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Autore: Koa__    24/04/2019    6 recensioni
Lestrade chiede a Sherlock di aiutarlo con un caso che vede alcune coppie scomparire misteriosamente nel nulla. Lui però non ritiene che queste sparizioni siano degne della sua attenzione, almeno fino a quando il cadavere di una donna non viene rinvenuto sulle rive del Tamigi. Per poter indagare su questo misterioso delitto, Sherlock e John si fingono fidanzati. Loro malgrado si ritroveranno vittime di un gioco che li costringerà a mettersi a nudo e, con la vita di entrambi in pericolo e il pensiero che Rosie possa perdere un altro dei suoi genitori, Sherlock si renderà conto di non poter più negare ciò che prova per John.
Partecipa alla Challenge “Easter Eggs” del gruppo Johnlock is the way, and Freebatch of course.
[Ispirata alla 8x05 di Smallville: Committed]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Una sola verità
 
 
 
 
 

 
“Broken souls will become whole tonight, oh tonight
We know it's right so”
 
 
 

Non sapeva come fosse successo, ma aveva come l’impressione che il loro piano fosse andato a buon fine. A suggerirglielo non erano soltanto il mal di testa né il vago senso di nausea che provava e nemmeno il suo essere assicurato a una pesante sedia di ferro, legato con delle catene a polsi e caviglie, quanto il fatto che proprio davanti a lui, in piedi, un tizio lo fissava. Era molto alto, vestito con una tuta d’assalto come quelle che anche i poliziotti erano soliti utilizzare durante certe missioni. Non poteva però dire chi fosse, considerato che portava una maschera che impediva di scorgere i lineamenti del viso. Era dunque quello l’uomo che assaliva e rapiva le giovani coppie? E per quale ragione? John proprio non ne aveva idea, anche perché di questo (oltre che di tutto il resto) lui e Sherlock non ne avevano parlato. Pertanto era ancora fermo al punto in cui si chiedeva se ci fosse una ragione per torturare sposini felici. Persone come loro o, per meglio dire, come la finzione diceva che fossero. No, John non era fidanzato con Sherlock e soprattutto non era felice come avrebbe desiderato essere. Anzi, a dirla tutta neanche ricordava come ci fosse finito in quel posto e più si sforzava, meno dettagli riusciva a riportare a galla. Probabilmente doveva soltanto chiudere nuovamente gli occhi e permettere ai ricordi di fluire. Non che fosse semplice, considerato che quel tale con la maschera non gli toglieva gli occhi di dosso. John però di sangue freddo ne aveva da vendere, sapeva che per poter sopravvivere doveva fare mente locale e riacquistare un pizzico di lucidità. Riportare a galla la memoria, era dunque il primo fondamentale passo da compiere.


Dopo aver lasciato la gioielleria si erano detti di non voler tornare immediatamente a Baker Street, per dare il tempo al rapitore di agire. Il loro intento primario era ovviamente evitare di mettere Rosie in un qualsiasi tipo di pericolo, e tornando a casa avrebbero certamente rischiato che le succedesse qualcosa di orribile. Ragion per cui avevano iniziato a girare come trottole per le zone più frequentate di Londra, badando bene di passeggiare a lungo in vicoli isolati, senza però avere una meta precisa. Si erano diretti verso Hide Park, sempre tenendosi per mano perché non volevano correre il rischio di venir smascherati, nel caso in cui l’assassino li stesse spiando. Erano rimasti seduti per qualche ora su una delle panchine ed era stato soltanto verso le sette che avevano deciso d’impegnare il tempo diversamente. Aspettare che qualcuno t’aggredisse era relativamente stancante, oltre che noioso e John sentiva sulle proprie spalle il peso di quella giornata infinita. Il passo successivo era stato andare a cena come una normalissima coppia di fidanzatini. Avevano preferito evitare Angelo, optando per una steakhouse a Paddington dove nessuno li avrebbe riconosciuti. Non che fosse affamato, al contrario ricordava d’aver mangiato poco o niente. Aveva lo stomaco chiuso e ancor meno voglia di far conversazione e Sherlock, d’altro canto, sembrava essere del suo stesso avviso. Pareva pensieroso, in tutto il giorno non aveva spicciato più di qualche parola e non doveva essere dell’umore adatto neppure per vantarsi di quanto avesse già capito riguardo al caso in questione. Niente mormorii imbarazzati sugli anelli, niente chiarimenti sul finto matrimonio e tantomeno nessun fiato su Greg Lestrade e sulle sue uscite infelici. A stento erano riusciti a guardarsi negli occhi e si erano così ignorati, che l’atmosfera tra loro era diventata a dir poco orribile. Era più che evidente che volessero evitare l’argomento, entrambi preferivano non essere i primi a rompere il ghiaccio. Sherlock, poi, in questo era sempre stato pessimo e John sapeva che sarebbe toccato a lui farsi avanti per primo. Ragion per cui era stato troppe volte sul punto di cominciare un discorso, ma senza mai riuscire in niente. Ogni volta che apriva bocca per dire qualcosa, non produceva alcun suono e la sua mente si paralizzava. Che fosse il troppo imbarazzo o più probabilmente la paura di rovinare tutto, questo non se l’era domandato. Senz’altro non sarebbero potuti andare avanti in quel modo ancora per molto tempo, prima o poi si sarebbero trovati faccia a faccia e a quel punto avrebbero dovuto affrontare quell’assurda situazione.


