Film > Animali fantastici e dove trovarli
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Autore: padme83    26/04/2019    18 recensioni
1. The heart asks pleasure first: "Ci sono sguardi che tagliano quasi fossero lame.
Gemme d’acqua e di terra, i suoi occhi rilucono nella penombra simili a folgori vivide, e ti scrutano feroci, impudichi – sembrano volerti divorare, consumare, rubare l’anima (ma lui lo sa, Dio, lo sa che la tua anima è già sua)."
2. Ascolta come mi batte forte il tuo cuore: "Lo percuoti in pieno petto, martellandolo di pugni con l’unica intenzione di procurargli dolore, di fargli il più male possibile – e che capisca, Dio, che capisca che cosa significa sentirsi mutilati, vuoti, spezzati."
3. Ma nel cuore nessuna croce manca: "Ti costringe a voltarti verso di lui, a immergerti in una pozza di luce che pennella d’ombre soffuse il fine cesello dei suoi lineamenti e lo trasfigura in una maschera dalle orbite incavate, vuote, abissali; ha uno sguardo selvaggio che lacrima senza saperlo, come il tuo."
4. Cor cordium: "«Sei venuto a portarmi via?» soffi sulle sue labbra, la voce ridotta ad un sussurro sommesso. Sì. È il momento. Presto sarà qui."
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'We were closer than brothers'
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Ma chi può tollerare di sapere 
quali stelle sono già morte? 
C'è qualcuno al mondo che possa 
sopportare di sapere che lo sono tutte? 
(J.K.Rowling – Il seggio vacante)
 
 
 
 
 
 
~ Ma nel cuore nessuna croce manca ~
 
 
 
 

 
 
And we can stop our whoring and pull the smiles inside, 
and light it up forever and never go to sleep. 
My best unbeaten brother, this isn't all I see. 
Oh, no, I see a darkness. 
Oh, no, I see a darkness. 
Oh, no, I see a darkness. 
Oh, no, I see a darkness.
 
 
 
 

 
 
Ti svegli di colpo, col respiro mozzo, la gola secca, chiusa, ostaggio di un grido strozzato.
Le dita si contraggono, si aggrappano alla stoffa vischiosa delle lenzuola, mentre con uno scatto involontario ti sollevi sul letto, il corpo scosso da brividi isterici. Tenti di ricacciare in fondo all’esofago il rigurgito acido che ti ustiona la bocca 
– invano –, e ti prendi la testa fra le mani, reprimendo un gemito, la mente tesa nello sforzo di tornare presente a se stessa; cerchi di ritrovare, per quanto possibile, una briciola di lucidità, un minimo di autocontrollo.
Illuso. Sei soltanto un povero illuso.
È successo ancora.
Come tutte le notti.
Lo stesso incubo, la stessa follia, la stessa paralizzante morsa allo stomaco.
Rimani per un momento immobile, rigido e muto nella cupa penombra della stanza, spoglia e a malapena rischiarata dal baluginio fioco di una lampada a olio. Ascolti il gocciare ovattato della pioggia che si riversa rabbiosa contro il legno scheggiato delle imposte, toc toc toc. È un suono dal ritmo cadenzato, ipnotico, alienante: rammenta il rantolo di una bestia in agonia, lo stridore di un artiglio che gratta sul vetro. È uno stillicidio beffardo, un pungolo affilato che esaspera i nervi già logori, un’eco spettrale del boato continuo e sordo e furibondo che ti ruggisce nelle orecchie e ti perfora le tempie con un accanimento quasi crudele.
«Albus?»
La sua voce ti scivola carezzevole addosso, morbida e suadente come il manto di una tigre.
«Ti ho svegliato? Non volevo, mi dispiace» sussurri in tono sommesso, piatto – anche se lo sai, lo sai che lui percepisce le tue emozioni con l’istinto immediato di un serpente che saggia gli odori nell’aria, persino durante il sonno.
Lo avverti muoversi alle tue spalle – lento, silenzioso, aggraziato –, quel tanto che basta per portarsi alla tua medesima altezza e inginocchiarsi mollemente accanto a te. Abbassi le palpebre, trattenendo appena il fiato, in attesa. Un istante 
 un battito di ciglia, forse due  e sei fra le sue braccia. Ti stringe con la delicatezza della seta e la forza dell’acciaio. Preme piano la fronte contro la tua schiena, facendo aderire il suo corpo nudo al tuo, i polsi incrociati sopra il ventre, i palmi aperti sui tuoi fianchi, le labbra calde a sfiorarti la pelle.
«Smettila di torturarti. Non è stata colpa tua.»
«È stata solo colpa mia» esali in un soffio, lacerato, tremando fra le sue mani, lottando per bloccare il rapporto mentale che lega inesorabilmente i pensieri di uno alle ferite e ai tormenti dell’altro.
«No, ti prego no, non chiudermi fuori, non ritrarti da me. Lascia che ti aiuti, sai che posso farlo. Lasciami entrare
Non sarebbe giusto, non è giusto, bredhu. Questo è il mio fardello.
È il nostro fardello, amore mio. Non c’è nulla, nulla che non possiamo condividere, ricordi?
Inspiri ed espiri a lungo, incapace di opporti ancora a ciò che il tuo cuore invoca con foga a ogni palpito mancato. Intrecci saldamente le dita alle sue, abbandonandoti contro il suo addome; segui il richiamo della sua mente, schiudendoti in risposta al suo tocco deciso, e alla fine gli permetti di entrare, di riempirti, di sentire e accogliere l’ondata travolgente della tua angoscia.
Dolore, oppressione, oscurità. Il trauma della perdita, della sofferenza patita e inflitta. E soprattutto la colpa, la colpa terribile, bruciante, nei confronti di colei che hai amato – ma non quanto avresti dovuto – e che è morta, svanita nel vento, per sempre…
Tu.
Sei stato tu.
L’hai tradita tu.
L’hai uccisa tu.
Pronuncia il suo nome![1]
Basta.
Fermati, fermati o finirai con l’impazzire. Guardami, guardami amore mio, guardami.
Ti costringe a voltarti verso di lui, a immergerti in una pozza di luce che pennella d’ombre soffuse il fine cesello dei suoi lineamenti e lo trasfigura in una maschera dalle orbite incavate, vuote, abissali; ha uno sguardo selvaggio che lacrima senza saperlo, come il tuo. Alza entrambe le mani e ti accarezza i capelli, il collo, gli zigomi, i contorni delle labbra, le guance, il mento. Ti dice che sei bello, bello come nient’altro è bello al mondo, che vuole fare l’amore con te, che vuole farlo in ogni modo possibile, che ha voglia di baciare i tuoi occhi, la tua bocca, il tuo sesso, che smania per liquefarsi tra le tue cosce, per cullare il tuo rimpianto fino a esserne lui stesso liberato. Ti fa stendere fra i cuscini e tu lo assecondi, docile, arreso, sopraffatto, senza nemmeno provare a resistere; il dolore infine si smorza e un calore nuovo – ma intimo, conosciuto – ti pervade le membra sfinite.
Piangi. Piangi davvero, per il sollievo improvviso, piangi per il desiderio furioso, tanto potente da spezzarti l'anima, piangi per questo amore devastante e salvifico, perfetto e impossibile – questo amore così fragile, così tenero, così disperato, questo amore così bello, così vero, così puro, questo amore così irrisorio, fremente di paura come un bambino quando è buio, così sicuro di sé, come un uomo che cammina tranquillo nelle tenebre, questo amore luminoso quanto il giorno, nero più della notte, questo amore braccato, calpestato, fatto fuori, negato, cancellato, questo amore che atterra e suscita, che affanna e che consola, che dona conforto e promette l’oblio, questo amore che non si può dimenticare, indimenticabile anche quando lo si è dimenticato.[2]
Il suo corpo, sopra il tuo, è tiepido. Ti resta incollato addosso, quieto, disteso, e ti copre, ti avvolge, ti custodisce, dolcemente, per tutto il tempo che occorre. Il tepore diventa comune, gli umori e i profumi si mischiano, l’epidermide inizia a scottare, le bocche si chiamano, le lingue si rincorrono e divorano l'un l'altra. Nelle vene, il sangue ribolle, dilava le sponde, rompe gli argini 
– allaga il cuore.
Gli chiedi se ti ama, e quanto. Vuoi sentirglielo dire, ne hai un viscerale bisogno. «Ti amo al di là delle forze, al di là della vita»[3] risponde e ansima, affondandoti dentro, ma non ti basta, Dio, non ti basta, non ti basta – non mentre le spinte aumentano in accordo ad un piacere sempre più intenso, crudo, graffiante, feroce, incontenibile – quanto, quanto, quanto mi ami?
Lui ti accontenta – come sempre, come sempre –, e lo ripete ancora, ancora e ancora, sulle tue labbra, sul tuo collo, sul tuo petto, dissolvendosi finalmente in te con un ultimo spasmo violento – al di là delle forze, amore mio, al di là della vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Did you know how much I love you? 
Is a hope that somehow you, 
can save me from this darkness.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
{Words Count: 1042}
 
