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Autore: Raptor Pardus    02/05/2019    1 recensioni
L'anziano e burbero impiegato Michele Ortoschi pensa a come poter assicurarsi la tanto agognata promozione a capoufficio, nella speranza di poter superare il giovane rivale, Filippo Addui.
Genere: Comico, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Michele Ortoschi rientrò in casa scuro in volto come poche altre volte, le spalle curve e una schiena così piegata dal malumore che il naso pareva sfiorare il suolo.
Come ogni giorno quando tornava da lavoro la moglie lo accolse aiutandolo a togliersi la giacca e facendolo sedere a tavola, quindi accese la piccola fiammella sotto la vecchia moka ingrigita e coperta di macchie scure e lucide.
«Com’è andata oggi, tesoro?» gli chiese Assunta, poggiandogli le mani sulle spalle e bacandogli gli ordinati capelli brizzolati.
Michele, fumante più della caffettiera in pieno bollore, non rispondeva. Piuttosto che parlare si torceva le mani, annodando tra loro le dita, come faceva sempre quando nella sua annoiata testa d’impiegato bancario le meningi iniziavano ad arrovellarsi per elaborare un qualche misterioso piano.
«E allora? Ci hai avuto il posto?» insistette Assunta, punzecchiando la spalla del marito assorto nei suoi pensieri.
La moka iniziò a gorgogliare e a emettere nuvolette bianche.
Assunta si alzò, staccandosi dal marito.
«No» borbottò lui. «Non me l’ha dato. Ha preferito uno nuovo, arrivato fresco fresco dalla filiale giù al San Giuseppe. Ieri era l’ultimo arrivato e oggi già comandava.»
Assunta versò il caffè e poggiò le tazzine sul tavolo, crucciandosi rattristata.
«Oh, mi dispiace. Ma tanto ti rifarai co’ prossimo concorso.»
«Quello avrà un parente ai piani più su, per questo è stato promosso. C’ha ‘na faccia da pesce lesso, ‘Tina mia, manco t’immagini quanto sembra un pesce lesso. Nu raccomandato, ecco cos’è!»
Michele fece una breve pausa, buttò giù il caffè tutto d’un fiato, e riprese coi suoi complotti.
«Tesoro, lo zucchero!»
«No, oggi lo prendo amaro. È che ha proprio una faccia da idiota, non mi spiego come possa essere finito a fare da relatore, avrà da parlare co’ clienti. Sì, e bello alto, ma ha una voce da fesso, dovresti sentirlo come… come biascica, sì! Come biascica! Pare un idiota, un balbuziente! Relatore!»
«Micheluccio mio, non ci pensare più! Hai fame, eh? Metto due spaghetti, ti va?»
«Deve essere il suo cappotto.»
«Eh?»
Michele alzò la testa e fissò la moglie, rimasta imbambolata con la pentola in mano. Lo fissava perplessa, con lo sguardo che si dedica ai pazzi.
«Sì, il cappotto. È proprio un fesso, ma se vedi come si veste… c’ha questo bel cappotto lungo, pare velluto, fa proprio una figura…»
«E secondo il capo c’ha dato la promozione perché…»
«Perché fa bella presenza, solo per questo cappotto. Non capisci? Il cappotto lo trasforma da un idiota a uno di successo, uno che c’ha classe. E boom! Promozione! Regalata, ti dico io, regalata!»
«’Uccio mio, calmati, che non ti fa bene alla pressione.»
«Al diavolo, donna! Sto bene!»
«Vai a prendere le medicine, che metto l’acqua.»
«Non ho bisogno delle medicine, sono forte e sano, io!»
«Se stanotte ti svegli pe’ i crampi, non svegliarmi.»
«Zitta! C’ho da pensare.»
Assunta scrollò il capo e si mise a badare ai fornelli. Quando faceva così, sapeva che era meglio lasciarlo stare, al suo Micheluccio.
«Mi comprerò un bel cappotto anch’io.»
«Tesoro mio, i soldi mi servono per l’affitto.»