C’era stata fin troppa tensione tra lui e Sherlock, rifletté John riaprendo appena gli occhi e ritrovandosi col proprio aguzzino a meno di un palmo dal naso. Ignorò il suo essere dannatamente inquietante e non badò neppure ai morsetti che teneva stretti in mano e che doveva esser pronto a usare, se ne fregò persino del sorrisino di sfida, stampato sulla maschera o dello sguardo puntato insistentemente su di lui. Ignorò tutto e tornò a concentrarsi su quel che era successo soltanto qualche ora prima. Per tutto il tempo in cui avevano gironzolato per le vie del centro, non aveva fatto altro che sperare che quel tizio arrivasse e li rapisse, perché stava diventando tutto troppo pesante da sopportare. Naturalmente era successo, come gli suggeriva la faccia da pazzo dell’alto uomo che gli stava di fronte. A una certa ora, subito dopo cena quando, esausti, avevano deciso una volta e per tutte d’avviarsi a piedi in direzione di Baker Street, qualcuno era spuntato dall’ombra e li aveva assaliti. Tornare a casa non faceva parte del loro piano originario, ma a quel punto erano quasi sicuri che quella sera non sarebbe accaduto niente di rilevante, sarebbero usciti nuovamente il giorno successivo, sempre fingendo di dover organizzare un matrimonio con la speranza che le cose si mettessero bene. Stavano percorrendo una stradina laterale a Crawford Street, [1] facente parte di uno di quei percorsi alternativi che Sherlock riteneva più rapidi per raggiungere la meta, quando si erano ritrovati abbagliati dal paio di fanali di un’auto che procedeva nella direzione contraria alla loro. Aveva notato immediatamente qualcosa di strano, dato che la macchina incedeva molto lentamente nonostante non vi fossero impedimenti di alcun genere. Sulle prime aveva creduto che si trattasse di un maleducato e stava già per dirgliene quattro, quando sentì distintamente un pizzicore all’altezza del collo. Capire cosa stava succedendo fu il passo immediatamente successivo: era stato drogato. Aveva cercato Sherlock con lo sguardo, ma invano perché stava camminando subito dietro lui e sembrava non essersi accorto di nulla. Avrebbe voluto avvertirlo, ma poi il buio lo aveva trascinato giù in un sonno profondo.
 
E adesso si trovava lì, con marchingegni tutt’attorno che facevano strani rumori e un accenno di paura che gli scorreva nelle vene. Per quanto ci avesse sperato, si rendeva conto che non era poi così bello essere rapiti. Non aveva idea di come sarebbe finita e non vedeva alcuna soluzione possibile, insomma si erano cacciati di proposito in quel guaio e non avevano fatto in tempo ad avvisare la polizia. Lestrade non avrebbe saputo nemmeno dove andarli a cercare e non potevano avvertirlo. In effetti poteva fare ben poco, neanche aveva idea di quale tortura avrebbero subito. Era come aveva testimoniato la donna sopravvissuta? Dovevano dire semplicemente la verità? Già, ma se da una parte il farlo avrebbe salvato loro la vita, dall’altra avrebbe distrutto la sua amicizia con Sherlock, e John non si sentiva pronto neppure per quello. Ciò di cui era più che sicuro, comunque, era che quel tizio lo stava ancora fissando con aria curiosa. E lui non riusciva a non pensare che la sua intera esistenza stava per finire.
 
