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Autore: Doomsday_    23/03/2019    0 recensioni
- Future!fic -
Dopo cinque lunghi anni di pace, la fragile quiete di Beacon Hills viene nuovamente spezzata. Un nuovo nemico minaccerà di sottrarre al Branco quel che per loro conta più della vita stessa.
Dal testo:
"Il corvo la fissava silenzioso, gli occhietti intelligenti sembravano scrutarle l'anima.
Fu allora che le piume si tramutarono in gocce di sangue. Colarono lente e calde lungo il braccio di Lydia. Eppure lei continuò a carezzare quel grumo rappreso fatto di morte con un sorriso pacifico a rasserenarle il viso.
"
Genere: Angst, Fluff, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kira Yukimura, Lydia Martin, Malia Hale, Scott McCall, Stiles Stilinski
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tredicesimo Capitolo










 

Aveva seguito il Mastino Infernale fino al limitare della foresta, senza mai staccare gli occhi dalle gambe di Adam, che ciondolavano, incapace di fissare altri particolari; troppo spaventato all’idea di avvicinarsi più di quanto aveva fatto, ignorando quale reazione avrebbe provocato in Parrish.
Dietro di loro, Scott li seguiva tenendosi a distanza, perso ancora all’interno del corpo del lupo e nella sua rabbia; formando una triste processione.
Quel cammino gli era sembrato che fosse durato ore, adesso che si trovava nella stanza di ospedale in cui avevano ricoverato Adam.
Stiles gli stringeva la piccola mano fredda, mentre l’altra era intrecciata a quella di Malia.
La notte era trascorsa, Adam era stato ritrovato. Eppure in Stiles ribolliva una rabbia silenziosa.
Adam si meritava di avere lì i suoi genitori, non loro due. Avrebbe dovuto essere circondato prima di tutto dal caldo amore della sua famiglia e poi da quello del branco.
Eppure l’importante era di averlo trovato vivo, si ripeteva Stiles. Era stato rigenerante sentir dire dal medico che i battiti e il respiro erano regolari; ma nulla di tutto quello riusciva a togliergli la brutta sensazione che gli dava non vedere Scott e Kira al capezzale del loro primogenito.
C’era qualcosa di profondamente sbagliato in quell’assenza. Un fremito scosse il corpo di Stiles.
Il Darach li aveva spezzati prima ancora che potessero mettersi in gioco; aveva spezzato tutti loro. Erano stati spaventati alla possibilità di dover tornare a combattere ora che avevano figli da proteggere, ancora troppo piccoli per poterli avvicinare ad un pericolo; e poi, quando il pericolo aveva puntato proprio dritto verso di loro il branco si era distrutto, andato in pezzi e crollato su se stesso.
Guardava il filo della flebo attaccato al corpo di Adam e il monitor che indicava i segni vitali del piccolo, con disgusto, come se ne sopportasse appena la vista.
«Dovremmo tornare a casa. Da Jamie» disse Malia, d’un tratto.
Stiles la guardò con la coda dell’occhio per poi tornare a concentrarsi sul corpo incosciente di Adam.
«E lasciare lui da solo?» chiese, atono.
«No. Certo che no. Ho parlato senza pensare, non farci caso» si affrettò a spiegare Malia. «È solo che...», aggiunse, bloccando sul nascere la frase.
«Lo so», tagliò corto Stiles.
Lasciò la presa sulla mano del piccolo e prese posto sull’unica poltroncina disponibile accanto al letto.
«Dobbiamo trovare Scott. Dobbiamo mettere fine a questa storia una volta per tutte» affermò Malia, voltandosi verso il marito per cercare i suoi occhi. Ma Stiles teneva lo sguardo basso.
«C’era anche lui nella foresta» rispose con tono abbattuto, «Scott ha trovato Parrish prima ancora che arrivassi io, ma si teneva a distanza. Penso che una parte di lui sappia che abbiamo ritrovato suo figlio e sa anche che in lui qualcosa non va».
«Credo che sia bloccato nel corpo del lupo. Ha allontanato la sua coscienza umana più di quanto abbia mai fatto prima d’ora», ragionò Malia e Stiles sapeva che parlava nella speranza che potesse allontanare da lui l’oscurità che vedeva crescere sul suo volto.
Malia si mosse verso di lui, forse per abbracciarlo o carezzargli la testa. Stiles non lo avrebbe mai saputo, visto che si bloccò all’entrata dei due dottori che stavano seguendo il caso di Adam McCall.
Il primo dottore, dai capelli candidi e dal volto stanco, rivolse ai coniugi uno sguardo preoccupato.
«Ancora non è arrivato il dottor McCall?» chiese, le folte sopracciglia aggrottate.
Malia e Stiles si scambiano un’occhiata stralunata, poi il Vicesceriffo prese la parola.
«Data l’emergenza, Scott si sta recando da sua moglie per tornare qui insieme. La signora McCall era andata a trovare sua madre per qualche giorno...»
«A Gammon Allen» aggiunse Malia.
«Sì. Gammon Allen» confermò Stiles. «Arriveranno a momenti. Ma nel frattempo potete riferire a noi. Sono il padrino del piccolo...».
Stiles sembrava supplicare con gli occhi i due dottori.
«Vogliamo solo sapere se sta bene» si unì a lui Malia.
Alla fine, il secondo dottore, aggiustandosi gli occhiali sul naso adunco, cedette: «Il bambino non riporta alcun danno. Secondo tutte le analisi a cui lo abbiamo sottoposto, è sano».
Stiles e Malia si lasciarono scappare un sospiro di sollievo e si scambiarono un sorriso, seppur tiepido.
Il dottore più anziano rivolse loro uno sguardo dolce, eppure rammaricato.
«Questo non spiega il motivo per cui si trova in un coma da cui sembra impossibile risvegliarlo» disse, difatti.
«Continueremo a monitorare i suoi segni vitali fino all’arrivo dei genitori. Poi prenderemo una decisione», disse l’altro dottore, togliendosi gli occhiali per pulirli con l’orlo del camice.
«E cosa riguarderebbero tali decisioni?» provò a chiedere Stiles, ma i due — con un sorriso di circostanza — uscirono dalla stanza senza rispondere.


