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Autore: Le VAMP    26/03/2019    1 recensioni
[A13]
Considerata l’acutezza del nemico, molti dei vecchi segni stavano riapparendo. Un nemico che forse non era umano, e che in qualche modo riuscì a sgualcire nuovamente una piccola rosa che era appena rifiorita nella sua integrità: fu per questo che la dottoressa dovette impegnarsi nell'intima disciplina della ginecologia.
- Personaggi principali: Cloé Ardennes, Aya Drevis
- Personaggi secondari: Mary, Michel D’Alembert
- Comparse: Ib, Ellen
[“Gesù, dovrei confessare che in tutta la mia solitudine ho abbandonato e ho peccato.
Voglio che sappi, così sono inginocchiata. Oh Signore, ho bisogno di perdono.”
- Mercy on me, Christina Aguilera, 2006]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Aya Drevis
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Signore pietà, Cristo pietà

[A13]
Considerata l’acutezza del nemico, molti dei vecchi segni stavano riapparendo. Un nemico che forse non era umano, e che in qualche modo riuscì a sgualcire nuovamente una piccola rosa che era appena rifiorita nella sua integrità: fu per questo che la dottoressa dovette impegnarsi nell’intima disciplina della ginecologia.

- Personaggi principali: Cloé Ardennes, Aya Drevis
- Personaggi secondari: Mary, Michel D’Alembert
- Comparse: Ib, Ellen

[“Gesù, dovrei confessare che in tutta la mia solitudine ho abbandonato e ho peccato.
Voglio che sappi, così sono inginocchiata. Oh Signore, ho bisogno di perdono.”
- Mercy on me, Christina Aguilera, 2006]

 ____________

Dato che la bambina non riusciva proprio a smettere di parlare, puntualmente Aya smise di risponderle.
«Hey! Non mi hai ancora detto cosa vuol dire»
«Cosa avrei dovuto spiegarti?» ella era indaffarata. Si occupava di controllare che tutti i suoi strumenti per la visita fossero immacolati, mentre la piccola si appoggiava alla sua scrivania continuando a parlottare
«Cosa significa gine…gine… Insomma, cosa farai per le ferite della sorellona?»
In quel momento la dottoressa stava cercando la confezione di guanti che portava sempre con sé, non riusciva proprio a trovarla.
«Ginecologia»
«Una medicina?»
«Non è una medicina, ma una disciplina»
«Oh...»

Mary non fu però soddisfatta da quella risposta, ponendo il suo indice pensieroso sotto al mento che invece si rivolgeva in alto, guardando la luce della stanza.
«Allora cosa dovrai fare?»
«Dovrò prima visitarla»
Finalmente aveva trovato i guanti. Ma trovando i guanti, aveva perso Mary.
Se era vero che i ritmi di quelle domande si facevano sempre più lenti, questo si intendeva come una certa perdita d’interesse della bambina, o almeno era quello che credeva.
«Dove si è fatta male Cloé, Mamma Aya? Io non sono riuscita a vederle le sue ferite»
Quello era uno sguardo che s’era fatto privo di vita; uno sguardo che richiedeva così tanta attenzione da doversi chinare per sostenere la sua stessa altezza.

«Le sue ferite sono...Mary, ricordi il discorso di quel gior-»
«Con tutti quei bei vestiti la sorellona assomiglia a una delle bambole che volevo quando ero nella Galleria. Non è vero?»
«Mary»
«Ti piacciono ancora le bambole? A me non più. Non mi piacciono più, sono cresciuta» la interruppe.
Quegli occhi blu continuavano a fissarla, ma le labbra non sorridevano.
«Io sono stata brava. Anche tu sei stata brava, Mamma Aya?»
Quegli occhi blu continuavano a fissarla, ma gli altri azzurri che le parlavano non potevano rimaner fermi, quelli tremavano con tutto il terrore che potessero contenere da soli, così piccoli. Ed improvvisamente Aya Drevis desiderò fuggire, si levò in piedi.
«Anche tu sarai brava?»
Sentir bussare le permise di recuperare quel poco di colore che aveva in viso, ed il sangue a circolare. Lasciò la piccola Mary lì, a continuare a fissarla.