 
 

 
*

 
 
 
Il luogo in cui li erano stati portati era relativamente buio, una sola luce al neon illuminava malamente lo spazio che li circondava, ma non permetteva di poter scorgere cosa c’era al di là della fitta coltre di tenebre che avvolgeva la maggior parte dell’enorme stanzone. Si trovava comunque in un palazzo abbandonato, a suggerirglielo era l’aria fatiscente e vagamente diroccata. Quel che più di tutto attirò la sua attenzione fu però l’umidità: ce n’era tantissima. E i segni di muffa sulla parete di sinistra lasciavano supporre che l’edificio si trovasse relativamente vicino al fiume. C’era anche un odore piuttosto forte come di bruciato, doveva essere per colpa di quel generatore di corrente al quale erano attaccati diversi cavi, pronti per essere usati al momento più opportuno. Sebbene faticasse a essere lucido, era certo di ricordare piuttosto bene le parole della donna sopravvissuta così come gliele aveva riportate Lestrade. Le vittime erano state attaccate a dei sensori collegati a una macchina della verità e il rapitore aveva fatto loro delle domande molto intime, controllando ogni volta i tracciati. Se si rispondeva nel modo sbagliato si veniva fulminati. Era semplice, in effetti doveva soltanto evitare di mentire.
«Dov’è?» ma la voce gli morì in un fiato appena percettibile. «Dov’è Sherl… i-il mio fidanzato?»
«Proprio davanti a te» rispose il rapitore, spostandosi e mostrandogli la figura di uno Sherlock imbavagliato che, con gli occhi sgranati, allacciava lo sguardo al suo. Doveva essersi svegliato ben prima di lui perché non dava segno di stordimento e aveva addosso una strana espressione che mai gli aveva visto prima, e che assomigliava al terrore. Solitamente teneva anche con assassini e criminali un atteggiamento quasi di sfida o comunque di distacco, era raro che avesse paura e ancora più improbabile che ne mostrasse. Ricordava d’averlo visto più agitato del normale soltanto con Moriarty ed Eurus, ma quelli erano stati nemici ben più potenti e pericolosi dell’uomo con cui avevano a che fare. Adesso invece aveva gli occhi spalancati mentre le dita battevano frenetiche sui braccioli dell’enorme sedia in ferro alla quale era stato assicurato. Da quando l’uomo si era spostato, permettendo loro di guardarsi, Sherlock aveva preso a fissarlo con aria stranita. Non disse nulla neanche dopo che il rapitore gli levò il bavaglio accennando al contempo a un: «Non stava mai zitto» che non avrebbe dovuto divertirlo, ma che invece gli permise di deformare le sue labbra in un ghigno storto. Sorrise e forse più per il nervosismo, che perché ci trovasse un qualcosa di divertente. O più probabilmente lo fece per rassicurare Sherlock, il quale nemmeno allora aveva accennato a volersi riprendere. Semplicemente guardava dritto avanti a sé con espressione vacua e appena un poco stordita, tanto da farlo dubitare che fosse stato pesantemente drogato. Eppure non lo sembrava affatto e, se possibile, fu proprio quello a spaventarlo. Non il generatore, non la possibilità di morire fulminato, ma soltanto l’espressione sul volto di colui che amava. Cosa gli faceva così tanta pura? Non di certo quella situazione né il misterioso assalitore. Che anche temesse la verità? Già ma quale? Magari aveva il terrore di dirgli che aveva pensato di riprendere a drogarsi, come aveva già ipotizzato e se così era non si sarebbe arrabbiato ma lo avrebbe aiutato, come aveva già fatto in passato.

