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Autore: Imperfectworld01    21/04/2019    0 recensioni
Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede.
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.
Megan Sinclair è la brava ragazza del quartiere, quella persona affidabile su cui si può sempre contare, con ottimi voti a scuola e con un brillante futuro che la attende.
E poi, all'improvviso, una sera cambia tutto. Una notte, un omicidio e un segreto. Un segreto che Megan, con l'aiuto di un improbabile alleato, cercherà di mantenere sepolto a tutti i costi.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo le parole di David, scattai subito in piedi e uscii dalla stanza, interrompendo il processo simulato.

Pochi attimi dopo, l'aspirante avvocato giunse alle mie spalle: «Che cosa credi di fare?» domandò.

Mi voltai e lo guardai con gli occhi ridotti a due fessure. «Io? Cosa credi di fare tu? Tu... hai infranto il segreto professionale!» esclamai e lo vidi emettere uno dei soliti fastidiosissimi ghigni di scherno: «Non sono il tuo avvocato, Megan, non c'è nessun segreto professionale fra di noi. E poi davvero credevi che mi sarei tenuto per me quelle confessioni e che non le avrei raccontate a mio padre?».

Sbuffai. «Comunque potevi avvisarmi che mi avresti fatto certe domande, sei stato un vero...»

Mi interruppe prima che potessi aggiungere altro: «Credi che il procuratore ti darà un foglio con tutte le domande che ti porrà e sulle quali potrai prepararti come per un'interrogazione? Ci sono andato anche abbastanza leggero, comunque. Ma volevo farti capire che non è solo la condanna per omicidio quella che devi temere, ma anche altri reati relativamente meno gravi come l'inquinamento delle prove e l'omissione di soccorso».

«Ok, e quindi come posso fare a superare l'udienza se qualsiasi cosa mi chiederanno sarà un'ulteriore conferma della mia colpevolezza?» chiesi.

Rimase un attimo in silenzio e sollevò le sopracciglia, come se si aspettasse che ci arrivassi da sola. Ma come avrei potuto capirlo? Non sapevo niente di giurisprudenza, se non quelle poche cose basilari su cui avevo fatto delle ricerche la settimana scorsa. Corrucciai la fronte alla ricerca di una risposta dentro la mia mente, e poi finalmente capii. «Mi hai mentito!» esclamai. «Mi hai fatto credere che avrei dovuto dirti ogni cosa che era successa perché non avrei potuto dichiarare il falso in aula, ma il giuramento dev'essere fatto solo dai testimoni, mentre io sono l'imputato, ciò significa che posso dare la versione dei fatti che voglio.»

Sorrise compiaciuto: «Ah, allora finalmente l'hai capito».

«Sei un bugiardo, calcolatore e anche subdolo!»

Per non dire stronzo.

«Ti ringrazio. E comunque l'ho fatto solo perché tu non volevi deciderti a raccontarmi tutta la verità. Ho dovuto farlo.» Lo disse quasi come se non avesse avuto altra scelta, come se la manipolazione non fosse il mezzo cui amava ricorrere più spesso. Eppure sapevo benissimo che non era così e che i raggiri facevano parte del suo modo di fare.

«Allora, che è successo?» sentii la voce dell'avvocato Finnston e lo individuai appoggiato alla porta del suo studio. Questa volta il suo tono non era calmo come di consueto.

Nessuno fra me e David seppe cosa rispondere, così l'avvocato si avvicinò a noi e si rivolse a me con tono più tranquillo e comprensivo: «È stato troppo pesante?».

Annuii e il signor Finnston mi diede un leggero colpo sulla spalla. «D'accordo, per oggi basta così. La prossima volta, se non riesci a sostenerlo, avvertimi e farò fermare tutto, d'accordo?»

Ci sarebbero stati altri pomeriggi infernali come quello?

Sembrò leggermi nel pensiero perché poi aggiunse: «È importante fare delle prove per cercare di essere il più preparati possibili a ciò che ci troveremo davanti fra una settimana. Oggi è andata così perché era la prima volta, vedrai che dalla prossima volta ti sentirai già più sicura».

