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Autore: Imperfectworld01    27/03/2019    0 recensioni
Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede.
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.
Megan Sinclair è la brava ragazza del quartiere, quella persona affidabile su cui si può sempre contare, con ottimi voti a scuola e con un brillante futuro che la attende.
E poi, all'improvviso, una sera cambia tutto. Una notte, un omicidio e un segreto. Un segreto che Megan, con l'aiuto di un improbabile alleato, cercherà di mantenere sepolto a tutti i costi.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È una città piccola


Quando mi svegliai venerdì mattina, mi chiesi com'era possibile che fosse già passata una settimana da quella dannata festa. Era già passata una settimana da quando Emily era morta. Era già passata una settimana da quando la mia vita era cambiata per sempre. 
E forse anch'io stavo cambiando. Il mio timore più grande era proprio quello di non riuscire più a tornare la Megan di un tempo. Forse sarei riuscita a superare il trauma e a riavere indietro la mia vita, ma ciò non stava a significare che avrei riavuto anche quella parte di me che era stata danneggiata. Forse mi sarei portata quella voragine dentro di me per sempre, non si sarebbe mai rimarginata del tutto.

Feci quelle riflessioni mentre fissavo il mio corpo nudo stando in piedi davanti allo specchio della mia camera. Ero pressoché la stessa, all'esterno. Ma dentro di me, sentivo che era in atto una trasformazione. Sperai soltanto che sarei stata una persona migliore di quella che ero stata fino a quel momento (bugiarda, ricattatrice, assassina).

Dopo essermi vestita e preparata per un'altra sicuramente burrascosa giornata di scuola, presi in mano il cellulare.

"Ti prego, non dire a nessuno di ieri."

Scrissi il messaggio e poi, al momento di inviarlo, titubai per qualche secondo. Poi feci un respiro profondo e lo spedii, prima di prendere lo zaino di scuola dalla sedia e uscire di casa.

Sebbene una parte di me fosse ansiosa di ricevere una risposta e avesse l'istinto di controllare il cellulare ogni dieci secondo, alla fine ebbe la meglio la parte di me più razionale, e difatti lo ripresi in mano solo una volta dopo essere arrivata a scuola.

L'arrivo dell'autunno si stava facendo sentire: c'era molto vento, le prime foglie stavano iniziando a cadere dagli alberi e il cielo appariva grigio e uggioso, quasi a riflettere il mio stato d'animo. Sperai solo che non si mettesse a piovere. Detestavo la pioggia. Non ci trovavo nulla di bello né romantico, era solo incredibilmente fastidiosa. Inoltre, considerando che indossavo solo un maglione e non avevo con me nessun ombrello, non sarei riuscita a ripararmi e avrei finito con l'ammalarmi. 
E, sebbene mi avrebbe fatto piacere starmene a casa per un po', in quei giorni avevo già fatto troppe assenze, e non avrei voluto continuare in quel modo per il resto dell'anno scolastico.

Una volta arrivata al mio armadietto, tirai fuori il cellulare per leggere la risposta. Aveva inviato due messaggi.

"Starò zitto."

"Ma solo se tu ti farai aiutare da qualcuno."

Alzai gli occhi al cielo. Eppure, aveva ragione, e io lo sapevo.

Non avevo mai considerato il suicidio. Anzi, ero sempre stata dell'idea che chi compiesse un gesto del genere, fosse solo un vigliacco, che non aveva né la voglia né la forza per affrontare i propri problemi. E poi anch'io ero diventata come coloro che tanto criticavo.

Come avevo potuto essere tanto stupida? Tanto superficiale? Se solo David non fosse stato lì... sarei morta per davvero. (Magari. Sarebbe finito tutto).

"Lo farò."

Poi sentii qualcuno appoggiare le mani sul mio ventre e il mento sulla mia spalla. Mi girai leggermente a sinistra e subito incontrai gli occhi di Dylan. Appoggiai le mani sopra le sue, facendo sì che mi stringesse più forte.

«Ti ho chiamata ieri. Almeno cinque volte» disse, lasciandomi un piccolo bacio sul collo.

