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Autore: Jo The Strange    20/04/2019    5 recensioni
Columbine High School, 20 Aprile 1999.
Quando due ragazzi che ritenevi essere semplici adolescenti compiono un vero e proprio massacro, non ci sono domande a cui dare una risposta. L'unica cosa che importa è sopravvivere. Quattro storie di ragazzi che, in un modo o nell'altro, hanno vissuto quell'inferno, alcuni uscendone incolumi, altri no.
La storia tratta di tematiche delicate e fa riferimento ad eventi realmente accaduti. Non ha assolutamente lo scopo di essere offensiva o turbare chi legge.
In memoria di tutte le vittime,
Jenny
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Brian May, Freddie Mercury, John Deacon, Roger Taylor
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Bring 'em back... Don't take 'em away from me

Ore 11:11 -11:14

Non appena la campanella suonò, Roger schizzò in piedi dal suo banco e si diresse a grandi falcate verso il parcheggio posteriore. Dopo la verifica sulla filosofia cinese di quella mattina e l’ultima pallosissima lezione di scrittura creativa, aveva proprio bisogno di fumarsi una sigaretta.

Raggiunse la sua destinazione in pochi minuti e iniziò a fumare, appoggiandosi con la schiena al muro portante dell’edificio, quello vicino alla porta d’ingresso.

Roger osservò il paesaggio circostante, il vecchio parcheggio perennemente pieno di macchine gibollate di seconda mano, le uniche che gli studenti da poco maggiorenni potevano permettersi. Non era un grande spettacolo, tuttavia, in un certo senso, tutte quelle automobili gli tenevano compagnia, quando usciva per sgranchirsi le gambe e fumarsi un paio di sigarette.

Era ancora assorto nei suoi pensieri, quando si accorse che una macchina scura a lui famigliare stava parcheggiando proprio in quel momento. Era l’auto di Eric Harris, uno dei suoi migliori amici.

“Bello saltare le verifiche in questo modo” pensò Roger “Adesso mi sente”

Il biondino vide Eric aprire il bagagliaio della sua auto e infilarsi qualcosa nelle tasche dell’impermeabile nero che indossava ma non riuscì a capire di cosa si trattasse.

-Ehi, stronzo! – lo salutò Roger, bonariamente.

-Figlio di puttana Taylor – apostrofò Eric, sorridendo. Anche se si insultavano dall’inizio alla sera, erano molto amici.

-Ma che cazzo hai nella testa?! – domandò il biondo, notando la nonchalance dell’amico -Non c’eri questa mattina, alla terza ora. Hai saltato la verifica! –

Eric lo fissò con uno sguardo glaciale, uno sguardo che Roger si sarebbe sognato per parecchie notti, negli anni a seguire: -Non ha più importanza-

Il biondino sollevò un sopracciglio con aria interrogativa. Perché Eric si comportava così da cazzone? Di solito era lui, fra i due, quello più fissato con i voti alti.

-Taylor, ora mi stai simpatico – riprese Eric, con la stessa calma disarmante di poco prima -Va’ via di qui. Vattene a casa –

Roger fissò l’amico ritornare verso la sua auto, non degnandolo più di uno sguardo. Le sue parole gli parvero parecchio strane in quel momento, quasi come una minaccia. Qualcosa, dentro di sé, lo convinse a prendere la sua auto e ad andarsene seriamente a casa.

Osservò Eric risalire sulla sua auto e sfrecciare verso il parcheggio nord, forse alla ricerca di un posteggio migliore. Senza pensarci più di tanto, il biondino prese le sue cose e si incamminò lontano dalla Columbine, accendendosi una seconda sigaretta.

Non aveva la minima idea di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.



Ore 11:22 – 11:28

Quella mattina, il professor May era di turno per la sorveglianza della mensa nell’ora di punta. Non era raro che i ragazzi ne combinassero di tutti i colori con cibo e bevande, perciò, il semestre precedente, la preside aveva obbligato gli insegnanti a fare dei turni di ronda in mensa e nei corridoi, giusto per controllare che non ci fossero risse o quant’altro.