«Stai bene?» domandò John, sussurrando appena.
«Sì, e tu?» Ma il rapitore non gli permise di rispondere e, frapponendosi tra loro, mormorò un qualcosa sul fatto che dovessero saltare i convenevoli e iniziare a giocare. Spaventato dalla prospettiva di farlo innervosire, si limitò a un breve annuire e soltanto per fargli capire che era tutto a posto, mal di testa e nausea a parte. Bastò quel timido cenno d’assenso per farlo sorridere, un sorriso piccolo e nascosto immediatamente da un’espressione seria e tirata. Aveva paura d’essere scoperto, dedusse riacquistando un briciolo di contegno. Aveva sperato di riuscire a tranquillizzarlo, ma non sembrò servire a molto. Tutto ciò che era stato capace di fare era calmare se stesso. Aveva anche riacquistato un pizzico di lucidità, una razionalità che lo portò per un’ennesima volta a ragionar su di loro. Era il momento meno opportuno, eppure non riusciva a farne a meno. Perché era incredibile quanto in quei frangenti ogni problema sembrasse dimenticato. Non si erano parlati per tutto il giorno e da quando erano usciti dalla gioielleria a stento si erano guardati negli occhi, mentre adesso ogni traccia d’imbarazzo era scomparsa. Sembrava non fosse successo niente e che Lestrade non avesse involontariamente scatenato un uragano silenzioso. [2] Una tempesta che, al contrario di quanto credeva, non si era affatto placata. Aveva semplicemente cambiato direzione, già perché fu allora che Sherlock prese parola. Ed era incredibile, stupefacente così come in ogni cosa che faceva. Persino in quel frangente, legato com’era a polsi e caviglie, con la paura ancora negli occhi e quelle dita che non la smettevano di tamburellare sui braccioli della poltrona, col destino già inevitabilmente segnato, in Sherlock qualcosa stava cambiando. Non era più paralizzato dal terrore ma soltanto arrabbiato.
«Stai facendo tutto questo per niente, noi non siamo fidanzati» sputò con un veleno nella voce che fece tremare John appena. Cosa c’era di tanto spaventoso in ciò che aveva detto? Era la verità, la sola verità. Una ti un tipo scomodo e difficile da accettare, così come il pensiero che mai sarebbe potuto accadere una cosa del genere fra di loro. Ma queste cose avrebbe già dovuto saperle. Eppure gli fece male, sentirle dalla sua viva voce fu enormemente doloroso. No, lui non lo amava e John lo capì solamente allora, grazie a parole velenose e a lineamenti del viso distorti dalla rabbia.
«Abbiamo finto soltanto per poter attirare la tua attenzione e farti arrestare dalla polizia. Saranno qui a minuti e tu non avrai scampo.» Il loro aguzzino non sembrava essere minimamente interessato a ciò che gli aveva detto, né rabbia né le minacce lo avevano scalfito. Forse non gli credeva o magari non riteneva Scotland Yard un pericolo, fatto stava che non aveva neppure sollevato gli occhi dal lavoro che lo stava impegnando.