«Avevo il telefono spento, scusa» risposi solamente.

«Mi dispiace per ieri. Quello che ti ha detto la signora Walsh è stato orribile, scorretto e inappropriato. Dopo averti vista andare via, avrei voluto seguirti e non partecipare al funerale. Sono rimasto solo per... be', per Emily. Era giusto dirle addio.»

A quelle parole, mi innervosii e tolsi le sue mani dalla mia vita. «Non mi va di parlarne» dissi fredda, voltandomi nella sua direzione.

Io non le avevo detto addio. Non avevo potuto farlo. E ancora non ero riuscita a piangere. Perché diamine non piangevo più, se il dolore era tale da soffocarmi?

«Si può sapere che hai?» domandò Dylan.

«Che razza di domanda è? Pensi che mi faccia piacere parlare di come mi sono sentita di merda per tutto il giorno, ieri? Era la mia, di migliore amica, e mentre persone a cui non fregava niente di lei, fra cui anche te, che fino a prima che morisse neanche ti ricordavi il suo nome, hanno potuto stare al suo funerale, io invece sono stata cacciata e umiliata davanti a tutti!» esclamai, attirando numerosi sguardi su di me.

«Ok, ho capito, non ne parleremo più. Ora però calmati, Meg» afferrò la mia mano e cominciò a carezzarne il dorso. Poi si avvicinò fino a far toccare le nostre fronti. Mi bastò fissare i suoi occhi per qualche secondo, affinché riuscissi a calmarmi, affinché la rabbia che si era accumulata in pochi secondi sparisse in altrettanto tempo. «Va meglio?» domandò e io annuii, stampandogli un bacio sulle labbra.

Lui mi restituì altri due baci, prima che venissimo interrotti da una voce stridula appartenente a una delle persone che sopportavo di meno. «Tu sei morta, Megan Sinclair!»

Sia io che Dyl sussultammo e ci voltammo verso quella voce. «Quando capirai che devi lasciarla in...» Dylan venne interrotto da Olivia: «Non aspetto altro che tutta la verità su di te venga fuori, così che tutti sappiano che persona di merda sei!».

«Da che pulpito!» esclamò Dylan.

«Non sono io a essere un'assassina.»

«Nemmeno io, e il fatto che tu continui ad accusarmi di esserlo, mi dà la conferma che soa stata tu a mettere quel foglio nel mio armadietto» intervenni.

«Davvero pensi che perderei tempo dietro a te? Non sono stata io a farlo, nonostante la balla che hai detto alla preside Fitzpatrick. C'è mancato poco che mi sospendesse! Per fortuna non aveva prove, se non le tue parole.»

«Che cosa hai fatto?» mi chiese Dylan, intromettendosi di nuovo.

«Fossi in te starei attenta» disse Olivia con tono glaciale.

«A chi? A te?» domandai guardandola con sufficienza.

«Oh no, magari. Ma mi lusinga che tu mi veda come la tua minaccia più grande. Io però le cose te le dico in faccia. Ma è chiaro che qualcuno qua a scuola la pensi come me e abbia deciso di prenderti di mira» disse, prima di allontanarsi.

Non capii il significato delle sue parole, finché Dylan non mi picchiettò la spalla con le dita. Mi voltai e mi accorsi che stava indicando, anche lui sconvolto, decine e decine di fogli con il mio volto sparsi per tutta la scuola. Alcuni erano attaccati agli armadietti, altri appesi alle bacheche, altri semplicemente buttati a terra.

Assassina. Assassina. Assassina.

•••

«Che stronzi» sputò Herman, accartocciando e lanciando a terra uno dei tanti volantini diffamatori che si era trovato sulla sedia in mensa.

«Lascia perdere, Herm. Prima o poi si stuferanno» risposi, sperando con tutto il cuore che fosse vero.

«La preside non ha detto che ti avrebbe aiutata?»

Scrollai le spalle: «Sì, ma a quanto pare non è riuscita a fare molto. Probabilmente organizzerà uno dei suoi incontri contro il bullismo per "sensibilizzare gli studenti", come dice sempre».

«Ah già, sicuro sarà utile» commentò sarcastico. «Cambiando discorso, dov'è la tua nuova fiamma?».