Il suo tentativo di rassicurarmi andò in porto non tanto per le parole che mi disse, nelle quali credevo poco, quanto per il tono affabile con cui si rivolse a me. Poi si voltò verso il figlio: «Riaccompagnala a casa. E poi torna a New Orleans».

Stavo per obiettare, dicendo che avrei potuto andare tranquillamente a piedi, ma David non me ne diede nemmeno il tempo poiché tirò fuori le chiavi della macchina e si diresse verso la porta. «Quindi?» mi incalzò, come se i miei dieci secondi di titubanza a lui fossero parsi come dieci ore di attesa. Allora augurai una buona giornata all'avvocato Finnston, prima di seguire il figlio fuori dalla porta.

David mi aspettava appoggiato con la schiena alla sua auto, parcheggiata pochi metri più in là di casa sua. Aveva uno sguardo scocciato e impaziente, così affrettai il passo e lo raggiunsi. Stavo per fare il giro del veicolo e sedermi di fianco a lui, ma ciò che mi disse mi bloccò: «Ehi, ferma: i bambini si siedono dietro».

«Spero che tu stia scherzando» dissi, pronta a scaricare su di lui tutta la rabbia che stavo canalizzando in quegli istanti.

«Sì, certo che stavo scherzando. Dio mio, rilassati» rispose, prima di aprire la portiera e salire in auto. Feci lo stesso e, dopo aver richiuso la portiera ed essermi allacciata la cintura, incrociai le braccia al petto: «Non è divertente».

«Non è divertente» mi fece il verso, prima di mettere in moto.

«Chi è il bambino adesso?»

Sorrise, rimanendo tuttavia in silenzio. Strano, pensai, si è lasciato scappare l'occasione di ribattere e di mettermi in ridicolo un'altra volta. Approfittai del silenzio per prendere il cellulare. Notai che si erano già fatte le sei e che quindi mi ero trattenuta a casa dell'avvocato per più del dovuto. Fortunatamente non avevo ricevuto nessun messaggio da parte dei miei in cui mi assillavano come loro solito, ma in compenso avevo ricevuto un messaggio da parte di Dylan.

"Ti va di venire un po' prima dell'inizio della partita così stiamo insieme?"

Mi si formò automaticamente un sorriso in volto e, senza neanche perdere chissà quanto tempo a rifletterci, accettai la sua proposta. Quella settimana non avevamo avuto molte occasioni di stare da soli, perciò mi sembrava un'ottima idea.

"Ti aspetto al bar" mi disse Dylan. A quel punto mi voltai a sinistra, verso David. «Ehi, senti, non è che potresti lasciarmi a scuola invece che a casa?» gli chiesi.

Annuì e, una volta giunto all'incrocio, girò a destra per tornare sulla strada della scuola. «Che cosa vai a fare a scuola a quest'ora?» domandò poi.

«C'è la partita di Dyl. Cioè, di Dylan» risposi.

«Sì, l'avevo capito. A cosa gioca?»

«Football.»

«L'allenatore è ancora il coach Humpfrey?» domandò.

«Sì. Giocavi anche te al liceo?»

Scosse la testa e sorrise: «No, per carità di Dio, no». Notò il mio sguardo interrogativo e così diede maggiori chiarimenti: «Diciamo che ci sono persone portate per gli sport, qualsiasi, non importa quale, perché eccellono in tutti. E poi ci sono persone come me, che sono più portate per lo studio» scrollò le spalle.

«A dire il vero, non mi sembra proprio che ti ammazzi di studio, o sbaglio?» contestai, ripensando anche ai rimproveri del padre.

«Be', nemmeno tu, da quello che mi è sembrato.»

«Ho tanta memoria, ci metto poco a imparare e mi ricordo facilmente le cose» risposi semplicemente.

Non avevo mai avuto grandi difficoltà a studiare. Metà del lavoro lo facevo stando attenta a scuola e prendendo appunti e poi, una volta a casa, mi bastava ripetere una o due volte per sapere bene tutto.