«Io so chi sei» continuò Sherlock voce ben alta, ma al contrario della precedente, questa volta riuscì ad attirare l’attenzione del loro rapitore che, in disparte, controllava il funzionamento della macchina. Sperava solo che con quell’uscita non l’avesse fatto arrabbiare, pensò John passando velocemente lo sguardo da uno all’altro.
«Allora immagino di non aver più bisogno di questa.» Neppure allora si era scomposto di una virgola, aveva continuato le proprie faccende limitandosi a gettare la maschera da una parte. Era come se gli avesse fatto un favore, quasi non aspettasse altro che di liberarsi da quel fastidio. Non sapeva dire che cosa lo spingesse a sentirsi così superiore a tutto, persino alla polizia o al grande Sherlock Holmes, probabilmente era soltanto uno sprovveduto troppo sicuro di se stesso. Qualunque fosse la realtà era che vedere la sua faccia gli aveva permesso di riconoscerlo.
«Sei quel tale della gioielleria! Sei tu che rapisci la gente» aveva esclamato John con toni carichi di sorpresa. Quel commesso così gentile e affabile era in realtà un assassino, e Sherlock lo sapeva. Oh, lo sapeva eccome e non gli aveva detto niente. Poteva scommettere che lo aveva dedotto immediatamente e invece che aggiornarlo l’aveva lasciato indietro, come faceva sempre. Non aveva idea di quale indizio lo avesse portato sulla pista giusta, ma se fossero sopravvissuti sarebbe stata senz’altro la prima cosa che gli avrebbe domandato. Ovviamente dopo avergli domandato il motivo per cui si sentiva sempre in dovere di lasciarlo indietro. Forse non riteneva abbastanza, magari credeva che era troppo stupido per lui. Se così era, aveva indubbiamente ragione.
«Esatto, fine delle presentazioni. Ora cominciamo.»
«Cominciamo cosa? Ormai ci hai mostrato il tuo viso, ci ucciderai comunque» replicò John. Stava tentando ciò in cui neanche l’unico consulente investigativo al mondo era riuscito, ovvero convincerlo che sarebbe stato preso e che era del tutto inutile continuare. Non che sperasse di farcela, ma perlomeno avrebbe guadagnato del tempo. Sherlock aveva detto che la polizia stava arrivando, ma aveva mentito oppure aveva detto la verità? Come poteva averli contattati? Magari c’era riuscito prima di venir stordito, non ne aveva idea e gettare un’occhiata in sua direzione non servì poi a molto. Lui ancora lo fissava e, Dio, non la smetteva con quelle dannate dita che battevano sempre con lo stesso ritmo sul… Ma certo! Ma era ovvio e che idiota che era stato. Stava tentando di comunicare con lui tramite l’alfabeto morse; come aveva fatto a non capirlo prima? Ottuso, ottuso John Watson. Lento e stupido. Era stato così preso da se stesso da e quello che provava, da non aver capito la cosa più ovvia del mondo. Moriarty aveva fatto più che bene a ritenerlo il cagnolino sciocco e fastidioso dell’unico consulente investigativo al mondo. Ma ora doveva concentrarsi, perché se si stava preoccupando di mandargli un messaggio allora si trattava di qualcosa d’importante. Dunque, l’alfabeto morse. Era una vita che non lo usava, ma quando era stato nell’esercito lo aveva imparato e qualcosina la ricordava ancora. Quindi si concentrò soltanto su quelle sue bellissime dita da violinista, nella speranza che l’addestramento ricevuto non lo tradisse. Linea, punto, punto, rifletté meditabondo. Si trattava di una D. [3]



Linea, punto, punto: D
Punto, Punto: I
Linea, linea, punto: G
Punto, linea, punto, punto: L
Punto, punto: I
Punto, linea, punto, punto: L
Punto, linea: A
Punto, punto, punto, linea: V

Punto: E
Punto, linea, punto: R
Punto, punto: I
Linea: T
Punto, linea: A



Digli la verità?
Era questo che voleva Sherlock? Questo era il suo geniale piano? Dire la verità e basta? Come se fosse semplice, come se fosse facile. Come se non ci avesse pensato lui stesso, ben conscio che farlo li avrebbe portati al punto di non ritorno. Naturalmente nessuno di loro sapeva che cosa gli avrebbe chiesto, ma la testimone aveva fatto riferimento a domande intime sul suo rapporto con il futuro marito. Era quindi più probabile che chiedesse anche a loro qualcosa di simile e proprio per accertarsi che avessero un legame solido. In quel caso come avrebbe risposto? Se costretto e di fronte alla prospettiva di una morte certa, avrebbe dovuto confessare di essere innamorato di lui. E la sola idea d’ammetterlo in quel modo, davanti a un estraneo, di fronte a un qualcuno che non sapeva niente della loro storia, era terribile. Come avrebbero fatto? Come sarebbero riusciti a ricostruire la loro amicizia una volta distrutta da quel sadico gioco? Non ce l’avrebbero mai fatta e Sherlock non poteva davvero pensare che sarebbe bastato quello a sopravvivere. Non poteva credere che fosse così semplice. No, non poteva pensò tentando inutilmente di convincersi. Per un colpo di fortuna fu proprio in quel momento che i loro sguardi s’incrociarono. Bastò poco, un istante o forse due, ad annullare ogni cosa. D’un tratto c’erano solo loro e null’altro. Non quel tizio, non tutti quei fili e i cavi per l’elettricità, niente se non lui e Sherlock. E con Londra che pian piano svaniva, John si concentrò solamente su di lui. Si erano capiti com’erano stati capaci di fare sin dal primo giorno che s’erano conosciuti, in un cenno impercettibile gli aveva detto di farlo, di decidere per la verità perché soltanto lei li avrebbe salvati. Doveva aver intuito il suo stato d’animo così come aveva dedotto che era poco convinto a riguardo. Come sempre era un passo avanti qualsiasi cosa facesse, forse aveva già previsto come sarebbe andata a finire. Ma che fare quindi? Non aveva altra scelta se non quella di fidarsi. Doveva aver fede in quello stesso uomo che per lui era morto e risorto, che aveva ucciso, che era finito all’inferno soltanto per salvarlo. Era il suo miracolo e di nessun altro in tutto l’universo si sarebbe fidato con altrettanta forza. In un barlume di lucidità, realizzò che era quello lo Sherlock di cui si era innamorato e del quale voleva essere il compagno, di lui e basta. Quindi annuì e, riportando le attenzioni al loro assalitore, si ritrovò a convincersi che la verità, la sola verità, era l’unica strada percorribile.

