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Autore: apeirmon    22/03/2019    2 recensioni
Quattro giocatori che si spostano sul tabellone del mondo fino a raggiungere la stessa casella, affrontare le stesse penalità e seguire gli stessi indizi. Ambientata contemporaneamente prima e dopo il prologo di "Jumanji - Benvenuti nella giungla", ma con i personaggi del primo film, questa storia esprime la mia ammirazione per Chris Van Allsburg e spero di riuscire a metterci ogni briciola di genialità in me che conosco e che mi farà conoscere scriverla.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alan Parrish, Altri, Judy Shepherd, Peter Shepherd, Sarah Wittle
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Jumanji/ Un gioco che sa trasportar/ chi questo mondo vuol lasciar.»

Peter alzerà lo sguardo dal tabellone posato sulla scrivania in sheesham.

“Lo so che sembra una proposta di suicidio, ma devi ammettere che è intrigante. Le istruzioni in inglese fanno pensare che sia stato importato dalla Gran Bretagna. Potrebbe anche essere stato prodotto qui negli Stati Uniti.”

Alzerà l’altro sportello, in cui sono scritti degli avvertimenti.

«Avventurosi attenzione/ Non cominciate se non intendete finire/ Ogni sconvolgente conseguenza del gioco scomparirà/ solo quando un giocatore, raggiunto Jumanji, gridato forte il nome avrà.»

Mio fratello reagirà come avevo previsto: richiuderà le due ante del coperchio, tornerà a mangiare la fetta di pandoro lasciata sul piatto davanti al divano e si siederà sopra quest’ultimo.

“Andiamo! In Europa molte famiglie fanno giochi di società a Natale.” proverò a convincerlo.

“Non mi piace, Judy. Grazie del regalo, ma non voglio giocarci.”

Saprò benissimo quale sarà la sua sensazione, ma non vorrò che un grande biologo come lui si faccia condizionare da delle avvertenze per spaventare i bambini. Per questo mentirò sulle mie stesse preoccupazioni, sarà più forte di me: se non interpreterò la mia parte fino in fondo, le sofferenze che avrò vissuto si presenteranno tutte insieme, e io non avrò più un mezzo per sfuggire loro; dovrò affrontarle.

“Non crederai veramente che possa succedere qualcosa? È un gioco da tavolo! E comunque, non sei tu che adori il rischio e una vita piena, senza incompletezze o conti in sospeso?”

Abbasserà lo sguardo, nel solito mutismo che significherà: ‘Ho tratto le mie conclusioni, la ricerca è conclusa!’. Ma saremo entrambi testardi.

“Come vuoi… Allora ti proverò che non succede proprio nulla.” dirò, prendendo una pedina a forma di coccodrillo nero dalla piccola teca di legno accanto alle istruzioni.

Lui si alzerà, facendo cadere a terra il pandoro che starà mangiando: “Judy, per favore, smettila!”

“Voglio che ti accorga dell’irrazionalità del tuo allarmismo. Vedrai che...”

Non farò a tempo a finire che l’agilità allenata da mio fratello durante le spedizioni gli permetterà di strattonarmi il braccio. La pedina mi cadrà sul tabellone, per poi riposizionarsi su una delle quattro caselle di partenza agli angoli.

Io e Peter ci guarderemo.

“Hai visto? Questo gioco ha qualcosa di strano… Ora è mio e non ti permetto di…”

“Che vuoi fare? Denunciarmi per appropriazione indebita? Ho già fatto analizzare il gioco non appena il cliente l’ha messo in vendita. Pedine, interno e dadi emanano un campo magnetico intenso e la pedina già presente è bloccata finché non viene modificato. Si tratta di tecnologia avanzata, ma non abbiamo voluto aprirlo, come richiesto dal cliente.”

“Se se ne voleva liberare ci sarà un motivo!” tenterà ancora di fermarmi mentre prenderò i dadi.

