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Autore: nattini1    18/04/2019    5 recensioni
“John si concesse un sorriso, non uno di quelli maliziosi che ancora riuscivano a far cadere ai suoi piedi quasi qualsiasi donna, ma uno di sincero orgoglio. Strinse a sé i bambini e, per un momento, si sentì soltanto un padre”. Una piccola fic in cui è Dean a prendersi cura del padre, che è stato ferito durante una caccia.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Jo, John Winchester, Sam Winchester
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questi personaggi non mi appartengono; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

 

Tateville, Kentucky

1988

 

 

 

 

L’infanzia del suo Dean aveva conosciuto una fine prematura quando non aveva ancora cinque anni e un demone gli aveva ucciso la mamma, la sua amata Mary. Non era riuscito a salvarla, ma avrebbe fatto di tutto per il suo figlio maggiore e per il piccolo Sammy. Non era riuscito a colmare del tutto la mancanza degli abbracci pieni di calore che erano abituati a ricevere e aveva sostituito le lievi carezze con un ruvido scompigliare di capelli. Si era lasciato alle spalle le familiari mura domestiche cercando sicurezza nell’abitacolo dell’Impala che guidava attraversando, Stato dopo Stato, tutta l’America. John aveva cercato di non far mai mancare ai piccoli abiti asciutti, cibo caldo e, soprattutto, la sua protezione: senza di lui chissà cosa sarebbe potuto capitare ai suoi figli! Ma non riusciva spesso a far sbocciare sulle labbra dei suoi bambini dei sorrisi spensierati.

Aveva cominciato a fare sempre più affidamento sul maggiore ora che aveva 10 anni, cercando di insegnargli tutto quanto pensava lo avrebbe aiutato a sopravvivere e il bambino gli aveva ubbidito sempre in tutto e per tutto, dimostrando una fiducia cieca, con tutta la serietà di cui era capace quel visetto spruzzato di lentiggini che aveva fissato troppo presto il nero che sta in fondo agli occhi di un demone e il rosso del sangue che schizza dalla carne lacerata dagli artigli di un wendigo.

Ma quando il cacciatore guardava nel profondo degli occhi verdi del suo piccolo Sammy, non trovava lo stesso manuale di risposte imparate a memoria, ma una raccolta, spesso dolorosa, di mute domande. Quel bambino di 6 anni gli avrebbe dato da fare crescendo, ne era certo, e questo lo preoccupava e lo rendeva orgoglioso al contempo; per il momento aveva cercato di non dirgli nulla di tutta quella merda sovrannaturale che affrontava ogni giorno, preferendo mascherare quello che facevano dicendogli che era un gioco. Per gioco spargevano il sale lungo i bordi delle finestre e disegnavano simboli ovunque; per gioco non dovevano rispondere al telefono se non quando arrivava uno squillo e poi subito dopo una nuova chiamata.

Un giorno John tornò a casa con un paio di polli. Sam gli corse incontro entusiasta, pregustando, per una volta, un pasto degno di questo nome. “Dean, vieni qui!” chiamò John.

Ubbidiente, il bambino lasciò immediatamente il videogame con cui stava giocando e raggiunse il padre. C’era un che di rigido nella sua postura, una tensione nei lineamenti del tutto inusuale per un volto fanciullesco, come se fosse un soldato in attesa di ricevere gli ordini e pronto a eseguirli, di qualunque natura fossero, gli piacessero o meno.

John fece un mezzo sorriso a Sam: “Ora io e Dean faremo un gioco, Sammy. Gli insegnerò a cucire. Tu intanto puoi guardare la tv”. Seguì con lo sguardo il piccolo Sam che, un po’ deluso e con una punta di gelosia per quel momento che suo padre e suo fratello avrebbero condiviso senza di lui, andò a sedersi sul divano. Praticò dei tagli sui polli e disse a Dean di stare attento mentre gli spiegava come doveva rimetterne insieme la pelle. Mentre guardava il figlio concentrarsi, ogni tanto con la coda dell’occhio scorgeva Sam reagire quando coglieva qualche frase di incoraggiamento a voce troppo alta : “Forza, mettici un po’ di grinta, è una cosa importante!” o qualche parola di rimprovero: “Attento! Ti ho detto di tenere l’ago di lato perché la curva interna è affilata!”. Dean continuò ad applicarsi ossessivamente, perché era quello che faceva un bravo figlio. Un’ora e mezza dopo, Dean raggiunse Sam sul divano con vari cerotti a ricoprire le dita, ma con un’espressione soddisfatta. Mentre John metteva in forno il pollo (sarebbe stato uno spreco non consumarlo), si rese conto che Dean si era accontentato di un cenno di approvazione, non gli aveva chiesto se era stato bravo: sapeva che da lui ci si aspettava che fosse in grado di fare tutto quello che il padre chiedeva, nulla di meno, era il suo dovere. Un sottile senso di colpa sfiorò il cuore di John, ma si disse per l’ennesima volta che lo faceva per loro.

Qualche tempo dopo, John li lasciò soli quasi due giorni; tornò all’alba e aveva un’andatura innaturale, teneva la spalla sinistra più bassa dell’altra e sembrava sofferente. Quando si tolse la giacca e la camicia intrise di sangue, i bambini videro che aveva un lungo, profondo solco rosso sulla schiena. Sam si lasciò sfuggire qualche lacrima che John asciugò con la mano callosa: “Non preoccuparti piccolo, non è nulla!”. Poi si rivolse a Dean: “Ricordi quello che ti ho insegnato con il pollo?”. Dean fece segno di sì e corse a prendere l’occorrente: delle garze, un ago curvo, del filo e una pinza.