Quando aprì la porta, pensando di trovarvi la sua paziente che più non voleva attendere, vi ritrovò invece Ib, col suo dito che la indicava, rivolgendosi ad una certa strega che come tutti loro non sembrava proprio di buon umore.
Cloé e Michel erano seduti ad attendere proprio dietro di loro, ancora cercavano di tenersi stretti l’uno all’altra. Non riusciva a comprendere, tuttavia, chi stesse sostenendo l’altro.

In ogni caso: le due ragazze erano anche lì, e la stavano osservando.
Ib fra tutti era quella che riusciva a guardare più a lungo i loro volti, come in quel momento stava facendo con lei. Quando finalmente quelle due coppie di iridi, rosse e celesti, riuscirono ad incontrarsi con sincerità, la bambina le rivolse un sorriso; ed Aya poté finalmente asciugare il suo sudore alla fronte.
Ellen invece non attendeva nessuno, era entrata già nel suo stanzino scacciando Mary che tentava in tutti i modi di protestare
«Fila via di qui mocciosa, hai visto anche troppo per avere sette anni»
Così sbatté la porta, e con quel forte rumore la dottoressa tornò alla realtà.
«Allora? Cosa ne dici di queste?»
Erano le fasce che le aveva dato per le sue braccia.
Avevano perso il loro biancore, mostrandosi a lei colme di macchie scure, non era più nemmeno sangue puro. Ed Ellen di questo se ne rendeva conto, mostrando i suoi denti aguzzi, le sopracciglia aggrottate e gli occhi d’oro che voleva incolparla per quella situazione. Era accaduto quello che più temeva.
Poi cominciò a tendere un filo, e nascose quelle labbra tese dietro un ghigno, così che potesse essere una conca per le future lacrime che mai avrebbe mostrato sul suo arido viso.

Dunque dall’altra parte cominciarono a sentirsi delle urla. Era la strega ad urlare, e della voce della dottoressa non si sentiva nulla. Più le urla divenivano più forti, più Cloé sentiva farsi più stretta la presa di Michel
«Se il suo sguardo cambia, scappa. Se qualcosa dovesse farti paura, esci da quella stanza. Io non mi muoverò da qui»
Così, continuando a guardare tristemente quelle pupille agitate e scattanti, quel braccio insicuro che continuava a stringersi attorno alle sue spalle, si vide cosi costretta ancora una volta ad abbandonare quell’accogliente fortezza che nemmeno riusciva a reggersi da sola, ed esibire un sorriso che le costò molta più fatica del solito.
«Cloé starà bene»
Ci provò, lo trattenne più a lungo che poté, ma non riusciva a tranquillizzarlo. Se n’era accorto.
Quella fortezza le tornò attorno cercando di farsi più efficace di prima con un forte abbraccio, permettendole di evitare altre fatiche, concedendole di chiudere gli occhi per pochi minuti.
Non aggiunsero altro.

Nella realtà si sapeva che era la strega stessa a togliersi quelle luride fasce, urlare con furia a quella vista, e la giovane Drevis che si vide costretta a tenerla ferma bloccando le sue mani mentre il sangue vivo e rosso si poggiava sul pavimento. Quella non poté far a meno di ridere, avrebbe voluto Ange e Bernd con loro.
Ma non era quello il momento: le toccava sorbirsi i rimproveri di Mamma Aya.
«Cosa ti salta in mente? Ne avevamo già parlato!»
«Le tue cure non hanno funzionato dottoressa, e se qualcuno ha scambiato due parole con quel gatto per farci ritrovare tutti in queste condizioni non sono stata io»
Ellen non aveva nessuna sensibilità nel suo sguardo, come lei stessa lo faceva nel suo lavoro ella l’applicava alla vita.
Se doveva fissarti, fissarti insistentemente fino a farti abbassare il capo come un cane non esitava a farlo, e lo stava facendo anche in quel momento, eppure la dottoressa non cedeva.

