suoi figli”, un’ondata di disprezzo nei confronti della regina degli dei invase le viscere della figlia di Imeneo, che si costrinse tuttavia a continuare il racconto, “le uniche figlie che rimasero in vita furono Scilla e Sibilla. Lamia, giustamente, era disperata e decise di vendicarsi, seppur in modo sbagliato: cominciò a nutrirsi del sangue degli altri bambini, non curandosi della disperazioni delle altre madri. Questo suo orrendo comportamento mutò il suo stupendo volto in quello di un mostro, che aveva tuttavia l’abilità di attrarre gli uomini – che si sa, son stupidi – e berne il sangue. Le sue figlie vengono chiamate empuse e sono mostri che vogliono farci del male e combattiamo ogni giorno.”. Annie e Chloe la fissavano in completo silenzio. La ragazza aveva persino smesso di giocare con le braccine della bimba. Jackie arrossì mentre restituiva lo sguardo all’altra ragazza. “Ma ti prometto, tesoro mio, che ti proteggerò sempre”. Chloe spalancò gli occhi, poi dissimulò la sorpresa girando Annie verso di sé e sussurrandole: “Ma puce, hai davvero una mamma fantastica, sei così fortunata.” Per tutta risposta, Annie sbadigliò, facendo cadere il ciuccio e provocando una leggera risatina in Chloe, che la prese in braccio e la mise nella culla. La bambina protestò debolmente, ma la semidea sapeva essere perentoria. Jackie si alzò e le raggiunse, aiutando l’amica a sistemare il lettino e restituendo il ciuccio alla bambina. Poi si sporse nella culletta e diede un bacio a sua figlia, augurandole la buonanotte.

Chloe cominciò a intonare una dolce e armoniosa nenia in greco antico e dopo alcuni istanti Annie si assopì, il viso sereno mentre succhiava il ciucciotto. Jackie sospirò.

“Non so davvero come farei senza di te”, disse all’amica, andando a sedersi sul letto e sbadigliando rumorosamente; la magia di Chloe aveva fatto effetto anche su di lei. È straordinario. Chloe è straordinaria.

Chloe si diresse verso il suo letto, la spalle basse, l’espressione tranquilla e l’aria vagamente assonnata. Cominciò a prepararsi per la notte. Qualche tempo dopo la nascita di Annie, avvenuta al campo e supervisionata da Chloe stessa, Jackie aveva iniziato a soffrire di insonnia e attacchi di panico. Girava per il campo tremante, i capelli scuri spettinati, il viso sconvolto e con la bambina stretta in un protettivo abbraccio, convinta che da un momento all’altro i mostri le avrebbero strappato quel fagottino dalle braccia per farle del male. Sembrava uno spirito in pena. Chloe, che le era stata accanto sin dal principio, si era offerta di alleviare quella pena trasferendosi, con il consenso del Signor D., nella sua capanna e prendendosi cura di loro. “In fondo nella mia capanna ci sono solo io. Mi farebbe piacere un po’ di compagnia”, le aveva detto subito dopo averle proposte quella soluzione. Jackie ricordava ancora la sua espressione, leggermente titubante e ansiosa, come se avesse avuto paura di essere respinta. Anche se avesse voluto dirle di no, non avrebbe potuto farlo. Era impensabile: nessun essere umano munito d’anima sarebbe stato capace di negare qualcosa a quegli occhioni verde foglia. Già nei primi giorni Chloe si era rivelata un angelo: un angelo biondo che cambiava pannolini, curava irritazioni e, finalmente, le permetteva di dormire come si deve. “Lasci che mi prenda cura di voi”, le aveva detto. E forse era stato proprio in quell’istante che Jackie si era resa conto di voler davvero bene a quella ragazza. Lei c’era sempre stata, sin dal primo giorno in cui Jackie era entrata al campo, incinta di sette mesi, stanca, sporca e ferita. Ogni avvenimento importante nell’ultimo anno aveva il viso di Chloe come cornice: la nascita di Annie, i suoi primi passi, la sua prima parolina, pappa, che era dolorosamente simile alla parola papà, il primo dentino, tutto. Tutto aveva il colore dei suoi occhi, il suono della sua voce e il profumo della sua pelle. Chloe era diventata il suo tutto nell’arco di un anno e mezzo e Jackie non poteva farci assolutamente nulla. Era frustrante. Era sbagliato? Probabile. Perché Chloe era la sua migliore amica e non poteva assolutamente permettersi il lusso di perderla rovinando tutto con i suoi stupidi sentimenti. Ciò che importava era Annie, ed Annie aveva disperatamente bisogno della figlia di Ilizia nella sua vita. Jackie aveva disperatamente bisogno di lei.

Dopo aver entrambe indossato il pigiama, si misero sedute sul letto di Jackie. Chloe si inginocchiò dietro di lei sprofondando con le ginocchia nel piumone e, presa una spazzola dal suo comodino, cominciò a pettinarle i lunghi capelli scuri. La figlia di Imeneo chiuse gli occhi e piegò la testa all’indietro, agevolando il passaggio delle setole tra le ciocche. Era un’abitudine ormai: ogni sera, Chloe le spazzolava i capelli e le raccontava della sua giornata, utilizzando il proprio potere come lenitivo per le ansie dell’amica. Poco più in là, Annie ronfava placidamente nella sua culletta.

“Cosa pensi che diventerà da grande?”, Chloe ruppe il silenzio.

“Mmh?”

“Annie, intendo”

“Oh”, Jackie aprì gli occhi, “non lo so, e non mi interessa. Tutto quello che desidero è vederla crescere felice”.

“Sei proprio una brava mamma”, Chloe sorrise; Jackie non poteva vederla, c’era il muro di fronte a lei, ma riuscì a intuirlo dal tono di voce. Sorrise a sua volta, poi però si rabbuiò. “Non sto facendo un buon lavoro. Qualcosa sta per succedere, lo percepisco, ma invece di scappare o proteggerla sono qui, a farmi pettinare e ad affidarmi completamente a te.”

Jackie sentì i movimenti dell’altra rallentare, come se stesse riflettendo. “Cos’è che percepisci esattamente?”

La mora storse il naso. “Sento che quella figlia di Moros è pericolosa. Tutto dipende da lei e, so che è ingiusto, ma quel che farà o dirà ci porterà solamente sciagure”

“Perché dici così?”, Chloe era genuinamente perplessa.

È così ingenua…

“Ma non capisci? Moros è il dio del destino, talvolta avverso. Chissà cos’ha in serbo per noi. Lui non può parlarci direttamente: forse lo farà tramite la sua unica figlia mezzosangue.”

“Ma sono ormai quattro giorni che Makayla dorme”, Chloe smise si passarle la spazzola tra i capelli e cominciò a intrecciarli, partendo dall’alto, “se Moros avesse voluto dirci qualcosa l’avrebbe già fatto”

“Forse la profezia è così potente che Makayla non riesce a sopportarne il peso e le parole. Chi può saperlo? Quel che è certo è che questo freddo è innaturale e che tanti semidei sono spariti.”

“Potrebbero essere scappati”, ragionò Chloe, che intanto stava continuando ad intrecciarle i capelli in un’elaborata treccia francese.

“No, impossibile. Prendi quel figlio di Ares, ad esempio, quel… Bear. Non brillava certo d’educazione e gentilezza, ma non avrebbe mai abbandonato Cat. Forse questa è l’unica cosa che gli fa effettivamente onore, tralasciando quelle impresucce da nulla”

“Effettivamente…”, mormorò la riccia, ultimando la sua opera e posandole la treccia sulla spalla destra. Poi si sporse leggermente in avanti e le lasciò un bacio sulla guancia, facendola arrossire. “Non pensarci ora”, sussurrò, “dormi, è tardi”. Jackie sospirò lievemente mentre la ragazza si allontanava, poi gettò un’occhiata all’orologio.

Erano le 23:34.

Chloe si stiracchiò, poi si avvicinò alla culletta di Annie e sorrise in maniera spontanea e dolce.