 
 


 

 
[1] l’avete letta con la voce di Oberyn Martell? Bravi bambini.
[2] In questo paragrafo ho accostato Jacques Prévert (Questo amore), ad Alessandro Manzoni (Il cinque maggio) e a Marguerite Duras (Occhi blu capelli neri). Spero non si creino problemi di convivenza (tanto lo so che in un’ipotetica riunione di condominio la parte del guastafeste la farebbe esclusivamente lui, l’Alessandrone nazionale).
[3] sempre la Duras, stesso libro.





 
 
 
 


Nota:


Buon pomeriggio!
 
Spero che abbiate trascorso delle serene vacanze (vacanze? Quali vacanze?) di Pasqua.
 
Oggi non ho molto da dire, se non che l’umore in questi giorni è plumbeo – come il meteo – e i risultati direi che sono evidenti. Mi sa che stavolta ho calcato un po’ la mano, soprattutto per quanto riguarda lo stile (ragion per cui non sono proprio sicura sicura sicura che la proverbiale ciambella questa volta sia riuscita col buco), però ogni tanto cambiare non fa male, almeno credo.
 
Il giudizio, come sempre, spetta a voi ^^
 
Il titolo, anche se non penso ci sia bisogno di specificarlo, è tratto dalla poesia S. Martino del Carso, di Giuseppe Ungaretti.
 
Non mi sembra di avere altro da aggiungere (sono talmente sfinita al momento che fatico a mettere una frase sensata dietro l’altra).
 
SoundtrackI see a darkness, Johnny Cash (grazie a – indovinate un po’? – Shilyss, la mia procacciatrice ufficiale di colonne sonore angstosissime)
 
Grazie a chi vorrà leggere – anche silenziosamente –, recensire, o inserire la raccolta in una delle liste messe a disposizione di EFP.


 Un bacione e a presto!
 
:*
 



padme
 
 
N.B: d’accordo, lo avete visto piangere (perché era necessario), ma non fateci l’abitudine. Sono ragionevolmente convinta che non accadrà più, per lo meno da queste parti.
   
 
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