Stava addentando un panino al burro d’arachidi diligentemente preparato dalla sua dolce Chrissie, quando un violento boato e dei colpi inconfondibili non lo fecero sussultare. Corse immediatamente alla finestra, sentendo di nuovo quelli che parevano a tutti gli effetti dei colpi d’arma da fuoco.

-Sarà qualche diplomando che vuole fare uno scherzo idiota – disse uno studente, alzando le spalle, per niente preoccupato.

Ma Brian May aveva abbastanza anni per saper riconoscere dei colpi di pistola, quando li sentiva.

-Neil, devi venire subito a scuola – biascicò al suo walkie talkie, contattando l’agente di polizia più vicino.

Cercando di non farsi prendere dal panico, il professor May si arrampicò su un tavolo, richiamando l’attenzione di tutti gli studenti presenti in mensa: -Ascoltate tutti. Credo che ci sia qualcuno che sta sparando, qui fuori. Silenzio!  Voglio che usciate tutti d questa parte – disse, indicando il portone principale della mensa -Non uscite dal parcheggio! –

Brian era livido dalla paura: in quella scuola c’erano centinaia di studenti inermi, mentre, all’esterno, un pazzoide megalomane si stava divertendo a sparare colpi di pistola a casaccio. Non poteva restarsene con le mani in mano, attendendo che Neil Gardner e gli altri agenti della polizia intervenissero, doveva agire anche lui.

Preso da una scarica di adrenalina, il professor May iniziò a correre per i corridoi, chiudendo a chiave nelle aule quanti più studenti possibili. Doveva salvarli, non poteva lasciarne indietro nemmeno uno.

-Zitti, state buoni- disse, entrando in un’aula di musica, dove erano nascosti una ventina di studenti terrorizzati -Anche se passano di qui, restate sotto ai banchi. Chiudo a chiave la porta, così  non dovrebbero riuscire ad entrare –

Brian corse di aula in aula per quelle che gli parvero ore, fino a quando, nel corridoio principale del secondo piano, non se li ritrovò davanti: erano due ragazzi con indosso degli impermeabili neri, armati fino ai denti e un’espressione di puro sadismo stampata sul volto.

Ebbe a malapena il tempo di guardarli in faccia, quando tre proiettili lo raggiunsero alle spalle e al collo. Si accasciò a terra, fingendosi morto, quasi svenuto per il dolore. Vide i due attentatori passare oltre, con un ghigno soddisfatto, alla ricerca di nuove vite da stroncare.

Brian attese che se ne fossero andati, dopodiché, con le poche forze che gli erano rimaste, si trascinò nell’aula più vicina, un laboratorio di scienze. Si lasciò cadere a terra, cercando di rimanere sveglio, sicuro che se avesse chiuso gli occhi sarebbe morto.

Rimase in quello stato di semi coscienza per qualche minuto, fino a quando non vide arrivare la professoressa Miller in compagnia di uno studente.

-Professor May, va tutto bene? – domandò il ragazzino, avvicinandosi a lui -Mi chiamo Aaron Hansey, sono qui per aiutarla –

In quel momento, quel ragazzino con un’orribile camicia rosa gli parve un angelo mandato dal cielo.

-Adesso arriveranno i soccorsi, nel frattempo, rimanga con noi – disse il giovane, cercando di farlo girare in posizione supina.

“Facile per te, ragazzo. Non sei di certo tu ad avere tre proiettili piantati nel torace”

La professoressa Miller iniziò a trafficare con qualche laccio emostatico, cercando di bloccare il flusso del sangue, mentre il giovanotto gli estrasse dal portafoglio una serie di fotografie della sua famiglia.