“Buonanotte, petit papillon

 

 

Niente. Non aveva scoperto assolutamente niente. Zero assoluto. Il vuoto più totale. Era snervante. Axel Klein richiuse la pergamena presa in prestito dagli Archivi con cura, la mano destra tremante a causa di un tic. Era uno dei pochi figli di Atena rimasto al Campo Mezzosangue, c’erano delle aspettative che doveva soddisfare, eppure ultimamente non sembrava capace di cavare un ragno dal buco. La maggior parte dei suoi fratelli era a casa per la primavera, come d’altronde accadeva ogni anno, altri invece… bè…

Sbuffò, altamente contrariato, e ripose il fragile cimelio sul suo comodino. Gli faceva male la testa e sentiva una strana sensazione all’altezza del petto, come se qualcuno gli avesse cementato il cuore. È questa la sconfitta?, si chiese, afflitto. Non era da lui non riuscire a trovare le risposte e, in qualità di figlio della dea della saggezza, aveva tutte le carte in regola per farlo. O almeno in teoria. Era… strano. Più informazioni raccoglieva, più sentiva di starsi allontanando dalla verità. Più volte si era confrontato con i suoi fratelli e con Alexander Townsend, il figlio di Clio, ma aveva come la sensazione di trovarsi a un punto morto. Quei misteri – i semidei scomparsi, il grande freddo, l’indebolimento degli dei, il coma della figlia di Moros – erano impossibili da risolvere, quei fili impossibili da sbrogliare. Chi – o cosa – si nascondeva dietro tutti quegli avvenimenti? Aveva provato a giustificare quel forte freddo con un avvenimento climatico totalmente naturale o con un capriccio di Chione, la dea della neve e delle bufere, ma entrambe le opzioni erano altamente improbabili. Dopo due anni al Campo Mezzosangue e qualche mese di permanenza al Campo Giove, Axel aveva capito che, in barba a quanto sostenesse suo padre a suo tempo, di naturale al mondo non c’era assolutamente nulla. Erano gli dei a decidere e controllare ogni cosa e a meno che Zeus non avesse perso la bussola di punto in bianco, non c’era motivo di causare tanto disagio climatico. Anche la seconda teoria, quella riguardante la dea Chione, era da scartare. Dopo la guerra contro i Giganti, la dea era stata duramente punita, condannata a vivere come un’anziana e brutta senzatetto mortale in Brasile per cinque anni. A quanto si diceva, la punizione aveva totalmente cambiato l’atteggiamento di Chione, che subito dopo la guerra era stata costretta a patire l’umiliazione e il calore brasiliano per quindici lunghi anni. E inoltre, quel grande gelo era sin troppo potente ed esteso per essere stato causato da una divinità minore. Dunque, anche questa teoria era da scartare. Axel sbadigliò, portandosi una mano davanti alla bocca. L’indomani avrebbe parlato con Alexander Townsend cercando di capirci qualcosa in più, ma in quel momento era troppo stanco. Si trascinò verso il bagno comune della sua cabina; dopo una protesta durata mesi, avvenuta esattamente durante i suoi primi due mesi di permanenza al Campo, campeggiata dalla casa di Afrodite, i semidei erano riusciti ad ottenere dei bagni personali per ogni cabina. La casa di Atena ed Efesto avevano lavorato senza sosta per progettare le tubature e, dopo un estenuante lavoro durato settimane, erano riusciti a creare dei bagni decenti e ben funzionanti per ognuna delle ormai numerosissime cabine presenti al Campo Mezzosangue. Axel andava molto fiero di quel progetto: era grazie a lui e ai suoi fratelli se ora ogni cabina poteva avere un po’ di privacy. Per un breve periodo, i figli di Ermes si erano rivolti a loro chiamandoli scherzosamente “Architetti dei Gabinetti”. All’inizio Axel era irritato da tanta mancanza di rispetto, ma poi aveva imparato a stare al gioco, ripetendosi che quel che aveva fatto era un ottimo contributo alla comunità.

Una volta arrivato in bagno, stando ben attento a non svegliare i suoi fratelli, rimasti ormai solo i quattro, iniziò a lavarsi i denti, osservando attentamente la propria figura allo specchio. I suoi capelli biondo cenere erano mossi e indomabili come al solito. Si annotò mentalmente di chiedere ad Elizabeth, una volta tornata dalla sua missione, di tagliarglieli un po’. Notò come il viso già normalmente pallido sembrasse ancora più incolore e smunto; doveva decisamente smetterla di fare le ore piccole. Mentre finiva di lavarsi i denti si chiese distrattamente se avesse dovuto farsi crescere la barba. Martin ce l’aveva, la barba… chissà come stava. Chissà se era cambiato dall’ultima volta in cui l’aveva visto. Chissà se era rimasto lo stesso dopo il Lotus...

Scosse la testa, sospirando lievemente, poi si sciacquò il viso e andò a letto, non prima di aver gettato una veloce occhiata fuori dalla finestra. Fortunatamente non scorse arpie.

Si infilò sotto alle pesanti coperte, chiuse gli occhi e li coprì con il braccio. Sembrarono passare solo pochi istanti quando sentì un forte rumore metallico, come se qualcuno avesse fatto cadere una forchetta sul pavimento. O peggio, un coltello. Non poteva trattarsi di Michael: quel ragazzo era un ghiro. Axel scattò a sedere, accese velocemente la lampada e afferrò il suo pugnale di puro bronzo celeste. “Cos…”

Lì, nella penombra, c’era un anziano barbuto, chino proprio su Michael, il fratello con cui condivideva la stanza. Era concentrato su di lui, ma quando Axel accese la lampada si immobilizzò con la mano a mezz’aria.

“Chi sei?! Allontanati subito da mio fratello!”, sbraitò Axel, scattando in piedi e puntandogli il pugnale contro. Ma perché Michael non si svegliava? Accidenti, aveva proprio il sonno pesante. Un’ipotesi iniziò a formarsi nella mente di Axel.

L’uomo si riscosse dalla sorpresa. Si mise dritto e, ondeggiando le mani in aria a mo’ di polpo cantilenò un: “Tu non hai visto nienteeee”.

Axel sbatté le palpebre, altamente perplesso. Stava forse sognando?

L’uomo sbuffò. “E va bene, forse mi hai visto. Touché

“Allontanati da mio fratello”, ripeté Axel.

L’intruso indietreggiò di qualche passo. “Che delizioso accento tedesco abbiamo qui. Comunque non stavo facendo nulla di male al tuo fratellino. Anzi! Lo stavo aiutando. Voi mezzosangue siete diventati davvero un manipolo di ingrati al giorno d’oggi…”

Axel si diede un veloce pizzicotto al fianco. Era così confuso. “Sto sognando?”

“Ohh, sei davvero intelligente!”, l’intruso applaudì rumorosamente, non curandosi degli altri abitanti della cabina che, con grande sorpresa di Axel, non si svegliarono. Il vecchio continuò: “hai capito chi sono, è evidente. Modestamente posso vantare una certa notorietà tra voi mezzosangue. E, come avrai certamente capito, non stai sognando e stavo chiaramente aiutando tuo fratello.”.

Axel non ci aveva capito assolutamente nulla, ma decise di star al gioco, più per orgoglio che per strategia. Abbassò leggermente il pugnale. “Lo stavi aiutando?”

“Certo! Stava avendo un incubo sui bulldogs inglesi, quei mostriciattoli dal grugno corto, e io l’ho sostituito con uno decisamente più piacevole”. Aggrottò la fronte. “Mio fratello Fobetore sta proprio esagerando ultimamente”.

Alex abbassò completamente il pugnale. “Tu sei…”

Venne interrotto da Michael, che si rigirò nel sonno sorridendo e mormorando “ah, Blanca, sei proprio una mascalzona…”

L’uomo ridacchiò, palesemente divertito dalla situazione, poi si avvicinò ad Axel e arricciò il labbro superiore semi nascosto dai baffoni in un sorriso, mostrando una fila di bianchissimi denti. Il ragazzo si chiese stupidamente se si trattasse di una dentiera. “Presentiamoci come si deve, Axel Klein, che dici? Io sono Morfeo. Avrai sicuramente sentito parlare di me”

“Io sono… ehm… Axel Klein”

“Che bel nome! Chi l’avrebbe mai detto. Hai più la faccia da Francis.”