“Giochi a cucire papà?” gli domandò Sam.

“Proprio così, Sammy” rispose Dean sforzandosi di sorridere.

John si sedette su una sedia girandosi al contrario, appoggiandosi allo schienale coi gomiti e trangugiò un po’ di whisky; molto meno di quanto avrebbe voluto perché aveva la necessità di restare lucido per guidare Dean. Imprecò mentalmente contro Dio, pur non essendo affatto sicuro che esistesse, un grido disperato che si levava in quella situazione grottesca in cui doveva chiedere al suo bambino di occuparsi di lui.

Versò un po’ del liquido ambrato su una garza e la diede al figlio: “Pulisci la ferita”.

Dean eseguì.

John bevve un altro sorso nella speranza di allontanare un po’ il dolore: “Ora fa entrare l’ago perpendicolarmente alla pelle da un lembo e poi fallo uscire dall’altro”.

Dean ce la mise tutta, ma la pelle di suo padre era molto più spessa e dura di quella del pollo.

“Spingi forte” lo incoraggiò John. Non avrebbe voluto che la voce gli uscisse quasi in un ringhio, ma quella punta acuminata nella carne bruciava dannatamente. Non si capacitava di quanto dolore stesse sentendo, ne aveva passate di peggiori; ma più che la punta dell’ago, gli faceva male dover chiedere al suo bambino di toccare con mano, letteralmente, i segni che quella vita gli lasciava addosso.

“Adesso tira in fuori la pelle dell'altro margine con le dita e fai passare l'ago anche lì, in modo che il buco sia alla stessa altezza dell'altro che hai fatto” spiegò il padre.

Dean infilò le dita nella ferita e, sentendo il lembo di pelle ricoperto da sangue viscoso scivolargli via, strinse la presa. John sentì un rivolo caldo scorrere lungo la schiena e immaginò le mani del suo bambino sporcate dal sangue; ma era lui a sentirsi sporco: stava permettendo che quell’innocente fosse segnato, macchiato da un destino terribile.

John deglutì ancora un sorso di whisky, lasciando che il piatto della bilancia tra la sua lucidità mentale e l’oblio pendesse a favore di quest’ultimo: “Tira il filo in modo che resti fuori un pezzetto. Fatto?”.

“Sì” la voce di Dean era tremante a dispetto delle sue mani che, invece, erano state ferme e precise.

Rinunciò a bere ancora, consapevole che non poteva lasciarsi andare: “Prendi la pinza con la mano destra e arrotola con la mano sinistra due volte il filo più lungo attorno alla pinza, tenendolo teso. Poi con la punta della pinza prendi il filo corto e tira la pinza indietro. Stringi il nodo tirando i due capi del filo in direzione opposta nel verso della ferita”.

Dean eseguì e i fili si annodarono, mentre una scarica di dolore scorreva lungo la schiena di John, facendogli artigliare il legno della sedia tanto forte da far sbiancare le nocche.

“Papà, ti fa male?” chiese Sammy che era rimasto tutto il tempo accanto a lui.

“No, Sammy, non fa male, te l’ho detto: è un gioco” rispose lui.

Si concesse un altro sorso, poi continuò: “Dean, arrotola ancora il filo, ma stavolta nel senso opposto a come l'hai fatto prima e fai un altro nodo”. Stavolta quando Dean tirò il filo si impose di non mostrare alcuna reazione.

“Prendi i fili, tirali e poi tagliali” ordinò infine stancamente.

Quindici punti più tardi, quando vedeva il fondo della bottiglia, John si lasciò scivolare sul pavimento.

Poco prima del tramonto, riaprì gli occhi sulla stanza immersa in un chiaroscuro in cui la luce penetrava la tenebra, ma anche la tenebra avvolgeva la luce. Si avvide che aveva una coperta stesa addosso. I bambini gli si avvicinarono, sollevati che fosse sveglio.

Sam gli tese qualcosa, un po’ timidamente, ma speranzoso. John si tirò su ignorando il dolore alla schiena, i punti che tiravano e bruciavano, lo prese e se lo rigirò tra le mani. Erano due cuori di cartoncino; lungo il bordo erano stati praticati dei buchi e poi erano stati cuciti insieme con uno spago; sul davanti spiccava una scritta, vergata da una mano ancora incerta: “Papà”.

“Dean mi ha insegnato questo gioco quando dormivi!” spiegò Sam timidamente.

John si concesse un sorriso, non uno di quelli maliziosi che ancora riuscivano a far cadere ai suoi piedi quasi qualsiasi donna, ma uno di sincero orgoglio. Strinse a sé i bambini e, per un momento, si sentì soltanto un padre.




 

 

 

NdA

 

Ciao a tutti!

Ho passato una mezz’ora su Youtube a imparare come si fanno le suture semplici e poi ho provato a farle fare ai miei bambini (su della stoffa, anche se mia figlia avrebbe voluto provare sul suo papà!), perché tutto risultasse il più verosimile possibile.

Questa storia è stata scritta per l’Easter Calendar del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart.

Grazie a chi legge e a chi mi lascia un pensiero!

   
 
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