BREAK IT TO ME
“Dove sei stata?”
L’umidità le entrò dentro le ossa
insieme al tono concitato e rabbioso di
quella domanda gettata contro di lei senza alcun riguardo, senza il
minimo
tatto. C’erano accusa e biasimo, in quelle tre
parole uscite
dai denti e dalle labbra
strette, e un amaro senso di delusione che le perforò il
cranio. Lui era
deluso, ancora una
volta.
“Buonasera anche a te, Pietro.”
E lei si sentiva sopraffatta, sbagliata, inadeguata.
“Buonanotte vorrai dire. Buongiorno, in realtà,
visto che sono le due del
mattino. Adesso vuoi dirmi dove sei stata?”, le chiese,
bloccandole il
passaggio e incrociando le braccia davanti al petto.
Che cosa stupida da
fare. Loro vivevano in un piccolo appartamento dei
sobborghi di Sokovia, un luogo sporco in cui si rifugiavano come se
fossero dei topi di
fogna, degli scarafaggi, dei ragni. Non avevano mobili, solo
un
materasso che
condividevano entrambi, e le lenzuola erano usurate, le tubature
arrugginite, le
pareti ingrigite dalla muffa stantia. C’era una
finestrella
nel bagno, un buco
di luci e vetri rotti che avevano dovuto bloccare e coprire tramite dei
sacchetti
della spazzatura dopo che dei bambini disperati avevano cercato di
scassinarla. Avevano un tetto sopra la loro testa, se davvero quella cosa poteva
essere definita un tetto, eppure a loro sembrava di vivere ancora sotto
un
ponte: tra l’odore dell’urina degli altri sfollati
e le carte strappate dei
giornali locali. Dunque, davvero, c’era bisogno di
fermarla
in corridoio e di
ricordarle come fosse impossibile fuggire in quella gabbia marcia in
cui
facevano finta di avere una vita normale, una vita come tutti gli
altri? Perché
le sottraeva il suo spazio vitale e la subissava di domande? In fondo,
che cosa
interessava a lui dove lei trascorresse le ore della notte? Non era
forse libera
di farsi male nel modo in cui preferiva?
“Non sono affari tuoi”, gli rispose, la voce
graffiata dalla verità che avrebbe
voluto rivelargli e dalla certezza di non essere in grado di
farlo.
Pietro
dovette intuire -
sentire - il suo dolore, perché sciolse le
braccia e si
avvicinò di un passo a lei, alla sua postura rigida e alla
sua coda in parte
sciolta che le copriva metà viso.
Wanda indietreggiò e lui le passò una mano tra i
capelli, scovando il trucco
sbavato e gli occhi arrossati dal pianto.
“Sono stato in pensiero tutto il tempo. Non riesco mai a
dormire se non so che
tu stai bene e lo sapevo, sapevo benissimo, che qualcosa non andava.
Perché fai
così? Perché?”
Pietro era scosso, avvertendo sempre più in
profondità il malessere della
sorella gemella che si ripercuoteva all’interno delle sue
vene e che si
attorcigliava ai suoi nervi scoperti, e Wanda non resistette oltre e
intrecciò
le loro mani nella frenetica ricerca di un contatto umano. In
una
disperata
supplica di perdono e comprensione, di amore infinito e dolce
consolarsi. Era
sempre stato così tra di loro, potevano sentire le emozioni
l’uno dell’altra,
anche ad una notevole distanza fisica. Pareva strano, sembrava
soprannaturale e
oltre ogni spiegazione scientifica, ma i loro cuori erano capaci di
adattarsi e
confondere i battiti, di amalgamarsi in un’unica sensazione
che dilagava in
entrambi i corpi. Convivevano in uno stato perenne di sofferenza
condivisa,
rancore amplificato, senso di protezione indissolubile. A
volte si
ferivano senza
volerlo, a volte si salvavano senza comprendere appieno il modo in cui
lo
avevano fatto. Una cosa soltanto era certa, la più
importante: erano insieme e
erano legati nel sangue e nelle ossa. I loro muscoli erano
costantemente tesi a
cercare il proprio riflesso in un corpo a specchio, le loro mani si
cercavano in ogni
istante. Lei non lo avrebbe mai abbandonato, lui non la avrebbe mai
abbandonata. Nessuno dei due avrebbe mai accettato di vivere senza
l’altro.