***


Lydia, seduta in ginocchio, davanti a Jordan, parlava, cercando di spiegare le conclusioni a cui erano giunti provando a far combaciare le prove che avevano a disposizione.
Parrish, dopo aver lasciato il corpo inerte di Adam fuori dalla foresta, aveva tirato dritto verso casa, ancora intrappolato nella trance che gli annebbiava i sensi. O, almeno, questo era quello che le aveva comunicato Stiles al telefono.
Lydia non si era permessa di lasciarsi andare ad un pianto liberatorio finché Jordan non era davvero tornato a casa da lei e da Allie.
Ricoperto dalle fiamme, Jordan si era messo seduto a gambe incrociate in mezzo al salone e non si era più mosso da lì. Non importava cosa dicesse Lydia, sembrava completamente assente. Poi, senza un apparente motivo, si era risvegliato e, con sguardo colpevole, le aveva chiesto di raccontargli cosa era successo. E Lydia non aveva perso tempo, perché tutto sembrava sempre più fugace e inafferrabile.
«Hai ritrovato Adam» fu la prima cosa che Lydia, tra le lacrime, riuscì a dirgli.
Ma Jordan non si mostrò sollevato a quella notizia. L’uomo ricordava fin troppo bene tutti i corpi senza vita che aveva portato al cospetto del Nemeton e sapeva, con altrettanta chiarezza, che se il Mastino Infernale aveva potuto trovare Adam, qualcosa di orribile era accaduto.
«Dov’è adesso?» chiese, con l’espressione apprensiva che solo un genitore sapeva usare.
«Si trova in ospedale. Malia e Stiles sono con lui. I dottori dicono che sta bene, anche se...»,
«Anche se?» gli fece subito da eco l’uomo.
Lydia si alzò da terra, lisciando le pieghe dei pantaloni.
Lo guardò dall’alto, con espressione rammaricata come se sapesse che quello che stava per dire avrebbe fatto sentire Jordan in colpa, come se la condizione di Adam dipendesse da lui e dai poteri del Mastino Infernale e non da quello che il Darach aveva fatto al piccolo.
«Dicono che è in un coma da cui non riesce a risvegliarsi» rispose Lydia, addolcendo il più possibile il tono della voce.
«Quindi è possibile che qualcosa lo tenga ancorato nell’incoscienza? Come in un sonno profondo?»,
«Qualcosa o qualcuno» assentì Lydia, «Da quello che ha saputo dirmi Stiles penso che si tratti di una letargia profonda indotta da una compromissione del sistema nervoso centrale».
Jordan la guardò con occhi persi, senza capire quello che Lydia intendeva.
«Ma non è così che agisce il Darach» Jordan sbatté i pugni a terra, colto da una frustrazione improvvisa, «Prima quel massacro nel bosco… poi Adam»
«Io e Malia pensiamo che Adam sia proprio il fine ultimo del Darach» lo informò Lydia, «La Profezia che sto traducendo parla della luna e di poterla controllare attraverso chiavi. Tre, per la precisione. Tre come i figli di Scott, Jordan».
Parrish scosse la testa, contrariato, «Non è possibile. Se così fosse avrebbe preso anche Caleb».
«L’ho pensato anche io», concordò Lydia, «Ma guarda cosa ha fatto ad Adam: l’ha indotto in una specie di letargia di cui non conosciamo l’origine e tanto meno la maniera con la quale liberarlo. Penso che si tratti di una fase iniziale, una preparazione a quello che avverrà quando il Darach sarà in possesso di tutti e tre i bambini. Ieri notte nel cielo brillava la luna piena: non è stato un caso. La prima parte di luna è stata aperta, Jordan, e il Darach ci ha completamente in pugno».
Parrish si alzò in piedi, posò entrambe le mani sulle spalle della moglie e guardò dritta negli occhi.
Una nuova luce bruciava in fondo ai suoi occhi verdi.
«Allora dobbiamo impedire che prenda anche Caleb e Matty. Se il rituale ha già avuto inizio ieri notte, faremo in modo di interromperlo. Non può proseguire senza ciò che gli serve. E una volta interrotto anche Adam sarà salvo».
Per un attimo Lydia si crogiolò nelle parole sicure di suo marito. Lo guardò e il sollievo di trovarlo pronto a combattere anche questa terribile guerra le invase il corpo. E allora decise di annuire, accettare di combattere al suo fianco con il vigore e la grinta che Jordan stava finalmente tirando fuori, nonostante si sentisse già terribilmente stanca.
«Chiama Melissa. Dille che, fino a quando sarà necessario, lei e Caleb resteranno da noi», decise Jordan, sentendo di voler avere il più possibile il controllo della situazione.
Lydia annuì, d’accordo col marito.
«Kira…?» provò a chiedere l’uomo ma Lydia scosse la testa con aria afflitta.
«Ho provato a rintracciarla ma è scomparsa nel nulla. Sono andata a casa loro e all’interno non ho trovato segni di colluttazione. Sembra semplicemente uscita di casa portando con sé Matty, senza vestiti, cellulare e chiavi», Lydia sbuffò, colta dallo sconforto.
«I vicini?» provò a chiedere Jordan, ma ad attenderlo non ci fu alcuna risposta positiva.
«Le famiglie che mi hanno aperto per parlarmi non hanno saputo dirmi nulla. Ho provato ad essere quanto più discreta possibile, ma credo che in città si stia già spargendo la voce che sia accaduto qualcosa di brutto a casa dei McCall. Mi auguro solo che non ci vada di mezzo il nome di Scott».
Jordan curvò le spalle, abbattuto.
«Lui non è ancora tornato, vero?».
«No ma, conoscendo Stiles, non appena ne avrà modo, tornerà di nuovo lì fuori a cercarlo. Lo riporterà indietro, Jordan. Ne sono sicura. E allora saremo di nuovo uniti e forti», lo rassicurò Lydia.
Jordan annuì, seppure i suoi occhi erano ancora tormentati.
Con la morte nel cuore Lydia gli sorrise e gli disse: «Scopriremo chi si cela sotto la maschera del Darach, terremo Caleb al sicuro e vinceremo anche questa volta».
«I bambini saranno al sicuro» le promise Jordan, cingendole i fianchi per avvicinarla al suo corpo, «Nessuno farà più del male ai cuccioli del branco».


***


Era ormai sera quando Stiles e Malia uscirono dall’ospedale. Il tramonto stava riportando il buio su Beacon Hills.
«Il telefono di Kira è ancora staccato» disse Malia, provando a chiamare per l’ennesima volta.
«Tornerà» disse Stiles, prendendole la mano.
«Forse le è successo qualcosa di brutto», lo contraddisse Malia, «Forse dovremmo preoccuparci».
«Kira sa cavarsela, Mal. Per ora la cosa più importante è proteggere i bambini».
«Ma se davvero le tre chiavi sono i figli di Scott... troveranno anche Kira e prenderanno Matty. Gli faranno quello che hanno fatto ad Adam!».
Stiles sembrò spazientirsi, «E cosa avrebbero fatto ad Adam? Hai sentito anche tu i dottori: è vivo, sta bene».
Gli occhi di Malia si riempirono di lacrime e rispose con voce incrinata: «Stiles... sembra un vegetale. Sembra come se non ci fosse più nulla dentro Adam».
Stiles aggrottò la fronte, «Che vuoi dire?»
«Non c’è più Adam in quel corpo, è un guscio vuoto. Come aveva detto Lydia: un bambino senza volto, un bambino senza anima. Un bambino morto».
Stiles le cinse le spalle in silenzio, la vedeva fuori di sé più del normale e così le disse: «Tra poco saremo a casa. Abbiamo entrambi bisogno di riposarci».
Malia sembrò irritarsi, «Smettila di trattarmi in questo modo! Come se fossi una sciocca… o – peggio ancora – una pazza!», sbottò.
«Abbiamo sempre agito seguendo l’ipotesi peggiore. Perché adesso dovrebbe essere diverso?», gli occhi di Malia brillarono di sfida.
«Come puoi pensare di seguire l’ipotesi peggiore se in ballo c’è la vita dei nostri figli?» ringhiò Stiles in risposta.
«Perché è in questo modo che evitiamo le tragedie, Stiles! Ora più che mai dobbiamo fare il possibile. Adesso è il momento di dare il tutto per tutto. Proprio perché c’è in ballo la vita dei nostri figli dobbiamo pensare ad ogni singola evenienza!».
Stiles indurì la mascella, «Non lo dire».
«Anche la scomparsa di Adam si sarebbe potuta evitare se solo...».
«Se solo cosa? Dai, avanti, dillo!» gridò Stiles, «Dillo che è stata mia la colpa, che ho messo io in pericolo i bambini!»,
«Non volevo dire questo» mormorò Malia, in un fil di voce.
«Invece sì! Io ho sottovalutato fin dall’inizio la situazione. La colpa è mia», si batté con forza il pugno sul petto, gli occhi lucidi e arrossati, il viso tirato. Guardava Malia come se fosse spiritato.
Malia gli prese la mano, «Nessuno ha la colpa, Stiles. Se vuoi darla a qualcuno dalla all’intero branco, allora».
Stiles ammutolì, respirando forte e a fatica, come se si stesse controllando per non cedere ad un attacco di panico. Poi tirò dritto verso la macchina.