“Sì, in Europa si chiamano ‘euro’. Pensi che se fosse pericoloso lo avrebbe venduto a un’asta?”

Guarderò la mia mano sopra il labirinto di caselle avorio. Avrò intenzione di rovesciare i dadi, ma i miei muscoli si rifiuteranno di muoversi. Alla fine, riuscirò a farli scivolare sul tabellone.

Non appena vedrò un tre ed un uno sotto il gesto improvviso della mano di Peter, la mia pedina avanzerà di quattro caselle e noterò del fumo verde comporsi in una scritta nel quadrante nero al centro dello spazio per giocare.

«In seguito a forti contaminazioni, sono previste allucinazioni»

Avvertirò un senso di disagio che mi imporrà di scandagliare tutta la stanza con lo sguardo, dai mobili, al pavimento, al soffitto. Vedrò Peter preoccupato, ma con lo sguardo fisso su di me.

“Come vedi, possiamo giocare tranquillamente.” cercherò di rassicurare entrambi.

“Ha parlato di contaminazioni. Chi ti dice che non abbia rilasciato un virus letale?”

“Ora sconfini nel ridicolo! Fammi felice e dimostrami di avere ancora un ottimo cervello tirando i dadi solo una volta. Ti prego!”

Dopo qualche secondo, infilerà lentamente una mano nella teca che avrà contenuto dadi e pedine per prendere una di queste, somigliante a una scimmia verde. La posizionerà su una delle due caselle di partenza libere, ed essa rimarrà immobile.

“Come facevi a sapere qual’era quella giusta?” gli chiederò istintivamente.

Mi sorriderà di sbieco: “Ora chi è che ha pensieri assurdi? Avevo la metà delle possibilità.”

La sua risposta sarà perfettamente logica e semplice, ma per qualche motivo non mi convincerà.

Presi i dadi, li farà traballare sul palmo della mano, fino a farli rotolare in un due e un cinque.

«Finalmente hai compiuto il salto: imitandoti lo esalto»

La perplessità e l’ansia mi assaliranno di nuovo.

“A cosa servono queste frasi insensate? Capirei se fossero degli afo...”

Un fracasso acuto rimbomberà per tutta la casa. Peter indietreggerà velocemente contro la libreria affianco al camino. Subito dopo, il rumore verrà ripetuto più volte contemporaneamente e io mi volterò verso il corridoio.

Rane. Decine e decine di minuscole rane rossicce a strisce bianche balzeranno all’ingresso del salotto nella nostra direzione, gracidando in modo sorprendentemente forte.

“JUDY! VIENI SUBITO QUI!”

Gli obbedirò immediatamente, chiedendogli solo: “Cosa sono?”

Epipedobates tricolor, dette comunemente ‘rane dal veleno fantasma’. Superano di poco i 2 cm, ma possono paralizzarti completamente con il loro veleno non appena ti toccano.”

“Con ‘completamente’ intendi…?” verificherò, già preda del veleno prima di toccarlo.

“Sì: compreso il cuore. Presto, prendi un tronco! Hanno bisogno di molta umidità per vivere!”

Solo allora mi volterò per accorgermi che Peter avrà estratto due legni infuocati dal camino e me ne avrà porto uno. Lo afferrerò con mano tremante, per poi puntarlo verso gli anfibi, che non si avvicineranno alla parete del camino a più di due metri e mezzo.

“Le ha evocate quel coso! Vivono solo in Ecuador e non ce ne sono molti esemplari.”

“Non possono essere state importate?” azzarderò senza crederci.

“Così tante? Ne dubito. Io cerco di mandarle verso la finestra. Tu aprila.”

Intravederò il largo bovindo tra la libreria e il corridoio mentre continuerò a tenere d’occhio le rane. Inorridirò a pensare di allontanarmi dal camino, ma mi sposterò lateralmente, lasciando la torcia meticolosamente a 20 cm dal pavimento in amazzonite.