«Ecco, allora ti sei risposta da sola. E considerando che diritto è una materia principalmente mnemonica, non faccio così tanta fatica, al contrario dei miei compagni di università.»

Era una cosa stupida, eppure non avrei mai detto che potessimo avere qualcosa in comune e, scoprirlo, fece sì che mi si formò un lieve sorriso in volto, che cercai di nascondere girandomi verso il finestrino.

«E scommetto che ti odiano per questo» dissi poi, riferendomi ai suoi compagni. «Non è mica colpa mia se sono stato baciato dalla fortuna» scrollò le spalle.

Poi mi sorse spontanea una domanda. «Scusa, ma se sei così bravo perché hai scelto l'università a New Orleans? Ad Harvard la facoltà di legge è la seconda migliore degli Stati Uniti.»

«Perché avevo una media penosa al liceo. Sai, il classico "ha le potenzialità ma non si applica". Ero pigro, svogliato e l'unica cosa che mi interessava era finire al più presto, non mi importava del dopo.»

«Quindi non hai sempre voluto fare l'avvocato?»

Scosse la testa: «No. Mi sono iscritto al college solo per seguire i miei amici e non perderli di vista dopo la fine della scuola. Poi però ha iniziato a piacermi, le materie insegnate mi interessavano e quindi ho iniziato a prenderlo più sul serio e sono arrivato fino in fondo. E poi una volta arrivato all'ultimo anno di college, iniziai a chiedermi cosa avrei fatto dopo la laurea. Gli sbocchi professionali sarebbero stati tanti ma nessuno sembrava fare al caso mio. Un giorno uno dei miei professori mi consigliò di provare a sostenere gli LSAT, i test di ammissione alla facoltà di legge e io mi lasciai convincere. E così, eccomi qua, quasi per caso» spiegò.

Avevo sentito parlare di quei test. Su Internet avevo letto di persone che l'avevano sostenuto almeno tre volte prima di riuscire a passare, considerata l'estrema complessità. «Sei passato al primo tentativo?» chiesi così, sorpresa.

Emise un ghigno. «Centosettantatré su centottanta.»

Sbarrai gli occhi. «Wow, tuo padre sarà stato sicuramente orgoglioso di te!» esclamai.

«A dire il vero pensava avessi barato. Come era possibile che quel fallito di suo figlio fosse riuscito a passare un test così difficile al primo colpo e per giunta con un punteggio così alto? E poi, lui alla mia età l'aveva passato con centosettantacinque. Non avevo dato il meglio.»

Sembrò accorgersi soltanto dopo di avermi rivelato qualcosa di più personale che lo riguardava. Infatti lo vidi scurirsi in volto e mordersi il labbro inferiore, pentendosi di avermi detto quelle cose, di essersi fatto vedere vulnerabile. Così si richiuse a riccio e non disse nient'altro.

Ma perché?

Avrei voluto sapere tante di quelle cose ancora... Era una persona così chiusa, impenetrabile, che era impossibile, senza conoscerlo a fondo, farsi un'idea su di lui. Praticamente era tutto il contrario di me. Io ero facile da leggere, mentre lui era indecifrabile.

«Puoi lasciarmi anche qui, non preoccuparti» dissi poi per uscire da quella situazione di imbarazzo che si era creata. Eravamo arrivati davanti a scuola e avrebbe potuto semplicemente lasciarmi scendere, senza dover andare a cercare parcheggio.

Tuttavia, non mi diede ascolto e si addentrò nel parcheggio della scuola. Dopo aver posteggiato l'auto, non mi diede neanche il tempo di realizzare quello che stava facendo che subito aprì la portiera e uscì dalla macchina. Così, ancora disorientata, mi affrettai a uscire a mia volta. «Che cosa hai intenzione di fare?».

«Mi mancava questo posto» rispose e basta. Si guardò intorno con un bel ghigno stampato in faccia, prima di muovere dei passi verso l'entrata, seguito a ruota da me.

«Non puoi entrare qui!» esclamai.