«Chiedo un prestito a un amico, statte tranquilla.»
«Uccino, nun me fa’ preoccupa’!»
«Tranquilla, ‘Tina, so quel che faccio. Pagherò tutto co’ l’aumento di stipendio e in un paio di mesi stiamo apposto. Vedrai che ho ragione! Se mi promuovono, poi ti porto fuori a cena! Già me lo immagino, color cammello, coi bottoni in madreperla…»
«Ma pe’ ‘nu cappotto?»
«’Tina, capisci, non si tratta di un cappotto.»
«Ah no?»
«Si tratta del cappotto, si tratta dell’uomo sotto il cappotto! Si tratta di me.»
«Va buo’, ‘Uccio, fa’ come vuoi. Io butto la pasta.»
 
Due giorni dopo Michele Ortoschi, come ogni mattina, caracollava zoppicando sul selciato irregolare che dal suo modesto appartamento sito al terzo piano d’una fatiscente palazzina scendeva fino alla piccola filiale di Via Mazzini 32, all’incrocio con la grande strada asfaltata che tagliava la città separando la parte nuova da quella vecchia. Come ogni mattina Michele entrò per primo, timbrò il cartellino, volò con passo svelto al bar di fronte, anche quello ancora in fase di apertura, prese il primo caffè della giornata e tornò a lavoro, entrando insieme ai primi fattorini e agli addetti agli sportelli, bofonchiando e brontolando come suo solito ai saluti degli altri.
«Ortoschi, buongiorno.»
«Buongiorno.»
«Ragioniere…»
«Mhm.»
«Salve.»
«Cordiale come suo solito, eh?»
«Abbiamo il tempo per una brioscina, ne’?»
«Meh!»
«Buongiorno, Ortoschi.»
«Ortoschi, ma che bella giacca? È nuova, vero?»
«Non è una giacca, signor Macchi, è un cappotto.»
«Quel che è.»
«Salve, Macchi.»
«Le pratiche che le ho chiesto?»
«Quella giacca le deve essere costata una fortuna, Ortoschi, vero?»
«È un cappotto, sì.»
«Fa differenza?»
«Complimenti per il cappotto.»
«Grazie.»
«Le è costato molto?»
«Il giusto.»
Ortoschi volgeva la testa a destra e manca, un sorrisetto soddisfatto stampato in faccia.
Aveva perso un intero pomeriggio a cercare nelle migliori pelletterie e boutique il modello giusto, della taglia giusta, del colore giusto, e infine l’aveva scovato in un negozietto d’un certo rispetto non molto distante dal centro, l’aveva pagato un buon 150.000 lire più altre 50.000 per fare subito un paio di aggiustamenti e farselo proprio calzare a pennello. I soldi li aveva avuti da un cognato finito un paio di volte in gattabuia per inezie, ma persona affidabile e di tutto rispetto. Gli aveva dato due mesi per iniziare a pagare e un interesse abbastanza basso proprio a dimostrare quanto gli volesse bene a lui che era di famiglia, e lo aveva mandato via raccomandandosi di salutargli la sua signora, che era da tanto che non vedeva Assunta.
Ora sfilava per la filiale, mettendo in bella mostra il suo trofeo e gonfiando il petto. Atteggiandosi a mo’ di direttore.
«Ortoschi, buongiorno.» lo salutò Filippo Addui, il capoufficio fresco di promozione. Non appena gli si parò davanti, nell’aria si diffuse un tremendo profumo di colonia maschile mista a dopobarba alla lavanda, che causò nell’umile e sobrio Michele un lieve senso di nausea.
«Addui.» mormorò con un ringhio sommesso Michele, accompagnando il tutto con un vago cenno del capo.
«Bel cappotto.» commentò l’altro dopo qualche attimo di silenzio.
«Anche il suo non è male.»
I due rimasero a fissarsi i rispettivi soprabiti, lasciando scivolare i loro sguardi inquisitori sulle lucide abbottonature e sui morbidi polsini, finché Addui non piegò il capo e sorrise amorevolmente a una giovane segretaria, che lo salutò cordialmente.