Quando varcarono l’ingresso della loro abitazione, Jamie fu il primo a raggiungerli. Saltò in braccio a Stiles, schiamazzando e legandogli strette le braccia attorno al collo.
Stiles lo strinse a sé, poi lo rimise a terra, nonostante il bambino lo pregava con gli occhi e le braccia allungate verso di lui per ritornare tra le sue braccia.
Al suono della porta e dei gridolini felici di Jamie, si affacciò all’ingresso anche suo padre. Aveva la fronte corrucciata e le sopracciglia cespugliose aggrottate.
«Papà» lo salutò Stiles, «Tutto bene?».
Noah annuì «Sì, stiamo entrambi bene, figliolo».
Padre e figlio si guardarono negli occhi come a voler scambiare parole segrete e rassicurazioni mute.
A Stiles non serviva parlare per sapere cosa voleva dire suo padre. E Noah non sembrava voler commentare l’agitazione visibile sul volto del figlio o quanto fosse chiaro che lui e Malia avessero discusso per l’ennesima volta. Si limitò a tacere e a mostrare un sorriso tirato ad entrambi.
Stiles si sedette a tavola, mangiò il cibo ad asporto che aveva ordinato suo padre, chiuso in sé stesso come non lo era stato mai. Quasi non si accorse di Malia e suo padre che provavano a parlare del più o del meno, o di Jamie che reclamava la sua attenzione e che si rifiutava di mangiare, facendo i capricci ad ogni parola della madre.
Stiles si sentiva perso nei propri pensieri, sconfitto. Guardava quello che accadeva attorno a sé come un semplice spettatore. In un batter d’occhio tutti avevano già finito di mangiare, Malia stava sparecchiando la tavola e suo padre se ne stava andando, proprio come in un film che andava avanti scorrendo veloce. A malapena percepì il bacio che gli lasciò sulla fronte.
Senza sapere neppure come si ritrovò con la bottiglia di rum davanti e un bicchiere stretto in mano.
Aveva le spalle basse e il capo chino come se l’intero mondo gli si fosse abbattuto addosso.
Malia si avvicinò a lui, stringendolo in un forte abbraccio silenzioso e il tempo tornò a scorrere normalmente. Stiles la sentì quella stretta, come gli arrivò chiaro il calore del corpo di sua moglie contro il suo.
Adorava quegli abbracci, anche nei momenti peggiori.
Abbandonò la testa contro il suo petto e ascoltò il battito forte e sicuro del suo cuore.
Era il posto che preferiva, quello attorno alle sue braccia. L'unico luogo in cui si poteva sentire davvero protetto, dove tutto andava ancora bene.
Per un attimo che non sembrò avere fine Stiles si crogiolò in quell’idea sognante, ma le braccia di Malia scivolarono via, alla fine, come tutto il resto.
Stiles girò il capo, quel tanto che bastava per seguire i suoi movimenti con la coda dell’occhio.
La vide raggiungere la radio e accendere la musica, prendere Jamie in braccio facendo accoccolare il piccolo sulla sua spalla.
Prese a muoversi sinuosa dondolando Jame al ritmo lento e trascinante della musica.
Jamie sorrise nell’incoscienza, ormai perso in un sonno pacifico, ma Malia non si fermò per portarlo a letto, al contrario lo strinse a sé camminando ancora in cerchio per il salotto, muovendo piano i fianchi.
Allora Stiles si alzò dal tavolo e la raggiunse per poterle cingere i fianchi da dietro, poggiò la fronte sulla spalla libera, quella che non occupava già Jamie. Iniziò a muoversi con lei, assecondando il lento movimento del bacino in quella loro danza che consisteva nel semplice dondolio da un piede all’altro.
Gli ricordò il movimento di una nave in balia delle onde nel bel mezzo di una tempesta a cui non aveva intenzione di soccombere. Si sentiva ancora forte accanto a lei, questo era fuori da alcun dubbio. Malia non lo avrebbe mai lasciato affondare; non da solo, per lo meno.



***


Il vento freddo gli sferzò il viso portando con sé l’odore di sabbia. Kira aprì gli occhi: era notte e attorno a lei si stendeva un deserto di oscurità.
Matty dormiva tra le sue braccia, al sicuro. Aveva camminato a lungo, si rese conto. Era arrivata a piedi fin là, senza sapere né come e né tantomeno dove si trovasse. Le sue braccia erano ormai pesanti e indolenzite e sopportavano a malapena il peso del bambino. La cosa di cui prese successivamente consapevolezza è che non aveva con sé neppure il telefono.
La Volpe, pensò, era stata la Volpe a portarla fin lì. Un moto di rabbia la colpì capendo che era stata sopraffatta dopo anni trascorsi nell’allenarsi per controllarla, per farla tacere. Una rabbia mista a vergogna e rimorso, perché – in fondo – quegli ultimi giorni aveva desiderato intensamente lasciarsi andare, allontanarsi dai problemi che le toglievano l’aria dai polmoni rendendole doloroso respirare. Abbandonarsi a quella forza dentro di lei che avrebbe tenuto al sicuro lei e i suoi bambini.
Scott, pensò mentre lacrime di sconforto le salirono spontanee agli occhi. Già pensava che fosse una codarda, adesso cosa pensava di lei ora che aveva rinunciato a lui e ai loro figli senza un apparente motivo?
Di sicuro la stava cercando, si rincuorò, cercando di allontanare dalla sua mente la possibilità che Scott fosse talmente irato e deluso da lei da lasciarla andare senza provare a riprenderla.
Kira camminò incerta sul terreno arido. Man mano che avanzava, iniziò a distinguere, in lontananza, una debole luce che danzava nel buio.
Proseguì in quella direzione, col cuore che le batteva nel petto come un tamburo. Ora sapeva dove si trovava e perché la Volpe l’aveva portata lì.
Si ritrovò dinanzi ad un grande falò che ardeva indisturbato in quella desolazione. Si sedette a distanza dal fuoco, abbastanza vicina perché il calore li riscaldasse ma non troppo da infastidirli, cullò Matty mentre attendeva.
Si guardò attorno, distinguendo nel buio la formazione rocciosa di Shiprock. Non che la forma di quelle rocce sabbiose le fosse rimasto impresso nella memoria, ma la Volpe dentro di lei era in fermento e quello era l’unico lungo desertico in cui l’avrebbe potuta condurre.
D’improvviso si alzò il vento e Kira strinse più forte a sé Matty, sapendo cosa stava per accadere. Una folata di sabbia vorticò davanti al fuoco e agli occhi di Kira. Quando il vento si placò, al posto della sabbia, era apparsa una donna davanti al fuoco.
Aveva il volto tinto di bianco e gli occhi macchiati di rosso. Sulla testa portava un copricapo di pelliccia di lupo.
Aveva preso forma dalla sabbia, come se essa stessa ne facesse parte. Assomiglia a una nativa americana, dimenticata nel tempo, vestita di pelle e collane di ossa, armata di una lunga lancia appuntita. L’ultima volta che Kira era giunta a Shiprock, insieme a sua madre, in tre le avevano dato il benvenuto. Adesso solo una Skinwalker si era presentata e Kira sapeva fin troppo bene che non si trattava di un buon segno.
Avvolse Matty nella sua giacca e lo posò con delicatezza sul terreno arido e sabbioso. Il bambino non parve accorgersi della differenza e – con sollievo di Kira – continuò a dormire lontano dal calore della madre.
Kira sguainò la katana e fronteggiò con fierezza la mutaforma Navajo.
La Skinwalker socchiuse gli occhi e sibilò rabbiosa: l’aveva riconosciuta.
«Sapevamo che saresti tornata… Volpe del Tuono».
«Non sono qui per combattere» precisò Kira, pur sapendo che entrambe si stavano apprestando a farlo.
«Oh, so perfettamente per quale motivo sei qui» sibilò la Skinwalker, la sua voce sembrava giungere direttamente dall’oltretomba.
«E so per quale motivo la Volpe è tornata da noi...» proseguì con voce lenta e graffiante, brandendo la lancia e puntandola verso Kira.
«Ho un bambino con me» mormorò Kira con un groppo in gola «So cosa stai per fare, ma io sono qui solo per parlare».
«Tu non sai proprio niente».