«Perché no, scusa? Voglio vedere la partita» rispose, abbassando la maniglia della porta ed entrando dentro scuola.

«No, non è vero. Tu hai qualcosa in mente» mi posizionai davanti a lui per sbarrargli la strada e incrociai le braccia al petto.

Aveva sempre qualcosa in mente.

Inarcò le sopracciglia, prima di rilassare il viso. «Voglio andare a salutare il professor Piton, in effetti. È proprio là, guarda» fece cenno al professor Kravitz, che proprio in quel momento stava passando lungo il corridoio, scortando uno studente chissà dove. «Te le insegno io le buone maniere» gli sentii dire e, David, nell'ascoltare la sua voce dopo tanti anni, si portò una mano sul cuore. «Ancora mi batte il cuore all'impazzata nel sentire queste parole.»

«Poi mi prometti che te ne andrai dritto all'università?» gli chiesi e mi guardò stranito: «Perché ti interessa tanto se resto qui oppure no?».

La risposta alla sua domanda arrivò proprio in quel preciso istante. «Ehi, Meg, allora sei venuta!».

Mi morsi il labbro inferiore e chiusi gli occhi per meditare per qualche secondo. Poi mi voltai e mi trovai faccia a faccia con Dylan, il quale immediatamente fulminò David con lo sguardo. Gli presi le mani affinché distogliesse lo sguardo da lui e si concentrasse su di me. «Sì, eccomi.»

«Ciao» si intromise David, ricevendo questa volta un'occhiataccia da parte mia oltre che da Dylan.

«Ciao» ripeté quest'ultimo, con tono glaciale. Il suo però più che un saluto di apertura, era un saluto di chiusura della conversazione, perché subito dopo mi prese a braccetto e mi allontanò da David.

Mi portò in prossimità del bar della scuola, dove c'era una sorta di sala comune degli studenti, costituita da quattro divani posti in cerchio attorno a un tavolino, sopra al quale erano poste delle riviste di diverso genere: sport, gossip, cucina. Ci accomodammo su uno dei divani e io subito appoggiai la testa sulla sua spalla, tenendomi ancora ancorata al suo braccio.

Eppure lui appariva teso, quasi distaccato. «Va tutto bene?» domandai, spostandogli il ciuffo di capelli all'indietro.

«Cosa ci fa quello qui?» chiese lui, senza nemmeno guardarmi in faccia.

Alzai istintivamente gli occhi al cielo. Me lo sentivo. Sin da quando David era uscito dalla sua auto ed entrato dentro scuola, avevo iniziato a temere che potesse essere visto da Dyl, insieme a me di per giunta. E così era successo.

«Lo sai che ero dal mio avvocato questo pomeriggio e che lui è il figlio. Era lì e si è offerto di accompagnarmi a scuola, tutto qui. Ora sicuramente se ne andrà» risposi, sperando gli bastasse come spiegazione e che non sfociasse in un'altra discussione.

«E c'era bisogno di entrare?» sbottò infastidito.

«Ne ha approfittato per venire a salutare i suoi vecchi professori. Qual è il problema, Dyl? Vuoi giocare la partita di pessimo umore, per caso?»

«Quel tipo non mi piace. A pelle. E penso che dovresti stare attenta: mi sembra uno che ronza fin troppo attorno alle ragazzine» disse. Non compresi le sue parole finché non seguii il suo sguardo e vidi David in fondo al corridoio, dove l'avevamo lasciato, mentre si intratteneva a parlare con Olivia Goldberg. Lei lo fissava impreziosita, mentre lui le sfoggiava uno di quei soliti, insopportabili ghigni. Ma di certo doveva esserci un'altra spiegazione, diversa da quella di Dylan. Figuriamoci se ci stava provando con Olivia. Lei aveva solo sedici anni mentre lui ventidue, non lo avrebbe mai fatto.

Infatti, a conferma della mia tesi, dopo pochi secondi Olivia tese il braccio in avanti, indicandogli la strada che conduceva al campo esterno, dove si sarebbe tenuta la partita. Lui le dedicò un altro piccolo ghigno, prima di allontanarsi.