«È firmato?» chiese il capoufficio, tornando a concentrarsi sulla faccia livida di Ortoschi.
«Come, scusi?»
«Intendo, il suo cappotto. È un bel cappotto. È firmato?»
Michele sentì la palpebra cedergli e strizzarsi in un tic nevrotico.
«Non… non ho badato a…»
Addui scoppiò in una sincera risata.
«Ah, male, amico mio, male! Bisogna stare attenti a certi dettagli! Possono fare la differenza in molte occasioni, mi creda. Lei è sposato? Sì, vedo di sì. Deve essere un uomo fortunato allora.»
«Ah!» sbottò Ortoschi. Batté il palmo sulla gamba destra e fece un passo avanti. «Avrei detto il contrario.» concluse superando il collega.
Preferiva chiudere lì la discussione, prima che la stupida voce del petulante collega lo innervosisse troppo.
Per qualche strana ragione, quasi irrazionalmente, la mano corso alla fede. La rigirò, provò a sfilarsela, ma per fortuna era incastrata. Chissà perché ora gli dava da pensare.
Ma aveva altro a cui pensare che badare a certe cose.
La firma. La firma! Ora doveva stare pure a badare al cristo che aveva disegnato il suo abito. Che importanza aveva? Bastava che fosse uno bravo in fondo. Questo gli frullava in testa mentre entrava nell’ufficio, appoggiava bruscamente il cappotto all’appendiabiti e si sedeva alla scrivania traboccante di foglie e pratiche.
Rimase lì a rimbrottare e scarabocchiare su alcuni fogli per quindici minuti buoni, finché qualcuno non bussò alla porta, facendoli alzare la testa sopra la sua trincea di carta e inchiostro.
Appoggiato alla porta vi era un uomo in là con gli anni, alto, magro, i capelli grigi che battevano in ritirata dall’ampia fronte.
«Buongiorno, signor direttore.» esclamò Ortoschi aggiuntandosi la cravatta e scattando in piedi per poter stringere la mano al suo superiore. «Cosa la porta nel mio ufficio?»
Il direttore della filiale si fece avanti con passi ampi e lenti e si sedette sulla sedia che Ortoschi gli accomodò davanti alla sua scrivania.
«Devo farti una domanda, caro Ortoschi.» esordì apatico il direttore guardandosi rapidamente intorno con sguardo attento per poi inchiodare i suoi occhi grigi in quelli del sottoposto.
«Che genere di domanda, signor direttore? Sono a sua completa disposizione. Faccio portare un tè? Un caffè?»
«No, non serve, grazie comunque. Andiamo dritti al sodo. Tu sei da tanto in questo ufficio, quindi sono sicuro che saprai rispondermi con sincerità e rapidità. È una questione di una certa delicatezza, relativamente parlando.»
Ortoschi sentì il battito accelerare. Male, poi avrebbe dovuto prendere le pillole per il cuore.
«Dica pure.»
«S’è liberato un posto come capoufficio nella filiale di Pimonte.»
Le rotelle nel cervello di Ortoschi iniziarono a ingranare, causandogli un aumento della salivazione.
«Sì? Ma che notizia inaspettata.»
«Sì, un increscioso incidente, ma nulla che non si possa risolvere.»
«E quindi lei è venuto da me, signor direttore…»
«Sono venuto da te…» proseguì il direttore piegandosi lievemente in avanti e incrociando le dita sotto al mento. «… perché ho bisogno di un uomo esperto e di fiducia.»
Ormai il cuore di Ortoschi martellava impazzito nel petto. Avrebbe dovuto controllare la pressione.
«Tu sei qui da molto tempo, conosci tutti ormai, quindi saprai consigliarmi.»
Ortoschi sentì un mancamento.
«Chi è il più indicato, secondo te?»
Ortoschi rimase a bocca aperta, incapace di parlare, boccheggiando come un pesce all’amo.