***



Stiles non era più il ragazzo magrolino che si lasciava andare all’abbraccio rassicurante di Malia durante la notte, era un uomo adesso, con spalle larghe e braccia forti con le quali la stringeva e mani grandi con le quali conteneva il grembo della donna.
Malia lo stava aspettando, sotto le coperte, spaventata dall’idea che potesse passare un’altra notte da sola.
Provava la necessità di averlo accanto per dormire, Stiles questo lo sapeva.
Si massaggiò il basso ventre, mentre i minuti trascorrevano lenti. Poi la porta della camera si aprì e Stiles entrò, fermandosi ai piedi del letto per guardarla. Malia non osò muovere neppure un muscolo. Provava a capire quali demoni si agitavano nel cuore di suo marito, ma lui sembrava sempre più irraggiungibile e Malia non capiva perché non sapeva più intuire i suoi pensieri potendo solo guardarlo negli occhi.
Quando Stiles si infilò sotto le coperte, accanto a lei, un brivido la colse impreparata.
Malia era sdraiata in posizione fetale e gli dava la schiena. Sperò con tutta se stessa che lui allungasse una mano a cercare il suo corpo, a cercare un contatto che però non avvenne.
I minuti passavano lenti. Stiles si continuava a girare e rigirare nel letto. Non riusciva a dormire e Malia non trovava il coraggio per provare a parlargli ancora.
Ma d’improvviso la mano di Stiles fu sulla sua schiena e un calore estraneo la avvolse. Non era abituata ad agognare questo tipo di attenzioni quando, per loro due, il contatto fisico era un qualcosa di tanto viscerale e semplice che non aveva mai dovuto reclamare.
La abbracciò tirandola a sé: un braccio tra il seno e la pancia e le gambe intrecciate in un groviglio. Un abbraccio scomodo, eppure completo.
Malia non riusciva a prendere sonno in quella posizione, ma era il contatto di cui sia lei che Stiles avevano bisogno, perciò non osava muovere neppure un muscolo.
Poi udì un singulto strozzato e i nervi di Malia si tesero; allora la stretta di Stiles si fece – se possibile – ancora più stretta; un lungo sospiro le solleticò la nuca e Stiles si mosse.
La sua mano abbandonò la postazione sicura attorno alla sua pancia e si spostò più giù ad accarezzare prima le cosce e poi i glutei, fino a infilarsi negli slip. Con le dita solleticò la sua intimità, soffermandosi sui punti che sapeva essere i più sensibili.
Malia rimase immobile, al contrario il suo cuore batteva a mille e il suo respiro si fece affannoso.
Quando Stiles iniziò a baciarle il collo Malia si girò verso di lui, sdraiandosi supina. Stiles si chinò a baciarle le labbra, la sua lingua che cercava, febbrile, quella di lei.
Con un gesto la spogliò dell'intimo e le fu sopra, improvvisamente bramoso.
Non era più il tipo d'amore che compivano quando aspettavano un bambino, non c'era né dolcezza né attenzioni particolari. Era più carnale, un desiderio e un’urgenza fisica dell'altro che fece perdere a Stiles la consapevolezza di ciò che stava facendo. Seguiva solo il suo istinto e ogni impulso di piacere che Malia, sotto di lui, gli restituiva.
Forse anche troppo intenso, perché Malia disse quello che a letto non gli aveva mai detto prima: «Piano, Stiles», soffiò, mordendosi con forza il labbro inferiore «Fai piano».
Ma Stiles si era perso in quella cacofonia di percezioni, annebbiato dal piacere, dalla passione e dall'alcol, concentrato solo a completare l'atto. Neppure la sentì, mentre continuava a spingere e a lasciarle piccoli morsi sul seno. La baciò un'ultima volta prima di raggiungere l'orgasmo e lei quindi lo spinse via con più impellenza di quanta ne volesse mostrare.
Solo allora Stiles si rese conto di essere stato troppo irruente.
Anche nella penombra della stanza Malia vide che il suo volto era pallido e tirato e i suoi occhi lucidi.
Stiles le abbracciò la testa, premendola tra il mento e l’incavo del suo collo. Era agitato, tremava e le accarezzava i capelli con dita insicure.
«Ti… Ti amo» singhiozzò lui, baciandole la fronte.
«Lo so...» mormorò Malia in risposta, provando ad circondare i fianchi sottili dell’uomo per rassicurarlo, per fargli intendere che non le aveva fatto davvero male e non era dispiaciuta di quello che era appena accaduto. Che comprendeva senza giudicarlo.
Ma Stiles si allontanò con gli stessi modi bruschi che ultimamente era solito usare con lei.
«Dove vai?» chiese Malia, sconcertata.
Stiles si stava già infilando i pantaloni e infilando la prima felpa disponibile.
«A cercare Scott» farfugliò come se fosse la prima scusa a cui avesse pensato. Poi il suo volto prese un’espressione risoluta e Stiles sembrò essersi convinto delle proprie parole.
Malia assottigliò le labbra, avrebbe voluto fermarlo, chiedergli di restare con lei, di non lasciarla sola un’altra volta. Ma, d’altronde, sapeva che Stiles stava facendo la cosa giusta a dispetto che lo facesse solo per fuggire da lei, era ciò che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio.
Pensò ad Adam, solo in ospedale, a Caleb a casa della nonna che non capiva il motivo per cui né i suoi fratelli e neppure i suoi genitori erano insieme a lui. Pensò anche a Kira, mentre Stiles volava fuori dalla stanza e si precipitava giù per le scale. Malia era sicura che anche lei – ovunque fosse – aveva bisogno di Scott. Tutto il branco ne aveva bisogno.