-Professor May, li riconosce? – domandò Aaron, sollevandogli leggermente il capo – Sono i suoi famigliari –

Brian capì immediatamente il gioco del ragazzo: voleva cercare di distrarlo dal dolore e, nel contempo, tenerlo sveglio, mentre la professoressa Miller continuava a praticargli il primo soccorso, in attesa dell’arrivo dell’ambulanza.

-Questa, professor May, è sua moglie – riprese il giovane Aaron -Si chiama Chrissie, non è vero? Devo ammettere che è proprio fortunato, sembra una persona meravigliosa –

“Perché lo è. È la donna più bella, più dolce e più in gamba che io abbia mai conosciuto” Brian riuscì solo a pensarle, queste parole. La sua bocca era secca e proferire qualunque tipo di suono gli costava un’enorme fatica.

-Questi, invece, devono essere i suoi figli- continuò il ragazzo -Sono ancora piccoli, miseriaccia. Deve rimanere sveglio per loro, ha capito? Dovrà raccontare loro di come il papà sia riuscito a salvare tanti studenti da due ragazzi cattivi che volevano far loro del male –

Le parole di Aaron arrivavano all’orecchio di Brian sempre più confuse e sempre più lontane. Stava morendo, lo sapeva bene. Probabilmente, uno di quei due pazzi doveva avergli centrato una vena importante o qualche cosa simile, visto tutto il sangue che era riverso sul pavimento.

Ripensò immediatamente alla sua Chrissie, la quale, quella mattina, gli aveva raccomandato di non sbrodolarsi con i suoi panini al burro di arachidi e, soprattutto, di non fare tardi la sera. Lui, come sempre, aveva risposto con uno sbuffo ironico, la aveva afferrata per i fianchi e la aveva baciata appassionatamente, pochi istanti prima di salutare i suoi pargoletti, diretti a scuola e all’asilo.

“Mi dispiace, tesoro. Temo che questa sera non riuscirò ad essere a casa per cena… “

Aveva ancora ben in mente l’immagine di Chrissie e dei suoi bambini quando Brian May chiuse gli occhi per sempre in questo mondo. Erano le 11:28 e un sorriso beato era dipinto sul suo volto.



Ore 11:29 – 11:34

Freddie Bulsara conosceva bene la professoressa Nielson. Era l’insegnante di arte più gentile che avesse mai avuto, nei suoi quattro anni alla Columbine. Si stupì parecchio nel vederla arrivare in biblioteca trafelatissima, la spalla destra imbrattata di sangue.

-Tutti sotto i banchi! – gridò -Ci sono dei ragazzi armati là fuori! Svelti, tutti giù! –

Freddie osservò le facce confuse di Craig e Matthew e, insieme, decisero di nascondersi sotto un tavolo.

-Che cazzo succede? – domandò Craig, sottovoce.

I due amici scossero la testa, pochi secondi prima di sentire dei pesanti passi rimbombare per tutta la biblioteca.

-Tutti quelli con il cappellino bianco, in piedi! – sbraitò una voce roca, una voce che sia Freddie che i suoi compari conoscevano molto bene.

Matthew si voltò verso Craig e Freddie con aria sgomenta: -Non è possibile… -

In quel momento, il giovane Bulsara realizzò che ci fosse un’alta percentuale per lui di non sopravvivere a quella sparatoria. Dopo tutto quello che lui, Craig, Matthew e tutti gli altri “atleti” vevano fatto passare a Dylan ed Eric in quei quattro anni, era piuttosto sicuro che non ci avrebbero pensato due volta a piantare loro un proiettile in fronte.

-Siamo nella merda fino al collo – biascicò Freddie, rifugiandosi il più possibile sotto al tavolo.

Vedendo che nessuno osava uscire allo scoperto, Eric perse la pazienza: -Va bene, io sparo comunque –

Per i due minuti successivi, gli unici suoni che arrivarono alle orecchie di Freddie furono colpi di fucile, di pistola e lamenti. Era una scena terrificante. Sentiva alcune ragazze pregare, mentre Eric  e Dylan le sfottevano per la  loro insulsa fede. Alcuni ragazzi che si erano sempre spacciati per forti e coraggiosi, ora erano rannicchiati sotto i tavoli della biblioteca, piangendo disperati e supplicando i due assassini di non ucciderli.