«Pensavo a Guazzarri, ma non sono sicuro, volevo un secondo parere. Che ne pensa?»
Michele scrollo la testa e sentì il sangue tornargli in circolo.
«M-ma signor direttore, sono trent’anni che lavoro qui…»
«Appunto.»
«Sapete che già miravo alla posizione di capoufficio.»
«Lo so, caro Ortoschi, lo so.»
«Ma allora perché non offrite a me…?»
«Oh, caro Ortoschi.» il tono del direttore da apatico si fece gelido. «Non ti nego d’aver preso in considerazione anche te, ma c’è un problema.»
«Quale? Sono sempre stato un dipendente irreprensibile, arrivo sempre puntuale, non lascio una pratica…»
«La tua gamba.»
«Eh?»
«Esatto, la tua gamba.»
«La mia gamba?»
«Certo, non posso avere un capoufficio zoppo, è una questione d’immagine. Bisogna avere certi modelli da mantenere.»
Il vecchio impiegato vagava con lo sguardo oltre gli occhi del superiore, oltre il muro dell’ufficio, perso nel vuoto. boccheggiava, non sapendo cosa altro dire, farfugliava silenziosamente ingoiando la salive e le parole.
«Perché zoppico», biascicò infine.
«Sì, non saresti una figura credibile, per i sottoposti e per i clienti.»
«Solo perché zoppico?»
«Beh, in realtà no. È vero, sei un impiegato irreprensibile, ma come persona tendi a essere… brusco, diciamo, per rimaner garbati.»
«Come brusco?»
«Massì, caro Ortoschi, in una posizione del genere ci vuole un certo savoir-faire, come si dice in Francia.»
«E sarebbe?»
All’improvviso a Michele iniziava a dare fastidio che il direttore gli desse del tu.
«Vedi, caro Ortoschi, è questo che intendo. Con l’interlocutore bisogna intendersi, appunto, saper stare al gioco, dissimulare, convincere l’altro che si pensa la stessa cosa mentre invece lo si porta dalla propria parte. Non so se sono chiaro.»
Nonostante il volto impassibile del direttore, Ortoschi era sicuro d’essere in quel momento paonazzo in viso. Ricacciò indietro insulti e bestemmie e trattenne un sospiro che sapeva di sconfitta.
«Capisco.»
«Bene.»
«Perché non Addui?»
Il direttore sorrise, quasi gli sfuggì una risata. Fu solo il dubbio d’un attimo. Ma tornò subito serio, seppur affabile. Se la memoria non l’ingannava, era la prima volta in tutta la sua carriera in cui Ortoschi vedeva il direttore sorridere. Gli venne un nodo alla gola.
«Suvvia, Addui è un ottimo lavoratore e sì, ha le qualità del capoufficio, ma manca di esperienza. Per questo è qui, dove io lo posso tenere sotto osservazione e dove voi potete insegnargli molto. È semplicemente troppo giovane per avere tutta quell’indipendenza che Pimonte garantirebbe.»
«Capisco.»
«Bene.»
I due rimasero in silenzio per un po’, finché Ortoschi non ruppe l’imbarazzo che tra loro era calato.
«E poi… sarebbe sprecato lì, un capoufficio così promettente.»
Ortoschi non credeva alle stesse parole che gli erano appena sgorgate dalla sua gola, affiorate alle sue labbra incontrollate.
«Sì, è innegabile.» fu la risposta secca che ottenne.
Il rivolo che si stava insinuando nella sua bocca saliva, cresceva in potenza e premeva contro gli argini dei suoi denti serrati. Ortoschi voleva smettere di parlare, chinare il capo e offrire l’ennesima tazzina.
Ma ormai era stato travolto dalla corrente.
«Beh, signor direttore, Pimonte è piccolo e defilato.»
«Certo, e con ciò?» rispose con calma il superiore.
«Non penso sia necessaria una persona di primissima qualità, sarebbe sprecata. Basta qualcuno che sia bravo il giusto.»