***


Lydia aveva appena finito di sistemare la camera degli ospiti che Melissa entrò timidamente nella stanza con in braccio Caleb che, esausto dopo ore di lagne e pianti, era finalmente crollato tra le sue braccia.
Gli anni trascorsi e le preoccupazioni che aveva dovuto affrontare, non avevano sfiorito la bellezza di Melissa. Al contrario, portava quegli anni in più con vera eleganza. Teneva i capelli, ancora lunghi e ondulati, ma colorati da alcune ciocche candide, in una crocchia alta. Il suo viso appariva ancora fresco, segnato solo da poche rughe attorno agli occhi e alle labbra.
La mezza età le donava e la portava con vera classe.
«Grazie per averci ospitato» disse Melissa a bassa voce, lasciando un leggero bacio sulla fronte del piccolo.
Lydia sorrise «Non ti avremmo mai lasciata da sola. Scott tornerà presto, ma fino ad allora non abbiamo intenzione di perdere di vista Caleb» disse, decisa.
Gli occhi solitamente dolci e luminosi di Melissa si adombrarono e Lydia non dovette chiederle nulla per comprendere che i pensieri della donna si erano spostati nuovamente sul piccolo Adam.
Difatti Melissa disse: «Sono rimasta in ospedale finché me lo hanno permesso. Neppure Stiles e Malia lo hanno lasciato solo… anche quando ormai c’ero io al suo fianco» Melissa sembrava destabilizzata e parlava e si muoveva come se fosse confusa. Per lei era stato un forte shock vedere il nipote in quelle condizioni e non le era stato affatto d’aiuto sapere che né Scott e neppure Kira fossero presenti per intervenire, portando tutte le responsabilità a gravare sulle sue spalle stanche.
Lydia aggrottò la fronte nel vedere lo sguardo vacuo e umido di Melissa. Si era dimostrata una forza della natura nel proteggere Scott, nell’accettare tutti quei cambiamenti in suo figlio e i pericoli che da essi comportava. Ma Scott allora era un ragazzo e sapeva come difendersi, per quanto Melissa potesse preoccuparsi per lui era cosciente di quanto fosse forte suo figlio. Ma ora tutto era diverso, suo nipote era un bambino indifeso e lei non aveva idea di come proteggerlo, né tantomeno l’energia per farlo.
«Riposati, Melissa. Sarai sfinita...» provò a confortarla Lydia, «Anche se Scott non è qui, noi sì e troveremo un modo, te lo prometto. Non sei sola» le strinse la mano e Melissa le sorrise, le lacrime intrappolate tra le ciglia.
Lydia, nell’uscire, si richiuse la porta alle spalle e si augurò che la signora McCall potesse – se non dormire – quantomeno riposarsi.
Il cuore nel petto le pesava come un macigno e con urgenza trovò rifugio nella cameretta di Allie.
La piccola dormiva, abbracciata al suo peluche preferito, rannicchiata in un angolo del letto, proprio come l’aveva lasciata. Sapeva che di lì a poco si sarebbe nuovamente svegliata, rendendosi conto che Lydia non si trovava più al suo fianco.
Probabilmente già si era resa conto, nell’incoscienza del sonno, che mancava il calore del corpo di sua madre e, difatti, pur dormendo, aveva la fronte corrugata.
Sentendosi una sciocca, Lydia pose il palmo della mano a poca distanza dal naso della bambina, per sentire se respirava.
Le lasciò un bacio tra i capelli e, a quel contatto, la fronte della bambina tornò distesa.
Lydia sospirò: forse aveva ancora tempo prima di dover tornare a sdraiarsi accanto a lei per rassicurarla e convincerla a rimettersi a dormire.
Eppure, nessuno di quei particolari riusciva a restituirle la calma che stava cercando. Il magone che le comprimeva il petto era ancora lì, ad appesantirle il respiro senza darle tregua.
Chiuse gli occhi, sentendosi tremendamente sola.

Lydia entrò nello studio di Jordan e si richiuse in fretta la porta alle spalle.
Lui era seduto alla scrivania a leggere e rileggere i referti dei cadaveri e i pochi indizi che avevano a disposizione.
Al suono secco della porta che sbatteva alzò gli occhi giusto in tempo per vedere Lydia togliersi la maglietta e camminare spedita verso di lui.
«Allie si è addormentata» farfugliò a mo' di spiegazione, prima di sedersi sulle gambe di suo marito, legargli le braccia al collo e baciarlo con trasporto sempre più crescente.
Jordan non ebbe il tempo di dire alcunché, lasciò andare i fascicoli sulla scrivania e poggiò le mani sulla schiena di Lydia, lisciando la pelle nuda, entusiasta di quella incursione inattesa.
La donna si aggiustò sulle gambe dell’uomo, strusciando su punti sensibili.
Lydia era sempre stata un fuoco che divampava all’improvviso a cui Jordan si abbandonava senza alcuna lamentela.
Eppure, nonostante agognava da giorni un contatto simile con sua moglie, qualcosa lo tratteneva.
Interruppe i suoi baci, cercò i suoi occhi verdi, continuando a lasciarle dolci carezze dietro la schiena e provando ad ignorare che aveva a disposizione davanti al naso il suo seno prosperoso ancora imprigionato nel reggiseno a balconcino color pesca e merletto bianco.
«Cosa succede, Lydia?» mormorò con voce rauca, pregna di passione.
Lydia lo guardò dritto negli occhi, incredula di fronte a quella domanda o – ancor meglio – dinanzi alla sensibilità smisurata di suo marito.
Lydia si piegò  contro il petto di Jordan, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
«Ho bisogno di te» biascicò, a un soffio dalle lacrime, «Ho bisogno di sentire il tuo corpo contro il mio, delle tue braccia che mi stringono»
Jordan fu rapido ad accontentarla e senza indugio la strinse a sé, affondando il naso tra i suoi capelli profumati.
«Stringimi più forte» lo pregò lei e allora Jordan sospirò.
Provò ad allontanarla un poco per poterla guardare, ma Lydia non lo lasciava andare.
«Parlami, amore mio» chiese lui, in fine.
Lydia tremava appena tra le sue braccia e Jordan dovette pazientare alcuni minuti prima che la voce di Lydia uscì, tremola ed instabile.
«Oddio...» sussurrò, contro il suo collo, «Mi sento così sciocca… Ti sembrerò certamente una sciocca».
«No» scandì lui, con decisione.
«Non saprei cosa fare se tu non ci fossi, se mi lasciassi ad affrontare tutto questo da sola. Sei tutto per me, Jordan. Sei la metà di me che mi rende forte», singhiozzò Lydia, provò a prendere fiato e poi continuò, «Noi siamo la cosa più importante per te e me lo fai capire ogni giorno, anche quando non vuoi parlarmi. Perché se così non fosse allora non saresti così spaventato. Perché... perché non staresti neppure qui a voler parlare, ad assicurarti di come mi sento, quando potresti benissimo prendermi su questa scrivania e ignorare tutto il resto. Ma tu non sei così e io ti amo, ti amo da impazzire proprio per questo» gorgogliò tra le lacrime che Jordan cercava inutilmente di asciugare con i polpastrelli dei pollici.
Le accarezzava il viso, cercando inutilmente di calmarla, sfiorando di tanto in tanto le sue labbra con le proprie.
«E sono stata così egoista, Jordan. Ero arrabbiata con te perché per la prima volta mi avevi allontanata. E lo sapevo che volevi solo proteggermi, non è stato giusto addossarti tutta la colpa. Ma questo mi ha fatto capire quanto ancora ti amo dopo tutti questi anni, quanto ogni piccolo gesto di affetto che fai quotidianamente sia importante».
«Sshh, basta Lydia. Lo so, questo. Lo so».
Lei scosse la testa, insoddisfatta, perché a parole non riusciva a rendere quello che stava provando in quel momento.
Ma Jordan la capiva, lui la conosceva così a fondo che alle volte Lydia dimenticava che erano due essere a se stanti. Solo lui poteva scorgere dietro quei suoi atteggiamenti da donna risoluta ed indipendente, la fragilità di una ragazza che aveva dovuto lottare contro i mostri del proprio essere già ad una tenera età.
Jordan la faceva sentire protetta e Lydia lo accettava, perché anche lui sentiva la necessità di stare con lei per non perdere il controllo; nella stessa esatta misura quale il Mastino Infernale reclamava accanto a sé la Banshee.  Erano come un Uroboru, loro due: come un serpente che si mordeva la coda. Il potere che divora e rigenera se stesso, in un ciclo continuo ed interminabile.
«Io so che saresti una leonessa, implacabile e fiera, anche senza di me. Ma io non vado da nessuna parte, Lydia. Te lo prometto. Non permetterò neppure al diavolo in persona di allontanarmi da te e da Allie».
Le prese la mano sinistra e le baciò l’anulare dove brillava la fede d’oro.
«Penso ancora quello che dissi il giorno in cui ti ho sposata: neppure la morte potrà dividerci».
Le labbra di Lydia tremarono, commosse e in un batter d’occhio Jordan se le ritrovò sulle sue. La passione prese il sopravvento in un istante e quel bacio tenero d’affetto si fece d’improvviso carnale. Le loro lingue si incontrarono e si stuzzicarono e ben presto si persero in quella bolla di calore solamente loro. Come un fuoco che, attorno a loro, divampava e bruciava le loro carni: compatibili e complementari l’uno poteva sopportare l’urlo della Banshee e l’altra gestire il fuoco di Cerbero.
Jordan si sollevò, tirando su anche Lydia per farla poggiare sul piano della scrivania. Senza indugiare oltre, la Banshee gli slacciò i pantaloni e infilò la mano oltre i bordi dei boxer.


