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Autore: Surya_Asu    05/05/2019    0 recensioni
Seconda metà del secolo corrente. Crisi energetica e sovrappopolazione innescano circostanze drammatiche e precipitano il mondo nel caos. In un’ottica di conservazione del benessere, ogni essere umano diventa vittima e carnefice allo stesso tempo. Elio, ingegnere energetico italiano emigrato in Pennsylvania, cerca di salvare la sua famiglia dal male che è giunto. Un male che culmina con un nuovo olocausto per il genere umano. Ma non è tutto qui: c’è chi trama per soluzioni ancora più estreme e ci sono persone ancora più disperate di quelle che vengono sacrificate alla luce del sole.
Genere: Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Nel suo disegno il prato era verde smeraldo, le siepi erano rigogliose e gli alberi di cedro carichi di frutti. Così Yuna continuava a immaginarsi il giardino davanti casa, che da quando suo padre era morto, si trovava in uno stato di totale abbandono.
Terminò di sfumare il cielo e scrisse il suo nome in alto.
Sollevò gli occhi dal disegno e ripiombò nella tristezza.
Non c'era angolo in cui la vista potesse scampare alla memoria dei nonni trasformati e di suo padre che li aveva raggiunti per una malattia. Ovunque c'erano foto incorniciate che raccontavano di una famiglia felice, una volta. Le pareti e i mobili erano tutti assegnati a ospitare una mostra permanente che in nessun modo dava conforto.
«Si sta preparando una tempesta» disse sua madre, col viso talmente vicino alla finestra da lasciare sul vetro la condensa del suo respiro. 
Pigiò un pulsante e una tenda a rullo calò tra lei e l'oscurità. Rimase immobile davanti a quel tessuto oscurante, come se vi potesse vedere attraverso. 
Fu riscossa dalla suoneria dello shifterphone e si guardò intorno disorientata.
«Dove diavolo l'ho messo?» si domandò.
Si mise a perlustrare il soggiorno cercando prima sui mobili e poi sui divani, sempre più agitata, squillo dopo squillo. Spostò vestiti e giochi, poi scansò i cuscini farfugliando qualcosa riguardo 'la sua dannata iattura'.
Yuna seguì la suoneria con le orecchie e si diresse verso il punto da cui le sembrava provenire. Scandagliò con gli occhi la mensola della credenza e trovò, in bella vista, il tubetto polimerico lungo il quale scorrevano fasci iridescenti. Lo portò a sua madre.
«Mamma, tieni.»
Il viso di sua madre mosse a tale espressione di gratitudine che sembrava fosse appena stata salvata da chissà quale catastrofe.
Le strappò lo shifter dalle mani e ne estrasse l’auricolare, finta ametista che rendeva fashion l’accessorio insieme ad altri brillanti fasulli. Lo inserì in un orecchio e si scoccò su un polso il tubetto facendolo chiudere a scatto come un bracciale.
Sul suo avambraccio comparve la proiezione del display. Sfiorò il simbolo verde per accettare la chiamata e si scansò i capelli dal volto.
«Pronto… Sì, aspetti un momento» disse e corse al piano superiore.
Yuna si arrampicò per le scale e stette in silenzio, in ascolto.
«Sì, possiamo vederci tra un'ora... al Bounty Motel... Ok.»
Yuna scattò di sotto prima che sua madre ricomparisse e si fece trovare a ritoccare il disegno con un pastello.
«Che bello, tesoro.»
«Te lo regalo se ti piace.»
«Ma certo, lo adoro, grazie. Lo appenderò nel mio ufficio insieme agli altri.»
Non esiste nessun ufficio, pensò Yuna. Avrebbe voluto gridarglielo e farle confessare dove andava tutto il giorno e spesso anche la sera. Ma finse di crederle.
«Stasera c'è il Karaoke in Tv» disse.
«Sì, amore, lo so. Io però ho una riunione.»
«Non rimani con me?»