«Non lo so. Starà arrivando.»

Poi presi il cellulare in mano e vidi che mia madre mi aveva mandato un messaggio: "La psicologa ti aspetta nel suo studio alle 16:30. Ti ricordi come arrivarci?".

Roteai gli occhi e non le risposi. Inevitabilmente, ripensai al giorno precedente, quando David mi aveva riferito che mia madre aveva preso le mie difese e aveva affrontato la signora Walsh. Per la prima volta mi ero sentita amata, benvoluta da mia madre...

Invece, non mi ero mai sbagliata tanto: quando tornarono a casa, mia madre cominciò a lamentarsi per l'accaduto spostando tutte le attenzioni su di lei, senza neanche chiedermi come stavo io, ossia la persona che era stata attaccata davanti a tutti: «Ma dico, Robert, l'hai sentita quella stronza? Come si è permessa di dire quelle cose a Megan? Non mi sono mai sentita così umiliata! Io dico, chissà cosa avranno pensato tutti i presenti di me! Che non sono stata in grado di educare mia figlia, forse? Io dico, come si è azzardata a denigrarci tutti così? Insomma, è una città piccola... Dovrebbe importare anche a te, ne va della nostra reputazione!».

Dopo aver sentito quelle parole, mi ero a dir poco infuriata, così ero subito corsa in camera a mia, sbattendo la porta alle mie spalle e poi chiudendola a chiave. Ci rimasi per tutta la sera, uscendo di tanto in tanto solo per andare in bagno. Ma tanto nessuno, in quella dannata casa, ci fece caso. Mia madre era troppo occupata a pensare a se stessa, mentre mio padre era troppo occupato a fare il suo cane da compagnia.

«Meg.» La voce di Dylan mi riportò alla realtà. Mi voltai alla mia destra e lo vidi intento ad appoggiare il vassoio sul tavolo e a sedersi al mio fianco. «Oggi vieni a vedermi agli allenamenti?» domanda.

«Allenamenti di cosa?»

«Football. Sono riuscito a entrare nella squadra, te l'ho detto prima» rispose, lasciando intravedere un po' di scocciatura.

«Ah, giusto. Comunque non posso, ho un impegno questo pomeriggio.»

Dylan storse il naso. «Mi spieghi cos'hai?»

«Non ho niente.»

«Allora perché continui a comportarti da stronza da tutto il giorno?».

«Se vuoi, vengo a vederti io» si intromise Herman, ricevendo un'occhiataccia da entrambi.

«Non mi comporto da stronza...» dissi, sebbene io stessa non fossi totalmente convinta delle mie parole.

«Ma se è da quando mi hai visto stamattina che non fai che rispondermi male e mi guardi come se fossi un peso di cui devi disfarti al più presto! Se non ti interesso più, basta dirmelo e tolgo il disturbo.»

«Forse è meglio che lo tolga io...» Herman, vedendo la situazione farsi infuocata, prese il suo vassoio e andò a sedersi altrove.

Guardai Dylan. Era confuso, arrabbiato e ferito. Il tutto a causa mia. Non sapevo nemmeno io che cosa mi stesse succedendo quella mattina. Ero distaccata e scontrosa con tutti. Ma di una cosa ero sicura.

«Scusami. Ho mille cose per la testa e sono nervosa di continuo. Ma quello che provo per te non ha niente a che fare con questo.»

«Allora parlamene» disse, prendendo la mia mano. «Non c'è bisogno che ti tenga tutto dentro».

Rimasi in silenzio. Non volevo che lui, come tutti gli altri, continuasse a preoccuparsi per me. Non volevo più essere vista come quella che non poteva farcela da sola, che aveva sempre bisogno degli altri.

Per fortuna, Dylan interpretò il mio silenzio nella maniera corretta e decise di non insistere: «Oppure, se non te la senti, non farlo. In ogni caso, sappi che io non andrò da nessuna parte. Ci sarò sempre per te».

Posò le labbra sul dorso della mia mano, prima di lasciarla e mettersi a mangiare.