***


Stiles correva nella foresta chiamando Scott a gran voce. Non si diresse verso il Nemeton, dove lo aveva trovato l’ultima volta. Sapeva che lui non aveva più motivo per restare lì, ora che Adam era stato ritrovato.
Aveva considerato la possibilità che si stesse aggirando per Beacon Hills, nelle vicinanze dell’ospedale magari. Ma di certo qualcuno si sarebbe reso conto della presenza di un grosso lupo nero se così fosse stato.
Girò alla cieca tra gli alberi, cercando di farsi guidare da quel sesto senso che lo faceva ritrovare ogni volta col suo migliore amico.
Le fitte costanti alla milza lo stavano rallentando, ma non aveva intenzione di desistere.
Eppure essere lì, anziché a casa, non gli diede la stessa adrenalina che gli aveva dato la sera prima, né tantomeno quella che sentiva da ragazzo: non traeva energia nell’essere fuori nel bosco per l’ennesima volta, da solo, con nuovi problemi sempre più grandi e ingestibili da affrontare.
Prima era diverso. Prima avrebbe trascorso giornate intere nella foresta pur di risolvere gli enigmi che si celavano dietro a nuovi attacchi, per sconfiggere i nemici in tempo. Ma adesso era stanco e rimpiangeva l’oziosa routine che aveva con Malia prima dell’arrivo del Darach.
Quando si fermò per riprendere fiato e si guardò attorno con più calma, si rese conto che quella parte del bosco gli sembrava piuttosto familiare, nonostante col buio fosse facile confondersi. Ma quante volte da ragazzo era stato tra quegli alberi, camminando sul terriccio umido come se percorresse la strada di casa sua?
Puntò in alto la torcia e distinse qualcosa di diverso tra i rami. E allora capì dove si trovava: aveva raggiunto la casa diroccata degli Hale.
La costruzione in legno, per metà mangiata dalle fiamme e l’altra metà rovinata dal tempo e dalle intemperie, appariva come un volto spettrale e tetro e – dato quel che rappresentava per il branco e in particolare per lo stesso Stiles – infestato da oscuri demoni del passato.
Il cuore gli salì in gola mentre si avvicinava, gli sembrò persino di sentire lamenti lontani provenire all’interno di quell’abitazione dimenticata. Poi distinse con precisione il suono di unghie che grattavano il legno.
Agitò la torcia spostandola a destra e a sinistra alla ricerca della provenienza di quel rumore inquietante e per un lungo minuto la paura prese il sopravvento sulla ragione. Stiles si chiese se ad attenderlo ci fosse il Darach, se stesse provando a fare con lui un perverso gioco tra cacciatore e preda e se lui stesse ingenuamente abboccando alla sua trappola.
La mano di Stiles, quella libera, corse alla tasca della felpa per stringere con forza l’impugnatura della pistola. Forse non sarebbe bastata per fermare il Darach, ma avrebbe dato a Stiles una sicura possibilità di fuga.
Con passo incerto continuò a percorrere il perimetro della casa degli Hale. La luce della torcia tremolava nella sua mano, ma ogni senso di Stiles era concentrato a captare ogni più piccolo particolare dell’ambiente che lo circondava.
Il rumore di unghie perpetrava, fisso e sempre più definito. Si stava avvicinando.
Sorpassata l’ultima colonna del portico, si voltò: un’enorme ombra nera lo stava aspettando.
Imponente, fulva e con penetranti occhi iniettati di rosso.
Stiles si lasciò andare a un plateale sospiro di sollievo.
«Grazie al cielo! Scott...» soffiò, senza più fiato. Stiles si accucciò a terra, cercando di calmarsi dalla tensione accumulata che gli aveva reso le gambe molli.
Scott – o, per meglio dire, il lupo che aveva preso il suo posto – era intento a grattare con foga la parete di legno della casa, come se cercasse disperatamente di raggiungere qualcosa.
«Cosa cerchi, Scott?» chiese Stiles, con voce rassegnata, dato che il grosso lupo non gli aveva dato alcuna attenzione.
«Non c’è niente lì dentro. Questa casa è deserta da anni, lo sai benissimo» continuò, cercando ancora una volta di attirare il suo interesse.
«Scott… Scott!» insistette Stiles. Si sedette sul terriccio umido, incrociando le gambe. Il lupo uggiolò, ma senza smettere di lasciare grossi solchi sul legno.
«Dobbiamo tornare a casa. Dobbiamo tornare da Adam. Tu devi tornare...».
Stiles nascose il viso tra le mani.
«Amico… Tuo figlio ha bisogno di te, non del lupo, ma solo di suo padre. È da solo adesso e...» Stiles si interruppe quando sentì sul dorso delle mani qualcosa di umido.
Fece scivolare giù le mani dal viso e sollevò la testa ritrovandosi gli occhi rossi dell’Alpha a rispecchiarsi nei suoi.
Non aveva idea di quanto di quello che diceva arrivasse a Scott, ma era sicuro che all’interno degli occhi del lupo ci fosse il suo migliore amico. C’era Scott che provava a placare la sua furia, a riemergere dalla sua parte più animalesca. Una volta Malia aveva provato a spiegargli quanto fosse facile cedere alla propria metà mannara quando non si ha il completo controllo, gli aveva provato a descrivere quanto ci si senta al sicuro permettere alla parte più forte e furiosa di emergere per sopravvivere.
«Dobbiamo tornare a casa, amico. Tu da Adam e io da Malia», Stiles si grattò con foga la cute, mentre osservava il grosso lupo sedersi accanto a lui.
«Che diavolo dovrei fare?» chiese più a se stesso che a Scott. Pensò che avrebbe dovuto portare con sé Malia, forse i suoi modi diretti sarebbero stati ben più decisivi di tutte le parole persuasive che avrebbe potuto dire Stiles. Ma metterla ancora in pericolo era fuori discussione, dato che a questo ci pensava già da sola.
Stiles inghiottì un boccone amaro a questo pensiero.
Sospirò «Sta andando tutto a rotoli con lei. La amo… con tutto me stesso. Ma adesso c’è qualcosa che mi fa stare male. La voglio, sempre, ogni secondo. Sento il bisogno di toccarla o baciarla in continuazione come un povero disperato, ma lei sembra non rendersi conto di come mi faccia sentire il modo in cui lei insiste a voler proteggere me e Jamie. Non permette che io lo faccia al suo posto e questo mi fa nascere una rabbia dentro mai provata prima. Rabbia sia verso di lei che verso di me».
Il lupo si sdraiò a terra, nascondendo il muso sotto le zampe e abbassando le orecchie.
«Oh, non guardarmi così. Sai benissimo che non sto esagerando come al solito, questa volta. Solo… non voglio perderla, Scott… E sento che è esattamente quello che sta per accadere».
Il lupo guaì piano, inclinando la testa.
Stiles strizzò gli occhi e si massaggiò la base del naso.
«Scusa», disse, «Sì, Adam sta bene. Te lo prometto. Lui starà bene, Scott… Troveremo un modo. Come sempre».