«Non posso, tesoro. Ma tornerò prestissimo, promesso. Ora va' a lavarti le mani, la cena è quasi pronta.»
Il vento fuori urlava, scuoteva gli alberi, attaccava le imposte.
Yuna andò nel bagno al piano superiore. Si sollevò sulle punte per guardarsi nello specchio al di sopra del lavabo e aprì l'acqua.
«I wanna fly to the sky, high, so high» cantava.
Con la mente trasformava i rumori della cucina in una base musicale. Un cucchiaio che urtava contro un recipiente, un coltello che batteva su un tagliere, pentole, posate, piatti. Ogni cosa era uno strumento suonato da sua madre.
Il trillo del forno le ispirò un crescendo.
Aumentò il volume della voce impegnandosi a non steccare, ma sul più bello, mentre attaccava il ritornello, dal piano di sotto giunse un urlo.
In contemporanea uno schianto di qualcosa di pesante, probabilmente una pentola.
Smise di cantare.
«Mamma!» chiamò, ma non ci fu risposta e allora più forte: «Mammaaa». Nessuna risposta ancora. Uscì dal bagno. L'acqua tiepida le gocciolava dalle mani.
Forse sua madre s'era fatta male, ma perché non le rispondeva? Avanzò per il corridoio affilando lentamente un passo dietro l'altro, in un silenzio che si faceva insopportabile.
Si affacciò sulle scale e iniziò a scendere. Il suo respiro ora le risuonava nelle orecchie. Era a circa metà della rampa quando i suoi occhi incontrarono quelli di uno sconosciuto. Un uomo massiccio, con la faccia butterata.
Cacciò un urlo con tutto il fiato che aveva in gola e quello le si lanciò contro salendo a due a due i gradini. La prese come un sacco e se la caricò in spalla. Dalla cucina sbucò un altro tizio, in braccio aveva sua madre. La teneva sollevata nel modo in cui il principe azzurro faceva con la sua bella nel lieto fine di una delle sue favole preferite. Ma la scena che aveva davanti agli occhi era molto diversa: quell'energumeno non sembrava felice, né innamorato, e sua madre era ancora addormentata. Le sue braccia oscillavano molli e al polso sinistro non c’era più lo shifterphone.
Se lo toglieva sempre pur sapendo che poi, quando squillava, non riusciva a trovarlo in tempo per rispondere. Ma Yuna intuì che forse stavolta non se lo era tolto da sola, poiché ce l'aveva in pugno quel brutto ceffo che reggeva il corpo inanimato della sua mamma. 
 Lo lasciò cadere a terra e lo pestò con un piede.
«Tanto non le servirà più» disse.
Furono trasportate fuori.
Nel vialetto, oltre il giardino velato di foglie secche che correvano spinte dal vento, era parcheggiata un'autoambulanza.
«Siete dottori?» domandò con appena nata speranza, mentre penzolava a testa in giù. Cercava di aggrapparsi alla schiena di quell'omone: se l'avesse lasciata all'improvviso, sarebbe precipitata sul lastricato di pietre che attraversava il cortile.
«Certo. Ora stai buona, così tua madre potrà riposare finché non arriviamo in ospedale, ha preso una bella botta.»
La fece sobbalzare con quel genere di scossoni che prendono alle persone quando ridono. Li aveva avvertiti mille volte in braccio a suo padre quando si sganasciavano giocando alla lotta insieme, ma la risata che udiva adesso non era dolce come quella del suo papà.
L'omone la scaricò nell'area medicalizzata dell'ambulanza. L'altro gettò sua madre sulla barella. Ma come era possibile che i paramedici fossero arrivati così presto da quando sua madre aveva gridato? Manco se fossero stati dietro l'angolo. E poi, chi li aveva chiamati?
Mentre le sorgevano in testa domande su domande, il portello si chiuse. Uno era rimasto con lei e la mamma, l'altro ricomparve alla finestrella retata che dava sulla cabina del conducente.
«Tutto ok lì dentro?» urlò.