Erano due persone diverse e allo stesso tempo erano un’unica
persona.
Come
potevano provare a spiegare al resto del mondo questo paradosso? Il
loro legame
era intimo,
totalizzante.
“Non volevo farti spaventare. So muovermi tra le strade di
Sokovia, dovresti
saperlo”, gli ricordò, rivestendo la menzogna con
una carta velina di verità.
“Ti hanno già fatto del male. E ti hanno fatto del
male anche stasera, vero? È
vero?”
Le strinse entrambi i palmi delle mani e la attirò in un
abbraccio di corde di
seta e lacrime amare. Continuò a legarla al suo
corpo, un
incastro di metà
speculari e simmetrie spezzate, mentre le permetteva di sfogarsi in
silenzio e
di nascondersi contro il suo collo. Avevano sempre fatto
così, fin da quando
erano bambini: lei posava il viso sotto il mento del fratello, chiudeva
gli occhi, e immaginava di diventare del tutto invisibile al male del
mondo che invece
sedeva comodo tra i nodi dei suoi capelli. Lui la consolava e la
abbracciava
stretta, trattenendo il respiro. Non erano mai cambiati, forse
perché la realtà
intorno a loro non aveva voluto migliorare. O forse perché
loro non erano
stati in grado di farlo.
“Non è successo nulla. Non è successo
nulla, stai esagerando”, mormorò lei
sulla sua pelle, con la voce impastata e sottile.
“Perché, dimmi, perché scompari sempre
da questo appartamento? Perché fuggi?
Non riesco a proteggerti in questo modo, non riesco a essere insieme a
te
quando tu puoi aver bisogno di aiuto.”
Il cielo era oscuro in quella stanza, nuvole nere che assomigliavano a
gomitoli
di lana calpestati e sfilacciati. Bagliori di luce non esistevano nella
loro
esistenza di orfani allevati nel dovere della vendetta, neanche
briciole di
serenità trovate grattando con le unghie il fondo di un
barile. Wanda aveva
Pietro, Pietro aveva Wanda. Non erano mai riusciti ad allargare il
cerchio
stretto che li univa, il filo di ricordi che collegava le loro tempie e
i loro
stomaci. E come avrebbero potuto? Non erano avvezzi
all’affetto altrui. Erano
più che altro dei randagi, dei vagabondi, abituati a suon di
legnate a non
meritare neppure un osso spezzato e sgranocchiato. Loro si aspettavano
soltanto
il peggio dalle altre persone, erano sempre pronti a ricevere schiaffi
in
faccia e calci in pancia, abituati talmente tanto
all’oppressione fisica e
mentale da non patire più, con la stessa
intensità, le antiche sofferenze
dell’infanzia e dell’adolescenza.
“Non fuggo da te, scappo da me stessa. Ho troppa
paura”, sussurrò, perdendo
scaglie di raziocinio nella sua debole confessione.
Tu vedresti la
realtà dei miei errori. Vedresti cosa sono disposta a fare
pur di smettere di pensare. Anche solo per un secondo.
Il mondo si aprì e il terreno tremò, scoppiando
intorno ai loro piedi che si
ritrovarono a volteggiare nell’aria, a calpestare un etereo
vuoto cosmico. Un
brivido alla nuca costrinse Wanda a sollevare lo sguardo e a cercare
gli occhi
di Pietro. Vetro e ghiaccio le sue orbite, la bocca aperta in una posa
innaturale, e i capelli sporchi di sabbia e polvere rossa.
No, Wanda. Non polvere
rossa, ma sangue rappreso in grumi attaccati alle
ciocche.
Tutto il suo petto grondava sangue, il suo corpo era martoriato,
l’addome
squarciato, le braccia immobili. Il suo sorriso rimaneva splendente,
bellissimo
e accecante persino nella fredda e insensibile morte.
“Io sono nato dodici minuti prima di te. Ricordi? Wanda, la mia Wanda. La
mia Wanda
dal broncio facile. Ricordi che sono io a dovermi prendere cura di te?
Non il
contrario. Non è mai stato il contrario.”