***

Kira rispondeva colpo a colpo agli attacchi della Skinwalker.
«Non hai ancora domato la Volpe, non riesci a controllarla!»
La Skinwalker e Kira si stavano fronteggiando, lancia contro katana, scontrandosi, studiando l’una le mosse dell’altra.
Ogni tanto Kira lanciava una veloce occhiata a Matty; non voleva apparire più vulnerabile di quanto già si sentisse, ma non poteva fare a meno di accertarsi che lui ancora dormisse, che si sentisse ancora al sicuro.
La Skinwalker sembrava non voler sfruttare quelle piccole distrazioni da parte della donna in suo favore, almeno per ora.
«Non c’è un modo per controllarla!» sbottò Kira, furiosa. Dopo anni di tentativi era giunta a questa conclusione e si era arresa ad essa.
Forse Scott aveva ragione. Forse suo marito faceva bene a vederla come una codarda.
La Skinwalker rise «Tu hai paura. Di te stessa, della forza che è dentro di te. Per questo fallisci miseramente in qualsiasi cosa tu faccia. Fallisci come moglie, come madre, come guerriera».
La donna Navajo attaccò e ancora una volta la lancia e la katana si incrociarono, ma nessuna delle due era pronta a cedere.
Combattevano alla pari, Kira teneva testa alla Skinwalker senza fatica, tanto che quello scontro poteva non arrivare ad una conclusione.
La guerriera Navajo assottigliò lo sguardo. Kira non era più una ragazzina, si era allenata a lungo e senza sosta in quegli anni e non sarebbe stato semplice sopraffarla come era accaduto la prima volta.
«Sconfiggimi» la provocò la Skinwalker, «Sconfiggimi e sarai libera di andartene».
Kira digrignò i denti, gli occhi che mandavano lampi, «Non sapevo di essere tua prigioniera».
La Navajo si allontanò di qualche passo dal raggio d’azione di Kira, abbassò la lancia e l’oscurità si rifletté sul suo volto.
«Non lo sei, infatti. Sei libera di andare, non ti tratterrò» scandì con voce solenne.
Kira mantenne la posizione di attacco, certa che quella fosse una trappola.
Ricordava come le Skinwalker avevano fatto di tutto pur di trattenerla lì con loro.
La guerriera Navajo riprese a muoversi, sinuosa, la lancia ancora abbassata, posta in verticale di fianco al corpo.
«Ma tu non vuoi andartene, giusto? C’è un motivo per cui sei qui. Parlami».
Kira fece un verso sarcastico «Ora vorresti parlare?», asciugandosi col braccio la fronte madida di sudore.
«So che resterai finché non mi avrai sconfitta. Parlami, abbiamo tempo».
Gli occhi scuri di Kira si accesero come lampi nel buio: la Skinwalker aveva appena premuto un tasto dolente.
«È un fattore molto relativo, il tempo» soffiò Kira, «Non ne ho, a dirla tutta. Non ho tempo da sprecare con te, perché devo pensare alla mia famiglia, ai miei figli. Per loro di tempo non ne avrò mai abbastanza».
Tacque, stringendo le labbra in una linea dura. La Navajo si fece ancora una volta avanti: «Perché sei qui?».
Si tenevano a debita distanza, muovendosi in parallelo compiendo un cerchio perfetto.
«La Volpe...», provò a spiegare Kira, ma la Skinwalker non glielo permise.
«No», la bloccò sul nascere.
«Devo riuscire a controllarla» insistette Kira.
La Skinwalker ringhiò: non era questo che voleva sentire.
Kira iniziava ad accusare la stanchezza, ma non poteva abbassare la guardia, perciò mantenne i nervi tesi e i sensi all’erta, nonostante l’unica cosa che volesse fare era lasciarsi cadere a terra, abbandonare tutto e riposarsi.
«Perché sei qui?» abbaiò ancora la guerriera Navajo.
«Non lo so!» sbottò Kira. Poi si voltò verso Matty per assicurarsi che non l’avesse svegliato.
Quando tornò a guardare la Skinwalker, lei era più vicina. Kira mosse la Katana davanti a sé, movimenti lenti e controllati nei quali viveva eleganza, fierezza e potere.
«Tu stai soffocando» sibilò la sua rivale, guardandola dritta negli occhi come se da lì potesse raggiungerle l’anima.
Prese a far vorticare la lancia tra le sue dita, passandola da mano a mano.
«E, insieme a te, soffocano anche i tuoi figli».
La Skinwalker sollevò la lancia sopra la propria testa, pronta a scagliarla verso Kira.
«Sconfiggimi!» gridò la guerriera, attaccando.
Kira era un fascio di nervi, le mani strette spasmodicamente attorno all’elsa della katana, si vide arrivare la lama dell’arma dritta verso la propria faccia.
Allora lo fece e fu una liberazione. Si lasciò andare ed ebbe la stessa sensazione di pace che si prova sotto la doccia, quando l’acqua calda ti scivola addosso insieme a tutti i pensieri, alla stanchezza, allontanandoti – anche se per poco – dalla realtà e dal tempo.
Dopo quell’attimo di sollievo, arrivò l’energia: il corpo di Kira venne attraversato da una potente scarica di decine di migliaia di volt. La Volpe aveva preso il controllo e Kira poteva essere solo spettatrice di come la furia della Volpe si sprigionò, letale ed incontenibile.
Non seppe quanto restò assente, prigioniera nel proprio inconscio ma, d’improvviso, il mondo sembrò vorticare davanti ai suoi occhi, non c’era più nulla tranne che il cielo nero. Poi una forte botta dietro alla nuca la fece tornare cosciente.
Si trovava a terra, la Skinwalker la sovrastava e la sua lancia era conficcata proprio nel suo fianco destro.
Digrignò i denti, mentre il dolore la accecava.
«Sconfiggimi!» gridò ancora una volta la guerriera Navajo togliendo, con una secca mossa brutale, la lama dalla sua carne.
Kira provò a tirarsi su, furiosa.
«Mi hai fatto credere di combattere alla pari», ringhiò, «Invece sei più forte della Volpe!».
La Skinwalker restò impassibile.
«No» rispose, con calma glaciale, «Quando un corpo non è guidato dalla mente è semplice sopraffarlo. Il potere può distruggere ma non dominare».
Prese il bastone con entrambe le mani e lo pose orizzontalmente dinanzi a sé poi, con una mossa veloce colpì la fronte di Kira con l’asta della lancia.
Kira rovinò a terra nuovamente, boccheggiando per la fitta al fianco e il dolore alla testa.
«Non sei pronta, Volpe del Tuono» decretò la Skinwalker, tendendo la mano verso di lei, «Ma lo sarai...».
Kira la guardò dritta negli occhi e capì: «Devo restare».
Non era una domanda, ma la guerriera annuì.
«Resterete entrambi», la Skinwalker guardò dietro alle spalle di Kira, dove si trovava Matty, «Ma non insieme», decretò.
«No!» gridò Kira, ma una nube di sabbia l’avvolse.
Si guardò attorno, disperata, ma era bastato quel singolo istante perché tutto attorno a lei scomparisse: la Skinwalker, il grande fuoco che aveva regalato calore e luce… e Matty, persino.
Kira, nel bel mezzo del deserto del Messico, avvolta dall’oscurità e completamente sola, urlò.