«Benissimo, vai a sirene spiegate» disse quello nell'area medica.
Yuna si accostò alla barella. «Che cosa è successo alla mamma?»
«Ha avuto un improvviso mal di testa!» rispose l'omone. Dal vano guida giunse una risata che era più un verso di animale.
Yuna accarezzò il viso di sua madre, gonfio e arrossato da un lato. Le prese la mano e attese per un tempo che le sembrava infinito.
L'ospedale di Pottsville era a pochi minuti da casa. Lo sapeva perché la mamma ce l'aveva portata già una volta, quando era caduta dall'altalena e avevano dovuto metterle i punti a un ginocchio. Ma di tempo ne era trascorso molto di più da quando erano partiti, ne era certa anche se non aveva modo di consultare l’ora. Provò a svegliare sua madre. La scosse e la chiamò ancora e ancora, ma non riuscì a farle aprire gli occhi.
L'omone seduto sul sedile alla testa della barella sbuffò.
«Mi stai scocciando davvero, vedrai cosa ti succede se non la pianti» disse con una voce che sembrava quella di un orco.
Yuna indietreggiò e si accasciò sul sedile accanto al portello laterale. Sentì le lacrime colarle sulle guance. Scesero ininterrottamente, calde e salate fino a che il mezzo si fermò.
L'omone si alzò e si sgranchì. Con tutta calma aprì il portello posteriore lasciando entrare il fischio del vento e un odore ferroso.
«Scendi» disse l'omone mentre armeggiava intorno al lettino.
Terrorizzata, Yuna obbedì. Lo guardò sganciare la barella e farsi aiutare da quello che aveva guidato a portarla giù, in un piazzale illuminato da alcuni fari con grossi fabbricati tutt'intorno.
Nell'edificio più vicino, accanto all'ingresso campeggiavano due targhe blu. Sulla prima c'era scritto 'Archivio', sulla seconda 'Infermeria'.
Quello che aveva davanti però, non era l'ospedale dov'era stata con la mamma: quello lì aveva centinaia di vetrate lucenti, mentre questo non aveva nemmeno un quarto di tutte quelle finestre. Non c'erano alberi davanti e nemmeno il giardino fiorito.
Dall'edificio uscì un uomo, le andò incontro e la acchiappò per un polso. L'autista si rimise alla guida dell'ambulanza, mentre il tizio con la voce da orco prese a spingere la barella verso l'ingresso. Mentre veniva trascinata dentro, Yuna rilesse la targa che riportava la scritta 'Infermeria' per sincerarsi di avere visto giusto.
L'interno dello stabile era un reticolato di corridoi deserti in cui regnava il silenzio più assoluto. Giunsero a un ascensore.
Sua madre schiuse gli occhi e uno degli uomini estrasse subito una pistola dalla cintola per puntargliela contro.
Lei sussultò alla vista dell'arma, ma si sollevò sul lettino.
«Mamma!»
«Amore mio...» Allungò una mano, ma non riuscì a raggiungerla perché la lettiga venne spinta dentro l'ascensore.
Anche Yuna venne ficcata dentro.
«Chi siete? Dove ci avete portate?» strepitò sua madre sporgendosi.
«Ti conviene stare calma» la minacciò il barelliere con una faccia scura di carnagione e anche di umore.
Scesero di un piano e la porta si aprì. La barella virò a destra, mentre Yuna venne trascinata in direzione opposta.
«Perché ci avete portate qui?» urlò sua madre.
Si spostò sul bordo e mise giù i piedi, ma rovinò a terra. «Mio Dio, mi avete drogata?»
Il barelliere la sollevò e la sbatté sulla lettiga urlandole che, se solo avesse provato ancora a muoversi, non avrebbe esitato a spezzarle braccia e gambe.
Ma sua madre non ne voleva sapere di stare ferma e si dibatteva mentre quell'uomo le teneva fermi polsi con una sola mano e con l'altra, chiusa a pugno, la colpiva in volto.