Mio fratello, intanto, si sarà spostato vicino al pianoforte, dall’altro lato della stanza, cominciando a far arretrare le rane spintesi lì verso il centro. Noterò che la sua fiamma sarà poco più in alto di come la terrò io, quindi mi correggerò.

Con la mano sinistra troverò a tentoni la maniglia della finestra centrale e riuscirò a spalancarla, per poi indietreggiare rapidamente fino alla libreria. Ma sarà una giornata ventosa.

Il legno nella mia mano si spegnerà completamente, così tutte quelle minuscole e delicate rane mi fisseranno tutte insieme. Poi balzeranno.

Mentre sentirò il mio vestito colpito come da palline di gomma su gambe, vita e seno, mollerò il tronchetto ad occhi spalancati, resistendo a strapparmi quegli anfibi di dosso con le mani.

All’improvviso, sentirò un intenso calore strusciarmi velocemente sul petto.

Peter mi starà togliendo le rane di dosso colpendole con la sua torcia. Mi trascinerà di nuovo davanti al camino mentre finirà di liberarmi le gambe.

“Non ti hanno toccato la pelle, vero?” griderà.

Riuscirò solo a scuotere la testa, prima che lui ricominci a spingere quei piccoli mostri verso il bovindo. Dopo qualche minuto in cui riprenderò fiato, chiuderà di scatto la finestra.

“Grazie. Fortuna che per tornare ho scelto un vestito a gonna lunga.” gli dirò sorridendo.

Ma lui non sorriderà: “Che ti serva di lezione! Tieni le mani lontane dal vestito mentre prendo dei guanti di protezione.”

“Per fare cosa?” domanderò, temendo la risposta.

“Per togliertelo in modo da rimuovere le tossine.” replicherà lui fermamente.

“Posso togliermelo io.” proporrò. Non mi piacerà per nulla che il mio caro fratello si avvicini a una situazione in cui mi sarò trovata con altri uomini.

“No, che non puoi: bisogna essere molto precisi e tenere la testa lontana dal tessuto. Hai un maglione sotto, vero?”

“Ma le gambe sono scoperte.” preciserò.

Mentre uscirà dal salotto, sospirerà e lo sentirò borbottare qualcosa sull’inverno. Osserverò le strisciate di carbone sul turchese: il passaggio dell’empirismo scientifico sull’apparenza.

Lancerò uno sguardo veloce alla scrivania su cui sarà ancora posato quell’orrore. Il cliente che l’avrà messo all’asta dovrà essere di una crudeltà e un’irresponsabilità immense! Avrà potuto liberarsene nascondendolo o allontanandolo dagli altri esseri umani, ma avrà tentato di passarlo a qualcuno per profitto. Non saprò ancora se avrà conosciuto lui stesso le conseguenze del gioco, ma penserò di sì: d’altronde ci sarà già una pedina in gioco.

Peter tornerà dal suo ufficio con un paio di guanti di protezione in nitrile e dei jeans che poggerà su un ripiano della libreria.

“Quando ti avrò tolto il vestito, mettiti questi stando davanti al caminetto, dove le rane non sono passate. Quando andrai di sopra, attenta a non camminare scalza e lascia le scarpe davanti alla porta della tua stanza, facendo poggiare solo il tacco e la suola al pavimento.” mi istruirà.

Con riluttanza, gli permetterò di sfilarmi il vestito da piedi a capo, sentendo sulle gambe l’aria invernale entrata dalla finestra nonostante il fuoco.

Allenterò la cinghia delle scarpe e terrò i jeans con le gambe ripiegate mentre li infilerò per evitare che sfiorino l’amazzonite verde. Nel frattempo, Peter ripiegherà accuratamente il mio abito per poi portarlo di nuovo verso il corridoio. Ma prima di raggiungerlo, si volterà verso Jumanji.