Ci furono alcuni istanti di silenzio, che Morfeo sfruttò per specchiarsi alla finestra e sistemarsi i baffi grigi. Axel si domandò come avesse fatto a non essere certo dell’identità del dio poco prima. Il mazzo di papaveri che aveva in mano, la barba slavata ed incolta, l’aspetto assonnato, i vestiti comodi e l’aria vagamente stralunata. Non c’erano figli di Morfeo al Campo Mezzosangue, ma di figli di Ipno invece ne erano rimasti tre e assomigliavano terribilmente all’uomo che si trovava in quel momento nella stanza. In fondo erano fratellastri.

“Ti vedo un po’ confuso, perciò lascia che ti spieghi il motivo per cui sono qui”. Morfeo si sedette ai piedi del letto di Axel, che non trovò la forza di protestare. Si sentiva stanco e vagamente confuso. La lunga barba grigia di Morfeo sembrava emanare un odore dolciastro, quasi penetrante, floreale. Il semidio sentiva gli occhi gonfi di sonno. Rimase in piedi, circospetto.

“Ah ti capisco. Non era mia intenzione svegliarti! Avevo già in mente cosa farti sognare. Sono molto più bravo con le immagini. A volte mi risulta difficile… uhm… esprimermi, ecco”. Morfeo cominciò a dondolare i piedi come un bambino. Un bambino rugoso e barbuto. “Vedi, tanto tempo fa conoscevo questa persona. Bada bene, non dovrei dirtelo, ma sei così intelligente! Hai addirittura percepito la mia presenza, a differenza dei tuoi fratelli”. Gettò un’occhiata quasi ammonitrice in direzione di Michael, che stava abbracciando il cuscino sorridendo beatamente. Morfeo si inumidì le labbra screpolate. “Conoscevo questa persona. Era simpatica, ma nessuno voleva effettivamente passare del tempo con lei perché era nata per sbaglio. O almeno, così dicevano. Odiava se stessa e odiava non poter porre fine alle sue sofferenze. Era un’anima triste, ma io trovai il modo per aiutarla. Vedi, come ti ho detto prima, sono molto bravo a creare immagini. Ogni volta che questa persona chiudeva gli occhi, io creavo nella sua mente ricordi felici, come in un sogno. Era il minimo che potessi fare, ma mai e poi mai avrei pensato che ciò avrebbe contribuito al suo declino. Alla sua discesa nella più totale collera”

La mente di Axel viaggiava, ma non abbastanza velocemente. Il dio dei sogni gli stava letteralmente rivelando la soluzione a tutti i suoi problemi, ma la sua mente era così distante da riuscire a carpire solo una parola su cinque. Il suo corpo si mosse come in automatico, andandosi ad infilare sotto le coperte, nel suo bel letto. Si stese, poggiò la nuca sul cuscino e continuò ad ascoltare la storia.

Morfeo sorrise quasi teneramente e gli si avvicinò un po’ di più, sedendosi all’altezza del bacino di Axel e sistemandogli le coperte. Ha gli occhi scuri, pensò distrattamente il ragazzo.

“Si cucì le palpebre, in modo da poter sconfiggere l’immortalità e vivere per sempre nel mondo perfetto che avevo creato per lei”.

“Ahia…”, mormorò Axel.

“Già. Ahia. Fatto sta che qualcosa sta cambiando, e a me i cambiamenti non piacciono. Te ne sarai sicuramente accorto. Sei intelligente, si vede.’”, Morfeo gli scostò un ciuffo biondo cenere dalla fronte. Normalmente Axel si sarebbe scostato, ma quell’odore era così confortante… e poi non c’era assolutamente nulla di malizioso in quel gesto. Era come un nonno che metteva a letto il proprio nipotino, raccontandogli storie della sua gioventù per farlo assopire.

“Cerca di non prestare troppa attenzione a quel figlio di Clio; la storia non c’entra un tubo con questa faccenda”.

Axel era perplesso, stava per chiedergli che cosa intendesse, ma il dio si alzò di scatto, come se si fosse scottato.

“Beh”, fece Morfeo allegramente, “ti ho detto anche troppo. Cerca di ricordartelo domani mattina. Sogni d’oro!” e gli sbatté letteralmente il mazzo di papaveri in faccia.

 

Faceva particolarmente freddo quella mattina. Quel clima ricordava ad Axel la Germania.

Erano circa le sette quando Axel aprì gli occhi, sentendosi incredibilmente riposato. Le sue coperte, che solitamente la mattina erano un groviglio a causa del suo sonno agitato, erano perfettamente infilate sotto al materasso e tenevano ben caldo il corpo del semidio. Non aveva alcuna voglia di alzarsi, ma non poteva certo gettare all’ortiche una giornata potenzialmente producente. Si mise a sedere e si stropicciò gli occhi, guardandosi un po’ intorno. La luce del sole penetrava timidamente tra le dense nubi grigie e illuminava la spoglia stanza che solitamente condivideva con due dei suoi fratelli minori, ma che in quel periodo ospitava solo lui e Michael. Il letto del suo fratellastro era sfatto e vuoto.

Quello sciattone, pensò Axel. Voleva bene a Michael, davvero, ma certe volte davvero non sopportava i suoi atteggiamenti da tredicenne ribelle. Era al Campo da quasi un anno ormai, e in tutto quel tempo non aveva mai accettato Atena come madre. Non lo avrebbe mai ammesso, ma spesso tendeva ad assumere le caratteristiche degli altri ragazzi del Campo. C’era stato un periodo tremendo in cui aveva deciso di comportarsi come un figlio di Ares, quello ancora più snervante in cui aveva deciso di sfruttare la sua intelligenza per fare scherzi come i figli di Ermes e quello più recente, in cui aveva deciso di assumere gli atteggiamenti involontariamente snob di alcuni figli di Afrodite. Axel non aveva idea del perché Michael avesse sviluppato questo rifiuto nei confronti del suo genitore divino; non voleva impicciarsi, ma gli voleva bene ed era preoccupato per lui.

Si costrinse ad alzarsi e a dirigersi, in pigiama e scalzo, verso la porta chiusa del bagno. Bussò un paio di volte. “Michael? Devo fare pipì”.

Dopo alcuni istanti la voce ovattata di suo fratello lo raggiunse. “Già rompi di prima mattina, Ned Stark?”

Axel sbuffò. Non aveva ancora ben capito perché al Campo molti lo chiamassero Ned Stark. Un giorno aveva chiesto a due dei suoi amici, Elizabeth Larson e Alexander Townsend, chi fosse questo Ned. Elizabeth gli aveva spiegato che si trattava di un personaggio di una famosa serie tv che andava in onda molti anni prima, Game of Thrones, scatenando alcuni borbottii da parte di Alexander che aveva ribattuto “Guarda che i libri sono di gran lunga superiori”.

“Sarà”, aveva risposto lei, “ma io sono dislessica e preferisco guardare la serie tv.”

“È per questo motivo che esistono gli audiolibri, insipiente!”

“Non possiamo usare così tanto internet, scimunito, siamo mezzosangue. Aspetta… come mi hai chiamata?!”

L’Axel del passato, piegato in due dalle risate, non se l’era sentita di chiedere altro. Quello del presente, invece, si ritrovò a sorridere al ricordo. Quei due erano probabilmente le persone con cui più andava d’accordo al Campo Mezzosangue. Ripensare a loro in quel momento, però, provocava in lui una sorta di malinconia. Erano settimane che non vedeva e non aveva notizie di Elizabeth, impegnata in una missione segreta per conto di Chirone, e ultimamente Alexander era così preso dalle sue ricerche da non avere più tempo per lui.

Dopo più di un quarto d’ora, Michael uscì dal bagno in accappatoio, i riccioli biondi appena lavati e l’aria fresca e riposata.

“Era ora!”, sbottò Axel, precipitandosi in bagno.

“Ah, inutile che ci provi Ned. Stamattina nemmeno la tua insipidità potrà turbarmi: ho fatto un sogno bellissimo!”