«Torna più tardi»

Le parole viaggiarono, ma i corpi continuarono a rimanere fermi. Questo finché, per la prima volta, Ellen non accettò la sua sconfitta e si allontanò con le ferite sanguinanti.

I guanti erano ancora lì poggiati sul tavolo la prima volta che li aveva presi, perché tardò a indossarli?
Aya non riuscì a far nulla per fermarla, non volle nemmeno chiamarla per sostituire almeno le bende. Si guardò invece le mani: quelle erano imbrattate di sangue.

Forse fu proprio per colpa di quelle gocce che continuavano a cadere per tutto il pavimento che i due musicisti preferirono rimanere a guardarla immobili, e lei guardare loro, attendendo che la strega sparisse all’orizzonte.
Ora il pavimento del corridoio era macchiato da gocce di sangue. 

Comunque alla fine le decisioni erano già state prese, e Cloé dovette lasciare Michel nell’angosciante regno dell’attesa, allontanandosi per varcare la soglia della temuta porta all’interno della quale Aya Drevis era già sparita.
La porta si chiuse.

L’acqua già scorreva quando Cloé andò a sedersi, era perché Aya si stava lavando le mani.
«Quando sarai pronta dovrai privarti della biancheria intima e stenderti sul letto lì vicino. D’accordo?»
La giovane paziente non rispose. Forse aveva solo sussurrato qualcosa, ma comprese che non avrebbe abbandonato facilmente quella sedia mentre continuava a tenere le dita delle sue mani intrecciate tra loro, posate sulle ginocchia mentre il capo era sostenuto con grande fatica dal suo collo, mentre si prostrava sempre più giù come le sue stesse braccia.

Ci volle un po’ di tempo perché qualcosa le convincesse a cambiare le loro azioni, ad iniziare quella temuta visita.
La pianista decise infine, dopo un lungo sospiro, di alzarsi e voltarsi dall’altra parte. Si allontanò da quella sedia su cui prima era seduta.
In fondo avevano già avuto a modo di discuterne, le aveva dato il tempo per pensarci, e la conclusione era giunta al tempo debito; quei dolori interminabili avevano imposto la loro decisione.
Sollevò la gonnella, prese quei tessuti che la proteggevano, le dita erano incapaci di spingerli via. Non voleva infangare di nuovo quei gesti, non voleva che fosse tutto di nuovo gettato a terra.
Quando la biancheria cominciò a scivolare via dalle sue cosce allora non sostenne quell’abbandono, così per completarlo si chinò a terra, sostenuta dalle sole punte dei suoi piedi, fissando il pavimento per tutto il tempo.

Aya tutto questo riusciva a notarlo. La vedeva accoccolata lì, frattanto che l’acqua continuava a scorrere e lei cercava di pulire le sue mani al meglio che poteva.
Non riusciva a fare a meno di continuare a guardarla, ma doveva comunque controllare che i suoi palmi fossero finalmente immacolati: così continuò a mutare l’oggetto del suo sguardo, e man mano che la direzione cambiava dalle proprie mani alla ragazzina indifesa, la veemenza nel suo lavaggio si faceva più forte. Quel maledetto sangue pareva non voler andar via.

Infine Cloé si sollevò, ancora per un momento c’era la sua bella gonna a proteggere la piccola rosa dalle malignità del mondo esterno.
Ed era per questo che quel letto rappresentò per lei l’ennesimo nemico.