Yuna si scagliò in loro direzione, ma non poté nulla contro la forza dell'energumeno che, messa via l'arma, ora la costringeva a camminare tirandola per un braccio.
Sentì sua madre gridare ancora e ancora, finché le grida non si persero in lontananza. La paura ora la divorava insieme a un nuovo sentimento, un sentimento che, quando sua madre glielo spiegava, lei riusciva a capirlo solo fino a un certo punto, ma che adesso invece comprendeva benissimo: l'odio.
L'omone la trascinò per corridoi spogli, illuminati di sola luce artificiale e si arrestò di fronte a un portone d'acciaio rosso, una nota stonata in quel posto in cui le uniche tonalità erano il bianco delle pareti, l'argento dell'acciaio e il giallo di alcuni cartelli. Una porta tutta rossa poi non l'aveva mai vista prima se non sui libri di fiabe. Per un istante immaginò che fosse un accesso per un mondo incantato, ma rimosse subito il pensiero perché le era chiaro che si trattava una speranza vana.
Cancellò dalla memoria tutte le favole e si preparò alla realtà.
Fu introdotta in una camera claustrofobica, senza finestre, al centro della quale c'era una poltroncina reclinabile che sembrava quella del dentista.
Accanto ad essa, un uomo corpulento con degli spessi occhiali da vista sistemava dei ferri su un tavolino.
«Chi abbiamo qui?»
«Soggetto femmina, dieci anni, prelevata con la madre alla periferia di Pottsville. Nessun famigliare prossimo.»
«Bene, issiamola sul lettino.»
Yuna urlò e scalciò, tentò di mordere, ma venne sopraffatta e sbattuta sulla poltroncina. L'uomo con gli occhiali la accecò con un faro, poi oscurò parzialmente la luce col testone. Le controllò le pupille e la bocca. L'altro le premeva una mano sul petto ricordandole in quel modo che sarebbe stato inutile tentare di muoversi.
L'occhialuto si girò di spalle a trafficare con i suoi attrezzi e, quando si voltò, aveva una sorta di siringa senza stantuffo. Senza spiegarle nulla, si accanì sul suo braccio. Le bucò una vena e infilò una provetta nella siringa. La provetta si riempì di sangue e lui la sostituì con un'altra vuota, e poi ancora una e ancora un'altra, fino a farle perdere il conto.
«In piedi» disse dopo che le sfilò l'ago.
Lei non si mosse e ci pensarono loro a tirarla su.
Maneggiandola come se fosse un oggetto, la misero su una bilancia. Le misurarono il peso e poi l'altezza.
E lei, senza più forze, smise di ribellarsi.
Non fece un fiato nemmeno quando la denudarono e le levarono anche l'orologio e la collanina d'argento che le erano stati regalati da sua madre.
Le diedero un nuovo abito: una tunica logora di colore grigio che sembrava un sacco con dei buchi per braccia, testa e gambe.
«Portala via» disse l'occhialuto. L'altro la prese per un braccio ricordandole il modo in cui, quando era più piccola, si trascinava dietro il suo orsacchiotto di pezza.
Giunsero a una zona permeata da suoni infantili: vagiti e singhiozzi.
L'uomo, con una chiave lunga e spessa, aprì una porta di metallo. Le piantò una mano sulla schiena e la lanciò dentro.
La forza della spinta fu tanta che Yuna si ritrovò per terra, con i palmi delle mani e le ginocchia che bruciavano. Alle sue spalle il portone rimbombò.
Si portò il pollice alla bocca, non lo faceva più dai tempi dell'asilo, da quando un bambino le aveva detto che mettersi il dito in bocca era da fifoni.
Si raccolse lì dov'era, con le gambe strette al petto. Girò lo sguardo intorno per la cella angusta. La sola fonte di luce era un debole fanale fissato sul soffitto.
Incontrò dei volti. Tanti e spaventosi, tutti fissi su di lei. Appartenevano a una quindicina di persone almeno, la maggior parte calve. Come il suo papà quando si era ammalato.