 

Quando Axel finalmente uscì dalla cabina sei, erano ormai le otto del mattino. A causa del freddo, le varie attività che il Campo offriva erano state spostate alle undici, quando il sole sembrava riscaldasse un po’ di più. Non sapeva bene perché si fosse svegliato così presto, né perché si stesse dirigendo in Infermeria. Fatto sta che, da quando si era svegliato, aveva come l’impressione di star dimenticando qualcosa di molto importante. Era una sensazione nuova per lui; aveva la fortuna di essere nato con una memoria eccezionale, che tutti gli invidiavano. Eppure c’era qualcosa che era certo di star dimenticando, ma proprio non riusciva a capire cosa.

Una volta arrivato in infermeria, notò, non sapeva se con piacere o nostalgia, quanto fosse vuota. Le uniche due persone presenti erano Ethalyn Harper, una talentuosa figlia di Apollo di soli quattordici anni, e Makayla Hill, stesa in stato quasi vegetativo su di un lettino. Erano ormai quattro giorni che dormiva e, secondo i Guaritori e Chirone, non dava alcun segno di volersi svegliare.

Ethalyn le stava sistemando il cuscino, spostandole leggermente la testa in modo da farle cambiare posizione ed evitare futuri indolenzimenti. Axel si avvicinò titubante. Non era mai andato a trovare Makayla in quei quattro giorni e nessuno poteva realmente biasimarlo; in fondo, la conosceva solo di vista.

“Axel? Che ci fai qui? Hai bisogno di un po’ di ambrosia?”, fece Ethalyn. Sembrava vagamente stupita dalla sua presenza lì, ma non gli domandò nulla.

“In realtà sono qui giusto per una visita. E anche per vedere se potevo essere d’aiuto”, mentì velocemente e sorridendo appena.

Ethalyn alzò un sopracciglio. “Capisco”.

Axel si avvicinò titubante. Di solito non era tipo da seguire l’istinto, era pur sempre figlio di Atena, ma qualcosa gli diceva che, facendo un piccolo strappo ala regola, sarebbe riuscito a trovare le risposte che cercava.

“Senti, già che sei qui, perché non mi dai una mano a farle bere un po’ di nettare? La trovo così pallida…”

“Certamente”

Axel si tolse il cappotto e prese delicatamente la testa di Makayla tra le mani e, facendo molta attenzione, gliela sollevò. Ethalyn prese una ciotolina con all’interno un liquido dorato. Poi, con un cucchiaino, imboccò la figlia di Moros, stando ben attenta a non far cadere nemmeno una goccia. Axel aggrottò la fronte quando Makayla deglutì solo dopo molti secondi.

“Non mangia né beve con facilità”, disse Ethalyn come se gli avesse letto nel pensiero, “è snervante. Senti, Axel, ma tu…”. Fu interrotta dal forte rumore della porta dell’Infermeria che si spalancava, sbattendo contro il muro.

“Ops”

Un ragazza dalle spalle larghe, la pelle scura e gli occhi a mandorla fece il suo ingresso, la mano destra che teneva stretta la sinistra in un panno insanguinato.

“Oh per amor di Apollo, Jun, di nuovo?!”, sbuffò Ethalyn, precipitandosi al suo fianco. Axel si rese conto di avere ancora tra le mani la testa bruna di Makayla. Si affrettò a lasciarla e a scostarsi velocemente, le mani alzate in segno di innocenza.

Ethalyn si affrettò a far sedere Jun, che intanto sorrideva con aria colpevole, su uno dei lettini dell’infermeria. Quando Ethalyn tolse il panno sudicio dalla mano ferita, un forte odore di sangue invase la stanza. Axel decise che era il momento giusto per andarsene. Andò a recuperare il cappotto che aveva lasciato cadere per terra e lo indossò. Proprio mentre stava per infilare la seconda manica, Ethalyn cominciò a cantare, intonando una delle varie litanie dei figli di Apollo. Axel osservò mentre la ferita sulla mano di Jun cominciava a rimarginarsi. E, proprio come l’arto della semidea, anche la sua mente sembrò cominciare a guarire. Come in un flashback, rivide il volto di un vecchio che sembrava essergli familiare, la penombra della cabina di Atena, Michael che mugugnava qualcosa. Il flusso confuso di immagini mute si concluse esattamente quando Ethalyn smise di cantare.

“Hai proprio una bella voce, Lyn”, la lodò Jun con il suo caratteristico sorriso caldo e vagamente ammiccante. Axel non la conosceva bene, ma sapeva per certo che Jun era così: una ragazzona dal cuore grande e costantemente avvolta da un’aurea di calore e positività. Non era raro vederla andare in giro per il campo a portare il buon umore e cercare di far sentire a proprio agio i mezzosangue più piccoli o appena arrivati. Elizabeth la trovava simpatica; Alexander rumorosa. Axel invece non aveva avuto modo di formulare un vero e proprio giudizio su Jun-Lin Ortega. Sembrava una tipa a posto e tanto bastava.

Ethalyn spostò il peso da un piede all’altro, imbarazzata e lusingata al tempo stesso. “Grazie. Ma l’importante sono le parole. Prova a muovere le dita”.

Jun stese il braccio e mosse le dita per aria. Il suo sorriso si allargò. “Ma è fantastico, è rimasta solo una piccola cicatrice”.

“Già, ma sta tranquilla: sparirà nel giro di qualche giorno. Hai fatto bene a non provare di nuovo a cicatrizzartela da sola con le tue fiamme. Avresti combinato un disastro come l’altra volta.”

Jun si arruffò i corti capelli scuri già di per se scombinati, poi le fece l’occhiolino. “Aspetterò l’estate allora, così saranno le tue sorellone a curarmi come si deve”

“Jun!”

Axel si sentiva di troppo, perciò si diresse verso l’uscita, gettando un ultima occhiata in direzione di Makayla e salutando cordialmente le due semidee. Jun lo richiamò e gli chiese di aspettarla, ma Axel rispose gentilmente che aveva un po’ di fretta e che non poteva perdere altro tempo.

“Sempre ligio al dovere, eh, lord Stark?”, lo prese bonariamente in giro lei.

Axel non aveva voglia di protestare, perciò si limitò a sorridere per poi allontanarsi, le mani in tasca e gli occhi alti verso il cielo nuvoloso e cupo. Forse dopo avrebbe scritto una lettera a Martin, ma prima aveva bisogno di liberarsi di quell’orrenda sensazione e ricordare.

 

 

5 Marzo 2045, domenica

Mark non si sentiva più i piedi. A dirla tutta, il suo intero corpo era indolenzito e completamente esausto. Se non fosse stato per la sua essenza semidivina e per la sua grande ed invidiabile forza di volontà, sarebbe collassato al suolo qualche ora prima, nel bel mezzo delle gelide strade di San Francisco. Non poteva fermarsi. In situazioni normali non gli sarebbe dispiaciuto girare per quella grande metropoli, facendo un po’ il turista e osservando i mortali vivere la loro vita quotidiana, completamente ignari dei pericoli che giornalmente correvano. Ma quella non era una situazione normale, decisamente no. Erano circa le quattro del mattino, facevano -6 gradi e Mark, sotto richiesta dei suoi superiori, era nel bel mezzo di un impresa potenzialmente suicida. Per di più, in compagnia di una rumorosa e alquanto inattendibile semidea greca, figlia di una delle più inaffidabili e disoneste divinità del Pantheon greco: si trattava di Elizabeth Larson, figlia di Ermes. Erano ormai due settimane che i due viaggiavano insieme, uno per conto del Senato, l’altra perché Chirone gliela aveva gentilmente chiesto. In principio, Mark sarebbe dovuto partire da solo, ma a seguito ad alcuni problemi con l’ambasciata greca, il Senato aveva deciso di affiancargli un compagno rigorosamente greco. Per questione di equità, avevano detto. Mark non era stato molto d’accordo con quella decisione. Non gli andavano molto a genio quegli indisciplinati, ma non si permise di contestare. Tuttavia pretese uno dei migliori elementi, se non il migliore, tra le schiere elleniche. “Non preoccuparti, Crassus, Chirone prende molto seriamente queste faccende”, l’aveva rassicurato con un sorrisetto Jonathan Blake, figlio di Iride e membro dell’ambasciata greca. Quando tuttavia Mark aveva richiesto il meglio, non si sarebbe mai aspettato di condividere il fardello di quell’importante missione con una ragazza di quasi quindici centimetri più bassa di lui, il sorrisetto da piantagrane, indisciplinata e assolutamente priva di senso dell’onore. Ricordò di essersi sentito incredibilmente preso in giro e stava per protestare, ma qualcosa lo fece desistere. Considerarsi meglio di quella ragazza significava peccare di tracotanza e superbia. E lui non poteva permettersi di peccare.