«A giudicare da come vi comportate dovete tenere molto uno all’altro, ma questo non significa nulla. E oggi scopriremo se siete veramente fatti per stare insieme, sapete non tutte le coppie sono adatte al matrimonio.» E intanto che aveva parlato aveva sistemato i morsetti sulle rispettive sedie in ferro, di modo d’essere pronto per l’uso. «Ci vuole dedizione e fiducia, ma soprattutto bisogna essere sinceri» mormorò intanto che caricava il generatore con un’artigianale manovella a mano. «Vi farò delle domande, così scopriremo se avete dei segreti.»
«Che cos’è un qualche giochetto sadico? È così che ti diverti?» sputò Sherlock, con rabbia malcelata.
«No, è una prova. Superate il test e m’inviterete al vostro matrimonio, mentite e la punizione sarà molto dolorosa.» E una volta che l’ebbe detto, quello che in futuro avrebbero definito come: “Il momento in cui tutto cambiò” ebbe inizio. In quei frangenti però non sapeva nulla, ignorava quale sorte li avrebbe attesi. Lì e con lo sguardo dell’uomo che amava puntato addosso, John Watson aveva soltanto paura. Tremava, aveva il cuore che batteva all’impazzata e un vago senso di morte gli strisciava addosso, manifestandosi in brividi gelati lungo la schiena. Non riusciva a pensare a niente né al fatto che potesse davvero essere la fine di tutto né all’ipotesi di morire realmente, voleva soltanto uscirne e tirare fuori Sherlock da lì. Ma era impotente e l’unico mezzo era seguire il piano. Un piano pericoloso tanto quanto quei morsetti attaccati al generatore.
«Cominciamo dal dottor Watson» disse il rapitore di cui, il che era assurdo, ancora ignorava il nome. Aveva la voce intrisa di sadismo e fu allora che lo notò: in lui non c’era soltanto quello. Aveva la sensazione che lo stesse giudicando, che stesse aspettando una sua risposta per poterlo additare, per avere l’occasione di punirlo. Si era autoproclamato giudice, elevandosi al ruolo di Dio onnipotente pronto a sentenziare sull’operato degli uomini, forse per risanare qualcosa del suo passato. Non lo sapeva con esattezza, non era mai stato bravo nel profiling.
«Hai mai tradito il tuo fidanzato?» si sentì domandare. Non rispose subito, indugiò soltanto per un secondo e il motivo era che non sapeva cosa dire. Come poteva sembrare credibile? Lui e Sherlock non erano realmente in procinto di sposarsi, avevano finto per poterlo attirare in quella trappola. Avrebbe mentito comunque perché nessuna risposta era quella giusta da dare. Quindi sì, indugiò ma soltanto per un istante. Un lungo momento durante il quale non ebbe neppure il tempo di pensarci adeguatamente.
«Certo che no, è ridicolo.» Tecnicamente era la verità, perché non lo aveva mai tradito ma il tracciato della macchina segnò comunque che stava dicendo una bugia. La punizione arrivò prontamente, ma al contrario di quanto si sarebbe aspettato la scarica non fu per lui. Fu invece Sherlock a subirne le conseguenze. Una prima scossa lo fece urlare dal dolore, John lo vide contorcersi e soffrire come mai prima d’allora lo aveva visto fare.
«Smettila, così lo uccidi» gridò, disperato.
«No, lo uccide la menzogna.» Gli era già successo che, nel momento peggiore, John arrivasse a comprendere il significato di cose che aveva sempre ignorato. Quella, fu una delle occasioni in cui la scintilla dentro di lui scattò e che capì che cosa significavano davvero le parole di Sherlock. Digli la verità voleva dire che lei li avrebbe salvati dalla furia omicida di un uomo instabile. La verità era ciò che quel pazzo apprezzava, essere sinceri li avrebbe portati verso la salvezza. Aprirsi dunque e a qualsiasi costo, anche a rischio di rovinare un rapporto di amicizia che durava da anni. Aprirsi per Rosie, per Mrs Hudson, per Mycroft e per tutti i loro amici. Poi si sarebbero chiariti, John ne era certo tanto quanto era sicuro della parola di Sherlock Holmes.

