Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: kyuukai    18/04/2019    2 recensioni
["Compiti a casa": Jotaro/Kakyoin + Fantascientifico + CyborgAU]
I cyborg non possono provare sentimenti.
Genere: Angst, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jotaro Kujo, Noriaki Kakyoin
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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N.d.V: Tempo addietro, EuphemiaMorrigan ed io ci siamo scambiate dei prompt legati a personaggi per stimolarci nuove idee nella scrittura. Un po' come dei compiti a casa. Per questa storia, erano:

Jotaro/Kakyoin + Fantascientifico + Android!AU. I robot non provano sentimenti.

[Ammessi: tutti i generi, anche parodia]. NO altri personaggi.


Non ho rispettato totalmente le sue direttive iniziali, finendo per optare per una Cyborg!AU, ma ho fatto del mio meglio, ed in retrospettiva, trovato l'esperimento molto interessante.
Con calma e per piacere pubblicherò quelle meno peggio, magari sotto forma di serie di oneshot.
Scritta mentre ascoltavo “Shimmer”, di Notaker, da cui ha preso il titolo.

 

Luccichio

 

Da piccolo a Jotaro avevano ripetuto più volte di non giocare con le bambole.

Non stava bene, a parer loro, che un maschietto cambi loro il vestito, pettini con cura i capelli, le muova a suo piacimento.

Da adulto, altrettanti avevano provato a fermarlo, dirgli che era dannoso per la salute mentale.

L'ex moglie gli aveva urlato, dalla porta dello studio in cui si chiudeva, che era pazzo a rincorrere una tale utopia. Che non aveva senso amare ciò che non era vivo, se aveva già una famiglia che lo voleva.

Aveva sentito i singhiozzi di Jolyne oltre le mura sottili, divenuti col tempo e la crescita frecciatine in disperata ricerca di attenzione.

Ennesimi macigni ad accrescere il senso di colpa.

Come ogni giorno si era svegliato chiudendo questi ricordi nel cuore, si era diretto in bagno. Aveva infilato il cappotto fresco di lavanderia, ed una volta finita la colazione, aveva chiuso il monolocale dove viveva da qualche tempo.

Aveva impiegato ventitré minuti ad arrivare allo stabilimento della Fondazione, salutato la receptionist con un cenno del capo, e sceso nei laboratori.

Osservato nervosamente le lancette dell'orologio. Attraversare il corridoio libero e passato la carta magnetica davanti al rilevatore.

La luce nella stanza, ampia e dall'odore di pulizia chimica, era soffusa.

Lui era seduto sulla piattaforma al centro, rigido come una statua, le mani sulle ginocchia ed il capo chinato, il ciuffo scompigliato a coprire parte del viso algido.

Sicuramente in standby, per evitare di sprecare energie.

Era una nuova tecnologia che lo animava, fragile quanto le poche ossa rimaste intatte dopo lo scontro con Dio.

Jotaro si piegò, abbassandosi al suo livello. Percorse con le dita callose la pelle fino alla mascella in tensione.

Persino in una simulazione di riposo non riusciva a rilassarsi.

Il contatto lo fece ridestare con lentezza, ed attivare i sensori di movimento, regalando alla camera più chiarezza dai led sulle loro teste, dando una parvenza plastica ai riflessi che scivolavano lungo la chioma dell'uomo.

Lo scintillio sviluppatosi negli occhi ametista trasmetteva troppo per essere associato a qualcosa di artificiale.

Erano pungenti, quasi quanto il tono con cui si rivolse a lui.

“È di nuovo ora di giocare?”.

Jotaro sbuffò insofferente mentre lo vedeva alzarsi e raggiungere il materasso con passi cadenzati, seguito dal ronzio degli impulsi elettrici che gli rendevano possibile il passaggio dell'ordine dal cervello alle membra fragili.

Aspettò che prendesse posto prima di sedersi al suo fianco, una riga pronunciata a segnare la fronte.

“Come ti senti?”.

“I robot non provano né sentimenti né dolore fisico” disse meccanicamente, seguendolo mentre si piegava a controllare la cartellina clinica. Fece schioccare la lingua, e per richiamare la sua attenzione, lo tirò per i lembi della giacca scura.

“Non sei troppo vecchio per intrattenerti con certi balocchi?”.

Il moro lo fissò, intensamente per quanto potesse dargli fastidio, ma lo fece con concentrazione, scandagliando il fisico asciutto avvolto da sostegni in fibra di carbonio, visibili dalle maniche della divisa.

Era rigido, freddo ed orgoglioso, al punto di rischiare di decedere per mano di un mostro che avrebbe ricordato in eterno.

I segni della sua follia impressi nella pelle dell'uomo seduto accanto a lui.

Si fissarono in silenzio per secondi, indecifrabili ed a tratti con severità.

L'espressione era identica a quella della moglie, della figlia e di qualunque persona.

Kakyoin era troppo onesto e giusto per fornirgli una bugia e nutrire il suo desiderio torbido di poter vivere una vita spezzata a questo modo.

Lo avevo esortato tante volte a cercarne una vera al di fuori di quelle mura. Aveva tentato, più per lui che per obbligo sociale, finendo col rovinare ancora più esistenze col suo tocco, che tutto distruggeva e niente riparava.