«Dai, Dyl, che dici? Ti pare che ci proverebbe mai con una ragazzina?»

Mi tornarono subito in mente le parole che disse alla sua amica, Serena, la sera al Masquerade.

"E comunque non ci provo con le matricole. Non mi piace fare il baby-sitter."

Ciò significava che non gli sarebbe mai passato nell'anticamera del cervello di tentare di abbordare una sedicenne.

«A me dà proprio l'aria di essere un viscido. Quanti anni avrà in più di noi, undici?»

«No, soltanto sei. E, fidati di me, non c'è alcuna malizia nel comportamento che ha con me, come non c'era nella conversazione che ha avuto con Olivia.»

«Però ancora non capisco perché tu abbia a che fare più con lui che con il tuo avvocato...»

«Perché se ne sta tutto il giorno a non fare niente e il padre vuole farlo sgobbare un po', presumo. Così gli assegna alcuni incarichi da svolgere, quelli che è in grado di fare da solo sebbene non sia ancora un avvocato» risposi, appoggiando una mano sul suo petto, mentre lui avvolse un braccio attorno alle mie spalle.

«Mmh, capito.»

«Ancora non mi credi? Dyl, il rapporto che c'è fra me e lui si limita solo a...»

«Ti credo» mi interruppe. «Ma comunque mi è difficile credere che abbia questo rapporto confidenziale con tutti i clienti di suo padre.»

«Ok, e io che posso farci, scusa?» domandai, esasperata. Per quanto mi riguardava, David non era altro che il figlio del mio avvocato.

«Vorrei che cercassi di vederlo il meno possibile. Puoi farlo per me?» chiese, afferrando il mio mento fra le sue dita e avvicinando il mio viso al suo. A quella vicinanza, mi persi nei suoi occhi, azzurrissimi come sempre. Poi sorrisi e annuii: «Sì, non è un problema».

Sorrise a sua volta e mi baciò, procurandomi, come sempre, dei brividi lungo tutto il corpo.

Purtroppo, quel piccolo momento di intimità di cui avevamo sentito la mancanza già da diversi giorni, fu prontamente interrotto.

«Ehi, Dyl... ah, cazzo, scusate. Va be', aspetto che finiate, continuate pure.»

Dylan sembrava intenzionato a far finta di niente e continuare a baciarmi, ma io ero ormai troppo imbarazzata per farlo, così, a malincuore, mi separai da lui.

Davanti a noi c'era un ragazzo, con indosso la giacca da football con il logo della scuola.

«Dimmi, Gary» disse Dyl, senza nascondere un tono innervosito.

«Il coach Humpfrey ci vuole in spogliatoio.»

«Ma fra la commemorazione e il resto la partita non inizierà prima di un'ora!» sbottò scocciato.

«Lo so, ma essendo la prima partita del campionato, ha detto che vuole farci una sorta di discorso per darci la carica, o qualche cazzata simile» spiegò l'altro.

Dyl alzò gli occhi al cielo. «Che palle. D'accordo, ora arrivo» disse infine, prima di stamparmi un ultimo bacio sulle labbra e alzarsi dal divano. «Ci vediamo dopo, amore» mi disse prima di allontanarsi.

Provai una sensazione strana nel sentirmi chiamare in quel modo. Non sapevo bene descrivere come mi sentissi a riguardo. Ne fui sicuramente felice, infatti sorrisi, eppure una parte da me rimase disorientata da quella parola. Non era troppo presto perché mi chiamasse così? Stavamo insieme soltanto da lunedì, era decisamente presto. Eppure, non doveva essere necessariamente un male, no? Se lui se la sentiva già adesso di chiamarmi in quel modo, forse avrei soltanto dovuto lasciarlo fare.

•••

«Buonasera a tutti! Lo so, siete tutti carichi per la partita, ma prima che cominci, è giusto e doveroso fermarci un attimo. Riflettere.» Lucy iniziò il suo discorso con molta sicurezza, senza lasciar intravedere nessuna agitazione, sebbene si trovasse da sola al centro del campo, con tutte le luci puntate su di lei, davanti a tutta la scuola. Io, al posto suo, penso che sarei morta dalla vergogna.