“Pete, cosa vuoi fare? No, fermati!”

In quattro falcate lo raggiungerà, lo prenderà e lo porterà al camino.

“Potrebbe liberarsi tutto se viene distrutto!”

Le mie parole gli faranno ritirare bruscamente la mano dal fuoco. I suoi occhi scuri mi guarderanno spaventati. Dovrò risalire alla mia prima infanzia per ricordare quell’espressione.

“Inizia ad andare a letto. Io devo segnalare un allarme biologico e disintossicare la casa. Non ho idea di cosa potrò dire quando mi chiederanno perché decine di rane endogene dell’Ecuador si trovavano in casa mia. Potrei finire in prigione.”

Sentirò una pietra comparirmi nel petto e le lacrime sgorgarmi dagli angoli degli occhi.

“Mi dispiace. Mi dispiace da morire! Volevo solo convincerti che…”

La sua espressione si ammorbidirà e mi abbraccerà con forza.

“Lo so. Ormai siamo in questa situazione. La colpa è di questo schifo di affare!”

Dopo aver sciolto l’abbraccio, aprirà uno sportello sotto la libreria e ci infilerà dentro la scatola bruscamente, per poi richiuderlo con uno scatto.

“Domani penserò a un modo per isolarlo dal mondo. Ora devo avvertire delle Epipedobates.”

“Come farai a occuparti del gioco, se sarai impegnato con il rischio biologico? Non sarebbe meglio aspettare fino a dopo il pranzo con i Parrish?” gli chiederò.

“E se nel frattempo si disperdono? Erano rosse, il che significa che sono mature sessualmente. In due settimane possono schiudersi anche quaranta uova per femmina. Considerando che potevano esserci decine di femmine, potrebbero riempire Brantford di migliaia di esemplari in mezzo mese, se non le troviamo subito!” mi spiegherà sbraitando.

“Ma se finissi davvero in prigione, quel gioco resterebbe a portata d’uomo.” obietterò, provando a impedire che rischi davvero di venire arrestato, oltre che non si liberi del gioco.

“Allora dovrai occupartene tu.” mi dirà semplicemente.

“È fuori questione! Non riuscirei a trovare un posto adatto se sarò preoccupata per te. Tu conosci luoghi irraggiungibili da esseri umani. Puoi tranquillamente nasconderlo durante una spedizione.”

Mi fisserà per qualche secondo, prima di prendere una decisione.

“D’accordo. Dopotutto si saranno solo riunite nella fontana. Hanno bisogno di reidratarsi. Ma domani pomeriggio dovremo avvertire le autorità. Ora inizia ad andare a letto.”

Annuirò e mi dirigerò verso la rampa di scale alla fine del corridoio, non accorgendomi che il pandoro caduto a terra avrà un puntino nero.

 

Sbattei la portiera di lusso con tutta la forza che avevo nelle braccia. Che si staccasse!

Anche quel giorno ero obbligata a far visita ad amici (e figli) di papà schifosamente ricchi.

“Bernie! Cerca di tenere a freno il tuo caratteraccio!” mi riprese mia madre come al solito. “Gli Shepherd sono sempre stati gentili con te: mostra un po’ di buone maniere!”

“Non è gentilezza, la loro! Perché hanno bisogno di così tanti lussi? Sono degli ipocriti, come voi!”

“Di me puoi dire quello che vuoi, signorina, ma non azzardarti a insultare Judy e Peter!” mi minacciò mio padre con tono basso ma brusco. “Sono due ragazzi meravigliosi e sei fortunata a poterli andare a trovare! Dovresti ringraziarmi.”

“Non è mia la fortuna: ci conoscono soltanto perché hanno approfittato della tua!” ribadii.

“Ora basta! Sei in punizione!” esclamò mia madre premendo il pulsante del campanello della villa.