«Fermo, fermo. D’accordò» urlò, attirando la sua attenzione. Non che ci sperasse troppo, ma inaspettatamente parve funzionare, già perché quando aveva sentito la sua preghiera, aveva allontanato immediatamente i morsetti dal petto di Sherlock. Poi si era voltato in sua direzione, aveva lasciato i cavi a terra e, giunte le mani al petto, gli aveva dato mutamente il permesso di prender parola. Parola che non faticò a uscire perché non c’è niente di peggio che veder soffrire chi si ama, avendo la certezza che sta provando dolore unicamente per colpa tua.
«Vuoi che lo dica? Allora lo farò» disse, a voce ben alta e chiara. «Prima non ti ho mentito, ma non ho detto nemmeno tutto. Perché no, da quando sono tornato a vivere a Baker Street non sono mai stato con nessuno, ma da che ci conosciamo io sento comunque d’averlo fatto e così tante volte. Sherlock» mormorò a quel punto sollevando il volto in sua direzione e puntando lo sguardo nel suo, perché a quel punto non contava più niente se non ciò che aveva da dirgli. Sherlock lo fissava in rimando a occhi sgranati e carichi di incomprensione. Non sapeva, non capiva. Ma lui doveva parlare, doveva liberarsi di quel peso o sarebbe impazzito e non per il gioielliere pazzo, non per la morte che fiatava loro sul collo, ma per John stesso e per Sherlock che in religioso silenzio, aspettava.
«Tutte quelle donne con cui uscivo e compresa Mary… io l’ho amata, per un certo periodo almeno, ma se ci ripenso adesso mi sento in colpa nei tuoi confronti. Io ti ho rifiutato, Sherlock, perché mi piacevi da morire ma non volevo accettarlo. Mi sono anche convinto che fossi una persona senza sentimenti, che fossi una macchina, un computer. Non mi sono fidato di te quando Moriarty mi stava facendo il lavaggio del cervello e non mi sono fidato di te nemmeno quando ti ha attirato su quel tetto. E poi ti ho picchiato, e insultato. Io ti ho tradito in così tanti modi che non riesco più a sopportarlo e non so nemmeno come tu abbia fatto ad accettare me e Rosie a casa tua.»
«John» replicò Sherlock con voce arrochita e incredibilmente calma, quasi pacata o forse rassegnata. Non era in grado di cogliere la differenza. «Non devi sentirti così, all’epoca tu e io eravamo amici e nient’altro. Non era come adesso, adesso è diverso e io lo so questo. E sul serio ti chiedi come possa averti accettato? Io non aspettavo altro e vivere con voi è bellissimo e amo Rosie come se fosse mia figlia, questo devi saperlo. Per me non è affatto un peso.»
«Vedete?» trillò il loro aguzzino con voce quasi allegra «non vi sentite meglio adesso che vi siete detti tutto? Oh, ma non credete sia finita. Anzi, abbiamo appena cominciato. Ma passiamo a Mr Holmes adesso» disse, guardandolo dritto negli occhi. «Dimmi, nel profondo del tuo cuore, tu ami quest’uomo?» Quella era la domanda che John più temeva e prima o poi sarebbe toccato anche a lui dover rispondere, ma che umiliazione sarebbe stato dire una cosa simile dopo un rifiuto così netto da parte di Sherlock. Eppure lo doveva fare, anche se era un fottuto gioco al massacro ma ormai era tardi per poter tornare indietro. Sollevò il viso di modo da poterlo osservare meglio e si ritrovò quasi sorpreso. Il suo volto era intriso di terrore, la spavalderia e la rabbia erano scemate. Ora invece, un copioso fiotto di paura si faceva largo in quelle iridi meravigliosamente eterocromatiche. Occhi che John amava e che in quel momento parevano tanto diversi e così scuri, da non sembrar più neppure gli stessi. Era come aveva detto, gli comunicò con un’occhiata generosamente affettuosa. La via d’uscita era una soltanto e la doveva imboccare. Eppure ancora indugiava e non faceva nulla se non tacere e fissare il vuoto. Attese e attese, al punto che il loro rapitore fu costretto a ripetere la domanda e a minacciarlo di far partire un’altra scarica, ma questa volta non sarebbe stata indirizzata a lui quanto a John. Credette che fu questo a convincerlo. A ripensarci, anche in futuro si sarebbe detto di non esser stato così tanto presente a se stesso da ricordare con esattezza tutto quanto. Avrebbe ricordato che gli era sembrato che il tempo si dilatasse e finisse col non rendersi conto di cosa effettivamente stesse succedendo. Prima l’aveva visto annuire e, stupidamente, John si era domandato per quale motivo non stesse negando.