Ed era così che si ritrovava a camminare per le strade praticamente deserte di San Francisco, alle tre del mattino, Elizabeth che trascinava i piedi e sbadigliava continuamente al suo fianco. Mark si domandò se avesse la stessa aria esausta che aveva la sua compagna d’avventura: i lunghi capelli neri erano sciolti lungo le spalle e le sfioravano il bacino, gli occhi marroni erano cerchiati di viola, il naso pronunciato era screpolato per via del freddo, così come le labbra. Indossava un pesante cappotto color castagna - che stonava incredibilmente con il cappellino grigio -, ma sembrava comunque tremare leggermente. Le mani, le cui dita erano adornate da numerosi anelli, avevano le nocche spaccate dal freddo. A tratti le ricordava Livia, la sua gemella, figlia di Marte e Julia Crassus. La sua gemella che ora non c’era più. Fu forse questo a spingerlo a rivolgerle la parola dopo ore di silenzio, interrotto solo da qualche flebile mormorio per chiedere l’ora o per avvertire di qualche rumore. “Ci stanno ancora seguendo?”, sussurrò.

Elizabeth si voltò e, nel momento stesso in cui lo fece, il nutrito gruppo di mostri che li stava seguendo a parecchi metri di distanza si immobilizzò. Riuscì anche a sentire una voce cavernosa borbottare: “Dici che ci ha visto?”, e un'altra, decisamente femminile, rispondere: “zitto Zuccone, se non ti muovi non possono vederci”.

Elizabeth sbuffò. “Ma cosa vogliono? Non si sono già divertiti abbastanza a distruggerci la macchina?”

Mark sfiorò con la mano l’elsa della spada d’oro imperiale che portava lungo il fianco sinistro, senza smettere di camminare e guardando dritto davanti a sé. Erano sempre più vicini, poteva percepirlo. “Ci stanno osservando, è evidente. È per questo che non attaccano. L’unica opzione è sterminarli tutto e poi dirigerci subito dal vecchio”

La semidea rimase in silenzio e si finse impegnata a osservare i numerosi e pericolosi anelli su entrambe le mani, poi si girò di scatto, alzò le braccia all’aria ed esclamò “Un due tre… stella!”

I mostri si immobilizzarono. Un ciclope dalla folta barba scura e la testa pelata – che Mark decise essere Zuccone - alzò le braccia con qualche secondo di ritardo.

“Ah-ah-ah!”, fece Elizabeth agitando l’indice, l’espressione severa, “Ti sei mosso! Torna subito in fondo alla fila”

Zuccone sbatté il suo unico occhio, perplesso. “Cindy, devo…?”

Una dracena in armatura gli strisciò davanti, gli occhi puntati su Elizabeth. Mark afferrò l’elsa della sua spada, pregustando già il clamore della battaglia. Non poteva farci nulla: l’adrenalina che solo il combattimento poteva offrirgli era come una droga. Era pur sempre figlio di Marte.

“Ehi! Boccia di Cristallo deve rispettare le regole, funziona così il gioco”, esclamò la figlia di Ermes indicando Zuccone, che si toccò la testa glabra confuso. Elizabeth chiuse si rimirò nuovamente le mani, poi guardò Mark. “Che dici, quale uso oggi?”

Il figlio di Marte non poté non sorridere. “Quella di Ferro dello Stige”.

La mora alzò gli occhi al cielo. “Quella mi fa altamente cagare, ma ogni tuo desiderio è un ordine” e si sfilò uno degli anelli: quello nero. Si concentrò per pochi istanti e subito il gioiello si trasformò in una spada lunga, completamente nera e dall’aria molto affilata. Mark rabbrividì: dopo quello che era successo a sua sorella, provava un certo astio nei confronti degli articoli di bigiotteria, e il fatto che gli anelli di Elizabeth, dono di suo padre, fossero in realtà delle armi letali sembrava una battuta di cattivo gusto e una presa in giro bella e buona. Non è il momento di pensare a Livia, si disse Mark. Doveva concentrarsi. Erano in due contro una dozzina. Il semidio era molto sicuro delle proprie abilità, ma quella non era una sfida da prendere sottogamba. E poi, non aveva mai davvero visto Elizabeth combattere. Nelle ultime due settimane, aveva sempre lasciato fare a lui il lavoro sporco, agendo più come distrazione che come vera e propria minaccia. Quando in Nevada avevano affrontato alcuni carpoi, Elizabeth si era limitata ad appollaiarsi su di un albero e a lanciare sassi in testa ai mostriciattoli, distraendoli e permettendo a Mark di infilzarli uno ad uno. Meglio non pensare al Nevada.

Si riscosse dai suoi pensieri quando Cindy la dracena urlò: “ALLA CARICA!” e una dozzina di mostri assortiti si precipitò verso di loro, urlando e agitando le armi. Elizabeth fu rapida, più rapida di Mark stesso: si slanciò in avanti e, con una sorprendente velocità, tagliò di netto la testa a Cindy, il cui corpo di disintegrò ancora prima di toccare terra. Altrettanto rapidamente Elizabeth tornò di fianco a Mark, che non ebbe tempo per congratularsi, dal momento che un ciclope  e un telchino gli piombarono addosso. Fu facile eliminarli, ma non fu altrettanto facile evitare l’attacco immediatamente successivo di un empusa, che con la lama del pugnale gli perforò la manica del giubbino. Mark grugnì, infastidito, e le trapassò lo sterno con la punta della spada dorata. La donna mostro si tramutò in polvere. Dopo solo un paio di minuti, i due semidei avevano fatto fuori la maggior parte dei mostri. Ne rimaneva solo uno: Zuccone. A Mark quasi dispiaceva ucciderlo. Elizabeth tornò al suo fianco. Aveva perso il cappellino, la fronte imperlata di sudore e le spalle basse. Mark era stanco, sì, ma non così tanto. Si rese conto che la ragazza era come un giaguaro: veloce e letale nello sprint iniziale, ma completamente inutile sul fronte della resistenza fisica. Zuccone alzò le braccia, l’occhio umido. “Ti prego, ragazzo, non uccidermi.”

Mark era inespressivo. Fece per alzare la spada e colpirlo, ma Elizabeth urlò: “Fermo!”

Mark si immobilizzò, confuso.

Il corpo della semidea tremava, forse a causa della stanchezza e dell’adrenalina, ma la presa sulla spada era salda e la voce ferma e decisa. “Perché ci stavate osservando? Per chi lavori?”

Il ciclope emise un verso animalesco e si girò per scappare, ma Elizabeth fu più rapida e gli conficcò la spada nera nella gamba, inchiodandolo a terra. Il mostro ululò di dolore. “Ti ho fatto una domanda”, insisté la ragazza.

Mark non osò proferì parola, stupito dal cambiamento della sua compagna. Arrivò persino a pensare che, in fondo, non era stata una così cattiva scelta da parte dei greci e, molto in fondo, non gli dispiaceva averla come partner.

Stavolta Zuccone pianse sul serio. “La disperazione!”, urlò.

Elizabeth aggrottò la fronte. “Mi prendi in giro?”

“Già. La prendi in giro?!”, rincarò la dose Mark, che proprio non riusciva a sopportare gli sfottò, soprattutto se da parte del nemico.