“Più di così? Non potrò uscire per tutte le vacanze di Natale né impegnarmi nelle faccende domestiche! Cos’altro potete inventarvi?” li sfidai.

In quel momento, un ragazzo con folti boccoli castani, gilet verde e pantaloni in velluto grigio aprì la porta con in mano un telecomando e ci venne incontro con il suo solito sorriso palesemente falso.

“Alan! Sarah! Stavolta è venuta anche Berenice! Sono felicissimo di vedervi! Ieri Judy e adesso voi! Sarà un Natale stupendo…” chiocciò mentre faceva scorrere il cancello elettrico.

“Ciao, Peter! Ti trovo bene.” cominciò mia madre con le sue formalità.

“Non sarà il caso di accontentare qualche ragazza per una volta?” chiese mio padre in un patetico tentativo di fare il simpatico.

“Più che ragazze, ho incontrato Tamandua mexicana di recente. Ma detto da te, che hai incontrato la tua anima gemella alle medie, è proprio una scorrettezza. Prego, venite pure.”

Alzando gli occhi al cielo per tutti quei melensi convenevoli, seguii i tre aristocratici fino alla porta ornata sofisticatamente ed entrai nell’ampio ingresso.

Come al solito ignorai l’arredamento che ti faceva sembrare di essere in un villaggio primitivo e arrivai alla sala da pranzo, in cui quella civetta bionda di Judith Shepherd si alzò e cominciò a strillare: “Quanto mi siete mancati! Sono tornata da meno di un giorno e già tutte le persone più importanti della mia vita sono qui con me!”

“Ehi, Judy!” la abbracciò mio padre mentre trattenevo i conati.

“Come sei stata in Francia? Si vive bene?” chiese mia madre senza il minimo interesse.

“Tutto ottimo! Dal cibo alle leggi… Ciao Bernie! Sorprendente quanto tu sia cresciuta!”

Sicuramente più di te, razza di sostenitrice del foie gras! Volli proprio vedere se avesse avuto il corpo adattato ai suoi pensieri quanto le sarebbe piaciuto!

“Buona mattina, signorina Shepherd. Mi dispiace davvero che abbia dovuto abbandonare l’Europa.”

Vidi i lineamenti di mio padre irrigidirsi, mentre Judith continuava a sorridere fessamente.

“Oh, no: fa sempre piacere tornare in una città in cui si ha vissuto da ragazza…” rispose con gli occhi lucidi e tirando su col naso. “Vi offro del pandoro mentre aspettiamo il pranzo?”

“Per me no, grazie. Devo evitare per il diabete.” rifiutò mio padre.

“Anche la mia dieta non me lo consente.” aggiunse prevedibilmente mia madre. “Magari qualcosa di salato, se si può.”

“Ma per favore! Io ne prendo volentieri una fetta, graazie!” annunciai, sottolineando l’ultima parola.

“Arriva subito.” mi avvisò Judith scartando il dolce sul tavolo.

“Alan, mi piacerebbe molto avere il tuo parere sulla foto di una pantera nera presa di notte. Non sono riuscito a determinare se si tratta di Panthera pardus o di Panthera onca, perché era di spalle e la coda era nascosta. Vieni, ce l’ho sul computer.”

Mentre guardavo i due uomini tornare in corridoio, addentai il pandoro, masticandolo con forza e pensando a quanto sarebbero stati più felici gli animali senza quel seccatore accademico.

Solo dopo aver ingoiato il primo boccone, mi accorsi che aveva un sapore disgustoso. Osservai il resto della fetta e notai varie macchie scure. Dovetti sforzarmi immensamente per rimanere composta, non urlare e, specialmente, non vomitare.

Rimisi quella schifezza nel piatto. Questi spendevano su tutti i lussi più inutili e servivano roba ammuffita agli ospiti? Nemmeno io credevo che arrivassero a tanto!

“ Judy… Non senti anche tu uno strano odore?” interruppe un insulso dialogo mia madre.