Le pareti si sgretolarono in pagliuzze di metallo, bottoni di ferro che
rotearono su assi asimmetrici e convergenti tutti in un unico punto
cieco. Verso il suo cuore che batteva forsennato, spaventato a
tal punto da
celarsi
sotto la sua lingua e da nascondersi dietro i suoi denti. Pietro
afferrò il cilindro dorato - un caldo e crudele proiettile
- e le
sorrise in maniera sfacciata.
“Questo ti era sfuggito, vero?”
*******
Gridò.
Si alzò a sedere, abbandonando delle dita che stringevano le
sue, e si mosse
frenetica tra le coperte sgualcite. Urlò e un carillon cadde
a terra,
interrompendo bruscamente una sottile melodia che tagliava
l’aria calda e
pesante. Sentì soltanto le vene del collo gonfiarsi e subito
dopo un sapore
acido riempirle la bocca. Mangiò tra i denti un suo pugno
chiuso, ma fu troppo lenta e scoordinata. Si
sporcò il mento, si ferì la pelle. Le
braccia
cominciarono a tremare in una
maniera incontrollabile, le gambe a non rispondere più ai
suoi pensieri e gli
occhi chiusi a mostrarle diapositive del suo ultimo
sogno. Del suo
ultimo
incubo estremamente crudele: Pietro non è più in
quell’appartamento, Pietro non
la sta aspettando più.
È morto
è morto è morto. Una cantilena nella
sua testa, poche sillabe contro
cui non poteva lottare - morto
morto morto - e di cui dimenticava il senso e la
ragione. Le lettere perdevano la loro forma, apparivano vuote
e
insapori,
giocavano con la sua lucidità opaca. Restava costante
soltanto una cosa: un
dolore ammorbante che le ricordava la realtà della sua
esistenza e della sua
condizione. Era l’unica sopravvissuta
alla strage della sua famiglia.
“Basta. Basta, Wanda.”
Le parole erano lontane, il mondo stesso si era ripiegato nella sua
mente e si
era chiuso tra le pareti della sua testa ciondolante. Tutto era buio e
il buio
era sceso fin dentro le sue ossa, trasformandola in un relitto umano da
gettare
in una stanza polverosa, in una casa diroccata di rovine e intonaco
bruciato.
Il cielo si era spento, spaccandosi in due, e poi era crollato sulla
terra
nelle sembianze di stelle cadenti e palloncini grigi e blu. Cosa
è allora il tempo? E dov'è lo spazio?
“Fermati. Adesso devi fermarti, Wanda, fermati. Fermati.”
Delle braccia bloccarono le sue, abbracciandole il corpo e trattenendo
il male
che le usciva dalle dita, colava dalle unghie e dai polsi chiari,
violacei.
Sbatté le palpebre e si ritrovò sdraiata,
rannicchiata in posizione fetale, il
cuore che continuava a battere nella testa e alla bocca dello stomaco
stretta
intorno a se stessa.
Lei tentò di sillabare qualcosa, schiuse le labbra e i suoi
capelli lunghi,
attaccati alla bocca, accrebbero la nausea che già provava.
Mosse piano i palmi e
delle mani fredde si legarono alle sue, stringendole con forza.
“Respira. Respira, avanti, respira bene.”
L’aria intorno a lei era impregnata di un odore di vecchia
tristezza, di un
sogno stanco che abbassava le ciglia e che cantilenava una fiaba
paurosa a
delle piccole noci spezzate in tanti gusci vuoti di schegge affilate.
Fango,
gocce di finta cera colate giù da un candelabro elettrico,
suole di scarpa
aperte e chiodate malamente: non aveva senso respirare la morte delle
sue
stesse cellule impazzite.
Perché avrebbe dovuto farlo?
“Respira. Segui il mio petto, respira.”
Non aveva senso continuare a vivere. No? Sì?
Perché vivere,
perché? Lei sciolse
ogni tensione che le legava i muscoli, la gola chiusa da corde di
freddo rame,
e sulla fronte avvertì un fastidio simile al ticchettare dei
becchi degli
uccellini a molla. Tossì e strinse i denti, inghiottendo
altro acido,
assaporando il veleno del suo corpo che la stava piegando e
sconfiggendo. Tossì
ancora e si morse la lingua. Lui non la lasciò mai andare e le
scostò i capelli sporchi
dal viso paonazzo.