«Non temere, non ti succederà nulla»
Così l’aveva rassicurata la dottoressa, sfuggendo come un’ombra mentre cercava un nuovo paio di guanti.
No, i letti decisamente non le piacevano. Cercò di dimenticarsi della sua situazione, tastando con le sue dita per conquistare la fiducia che le serviva.
Non fu facile rimettersi a sedere, poi distendere, e posizionarsi per venire nuovamente osservata da qualcuno.
Ciò che riuscì a fare con grande rammarico fu solamente sollevare le ginocchia e starsene così tranquilla in posizione supina; perciò quando Aya giunse finalmente per iniziare la visita cadde ella stessa nell’impaccio per chiederle quello che realmente serviva
«Purtroppo…Se non divarichi le gambe non potrò fare il mio lavoro» e davanti a quegli occhi tanto comprensivi Cloé quasi sobbalzò nel suo imbarazzo, scusandosi al meglio che poteva, tuttavia le gambe non riuscivano a muoversi.

Sentì allora una mano poggiarsi sulla sua: «È per il tuo bene».
Soltanto in quel modo, lentamente, il varco si schiuse poco alla volta, e quella piccola rosa si rivelò in tutto il suo candore rubato alla dottoressa, che ne riuscì ad intravedere solo la liscia superficie.

«Potresti tenerle più sollevate Cloé? Mi dispiace non avere gli strumenti giusti per fartele appoggiare»
«Non fa nulla, a Cloé non importa».
Quello fu uno dei suoi ultimi sorrisi che riuscì a rivolgere, e ci mise tutta se stessa per ricambiare la gentilezza che Aya Drevis le stava dimostrando.
Quel sorriso ricambiato da parte sua tuttavia durò poco, piuttosto la dottoressa inclinò il capo e constatò con preoccupazione che quel fiore era di un rossore che non avrebbe dovuto rivelare, una forte irritazione che lo percorreva dalle labbra all’inguine.

Quando risollevò lo sguardo, notò che la giovane paziente nel frattempo aveva gli occhi chiusi, stava stringendo le palpebre, costringendole a non aprirsi. Così, Aya si ridusse a voce narrante, e la pianista poté dare retta agli avvertimenti di Michel affidandosi soltanto ai toni della sua voce. Quelli, per il momento, non mentivano. Erano i contenuti delle sue frasi a terrorizzarla.

«Cloé, credo che dovremo passare alla seconda parte della visita. Ricordi quello che ti avevo detto?»
E con ciò, la ragazzina spalancò gli occhi. Ebbe appena il tempo di percepire qualcosa, una lieve pressione prima di esclamare le sue suppliche
«Non mi toccare!»

La dottoressa si arrestò immediatamente, attese ch’ella si riprendesse.
Passò del tempo in cui Cloé fissò il vuoto. Per tranquillizzarla provò a fare qualcosa che una volta aveva fatto con una sua piccola paziente: avvicinò la mano al suo capo, e lo carezzò per un po’.
«Tieni gli occhi aperti durante il controllo, così non vedrai nessuna ombra»
Ed allora la osservò, seguì ogni suo sguardo mentre allo stesso tempo cominciò a percepire le sue dita delicate rivestite dal lattice che ricercavano, perlustravano quella carne alla ricerca di ferite che in quei giorni la stavano tormentando.
Aya capiva quando le faceva del male: conosceva ogni tipo di contrazione da parte dei suoi pazienti, ed era più che evidente che la piccina cercasse in tutti i modi di non causarle altri problemi con i suoi lamenti.
Del resto, aprendo quelle labbra ancora un po’ non fu difficile ritrovarvi delle lesioni.