•••

"Dottoressa Victoria Blackburn", così diceva la targhetta d'oro appesa vicino al citofono.

Non ero mai stata da una psicologa e, non appena suonai al campanello dello studio, sentii l'ansia crescere dentro di me. Che cosa avrei dovuto dirle? Come avrei dovuto iniziare? Mi avrebbe fatto lei delle domande? Mi avrebbe mostrato quei disegni strani fatti con l'inchiostro nero, sottoponendomi al cosiddetto test di Rorschsach? Quanto avrei potuto raccontarle? Vigeva il segreto professionale fra psicologo e paziente? Si sarebbe accorta di eventuali bugie da me raccontate per evitare di dirle tutta la verità?

Mentre mi ponevo queste e altre mille domande, ecco che la porta si aprì e una donna alta, all'incirca sulla quarantina, con i capelli color mogano legati in una coda di cavallo e gli occhi verdi, mi rivolse un sorriso. «Sei Megan, giusto? Io sono la dottoressa Blackburn, ma se preferisci puoi chiamarmi Victoria! Prego, entra dentro!» mi accolse, spostandosi di lato per permettermi di entrare.

Il suo studio era piuttosto piccolo: era un appartamento monolocale, con due poltrone di pelle nera al centro, separate da un tavolino in legno su cui erano appoggiati diversi fogli e delle penne. Alle pareti erano appesi dei quadri e diversi diplomi e attestati, fra cui uno in particolare che attirò subito la mia attenzione: "Master post-dottorato in psicofarmacologia clinica".

Ciò significava che aveva l'autorizzazione a prescrivere farmaci ai pazienti.

«Vuoi una tazza di tè, Megan?» domandò, facendo cenno a una teiera appoggiata su un mobile vicino alla porta.

«No, grazie.»

Il tè non avrebbe fatto altro che tenermi sveglia ulteriormente.

«Allora direi che possiamo iniziare!» esclamò, con un entusiasmo che non capivo a cosa fosse dovuto di preciso.
Mi fece accomodare su una delle due poltrone in pelle nera, prima di sedersi in quella di fronte a me. «Dunque, Megan, perché sei qui?» chiese.

Ah. Quindi avrei dovuto iniziare io. Iniziare da cosa?

«Io... ehm...»

Mi voltai un'altra volta verso l'attestato del master in psicofarmacologia. Non avrei potuto chiederle solamente dei farmaci, non me li avrebbe mai dati.

«Sì, Megan?» domandò, e tornai a guardarla, chiedendomi se lo facesse apposta a ripetere il mio nome ogni singola volta che mi parlava.

«Da quanto tempo è una psicologa?» chiesi e lei assunse un'espressione confusa.

«Dunque... mi sono laureata nel 1999, quindi ormai sono diciannove anni. Come mai sei interessata a saperlo?».

«I suoi pazienti sono sempre riusciti a tornare quelli di una volta? A "guarire", se così si può dire?».

«Ecco, forse dovresti essere più specifica, Megan. Mi occupo di diversi tipi di pazienti. Alcuni hanno problemi più lievi, se così possiamo dire, come bambini con difficoltà a farsi degli amici per via della timidezza, altri hanno subìto dei veri o propri traumi, come violenza sessuale, stalking, oppure hanno dei disturbi alimentari, altri hanno delle vere e proprie malattie mentali, dalle quali non possono guarire. Ognuno di loro ha avuto bisogno di rivolgersi a me perché non riusciva ad aiutarsi da solo, insieme abbiamo iniziato un percorso e ora riescono a combattere contro i loro problemi o disturbi, a condurre una vita tranquilla.»

«Ma sono... cambiati?»

«Sì, certamente sono cambiati, in meglio. Hanno imparato a conoscere se stessi, ad ascoltarsi e ad amarsi per come sono. Detta così sembra banale, ma la causa principale dell'origine di molti problemi è la mancanza di autostima. È di questo che hai paura, Megan, del cambiamento?»