“No, no vi assicuro! Vi prego, ve l’ho detto, non…”

Mark gli mozzò la testa con un colpo secco. Un po’ di sangue spruzzò sull’addome di Elizabeth, a cui però non sembrò importare più di tanto. Si rimise al dito l’anello nero, ansimando. Fece per sedersi a terra, ma Mark la prese per le ascelle e l’aiutò a rimanere eretta, scuotendo la testa. Anche lui era stanco, ma non poteva permettersi di cedere. Quando ricomincio a respirare regolarmente, guardò Mark e sospirò, scostandosi e cercando di sorridere. “Mark… io lo so che vuoi continuare la missione, lo capisco. Ma n-non ce la faccio più. Ho davvero bisogno di dormire. Almeno un’ora.”

“Va bene”

Elizabeth sgranò gli occhi scuri. “Niente proteste? Niente no, Elizabeth, dobbiamo completare la missione?”, abbassò il timbro vocale per imitarlo, ma era davvero stupita.

Mark alzò gli occhi al cielo e si ripulì i pantaloni.

“No, sei stata brava”

Un grande sorriso si formò sul particolare viso di lei. Il complimento sembrò rinvigorirla. Lodare Elizabeth Larson era come lodare un bambino, pensò lui. Bastava davvero poco per renderla felice.

Erano le quattro e mezza di mattina quando finalmente arrivarono in hotel. Mark manipolò un po’ la Foschia in modo da non dover rispondere a troppe domande, ma, ignorando i suggerimenti di Elizabeth, pagò comunque l’impiegata alla reception. Aveva preso due camere separate. Era sicuro che, una volta lasciato l’hotel, quella stessa mattina, la camera di Elizabeth sarebbe stata totalmente vuota. In quelle due settimane, quella ragazza era stata capace di rubare di tutto, persino uno sgabello da un fast-food. Lunga storia. Mentre i due si auguravano la buonanotte e si dirigevano verso le rispettive camere, Mark si rese conto che sotto sotto apprezzava la compagnia della semidea. Sarebbe potuti capitargli un compagno di gran lunga peggiore. Sarebbe potuto capitargli un ragazzo. Mark arrossì al pensiero. Non avrebbe proprio saputo come gestirlo. Non perché fosse… gay, non di certo. Era totalmente escluso. Lui era un uomo vero, punto e basta. Era solo che i ragazzi – soprattutto quelli carini – gli facevano uno strano effetto. Non sapeva bene come descriverlo e forse nemmeno voleva dare un nome a quelle strane sensazioni che provava. Forse ne era spaventato…? No, no, era da escludere anche quell’opzione. Lui non aveva paura. Lui non poteva averne.

 

Svegliare Elizabeth, come aveva potuto costatare tempo prima, non era un’impresa facile. Lui non aveva bisogno di dormire molto, tre ore a notte erano più che sufficienti, ma la figlia di Ermes era tutta un’altra storia. Era capace di addormentarsi alle nove di sera e svegliarsi ad ora di pranzo. Perciò quando i due non avevano la fortuna di poter alloggiare comodamente in qualche ostello, era solitamente lui ad occuparsi dei turni di guardia. Era noioso, ma non poteva fare altrimenti: Elizabeth si trasformava in uno svogliato e fastidioso zombie quando non dormiva abbastanza. Rimase a bussare alla porta della sua camera abbastanza a lungo da provocare la stizza di alcuni ospiti dell’albergo. Quando finalmente la semidea aprì la porta, aveva il pigiama, i capelli tutti gonfi e spettinati e l’aria stralunata. “Mark. Che vuoi?”

“Sono le nove del mattino.”

“Bello”

Il figlio di Marte bloccò la porta con la mano proprio mentre l’altra stava per richiuderla. “Non ci pensare nemmeno.”, disse tra i denti, “Preparati. Alle nove e mezza lascerò l’hotel. Con o senza di te. È chiaro?”

Elizabeth sbuffò e brontolò qualcosa come “e dire che abbiamo la stessa età”  mentre chiudeva la porta. Quando dopo quaranta minuti Elizabeth uscì dalla camera, pulita e ordinata, Mark stava finendo di preparare le sue cose.

“Ho fame”, disse la ragazza.

“La colazione era alle otto”

“E non mi hai conservato nulla?”, Elizabeth era particolarmente offesa.

Mark ghignò. “Se ti fossi svegliata prima avresti fatto colazione, non dare la colpa a me. Mangerai dopo che avremo acciuffato il vecchio”.

Elizabeth imprecò in greco sottovoce. Mark la ignorò e uscì dall’hotel, senza curarsi di salutare lo staff. Perché darsi pena? Non li avrebbe più rivisti.

Appena uscì dall’hotel, sentì una familiare ma strana sensazione, come se qualcuno lo stesse coprendo con un velo trasparente, e si girò verso Elizabeth, che aveva l’aria concentrata. O costipata, dipende dai punti di vista. “Di già?”, chiese Mark.

“Mi sento in forze. E poi, non voglio che il vecchiaccio ci senta arrivare”

“Ah, giusto. Perché ieri abbiamo fatto di tutto pur di non far casino”, disse Mark con giusto una minuscola puntina di sarcasmo.

Elizabeth non rispose, ma rigirò uno degli anelli sull’anulare destro con il pollice della stessa mano, pensierosa. “Faremo meglio a sbrigarci”, disse poi, “non mi va di perdere troppo tempo con Fiato d’Alghe, è disgustoso”.

Mark annuì e insieme si diressero verso il molo. Percepiva l’abilità di Elizabeth come una specie di leggera pressione al centro della testa. Essendo figlia del dio dei ladri, Elizabeth doveva essere capace di confondersi tra la folla e cercare di passare inosservata. Perciò, suo padre le aveva concesso l’abilità di poter omologarsi e confondersi in qualunque ambiente si trovasse, come un camaleonte. Ma l’abilità non si estendeva solo a livello fisico, da momento che la ragazza aveva anche l’abilità di celare la propria aura e il proprio odore ai mostri. Veniva attaccata ugualmente, questo purtroppo era inevitabile, ma rispetto agli altri semidei emanava segnali nettamente più deboli. Di recente, avevano scoperto che era possibile coprire almeno in parte anche un altro semidio. Elizabeth si lamentava spesso che l’aura di Mark era troppo forte per poter essere mascherata completamente. Il semidio si mostrava compiaciuto da quel commento, quindi Elizabeth, pur di smorzare la sua baldanza, ribatteva che in realtà quella che era forte era la puzza.

Quando arrivarono al molo, strapieno di senzatetto, il fetore d’acqua stagnante e frittura mista andata a male era ormai insopportabile. Elizabeth gonfiò le guance, inorridita. Si legò i capelli puliti in una lunga coda, le dita scintillanti a causa degli anelli. Mark alzò gli occhi al cielo. “Non penso proprio che questo freddo ci siano pidocchi i cose così”.

Elizabeth lasciò ricadere le braccia. “E tu che ne sai? Con questo taglio da soldatino non rischi niente.”

“Potrei tagliarteli esattamente così durante la notte mentre russi. Non te ne accorgeresti nemmeno”, minacciò velatamente Mark mentre seguiva quell’odore tremendo. Per Roma, si disse cercando di farsi coraggio, per rendere la mia famiglia fiera di me. Ripensò alla sua inflessibile madre, Julia, che vedeva in lui più un soldato che in figlio. Ripensò a sua nonna Octavia, rattrappita dalla vecchiaia ma ugualmente fiera e comprensiva. E infine l’immagine di sua sorella, la sua bellissima sorellina, occupò completamente la sua mente. Mark e Livia si assomigliavano molto fisicamente: gli stessi occhi blu scuro, gli stessi capelli lisci e scuri, il naso allungato e le mani curate, nonostante quelle di Mark fossero leggermente callose a causa della scherma. Caratterialmente, Livia pareva più una figlia di Venere che di Marte, e forse fu proprio questa la sua condanna. Mark scosse la testa vigorosamente ed Elizabeth lo guardò, comprensiva. “Ti capisco, questa puzza ti penetrata proprio nelle narici”. Si coprì il naso pronunciato con la manica del cappotto e cercò di respirare con la bocca.