Quand’ella si allontanò per degli istanti, Cloé ne colse l’occasione per far riposare le sue gambe, e per poco pensò che quell’incubo fosse terminato.
Ma quando udì degli strani rumori capì che stava rovistando tra i suoi arnesi per cercare qualcosa, ed il sospetto e i dubbi tornarono nel vedere quello strumento che le sembravano delle pinze, quell’affare tanto spaventoso che temeva solo nel riconoscerne la forma.
La dottoressa s’era seduta al suo fianco, spiegandole cosa fosse[1]: era uno strumento utile per tenere aperta la cavità vaginale, mentre ella avrebbe controllato meglio con la piccola luce dove si nascondesse l’infezione che la faceva soffrire.
«Sono andata l’altro giorno alla ricerca di uno come questo che potesse essere delicato nei tuoi confronti. L’ho scelto proprio per poter completare al meglio questa visita»
Lì vicino c’era una scatola di compresse, diceva che probabilmente sarebbe servita per dopo.
Quindi, aspettò.
La luce che ammirava, così in alto, la accecava. Forse avrebbe preferito divenir cieca grazie ad una luce del genere: di un biancore tale che se poi voltava il capo in altre parti della stanza questa sembrava tingersi totalmente di bianco per alcuni istanti.
Attese che quel lungo momento che racchiudeva tutta la sua angoscia potesse terminare una volta per tutte, e di quel termine se ne rese conto, ancora una volta, la propria rosa.

Freddo. Quell’aggeggio era qualcosa di crudelmente freddo; no, sentiva quella pelle così tesa ora.
“Recati nella mia camera”: lo ricordava ancora perfettamente.
Poté rivolgere le sue preghiere soltanto a quell’accecante bagliore che piombava al di sopra dei loro sguardi.

~

Era un giorno come un altro, tutte le stanze della clinica erano illuminate dal sole che si dibatteva prorompente contro i vetri delle finestre, così come quella donna, che ora strepitava di dolore sul loro letto, poche ore prima aveva bussato alla loro porta.

Quelle urla erano date da una causa ben precisa, la stessa causa per cui la dottoressa si trovava china, con le mani impegnate tra le gambe della sventurata.
«Passami le forbici Maria. Svelta»
A quegli strilli poi se ne erano raddoppiati degli altri, tanto più acuti e vispi poiché una nuova vita era giunta in quella casa.

Era la prima volta che Aya Drevis s’occupava di nascite. Aveva studiato quanto potesse essere necessario, ma le fu nuovo alla sua carriera padroneggiare in quella maniera la vita umana.
La madre…Oh, quella era già destinata all’oltretomba. Continuava a sudare, a malapena riusciva a spiccicare qualche parola; ancora non era riuscita a vedere il neonato, ora in braccio a Maria.
Nel mentre Aya già s’era messa in piedi, pronta a cercare i suoi strumenti mentre la poveretta cominciava ad ansimare, oltre che a sudare.
«Non ci hai detto da dove vieni cara. Come ti sei trovata da queste parti?»
Ma l’altra non le rispondeva. Anzi, seguitava a sussurrare senza forze chiedendo di vedere il figlio, che già stava coperto in fasce tra le braccia dell’infermiera che lo cullava al proprio petto.
“Fatemelo vedere” non smetteva di pregare, delle preghiere ignorate.
«Non temere, lo consegneremo presto tra le tue braccia. Pensa a riposare»
Tanto era quella impegnata a desiderare coi suoi occhi il bambino che nemmeno si accorse del liquido che quella dottoressa, dallo sguardo tanto angelico, le stava iniettando nelle vene.
I suoi occhi si andavano spegnendo quasi seguendo il ritmo delle carezze che la giovane donna porgeva sul suo capo, e finalmente venne l’ultima di queste.

Non vide mai il suo bambino.

Maria a tutto quel teatrino non ci faceva caso. Si stava godendo il pargolo tra le braccia guarendolo dalla paura che lo faceva urlare, cullandolo come proprio e con sguardo amorevole, a cui la signorina stava molto attenta.
Per generare una bufera basta mischiare aria calda e fredda: in quella stanza erano presenti entrambi i tipi. Da una parte l’amore di una madre mancato, dall’altra quello della scienza che reclamava propria la creatura, con uno sguardo tanto severo che si trasmise poi nella sua stessa voce.
Maria non se n’era accorta, era da un paio di minuti che la mano della padrona era tesa verso di lei con la siringa in mano, ora riempita di nuovo.