Mi bastò quella semplice domanda, per riuscire a sbloccarmi. Iniziai a parlare, a dire ogni cosa, senza fermarmi più. «Sì, perché io non so più chi sono da quando la mia migliore amica è morta. Penso sappia anche lei di chi si tratta, è una città piccola e sicuro l'avrà sentito al telegiornale, si chiamava Emily Walsh. Da quando lei non c'è più, io sono diventata un'altra persona. Non dormo, spesso non riesco a respirare correttamente, non sopporto più mia madre, salto la scuola, rispondo male alle persone a cui tengo, mento di continuo, e ieri ho persino...» mi fermai appena in tempo. Se le avessi detto del mio tentativo di buttarmi sotto una macchina, non avrebbe mai acconsentito a darmi dei farmaci per dormire, per timore che potessi abusarne per cercare di uccidermi. Così inventai velocemente un'altra cosa da dire: «No, mi scusi, mi sono confusa, era l'altro ieri. Ho mentito alla preside della mia scuola, affinché incolpasse una studentessa per qualcosa che non aveva commesso, solo perché volevo fargliela pagare. E non mi sono neanche sentita in colpa per averlo fatto. Ma io non sono così, non lo sono mai stata.»

La dottoressa rimase in silenzio a fissarmi. Perché non diceva niente? Forse persino lei era rimasta senza parole, forse si chiedeva chi diamine le era capitato davanti. O magari aveva letto il giornale di quella mattina, in cui venivano riportate le parole della signora Walsh al funerale e mi aveva riconosciuta come quella persona senza cuore che aveva fatto del male alla figlia. Magari anche lei credeva, come ormai tutti in quella maledetta città, che ero stata io ad aver ucciso Emily, e quindi aveva paura che avrei potuto fare del male anche a lei.

Poi finalmente parlò. «Dunque, mi sembra di capire che tu sia molto stressata, e che tutto abbia avuto origine da quel spiacevole episodio della settimana scorsa. Ma sei sicura che sia davvero così, e che certi problemi non fossero presenti già da prima? Mi sembra che tu sia troppo ancorata all'immagine che gli altri hanno di te. Pensi di doverti comportare in un determinato modo solo perché gli altri si aspettano che tu sia così?»

«Io... be', non lo so... credo di sì. Insomma, tutti mi hanno sempre vista come la brava ragazza del quartiere» risposi.

«E quindi per via di questa etichetta, ti senti in dovere di assecondare l'idea che gli altri hanno di te, giusto?» chiese e io annuii: «Io non voglio deludere nessuno, tutto qui. Eppure ho l'impressione di farlo continuamente».

«Perché non provi a fare soltanto ciò che ti senti di fare, a essere te stessa, senza pensare a soddisfare le aspettative che gli altri si sono fatti su di te?»

«Sì, ci proverò» dissi, e lo pensavo sul serio.

•••

Parlare, o meglio, sfogarmi con la dottoressa Blackburn era sicuramente servito. Subito dopo essere uscita dal suo studio, mi ero sentita più leggera e rilassata, e sapere di essere ascoltata senza essere giudicata, mi faceva sentire bene. Per la prima volta, potevo essere totalmente me stessa, dire quello che pensavo, senza dovermi preoccupare delle conseguenze. Ed ero solo all'inizio: ancora non avevo parlato di mia madre, non avevo approfondito i miei problemi di insonnia, i miei perenni sensi di colpa, le continue bugie che raccontavo.
Eppure mi sentivo bene.

A interrompere quella bella sensazione, ci si mise mia madre, che mi telefonò non appena fui uscita dallo studio. Ignorai la chiamata, e decisi anche di intraprendere la strada più lunga, così da allungare il mio ritorno a casa e di conseguenza ritardare il momento in cui l'avrei rivista. 
Neanche venti metri dopo, ecco che mi richiamò. Ignorai anche la seconda e la terza chiamata. Fu così che decise di passare ai messaggi.

Considerata la sua insistenza, più asfissiante del normale, mi decisi a leggerli. Avrei voluto non averlo mai fatto.

"Mi vuoi rispondere?"

"Perché hai un cellulare se non lo usi quando serve?"

"Megan, allora?! Torna subito a casa."

"Ho sentito l'avvocato Finnston. L'udienza preliminare è stata fissata fra due settimane."

   
 
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