Il direttore sciolse le mani, distese la schiena e appoggiò l’indice sotto i denti, gli occhi improvvisamente colti da un guizzo furbo.
«Intuisco dove vuoi arrivare. Prosegui.» disse cordialmente.
«Sì, signor direttore, non la credo un fesso, quindi non mi dilungo. Basta un impiegatuccio, uno bravino ma non troppo. Pimonte è una zona tranquilla, là sono tutti provincialotti, basta il più fesso tra noi di città. E qui intanto si potrà far posto a qualcuno più giovane e più… meno brusco.» Le dimostrerò che saprò farmi rispettare, che ho questo savoir-faire di cui lei parla. Se non mi ameranno…» Ortoschi si batté col pugno sulla gamba destra, quella lesa da una malattia contratta durante l’infanzia. «Mi rispetteranno col timore.»
Il direttore rimase per un attimo in silenzio, quindi finalmente parlò, soppesando attentamente ogni singola parola.
«Pimonte non è esattamente dietro l’angolo, non sono sicuro che l’aumento di stipendio che questa promozione comporterà compenserà tutti i disagi che la stessa causerebbe a te e a tua moglie.»
«Non c’è problema, signor direttore, trovo sempre una soluzione a certe cose, e mia moglie accetterà senza fare storie. Basterà un piccolo prestitino e prenderò un’auto, poi basterà stringere la cinghia per qualche mesetto. Non sono i soldi che m’interessano.»
«È sicuro? Non è una decisione che andrebbe presa alla leggera.»
«Sì, sono sicuro, signor direttore. Sono perfettamente in grado di decidere da solo.»
Ortoschi fissava deciso il superiore negli occhi, in attesa di risposta.
«Sua moglie non credo proprio la prenderà bene.»
«Questa faccenda non riguarda mia moglie. Con tutto il rispetto, signor direttore.»
«Ma lei dovrebbe ravvedersi, pensare alla salute. La sua gamba le darà da pensare, insomma.»
«Non importa, signor direttore, finché avrò quel posto, non avrò altro a cui pensare. Mi metta alla prova, Pimonte è robetta da nulla, basterà per farmi valere.»
«Oh, beh… questo non lo metto in dubbio, solo…»
«Solo cosa, signor direttore? Teme forse che qualche pesce grosso di cliente si lamenti d’un insignificante capoufficio di un anonimo ufficio di periferia? Lo teme davvero, signor direttore? Mi mandi lì, suvvia, dove non potrò fare danni, e qui tenga libero il posto per qualcuno di cui ha davvero bisogno.»
L’impassibile superiore indugiò ancora per qualche attimo; qualcuno lo avrebbe definito incerto, dicendo che era stato tradito dagli occhi. Ma non Michele Ortoschi, semplice impiegato da oltre trent’anni, non lui. Non si sarebbe azzardato a mettere in discussione la tempra e l’animo dell’insondabile magnificentissimo signor direttore. La piena era scemata, il fiume s’era prosciugato fino a lasciare un arido letto e ora non restava che la paura d’essersi giocato il posto. Nel qual caso, non avrebbe mai trovato un altro lavoro così tranquillo, così facile. Così…
Il direttore sobbalzò lievemente, risvegliandosi da chissà quale sua macchinosa elucubrazione e richiamando Michele Ortoschi dalle sue inutili elucubrazioni mentali; guardò il vecchio impiegato con una smorfia soddisfatta stampata sul viso e fece un cenno d’assenso, forse addirittura di sottomissione, ma il subconscio del vecchio Ortoschi sicuramente esagerava.
«Mi ha proprio convinto, caro Ortoschi. Il posto è suo, comincia domani.» concluse infine alzandosi e avviandosi all’uscita.
Prima di infilarsi attraverso la porta lo sguardo gli cadde sull’attaccapanni.
«È suo questo cappotto?»
«Sì.»
«È un bel cappotto.»
«Buona giornata, signor direttore.»
 
   
 
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