Tra loro, rannicchiati su teli sporchi, c'erano due bambini molto piccoli, più di lei.
Si chiese se davvero non fosse finita in un ospedale, ma allora quello avrebbe dovuto essere un reparto oncologico. Aveva forse un tumore?
Ne contò solo quattro di persone con i capelli, tutte donne.
Tutti quanti lì indossavano tuniche come la sua, di un color grigio spento. A qualcuno la tunica arrivava alle caviglie, ad altri nascondeva anche i piedi.
Le quattro capellute avevano lunghe chiome spettinate. Unte come se non le lavassero da un'eternità, crespe e intricate che sarebbe stato impossibile farci scorrere in mezzo le dita fino alla fine, come faceva con i suoi riccioli neri e con i capelli morbidi di sua madre.
Ma erano i calvi ad avere la testa nelle condizioni peggiori: nella zona dove a occhio e croce avrebbe dovuto trovarsi l'attaccatura dei capelli, in mezzo a un livido violaceo, tutti avevano un oggettino metallizzato dalla forma allungata, tipo un fermaglio particolarmente spesso e brutto. Ma i capelli non li avevano, perciò non aveva senso. Tra l'altro, non riusciva a spiegarsi come facessero quei cosi a reggersi su superfici glabre.
Uno dei calvi emise un verso, tipo il gridolino di un bambino, e si mise ad agitare i pugni chiusi in maniera infantile. Un altro mugugnò, cacciò un rigurgito dalla bocca e cominciò a frignare. Coi singhiozzi contagiò un altro, poi un altro ancora.
Tutto era così assurdo: ragazzi grandi e grossi che si comportavano come neonati.
Come in risposta a quei pianti disperati, anche da fuori presero a giungere urla e vagiti.
Le gambe le si piegarono. Sentì come se gli occhi le stessero per straripare.
Il terrore le calò addosso come una pioggia acida, tanto intenso da impedirle di decifrare le prime parole che una delle donne con i capelli le rivolse.
La donna si teneva una mano sul pancione, così grosso che sicuramente doveva esserci un bimbo dentro. Aveva detto qualcosa, ma non le era arrivato alcun significato.
Forse lei se ne accorse, perché le si avvicinò e le si inginocchiò di fronte.
Le sfiorò lievemente la mano, quella di cui aveva ancora in bocca il pollice.
«Mi ha sentito? Non è di noi che devi avere paura» disse. Srotolò una delle maniche della tunica facendole vedere che ci aveva nascosto un pezzo di carta appallottolato. Lo utilizzò per asciugarle le lacrime.
«Mi chiamo Mary e quella è Lisa, la mia bambina.»
Indicò un fagotto rannicchiato in un angolo, nessun capello in testa e i lineamenti androgini tipici dei bambini piccoli. Non l'avrebbe mai detto che fosse una femmina e soprattutto che fosse una bambina: era almeno tre volte più grossa di lei e a vederla, se non una persona adulta, sembrava almeno una ragazza, anzi un ragazzo.
«Ti va di fare la sua conoscenza?»
Yuna non disse nulla, era come se fosse diventata di pietra, ma si lasciò accompagnare.
Appena fu accanto a Lisa, si mise a fissare lo strano oggetto metallico che aveva in testa. Mai aveva visto niente del genere. Guardandolo più da vicino, si accorse che da un'estremità ne spuntava un filo sottile che sembrava di nylon. Quel filo terminava appena al di sopra del naso di Lisa, tra gli occhi, infilandosi nella carne. Delle minuscole palline argentee correvano per tutta la sua lunghezza. Partivano dall'alto, dall'aggeggio di metallo fissato sul capo e procedevano in direzione del punto in cui il filo spariva nella carne in mezzo agli occhi.
«Ti fa male?» le chiese.
Lisa inclinò il testone da un lato e, invece di rispondere, le prese un braccio e la tirò a sé. Se la strinse al petto come fosse un pupazzo e crollò addormentata.
 
   
 
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