“Respira insieme a me”, ripeté, e le
massaggiò le tempie in cerchi lenti,
attenti. E fu allora, forse. Qualcosa si ruppe e qualcosa si
spezzò. Qualcosa si
spezzò dentro di lei. Qualcosa si spezzò, ovunque, in lei. E
lo fece con la
stessa bellezza di una freccia rossa scagliata nel cuore di una statua
di
ghiaccio.
“Vis”, mormorò, e le altre parole
rimasero incastrate nei nodi delle sue vene.
‘Ma tu non
respiri, Vis. Tu non hai bisogno di respirare.’
Doveva essere al centro del suo sterno, qualcosa si era rotto
lì, proprio in
quel punto. Era caduto a terra con lo stesso rumore delle lastre di
ghiaccio
che crollano sugli specchi e si moltiplicano
all’infinito. Uno di quei pezzi doveva esserle stato rubato oppure il vento aveva voluto portarlo via con
sé. E così lei non lo avrebbe
mai più ritrovato.
“Segui il mio petto”, le ripeté,
inglobandola completamente nel suo abbraccio,
alla stregua di un cucchiaio. Fece aderire la sua schiena, scossa
ancora dai
singhiozzi e dai lamenti, al suo addome.
Le loro braccia erano strette
intorno
ai suoi fianchi, le loro mani intrecciate sulla sua pancia. Si sentì al
sicuro, si sentì
protetta, salvata dalla solitudine in cui i suoi incubi la
imprigionavano.
Fu un secondo, fu
l’eternità.
Vis stava respirando, lentamente, un po’ impacciato e con un
ritmo zoppicante.
Inspira, espira.
Inspira, e-espira.
I-inspira, espira.
Non si accorse del momento in cui iniziò anche lei a seguire
i suoi movimenti.
Prima dal naso, poi dalla bocca. Respirò piano, senza far
rumore alcuno, quasi
avesse paura di poter disturbare il sonno di un morto. Il sonno di
Pietro, il
sonno dei suoi genitori: placidi fantasmi che la osservavano ogni notte sulla soglia della sua nuova camera, della sua nuova casa. Eppure lei non aveva paura, perché
Visione era ovunque.
Tra i palmi scavati delle mani che una volta aveva fatto sanguinare,
martoriandoseli con le unghie. Sulla sua pancia che stringeva, senza
farle
male, placando i conati che strisciavano lungo il suo stomaco. Tra i suoi
capelli disordinati, sul suo orecchio sinistro, a cui sussurrava filastrocche e
ninne nanne. Lui era ovunque, anche nei centimetri di pelle che non
toccava, persino
dentro il suo corpo e nei suoi incubi che trasformava in sogni.
Le mormorava verità a cui lei si aggrappava disperatamente e che
temeva e riveriva come le ombre paventano e idolatrano i raggi del
Sole.
Pietro è con
te, Pietro rimarrà sempre con te, Pietro è nel
tuo cuore.
Ma il dolore pareva non voler finire mai.
Non voglio avere un
cuore, Vis. Non voglio. Altrimenti sarei innamorata di te.
Angolo Autrice.
Ciao a tutti! Eccoci di nuovo qui, io come sempre sono molto
emozionata. Da tantissimo tempo avevo in mente queste scene, mi hanno
poi talmente tanto tormentato che ho dovuto scrivere questa storia. Preciso che Wanda e Pietro nel sogno/ricordo non hanno ancora acquisito i loro poteri, per questo Pietro è tanto spaventato.
Spero davvero tanto che vi piaccia, io la considero una sorta di
prequel di "A Survivor": è stata svelata una delle famose
settantatrè notti che cito spesso nelle mie storie, una mia
totale invenzione personale.
E Pietro? Credo proprio che
tornerò presto a scrivere ancora di lui e di Wanda insieme.
Il titolo è una canzone dei Muse, la colonna sonora che mi
ha accompagnato in questa stesura. Che altro dire?
Ringrazio chi ha
voluto leggere questa storia in anteprima e chiunque mi
lascerà un suo parere in futuro. Tengo tantissimo a questi
tre personaggi, in una maniera molto particolare.
A presto!