Dietro di lei era presente un tavolo, sul quale era appoggiato un computer e al quale era seduto un ragazzo che si stava occupando di far funzionare tutto, a partire dal microfono con cui stava parlando Lucy, fino ad arrivare al televisore posto qualche metro più in là. Doveva essere almeno di cento pollici, poiché era ben visibile a tutti, anche a me, che ero seduta in una delle ultime file.

Sebbene si stesse ormai facendo buio, guardandomi intorno riuscii a scorgere Dylan seduto in panchina, con il casco da football in mano. Lo salutai con la mano e gli sorrisi.

«È libero?» mi chiese qualcuno.

Era David.

Rimasi un attimo in silenzio prima di rispondere, infatti lui ne approfittò per fare uno dei suoi soliti commenti sarcastici: «Allora? Non ti ho mica chiesto di illustrarmi in che modo la difesa riuscì a vincere nel caso Hodgman contro Pennsylvania.»

«Non ho la benché minima idea di che cosa stai parlando. E comunque sto tenendo questi due posti per Herman e Tracey» risposi.

«Perché vi infossate qui in fondo? Non è meglio se andate più vicini?»

«Di solito in fondo si siedono coloro che sono qui solo per fare presenza, ma che generalmente sono estranei a ogni avvenimento all'interno di questa scuola. Almeno non sentirò nessuno indicarmi e darmi dell'assassina durante la commemorazione.»

«... una di noi, una ragazza che veniva a scuola, una ragazza di soli sedici anni, piena di sogni, desideri progetti per il futuro che non potrà mai realizzare.»

Ora la voce di Lucy appariva più spezzata, come se fosse sul punto di piangere. Mi faceva quasi tenerezza, per come si era sentita coinvolta in questa storia, avrei voluto quasi correre da lei e dirle di stare calma. 
Poi mi resi conto di quanto suonasse ridicolo: io avrei dovuto essere distrutta, non lei. Certamente lo ero, ero lacerata all'interno, ma all'esterno potevo dire di stare quasi bene, tralasciando l'insonnia.

«Avevi detto che avevano smesso di prenderti di mira» disse David, ignorando quanto gli avevo detto prima e sedendosi ugualmente al mio fianco.

Quanto ci stavano mettendo Tracey e Herman?

«Sì, è così infatti. Ma comunque preferisco isolarmi da certe persone.» I miei pensieri volarono subito a Olivia. Ogni volta che la vedevo parlare con qualcuno, specialmente se sottovoce, avevo il terrore che stesse dicendo qualcosa contro di me, che stesse diffondendo delle voci, che stesse creando altri "nemici" attorno a me, se così potevano essere definiti.

«... e certamente di parole ce ne sarebbero ancora da dire, ma forse sarebbe molto più opportuno ed efficace il silenzio. Intanto godiamoci questo video: noi ti ricorderemo così, Emily.»

Le luci si spensero, e l'unica fonte di illuminazione proveniva dal televisore, dove dopo pochi secondi apparvero delle foto di Emily. Subito mi si mozzò il respiro, nel vederla su quello schermo. Sebbene fossimo state io e Tracey a selezionare le foto da esibire e a passarle a Lucy perché creasse il video, vedere la mia amica lì, su quel televisore, davanti a tutti gli studenti che se ne stavano in perfetto silenzio, mi fece quasi commuovere. Quasi. Perché non piangevo più ormai.

A ogni nuova foto di Emily che compariva, perdevo un battito.

Ogni tanto sentivo il rumore di qualche naso che veniva sfregato contro un fazzoletto e raramente era qualcuno che Emily conosceva a piangere. Ma forse era come diceva Lucy: in molti erano rimasti sconvolti da quella storia ed erano riusciti a immedesimarsi al punto di versare un fiume di lacrime per lei.

Ad un certo punto, lo schermo divenne nero, eppure erano ancora molte le foto da far vedere, perciò non poteva essere già finito.