Fu solo dopo essersene resa conto che venne rimproverata per quell’indolenza.
«Cosa aspetti? Non abbiamo mai avuto l’occasione di adoperare su un neonato appena partorito»

Per qualche strana ragione alla fedele collaboratrice mancarono le parole. Boccheggiava, la stolta. Non si era forse abituata alla visita di innumerevoli neonati nei barattoli del suo precedente padrone?

Era proprio per quello che in verità il dottore le vietava di tenere tra le braccia i fanciulli di cui lei stessa si occupava per le nascite.

In poco tempo, a casa Drevis, dovette infatti occuparsi di diventare levatrice. Le pazienti che il buon dottore abbordava per strada preferivano lei per il destino dei loro figliuoli.
Le era capitato in passato di aiutare qualche compagna di lavoro prima che si ritrovasse per strada, e forse con i figli di quelle pazienti non cambiava molto il suo sguardo: difatti aveva estraneità con entrambe le categorie. Quella era la prima volta che sentiva un cuore battere così vicino al proprio.

Prese la siringa, ma non riuscì ad adempiere al compito che le era stato assegnato. Frattanto il nascituro strillava più forte.  
«Quando smetterò di sentirlo urlare, Maria? Mi stai facendo perdere tempo»

Non ricordava oltre di quel giorno, dovette essersi immobilizzata lì. Rammentò della mattina successiva, dopo esser sgattaiolata fuori per il mercato ed essersi occupata per tutta la notte di mungitura delle loro mucche per dar il latte alla nuova creaturina.
Quando ritornò non riusciva a ritrovarlo. Portò a termine la sua lunga ricerca soltanto chinandosi a terra, inginocchiandosi dolente vicino al secchio della spazzatura, in cui ai nefasti odori e laide pelli animali si mescolavano le viscere del neonato.

Tanto questa volta sentì il proprio respiro bloccarsi che si portò d’istinto le mani alla gola, dondolando su se stessa, e nemmeno si accorse dei passi della padrona che le si era avvicinata.
La guardava, e nemmeno se ne rendeva conto.
Aya continuava ad addossarle i mali del cielo coi suoi occhi spenti. Non ebbe pietà di lei nemmeno quando ebbe il coraggio di ricambiare il suo sguardo.

~
Cloé non resisteva, troppi corpi estranei stavano macchiando di nuovo la propria rosa e sentiva il bisogno di muoversi, si agitava la poveretta, ma non veniva ascoltata. Mugugnava, ma non c’era alcuna compassione.
“Cloé non vuole più saperne…No, no…Non vuole più saperne”: quelli erano sussurri soffocati dall’afflizione e la vergogna.
Aya scorgeva quelle infezioni, poi le perdeva di vista, ignorava le lamentele della giovane e cercava di ritrovar le ferite per non compiere alcun passo falso con l’inserimento della compressa. Con una mano si vide obbligata a tenerle ferme le gambe: quel loro scalciare imperterrito poteva rivelarsi pericoloso oltre che controproducente; e lo strazio non terminava perché nell’istante in cui la piccola musicista si sentì oppressa i suoi lamenti si facevano più struggenti, pregandola di lasciarla in pace.

Poi le sue dita col farmaco penetrarono.
Cloé scoppiò in lacrime, portandosi le mani al volto, coprendosi gli occhi; le supplicava di smetterla, pareva non realizzare che quella lotta era appena giunta al termine. La dottoressa sfilò via lo strumento, ansimava, si asciugò la fronte col dorso della mano mentre cercava per un po’ di farle tenere serrate le gambe affinché l’assimilazione avesse buon esito, contemplando quella bambina che si agitava piangendo sul letto delle visite.
Quando ogni procedura fu terminata le si avvicinò, e come fece in vita sua per molti altri disgraziati le carezzò il capo, dicendole che era tutto finito. Le ci volle del tempo per convincerla.
«Non lo fare mai più!» la pianista quasi le urlò contro mentre i singhiozzi soffocavano le sue parole. Continuò pertanto a ripetere tale cantilena Aya si sedette al suo fianco; non smise di intonarlo nemmeno quando le sollevò la schiena e la fece poggiare lentamente al proprio petto.
Forse fu solo quel lento cullare che permise alle parole di scemarsi di nuovo in sussurri, e i sussurri trasformarsi in respiri regolati donati dal sonno.