“Oh, non preoccuparti per quello: Peter ha lavato il pavimento con un prodotto insolito ieri sera. Oggi ho un po’ di rinite e non l’ho sentito. Se ti dà fastidio, posso chiedergli di pranzare fuori.”

“Oh no! Non è necessario!”

Purtroppo il vegetarianismo mi aveva tolto la capacità di sentire odori e, quasi del tutto, sapori. Ma ovviamente ai miei genitori non avevo intenzione di farlo sospettare.

Tum tum tum tum tum…

Un rullo di tamburi interruppe i miei pensieri.

Sembrava provenire dal corridoio, ma quando mi voltai non ne individuai l’origine. Tornai a guardare le due bionde intente a contemplare qualcosa nel giardino. Non si erano accorte di nulla.

Mi allontanai lentamente dal tavolo per scoprire chi facesse quel rumore continuo. Lo seguii oltre il corridoio e raggiunsi un salotto disgustosamente lussuoso e ben arredato, con tanto di pianoforte e caminetto. Ma mi avvicinai alla libreria.

Scostando una ciocca di capelli castani, feci scorrere l’orecchio davanti al mobile, fino a individuare la fonte dei tamburi: era uno sportello in basso.

Con molta cautela, lo aprii, e il rumore cessò.

Dentro non c’era una cassa stereo, come mi aspettavo, ma un gioco da tavolo elaborato come il resto di quel posto. Eppure, aveva qualcosa di selvaggio, di naturale.

Sullo sfondo riconobbi dei vulcani, degli alberi e dell’erba alta. Al centro di quattro icone, raffiguranti un anziano barbuto, una scimmia, un rinoceronte ed un elefante, si trovava una scritta bianca trafitta da una lancia: «Jumanji».

Posai la scatola in legno per terra e ne aprii le ante.

Su vari percorsi a caselle si trovavano tre pedine, che somigliavano a una scimmia, a un rettile e ad un elefante. Provai a muovere quest’ultima, ma sembrava incollata al tabellone. Verificai che anche le altre fossero irremovibili. Ancor prima di leggere le istruzioni, notai un piccolo comparto con sportello in legno, perciò lo aprii in modo da controllare se ci fossero altre pedine.

Assieme ai dadi, ce n’era una sola, bianca e a forma di rinoceronte. La portai davanti agli occhi.

“Bernie! Dove sei!?”

Pedina e dadi caddero. Tutti e tre rotolarono sul resto del gioco, una posizionandosi perfettamente su una delle caselle di partenza, gli altri fermandosi a indicare un due e un sei.

“Berenice! Si può sapere perché…?”

Ma non la ascoltai: avevo il fiato sospeso, mentre vedevo comporsi una frase verde sullo schermo circolare nero al centro del tabellone: «Se un luogo non ti piace, neanche fuori trovi pace».

Il rumore di vetro in frantumi e un tonfo mi indussero a voltarmi.

“Sarah!”

“Mamma!”

Vidi mia madre a terra sul tavolino distrutto del salotto. I suoi occhi erano quasi completamente neri. Solo due stretti aloni verde chiaro circondavano le pupille. Era fuori di sé.

Mi avvicinai a lei per aiutarla ad alzarsi, ma subito mi sentii trascinare indietro per la schiena. Feci appena a tempo a voltarmi, prima di essere sollevata da terra e trascinata nel camino.

Gridai a squarciagola, sentendo appena le mie braccia aggrapparsi saldamente alla mensola sopra di me. Sentivo le ossa delle gambe tirare su per la cappa quelle del bacino.

“BERNIE!” mi raggiunse la voce di mio padre.

Subito dopo, sentii due mani cercare di estrarmi da quel pozzo al contrario che mi risucchiava.

“È un uragano!” gridò un’altra voce maschile.

Sentii le ginocchia che si stavano per spezzare. Mi decisi a mollare.

   
 
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