In molti iniziarono a guardarsi confusi, forse anche delusi: era già finita lì? Un banale video da trenta secondi era ciò che chiamavamo "commemorazione"?

Finché, all'improvviso, il video riprese.

Apparve Emily, ripresa di lato, la sera della festa. Non faceva parte delle foto scelte da me e Tracey. Anzi, non era nemmeno una foto, bensì una ripresa. E io riconobbi subito quale momento della festa era stato ripreso.

«Ti ho detto che non devi parlarmi mai più, Megan! Mai più! Vaffanculo, Megan!» esclamò, il volto rigato dalle lacrime.

Apparvi anch'io nell'inquadratura, correndo verso di lei e afferrandole il braccio affinché mi guardasse, ma lei si liberò violentemente dalla mia presa. «Lasciami! Non toccarmi!»

«Emily, ti prego... Mi dispiace! Ascoltami, posso spiegarti ogni cosa» dissi, accelerando il passo e piazzandomi davanti a lei, per sbarrarle la strada.

«Cos'altro c'è da spiegare, se non che ti sei trasformata in una puttana?»

La me in quel video scosse la testa e si passò una mano sul viso per asciugare le lacrime: «Hai ragione, ho sbagliato, però ti prego perdonami. Io non...»

«Basta, Megan! Non voglio sentire nient'altro che provenga dalla tua boccaccia. Tu... tu come hai potuto?»

«Io... io non volevo, te lo giuro! Dylan per me non conta un accidente, non me ne frega niente di lui e non mi piace, lo sai. È stato lui a baciarmi, io...»

Mi interruppe un'altra volta: «Ah, e come vedo tu l'hai rifiutato! Risparmiamelo, Megan. L'hai fatto apposta, per dimostrarmi ancora una volta che tutti i ragazzi preferiscono te. Perché tu sei Megan Sinclair, certo. Devono essere sempre tutti tuoi.»

«Che cosa stai dicendo? E comunque non è colpa mia se gli piaccio io e non tu. Ma non è importante, perché la nostra amicizia vale più di ogni altra cosa e per me...»

«Sei proprio una stronza» mi interruppe ancora, carica d'odio. «Brava, sbattimelo in faccia! È proprio così che funziona fra amiche, giusto?»

«Possiamo almeno andare a parlarne dove nessuno possa sentire o dev'essere tutto di dominio pubblico?» le domandai, abbassando il tono della voce.

«Non me ne frega un cazzo di quello che dici, Megan. E poi penso che tutti meritino di sapere che grandissima stronza sei!»

A quel punto persi la pazienza. «Lo sai che cosa sei, Emily? Sei soltanto un'insicura in cerca di attenzioni! Non hai autostima, pensi che nessuno possa amarti, ed è per questo che cerchi solo ragazzi a cui non interessi, così da confermare quelle che sono le tue paure. E sei anche una stronza ipocrita: adesso incolpi me, eppure non ti sei fatta problemi quando due anni fa ti sei messa con Ethan, sapendo che avevo una cotta per lui da mesi» dissi, sfogando tutta la rabbia che avevo in corpo.

«Il problema non sono le mie insicurezze, Megan, ma il fatto che tu non ti renda conto di come stanno realmente le cose! Tu non piaci a Dylan, non piaci realmente a nessun ragazzo. Credi che ti andrebbero indietro in così tanti se non fosse per il tuo aspetto fisico? Lo sanno tutti a scuola: Tracey è quella intelligente, io quella simpatica, mentre tu sei "la bella". Quindi complimenti, hai appena buttato la nostra amicizia nel cesso per uno che ti vede soltanto come un buco in cui infilare il suo pene!»

Dopo quelle parole Emily si allontanò per andare altrove, mentre io, ancora con le lacrime agli occhi, mi guardai intorno e mi accorsi di tutte le attenzioni rivolte su di me. Molti dei presenti avevano il cellulare in mano e avevano ripreso tutto l'accaduto. «Che diavolo avete da guardare?»

   
 
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