***


Il cielo si stava lentamente rischiarando. L’alba era prossima e Stiles era ancora convinto che parlando con Scott di tutto quello che gli stava passando per la testa in quel momento, sarebbe finalmente riuscito a farlo tornare nella sua forma umana.
L’unico risultato che finora aveva ottenuto era di aver insegnato a un lupo a tapparsi le orecchie.
Scott, sdraiato a terra, teneva un orecchio premuto sul terriccio morbido e la zampa alzata a chiudere l’altro orecchio rimasto libero.
«Sto diventando tutto ciò che ho sempre disprezzato», stava dicendo con voce strascicata, «mi rifugio nell’alcol, allontano mia moglie e mio figlio...».
Stiles si era portato una fiaschetta dietro e ciò non stava migliorando la situazione. Ogni tanto dava una sorsata, poi la riponeva nella tasca della felpa insieme alla pistola.
D’un tratto il lupo alzò la testa e aguzzò le orecchie.
Stiles seguì i cambiamenti in silenzio, seguendo ogni azione.
Scott ringhiò e tornò a grattare nel punto in cui Stiles lo aveva trovato.
«Che succede amico? È solo una vecchia casa abbandonata… Perché ci troviamo qui?» chiese, scocciato.
Stiles non era lucido. In quei giorni non lo era mai abbastanza.
Guardava le orecchie dritte e a punta del lupo, l’espressione furiosa e implacabile. Poi alzò lo sguardo sul rudere che Scott non dava segno di voler mollare.
Stiles si avvicinò al punto in cui il lupo stava scavando e con la fioca luce che gli regalava l’alba ormai prossima poté individuare un cedimento del terreno, come se in quel punto del muro si trovasse un’apertura poco al di sotto delle fondamenta.
Una cantina pensò Stiles, notando che le tavole su cui stava grattando Scott fossero differenti dal resto.
In quel punto, a livello col terreno, doveva esserci stata una piccola finestra che dava direttamente ad uno scantinato, la quale era stata opportunamente chiusa con tavole di legno poste a filo col resto del muro di legno per non destare sospetti.
E c’era solo un motivo per cui Scott fosse così deciso a rompere quelle tavole: qualcuno o qualcosa si nascondeva all’interno della casa degli Hale.
Il Darach, ragionò Stiles, raggelando. Nascondersi in una casa abbandonata da anni e ormai dimenticata, nel folto della foresta proprio dove sarebbero avvenuti tutti i suoi attacchi, non doveva essergli sembrata una brutta idea.
Stiles si chinò, piegandosi sulle ginocchia, per capire come poter aiutare l’amico. D’altronde era stufo di stare lì fuori a piangersi addosso e se raggiungere quell'obiettivo avrebbe aiutato Scott a tornare indietro, tanto meglio.
Stiles fece pressione con le dita e tentò di strappare con le unghie i punti già indeboliti dalle zampate di Scott.
Non appena le tavole saltarono, Scott si tuffò nell’apertura, ringhiando e guaendo.
Un urlo si levò dall’interno e il cuore di Stiles sembrò fermarsi: la voce di una bambina. Una bambina stava gridando con tutto il fiato che aveva in corpo.
Stiles infilò le gambe nella piccola finestra e, con qualche sforzo, si spinse all’interno. Cadde miracolosamente sulle proprie gambe instabili.
Non gli ci volle molto per abituarsi a quell’oscurità più fitta. D’altronde aveva appena trascorso l’intera notte nella foresta. Il suo istinto non aveva fallito: erano in uno scantinato apparentemente privo di alcun mobilio.
Puntò la torcia, assieme alla pistola, nella direzione in cui provenivano le urla.
Il grande lupo nero ringhiava, sovrastando il piccolo corpo di una bambina, la quale piangeva e singhiozzava incontrollata.
Stiles si avvicinò ai due. La bambina era lurida, sporca di terra, sudore e quello che sembrava sangue.
Non appena ella lo vide, tornò a gridare.
«Shh, tranquilla. Non urlare. Scott, spostati!».
Stiles mise via la pistola, agguantò l’intero corpo del lupo con le braccia e provò a tirarlo via dalla bambina.
Appena la piccola intuì che Stiles stava cercando di aiutarla, prese a strillare a gran voce: «Aide moi! Aide moi, s’il te plait!».
Stiles strabuzzò gli occhi, sbalordito, tanto che Scott gli sfuggì dalla presa e tornò a ringhiare addosso alla bambina.
Come ci era finita lì una bambina che non dimostrava più di otto anni, in una casa abbandonata nella foresta e, per di più, chiaramente straniera?
Stiles non riusciva a capacitarsene, la guardava come un’aliena, come se fosse piombata da un universo parallelo.
La piccola strillava e Stiles tornò ad occuparsi del lupo.
«Scott!», gridò, «Ora basta! Scott!».
La sua mente, dapprima annebbiata dall’alcol, tornò a lavorare velocemente.
La mente di Stiles traboccava di domande: cosa ci faceva lì quella bambina? Come ci era arrivata? E perché Scott cercava a tutti i costi di aggredirla?
Ancora non aveva risposte, ma di una cosa era certo: doveva portarla al più presto in centrare, trovare un traduttore e interrogarla.
«Scott!» strillò ancora. Adesso era faccia a faccia con il lupo e urlava guardandolo dritto negli occhi.
Non aveva mai compreso in che modo lui, un umano senza niente di speciale, potesse far parte di un branco di mannari. Però così era e più di una volta aveva provato una forza crescere dentro al petto al richiamo di Scott, al richiamo del suo Alpha.
Ma non aveva idea che, persino lui, Stiles, fosse in grado di far sentire la sua di voce. Nessuno di loro comprendeva ancora appieno il potere che gli restituiva far parte di un branco, si trattava di un legame antico, come gli aveva spiegato tempo fa Deaton, un legame che si fonda su istinti, fiducia, fedeltà e appartenenza.
Stiles non si era mai sentito parte del branco come in quel momento, come ora che gli occhi del lupo da rossi virarono velocemente a un color nocciola e tra le dita non sentì più il pelo morbido, ma pelle nuda.
Stiles ignorava cosa avesse esattamente fatto per riuscirci.
Forse era stata la supplica in fondo ai suoi occhi, la sua voce decisa o la necessità di avere il suo migliore amico accanto per poter andare avanti. Fatto sta che voleva solo calmare il lupo e invece aveva riportato indietro Scott.
Pensò che quella sarebbe stata proprio la tattica che avrebbe usato Malia sin dall’inizio se fosse stata lì con loro: ruggire, urlare, richiamare a gran voce Scott, come se fosse un ordine disperato.
Scott se ne stava a terra, accovacciato, guardando Stiles con occhi sbarrati e confusi come se non avesse alcuna idea del motivo per cui si trovasse nudo in uno scantinato davanti ad una bambina terrorizzata.
 





   
 
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