Nonostante la prospettiva diversa in cui era rimasto invischiato, continuava a rincorrere un uomo immobile, pieno di ferro, il cui cuore si era fermato vent'anni prima, inchiodato ad una cisterna d'acqua in Egitto.

Ripeteva gli stessi errori, agognando la sua compagnia più di chiunque altro, perché niente lo faceva sentire più sollevato ed in pace con se stesso, se non nel sentire i voli pindarici dei suoi discorsi mai noiosi, i lamenti soffocati per via dell'orgoglio quando si affaticava, il taglio della bocca larga quando diceva cose disdicevoli in sua compagnia.

Un giorno avrebbe sistemato tutto, avrebbe rammendato il rapporto con la donna che aveva sposato anni prima, ed avrebbe lasciato a Jolyne un futuro libero dalla maledizione che pulsava contro la sua spalla.

Lo doveva a tutti. In quel momento però desiderava, egoisticamente, che qualcosa facesse scoccare in lui la miccia e tirare avanti abbastanza per vedere realizzato tutto questo.

Riaprì le palpebre pesanti, e senza rivolgergli parola di sporse verso il comodino, per prendere gli orecchini a forma di ciliegia ed assicurarli con delicatezza ai lobi.

Gli faceva uno strano effetto guardarlo senza le grosse perle rosse ondeggiare assieme ai movimenti del capo.

Qualcosa a quel gesto fece brillare di rimando le ciglia sottili di Kakyoin sotto la luce, distese i tratti taglienti.

Tossì una risata bassa.

“Bentornato”.

Jotaro sospirò nel sentire le mani sovrapporsi alla sua maglia, regalandogli tepore “Ti va di fare due passi?”.

“Portare un giocattolo con te di fuori? Non ti facevo così perverso, dottor Kujo” scherzò alacre Noriaki.

Non voleva obiettare, capì che era meglio non tediarlo, si impegnò a non mostrare nessun segno di compassione, o non l'avrebbe passata liscia. Decise allora di afferrare il pettine, e lo vide tentennare.

“Sul serio?”.

Jotaro stirò le labbra in un mezzo sorriso davanti quella espressione esasperata, e cominciò a passarlo lentamente sui capelli. Erano cresciuti tanto, cadendo dritti lungo la schiena, col tempo e le varie cure avevano perso vitalità e colore, conservando solo una leggera sfumatura del cremisi originario.

Per un attimo sentì la voglia di intrecciarli, come Jolyne da piccina gli aveva insegnato a fare.

Le mani tentennarono per un secondo, prima di riprendere, sotto lo sguardo attento dell'uomo.

Si era rilassato e smesso di lamentarsi, rimase in silenzio a studiarlo da oltre la spalla, come fosse un libro aperto.

Jotaro ormai non aveva più timore a mostrarsi, e lo lasciò leggere quello che desiderava.

Quando finì accavallò le gambe, con un movimento calcolato ed elegante.

“Andiamo, prima che mi passi la voglia”.

“Fatti cambiare” mormorò, aprendogli la zip della maglia. Kakyoin alzò gli occhi al soffitto, sospirando con mal celato affetto.

“Chi l'avrebbe mai detto che saresti diventato così deplorevole, a quarant'anni”.

Rimaneva comunque lieto che a questo essere per metà artificiale il cuore battesse ancora ritmico sotto la cassa toracica, e le palpebre si chiudessero ad intervalli regolari sugli occhi lontani dall'essere vitrei, tornando a mostrare quanta energia era ancora capace di animarlo, dopo essersi fatto svestire.

Le mani raggiunsero con lentezza la forma della sua mascella, carezzandola.

“Ti sei tagliato facendo la barba stamattina”.

“La tua messa in scena non funziona, se parli” lo riprese, contento che la provocazione gonfiasse il suo petto e vederlo piegare le labbra sottili, trattenendo un sorriso.

“Mi hai sempre surclassato, nel riuscire a mentire a te stesso. Dovresti insegnarmi a farlo, per parere più convincente”.

“Tenta pure” mormorò sagace, imprimendo la forma della sua bocca contro la linea del collo pallido, che piano ed inesorabile cominciava a colorirsi di qualcosa che, i robot, ancora non sapevano replicare.

Dopo tentò di alzarsi, afferrare i manubri della carrozzella ed invitarlo a prendere posto, ma non vi riuscì.

L'espressione sul viso di Kakyoin era diventata malinconica, tutto ad un tratto, ed aveva scosso il capo, alzando di un tanto le braccia di porcellana.

“Prima di uscire, vieni a giocare con me” lo sentì mormorare piano. Non seppe dirgli di no, e si lasciò avvolgere dal suo abbraccio rigido mentre lo stomaco perdeva sensibilità.

Cadde nuovamente in basso, più di quanto si fosse spinto in quegli anni, a carezzare i muscoli vibranti e sottili dell'addome dell'altro, intrappolarlo sotto di sé senza gravare sul fisico debilitato.

Non si privò del piacere di sentire l'alternanza del caldo delle membra, né gli angoli glaciali dei sostegni lungo le gambe snelle.
Ringraziò per ogni suono che lasciava le labbra calde, invitanti, verso il suo orecchio, che li traduceva in meravigliosi impulsi di primordiale gioia.

Che Noriaki gli donava senza affanno, a tal punto di negare con tutte le forze l'amarezza in fondo al cuore ogni volta che andava a trovarlo, ed accoglierlo volentieri in quella casa delle bambole.

  
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