«Sì» aveva urlato a pieni polmoni, sempre annuendo e facendolo in maniera frenetica. Sì, aveva detto e dallo sguardo soddisfatto del gioielliere pazzo il tracciato doveva esser convincente. «Io lo amo, lo amo da impazzire. Per lui ho fatto tutto quello che potevo, ho ucciso, mi sono sacrificato e lo farò sempre. Sempre. Perché io amo John Watson al punto che voglio passare tutta la mia vita con lui.» No, John avrebbe finito col ricordare poco o niente. Non la luce al neon che lampeggiava ininterrottamente e in modo ritmico, non l’odore di muffa e bruciato che invadeva l’aria e neppure i contorni del viso del gioielliere pazzo. Non ricordò nulla se non lo sguardo di Sherlock che si abbassava, il respiro accelerato e le lacrime che gli bagnavano la camicia aperta all’altezza del petto. Stava piangendo? Di certo lo faceva, ma per quale motivo? Non lo sapeva, non sapeva più niente. Non vide quel tizio controllare i tracciati e annuire di soddisfazione, segno che non aveva detto una bugia. Non vide niente e non capì niente. Lo aveva detto, ma era la verità? No, non era possibile. Forse era riuscito a imbrogliare la macchina, d’altra parte quando era stato sotto l’esercito aveva conosciuto persone che erano in grado di farlo. Persone addestrate, tutte militari ovviamente ma anche le spie erano in capaci di simili prodezze. E poi Sherlock Holmes era un fottuto genio e sapeva fare tantissime cose, magari gliel’aveva insegnato Mycroft oppure era più probabile che avesse visto un tutorial su Youtube su come si può ingannare la macchina della verità, imparandolo in un pomeriggio. Qualunque spiegazione era più probabile dell’evidenza, di quella stessa realtà dei fatti che si rifiutava ostinatamente di vedere. Perciò non disse nulla, perché non era ancora finita e soprattutto perché ora toccava a lui.
«E ora passiamo a te, dottor Watson. Dimmi, tu ami quest’uomo?» Poi, tutto divenne buio.
 
 
 
 
Continua
 
 
 
 
[1]Dalla zona di Paddington, e più precisamente dall’incrocio tra London Street e Praed Street, per arrivare a Baker Street ci vogliono dieci minuti in auto con traffico scorrevole. Ho creduto che a piedi ci volessero circa una ventina di minuti, meno con un percorso alternativo di Sherlock.
[2] Come per il capitolo precedente, anche qui l’intera scena e parte dei dialoghi sono ripresi dall’episodio di Smallville (8-05, Committed) che ha ispirato questa storia.
[3]L’alfabeto morse l’ho presto da Wikipedia.

La frase citata in alto viene dalla canzone Alien Like You dei The Piggott Brothers.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito la storia sino a questo momento, un saluto anche a chi legge senza lasciare commenti. Mi dimentico spesso di voi, ma so che ci siete.
Koa
   
 
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