Passò del tempo a dondolare, avanti e dietro, per accompagnare il sonno della ragazzina che se ne stava stretta stretta con le spalle, attenta a raggomitolarsi tra le sue braccia, e che soltanto più tardi lasciò sul lettino dove l’aveva medicata.

Non seppe cosa farsene, e allora la lasciò lì, sempre sotto la veglia della luce delle sue lampade. Avrebbe deciso Cloé di spegnerle una volta sveglia, non era una sua responsabilità quella.

Quando Aya uscì dalla stanza Michel era ancora lì, attento, lo sguardo sempre fisso sul pavimento, e non adoperò una sola parola. Non le degnava nemmeno di uno sguardo.
Ella stette per andarsene, eppure compiendo i primi passi il ragazzo recuperò la lingua:
«L’hai guardata?»
«Sì» fu la risposta secca a seguito di una longeva pausa. Il suo volto era diretto verso di lui, ma già il resto del corpo era pronto a volatilizzarsi.
Allora proseguì.
«L’hai toccata?»
E di nuovo, «Sì».
C’era un qualcosa di punitivo in quell’interrogatorio; mai Aya riuscì a scorgere i suoi occhi. Compiuti allora altri passi per allontanarsi dal corridoio, Michel emise il suo verdetto
«Non mi siete mai piaciuti, voi dottori. Avete troppo potere sulla carne umana»

Solo per questa frase allora la dottoressa sopracitata gli dedicò perfino un quasi completo rigiro del busto, apposta per guardarlo invece dritto negli occhi –cosa ch’egli si rifiutava di fare– e scorticare la sua sicurezza come una corteccia dall’albero

«È stato un musicista frustrato a tormentarla per anni, non un dottore»
Del resto, nemmeno lei ebbe ancora il coraggio di guardarlo in faccia dopo quell’espressione tanto svampita che si ritrovò ad affrontare del violinista. Lo lasciò lì, in preda ai suoi mille dubbi che ora lo travalicavano.

E così, riprendendo a camminare udendo l’eco dei suoi passi lo abbandonò in quel bivio, a proposito della decisione di prenderla ancora una volta tra le braccia e trasportare o meno la dolce Cloé a dormire nelle camere dei dormitori; ancora distesa su quel letto da visita e che, si ricordi il lettore, senza che nessuno si fosse preoccupato di rivestirla della sua biancheria.
Ella ignorò i suoi singhiozzi. Aya Drevis s’era infatti allontanata lasciandosi nuovamente alle spalle un viso in lacrime.


[1] Speculum. Lo speculum vaginale con bloccaggio a perno centrale viene utilizzato per la dilatazione del canale vaginale e l’esposizione del collo uterino (estratto dal sito Kaltek).

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Sto lavorando in questo momento ad un plot per un piccolo progettino a proposito di libri. Però è tutta da vedere.
Ho ancora il lato B di Ain't No Sunshine in sospeso lo so. Farò del mio meglio. Nel frattempo sto affinando le cinque trame per i progetti video-ludici. Tanto da fare e poco tempo, però ce la si può fare.
Questo testo mi è venuto in mente di getto qualche settimana fa. In realtà è un'idea un po' vecchia, nata dall'ansia che forse avrei dovuto fare un esame che poi non ho fatto, però negli ultimi giorni pensavo che comunque fosse uno sketch con del potenziale. Sì, ormai con loro ho capito che l'unico modo per continuare a presentarveli è tramite sketch.

Alla prossima, compagnia.
   
 
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