Passarono tra vari sacchi a pelo e materassi di fortuna, quando finalmente scorsero in lontananza un vecchio che non  sembrava patire particolarmente il freddo. Era ridicolmente grasso, aveva la barba lunga e bianca e l’aria arrabbiata anche nel sonno. Se ne stava appoggiato ad una baracca in legno, il cappellino di lana calato sulla fronte, la bocca sdentata semiaperta.

Quindi è questo Nereo? È peggio di quanto pensassi.

Mark gli si avvicinò lentamente, deciso sul da farsi. Si girò per comunicare ad Elizabeth la sua strategia, ma lei era rimasta di parecchi passi indietro e gli mostrava i pollici  sorridendo. Tipico.

Mark si lanciò di peso sul dio, che subito inizio ad urlare e dimenarsi. Il suo alito si abbatté con prepotenza sul volto del semidio, che diventò verde dalla nausea.

“AAAAAAHHHH! LASCIAMI PERVERTITO! LASCIAMI!”

“Sono un mezzosangue!”, urlò Mark cercando di sovrastare il suono delle sue grida, “devo porti una domanda!”

“NO! PURE PEGGIO! VATTENE VIA!”

E cominciò a strisciare a mo’ di lombrico, le braccia lungo ai fianchi, con Mark attaccato al busto.

Elizabeth saltellava sul posto e agitava le braccia. “Vai Mark, tienilo! Tieni giù il grassone! Vai cowboy!”, lo incoraggiò con voce acuta.

Nereo cercò disperatamente di avvicinarsi all’acqua salmastra, ma Mark era nettamente più forte. Dopo un po’ di tempo, finalmente Nereo smise di dibattersi e sospirò affranto. “Hai vinto, puoi lasciarmi. Giuro che risponderò alla tua domanda.”

Il figlio di Marte lo lasciò andare, sudato e puzzolente, ma soddisfatto.

Elizabeth gli si avvicinò, zampettando allegramente come un cucciolo di labrador. “Lo abbiamo preso! Ottimo lavoro, centurione”

Mark le gettò un’occhiataccia al abbiamo, ma decise di passarci sopra. Finalmente avrebbero scoperto chi si nascondeva dietro tutti quei misteri e almeno un quarto della missione affidatagli dal Senato sarebbe stata completa.

“Allora?”, sbottò Nereo, piegato in due dalla fatica, “questa domanda?”

Mark non riusciva a guardarlo completamente in faccia, perciò si concentrò su una mollica probabilmente di pane incastrata tra i fili bianchi della sua barba. “Qual è il nome di colui che sta provocando tutto questo scompiglio tra i campi?”, scelse con cura le parole, temendo un tranello.

Nereo ghignò, poi mise le mani guantate sui fianchi deformati dai grassi. “Ho giurato di rispondere alla domanda e lo farò, ma prima ho una richiesta: figlia di Ermes, sciogli la tua protezione.”

“Perché dovrei farlo?”, chiese Elizabeth, sospettosa.

“Fallo e basta”, le disse Mark con durezza senza nemmeno guardarla. Dopo pochi istanti di esitazione, il velo invisibile che gli copriva il capo svanì, lasciando la sua aura libera di essere captata.

“Ecco, l’ha fatto. Ora voglio la mia risposta”

Nereo per tutta risposta scoppiò in una fragorosa e puzzolente risata. “Oh, è tremendo! Davvero tremendo. Povero te. L’avevo già percepita prima quando mi hai afferrato, ma ora, senza questo fastidioso scudo è chiaro: è proprio la maledizione dei Crassus!”

Mark si irrigidì e strinse i pugni. “La risposta!”

Il dio si passò la mano sotto al naso gocciolante e ghignò. “La risposta è semplicissima: si tratta della disperazione. Ma non la sua. La vostra.”.

Mark stava per prenderlo a pugni ma, prima che potesse anche solo alzare il braccio, Nereo corse via come il ciccione più veloce della storia e si lanciò in mare, sparendo alla vista.

Il ragazzo si sentiva ribollire di rabbia. Si allontanò senza una parola dal molo, digrignando i denti e con i pugni serrati. Doveva cercare di non esplodere. Elizabeth lo raggiunse, l’espressione preoccupata. “Mark…”

“Sta zitta”, le intimò.

“Di cosa stava parlando Nereo? La maledizione dei Crassus?”, continuò lei imperterrita.

“Ho detto: fa’ silenzio” Mark stava cominciando a perdere la pazienza. Il vaso ormai era pieno e stava per traboccare.

“Okay, va bene, tieniti pure i tuoi segreti”, sbuffò lei, “ma come fai a non capire? Anche quel ciclope aveva nominato la ανία. Non tutto è perduto.”

“La che? Anìa?”, domandò Mark. Il suo cervello non era fatto per il greco antico.

“Oh, l’ho detto in greco? Scusa. Intendevo la disperazione. Pensaci: anche il ciclope pelato aveva detto una cosa del genere. Aveva detto la verità, dopotutto. Nereo non può mentire.”

La desperatio. Né in inglese né in latino gli piaceva il suono di quella parola. E in greco suonava quasi come una maledizione. Già, la maledizione.

Si voltò verso Elizabeth, che ricambiò lo sguardo aggrottando la fronte. “Dimentica quello che hai sentito riguardo la maledizione”, le disse a voce bassa. Le strade stavano cominciando ad essere affollate. I due mezzosangue si spostarono verso il parco più vicino. Mark sentì la protezione di Elizabeth coprirlo totalmente; sembrava quasi essere più forte del solito.

“Sei maledetto?”, gli domandò in un sussurro, avvicinandosi con occhi sgranati.

“Sì”, rispose Mark in un soffio, “ma non ti riguarda”.

“E invece sì!”, saltò su Elizabeth, “sei mio amico e voglio aiutarti. Di che si tratta?”

Amico. Era finito ad essere amico di una greca. Non sapeva come sentirsi al riguardo. Non gli piacevano particolarmente i greci, li trovava particolarmente fastidiosi e indisciplinati, ed Elizabeth incarnava perfettamente l’idea che si era costruito sui mezzosangue ellenici. Eppure non gli dispiaceva essere considerato suo amico, anche se ancora non se la sentiva di considerare lei alla stessa maniera; diciamo che “rispettabile commilitone” poteva bastare per il momento.

“Ne parleremo in un secondo momento”, le rispose invece senza battere ciglio e fermandosi in prossimità di un parchetto, “abbiamo dei semidei da portare al Campo e un’impresa da portare a termine”.

“Ci sto!”, esclamò Elizabeth motivata, gli occhi scuri brillanti e determinati, “andiamo a prendere Baron.”.

 

 

Crystal si ritirò nella sua stanza privata, stanca e nervosa; il peso delle sue grandi responsabilità gravava sulle sue spalle e sentiva di star per esplodere. In qualità di Pretore del Campo Giove e figlia del re degli dei in persona avrebbe dovuto sapere cosa fare, era quello che tutti si aspettavano da lei. Eppure, mentre guardava allo specchio il suo viso stanco nonostante fossero solo le sei di sera e gli occhi lucidi, Crystal realizzò che non poteva pretendere di farcela, non da sola. Si sedette sul suo letto. La testa le doleva. Si portò due dita alle tempie, massaggiandole e cercando di schiarirsi le idee. Il colore blu, predominante nella sua stanza, quasi la infastidiva. La riunione in Senato era stata una colossale perdita di tempo. Crystal poteva contare sull’appoggio di molti membri delle legioni e sui suoi fidati ed influenti amici, primo fra tutti Aster Sage, figlio di Somnus e augure del Campo, ma questa volta sembrava che ciò non bastasse per convincere i senatori più anziani. Quei bastardi dovevano solo ringraziare Terminus e la sua fissazione per le armi al di fuori del confine. Quanto avrebbe voluto sfoderare Arcadia e fargli assaggiare un po’ di sana ragionevolezza. A ventiquattr’anni Crystal voleva solamente un po’ di tranquillità. All’inizio di settembre non le era sembrato nemmeno un miraggio così lontano, dal momento che quello sarebbe stato il suo decimo ed ultimo anno di servizio – come poteva dimostrare il suo tatuaggio – ma tutto era andato in malora nel momento in cui la grande ondata di freddo aveva colpito il Nord America e un numero spropositato di semidei era letteralmente sparito.