Non appena vide un paio di pesanti stivali di pelle nera avvicinarsi al suo nascondiglio, Freddie iniziò a sudare freddo. Dylan Klebold era a pochi centimetri da lui ed era armato fino ai denti.

“Oh mio, Dio. Oh, mio Dio”

Dylan si abbassò con una lentezza quasi disarmante, fissando Freddie e i suoi amici con uno sguardo glaciale e pieno d’odio.

-Reb, vieni qui! – gridò ad Eric, apostrofandolo con quell’assurdo soprannome.

Il ragazzo dai capelli castani raggiunse subito Dylan, lasciando in pace una povera ragazza nascosta dietro ad una sedia, nell’angolo computer.

-Ma guarda un po’ chi abbiamo qui… - cominciò Eric, sghignazzando -Freddie “il paki” Bulsara e quelle teste di cazzo dei suoi amichetti –

Dylan rise di gusto: -Oh, Reb, vuoi dire Freddie “frocetto” Bulsara e i suoi scopamici del cuore? –

-Proprio loro, Dylan - Eric si accovacciò sulle gambe, lanciando un’occhiata assassina al ragazzo parsi -Vogliamo cominciare con te? –

Senza aggiungere altro, il giovane killer afferrò Freddie per una gamba e iniziò a strattonarlo, cercando di trascinarlo fuori dal suo nascondiglio. Lui i si dimenò con tutte le sue forze, aggrappandosi  alle gambe del tavolo, pur di non andare incontro al suo destino.

“Non voglio morire”

Freddie si dimenò talmente tanto che fu necessario anche l’intervento di Dylan, più alto e muscoloso rispetto ad Eric, per trascinarlo fuori.  Quando si ritrovò alla mercè dei due aguzzini, capì che per lui era finita. Lo avrebbero ucciso sicuramente.

-Chi è la mezza sega, adesso? – domandò Dylan, girandogli intorno come un avvoltoio.

-Voglio solo rivedere mia madre – biascicò Freddie, iniziando a piagnucolare. Era terrorizzato, la morte gli era sempre sembrato qualcosa di così lontana,
mentre ora se la stava ritrovando in faccia e lo chiamava.

-E la rivedrai – sussurrò Eric, puntandogli una pistola al petto -Al tuo funerale-

Risuonarono due colpi.

Freddie non riuscì nemmeno a vedere il suo amico Matthew stramazzare a terra morto, mezzo secondo dopo di lui.


Ore 11:37 – 11:40

Erano oramai passati quasi dieci minuti da quando Eric e Dylan avevano iniziato quell’assurda sparatoria in biblioteca e John era sull’orlo di una crisi di nervi. Ovunque rimbombavano colpi di arma da fuoco e, pochi tavoli più in là rispetto a dove era seduto, era possibile vedere chiazze scure di sangue dipanarsi sul pavimento.

Era uno spettacolo raccapricciante.

Aveva visto chiaramente Dylan ed Eric sparare a ragazzi innocenti, non solo a quei bulletti che li avevano trattati di merda negli ultimi quattro anni, perciò John ipotizzò che la sua amicizia con Dylan non lo avrebbe aiutato a portare a casa la pelle.

Non riusciva a capacitarsi di come un ragazzo simpatico e gentile come Dylan si fosse lasciato trascinare dalla follia omicida di quello squilibrato di Eric Harris. Lui era sempre stato un ragazzo pacifico, forse un po’ introverso e solitario, ma mai sadico o violento. Era proprio vero che alcune amicizie sbagliate potevano traviare chiunque…

Era ancora assorto nei suoi ragionamenti, quando John si accorse che Eric era a due passi dai suoi piedi e che teneva il fucile a canna mozza puntato contro di lui.

-Chi c’è lì sotto? – gridò Eric, in tono ordinatorio -Identificati! –

-Sono John… - pigolò il ragazzo, paralizzato dalla paura.

Dylan emerse alle spalle di Eric, osservando il povero ragazzo sotto al tavolo, tremante per la paura: -John Deacon? –

John annuì, notando un’espressione atona sul viso dell’amico: -Dylan, ma che stai facendo? –

Il biondino alzò le spalle, caricandosi il fucile sulla spalla destra: -Sto uccidendo persone –

A quelle parole, John sentì la pelle accapponarsi e il sangue gelarsi nelle vene. Era inquietante osservare  con quanta calma e indifferenza Dylan pronunciò quelle parole.

-Mi ucciderai? – biascicò John, incapace di muovere un muscolo.

L’allarme antincendio sovrastò la sua flebile voce e Dylan non riuscì a sentire niente: -Come? –

-Mi ucciderai? –

Dylan lanciò uno sguardo ad Eric, il quale gli rispose con un’alzata di spalle: -No, ma prendi la tua roba ed esci da qui –

John rimase pietrificato: non riusciva a capire se il suo amico fosse serio o se stesse semplicemente cercando una scusa per farlo uscire allo scoperto per poi freddarlo sul colpo.

-Scappa! – ribadì Dylan, notando che il ragazzo se ne stava impalato come uno stoccafisso -Maledizione, John! Scappa! –

John non se lo fece ripetere e, afferrato il suo zaino, si fiondò fuori dalla biblioteca, sotto gli sguardi terrorizzati dei suoi compagni. Corse a perdifiato fino all’ingresso principale, terrorizzato dall’idea che Eric e Dylan potessero aver cambiato idea e sparargli dritto nella schiena.

Fu accolto da una squadra specializzata della SWAT e da una miriade di paramedici, i quali iniziarono a domandargli insistentemente se fosse ferito. John si accasciò sul lettino di un’ambulanza, l’adrenalina ancora in corpo.

Era salvo.

Anche se aveva deciso di sterminare tutti gli studenti della Columbine, John Deacon fu grato a Dylan Klebold per avergli sparmiato la vita.



Spazio Autrice:
Buongiorno a tutti, carissimi lettori.
Era da tempo che avevo in mente di scrivere qualcosa riguardo alla tragedia di Columbine, una strage che, in qulache modo, mi ha sempre toccato nel profondo, perciò ho preso coraggio e mi sono decisa a pubblicare questo scritto in occasione del ventennale della strage.
I nostri amati Queen, in questa storia, sono dei prestavolto per quattro persone che hanno realmente vissuto gli eventi alla Columbine, alcuni uscendone vivi, altri cadendo sotto i colpi di Eric Harris e Dylan Klebold. Tutti i dialoghi e le parole sono frutto di testimonianze dei sopravvissuti.
  • Roger impersona Brooks Brown, un amico di Eric al quale è stato permesso di lasciare la scuola poco prima della strage.
  • Brian impersona il professor Dave Sanders, un insegnante della Columbine che si è sacrificato per dare la possibilità a più studenti possibili di mettersi in salvo. E' stato curato da Aaron Hansey, ma è morto in seguito alle ferite riportate.
  • Freddie impersona Isaiah Shoels, un ragazzo di colore sbeffeggiato in biblioteca prima di essere freddato.
  • John interpreta John Savage, un caro amico di Dylan, l'unica persona alla quale fu permesso di scappare dalla biblioteca.
Il mio intento è quello di diffondere la storia di questi ragazzi, di cosa hanno vissuto, per sensibilizzare sul tema delle sparatorie nelle scuole, spesso snobbato, soprattutto in Italia. Spero di non aver turbato nessuno e di avervi semplicemente fatto leggere qualcosa di un po' diverso dal solito. Grazie a tutti!
Un bacione a tutti e Buona Pasqua!
                                                     Jenny


 
   
 
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