Crystal si fece forza e si alzò, cominciando a sfilarsi la toga purpurea e a prepararsi per qualche ora di riposo, che non sentiva di meritare ma che era necessario per poter essere pienamente cosciente e concentrata. Osservò per qualche istante la sua pelle olivastra e ricoperta di cicatrici pallide, memento della vita passata a combattere e fuggire i mostri. La cicatrice più evidente, tuttavia, era quella sul lato sinistro della testa, che la costringeva a portare un taglio di capelli piuttosto insolito ma che lei apprezzava, in quanto le conferiva un’aria autoritaria e in un certo senso rispettabile. Per qualche motivo, le tornò alla memoria il giorno in cui Percy Jackson, ormai adulto, padre di famiglia e cittadino onorario di Nuova Roma, le aveva chiesto come si fosse procurata quel taglio. Quando Crystal gli disse che era stato a causa di una roccia, il figlio di Poseidone era scoppiato a ridere, per poi scusarsi e rispondere allo sguardo offeso della ragazza con un sorriso malinconico: “Un tempo aveva un amico figlio di Giove. Fu colpito da un mattone in testa il primo giorno che ci incontrammo. E beh, altre innumerevoli volte. Deve essere una cosa di famiglia.”. Crystal ricordò di aver sorriso più per cortesia che per altro. Non le piaceva essere paragonata ad altre persone, anche se si trattava di uno dei più grandi semidei della storia. Come lei, anche Jason Grace era stato pretore e figlio di Giove e, come lei, era stato letteralmente costretto ad accettare quella carica per il bene di Nuova Roma.

Una volta tolti tutti i vestiti, Crystal si gettò sotto alla doccia, beandosi del calore dell’acqua ed immaginando tutte le responsabilità scivolarle via di dosso, insieme alle preoccupazioni e alle insicurezze.

Ripensò a quello che le era stato detto poc’anzi in Senato dagli anziani: che era testarda e orgogliosa per ascoltare ragioni, che il Campo Giove non poteva permettersi di rischiare la propria stabilità per delle semplici casualità o per i suoi film mentali. L’aria era carica di elettricità. Crystal era stanca di dover sempre essere colei a cui toccava risolvere la situazione, di dover capire, raggiungere e soddisfare le esigenze di tutti in qualità di leader. Più si sforzava, più i risultati non sembravano arrivare.

Si insaponò i capelli, passando con delicatezza i polpastrelli sul lato rasato della testa, sentendo la cicatrice in rilievo al tatto.

Tutto ciò che era riuscita ad ottenere era stata un’impresa combinata per uno dei suoi sottoposti: il centurione Mark Crassus. In primo luogo, gli aveva ordinato di trovare e interrogare Nereo. C’era sicuramente riuscito; era una richiesta semplice. Poi, gli era stato chiesto di recuperare alcuni potenti e potenzialmente pericolosi mezzosangue di cui si erano smarrite le tracce, affidandosi all’aiuto del suo compagno greco, di cui Crystal sentiva di potersi fidare, forse anche a causa della discendenza divina di sua madre. Infine, c’era una questione da chiarire riguardo un’aura divina e misteriosa proveniente da alcuni campi in Georgia. Crystal aveva bollato quest’ultima richiesta come trascurabile, in quanto la Georgia era molto lontana dal Campo Giove e non si aspettava certo che Mark facesse miracoli. Se ne sarebbero occupati in un secondo momento.

Finì di risciacquarsi ed uscì dalla doccia, avvolgendo il corpo tonico ed allenato in un lungo asciugamano, per poi indossare dei vestiti comodi ad asciugarsi i capelli con il phon.

Aveva quasi finito quando sentì bussare alla porta. Si morse l’interno della guancia, sconcertata. Di solito nessuno – tranne Sasha e Cecily che di solito erano ben accette ma che in quel momento non erano al Campo Giove - osava disturbarla quando si trovava nelle stanze private del pretore. Si trattava forse del suo collega, Martin? Aster? O forse era Carson che veniva a scambiare due chiacchiere. Quando aprì la porta fu più che sorpresa di trovarsi davanti il moro James Wilmington, figlio di Bellona.

“James? Che ci fai qui?”, domandò Crys, genuinamente curiosa. Il ragazzo rimase in silenzio. Non era un segreto che il figlio di Bellone provasse dei forti sentimenti per lei, ma ciò non aveva mai seriamente minacciato di incrinare il loro rapporto amichevolmente professionale. James aveva l’aria preoccupata, gli occhi scurissimi fissavano il pavimento. Portava i jeans e un pesante cappotto sopra la maglietta viola del Campo Giove, i capelli neri erano leggermente più lunghi del solito taglio a spazzola. Crys si fece da parte per permettergli di entrare in camera, per nulla preoccupata di ciò che avrebbe potuto farle: James non era quel tipo di ragazzo e, anche se lo fosse stato e avesse provato a farle del male, Crys l’avrebbe subito rimesso al suo posto. Socchiuse la porta e lo fissò, in attesa. Il figlio della dea guerriera entrò, rimanendo in piedi e guardandola finalmente in faccia.

“Ti ho vista sconvolta durante la riunione. Io… volevo accertarmi delle tue condizioni. È raro vederti così.”. Aveva un tono strano, criptico quasi.

Crys iniziò a preoccuparsi. Fece un passo verso di lui. “Io sto bene, ma è raro vedere te così. Che ti prende? È accaduto qualcosa?”. Eccola lì: sempre a preoccuparsi per gli altri. Era più forte di lei. Ma come poteva ignorare la velata richiesta d’aiuto di un ragazzo che conosceva da più di dieci anni?

James si torturò le mani per un po’, poi la guardò intensamente, le iridi talmente nere da non riuscire a distinguere la pupilla. “Tu mi piaci, Crystal Wolff. Tantissimo.”.

Crystal spalancò la bocca, stupita. Non che non lo sapesse, ma ciò che la lasciò interdetta fu la tempistica. Perché, di tutti i momenti, James sceglieva proprio quello per aprire il suo cuore e confessarle ciò che provava.

“Mi piacciono i tuoi occhi, così elettrici e pieni di determinazione. Mi piacciono i tuoi modi, il tuo modo di ragionare, il tuo corpo, i tuoi capelli, il tuo modo di combattere. Tutto. Non c’è una sola cosa in te che sia sbagliata”, gli tremò leggermente la voce, come se il peso delle sue emozioni fosse troppo da sopportare, nonostante il fisico temprato da anni di allenamento, “ti chiederai perché io sia qui, propria ora, a mettermi in ridicolo così”.

La ragazza addolcì la propria espressione. “James, non ti stai…”.

Ma lui la fermò alzando la mano e gonfiando il petto. “Ti sto dicendo addio.”

“James, cosa…”

“Non c’è posto qui per me. Né nella legioni, dove sono stato per più dei dieci anni di servizio, né nel tuo cuore. Ho bisogno di trovare me stesso e smettere di orbitare intorno a te e alla tua grandezza.”

Crystal era troppo sconvolta per parlare. Non indietreggiò quando James le si avvicinò e premette le labbra contro le sue. A Crystal il contatto fisico non piaceva particolarmente, ma lo lasciò fare dal momento che si trattò più che altro di un veloce bacio a fior di labbra.

“Ho ricevuto un offerta che proprio non potevo rifiutare. Se mai un giorno vorrai trovarmi, cercami nella disperazione”.

E, prima che Crys potesse fare nulla, il semidio premette con forza le dita sul suo collo.

E dopo, il buio.

 

 

 

 

 

 

Ciao ragazzi!

Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, ci ho messo un po’ a scriverlo.

Alloooora… che ne pensate? Uno di questi personaggi vi ha colpito particolarmente? Cosa pensate accadrà nei capitoli successivi?

Oh, e state tranquilli, questo non era nemmeno un quarto dei personaggi principali. Sono tanti, è vero, ma ho le idee abbastanza chiare e farò del mio meglio per non rendere tutto troppo confusionario.

Lasciatemi una recensione se vi va e, per chi non l’avesse ancora inviato, aspetto il vostro personaggio

A presto,

 

-sun

   
 
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