Fumetti/Cartoni europei > Dylan Dog
Ricorda la storia  |      
Autore: whitemushroom    11/05/2019    1 recensioni
Quali peccati si possono commettere, se per amore di un figlio?
Una mia versione semplificata degli eventi che hanno portato al culmine gli eventi di Dylan Dog e Xabaras, focalizzata soltanto su di loro e sulla loro corsa contro il tempo.
Storia partecipante al contest Le nostre ali per il nono anniversario del mitico thexiiiorderforum. Tema: Tema libero.
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dylan Dog, Xabaras
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il tempo, questo sconosciuto

 

vfefQsJ TNIcHUS



Personaggi: Dylan Dog (a sinistra), Xabaras (a destra)
Fandom: Dylan Dog
Rating: arancione
Avvertenze: questa storia è una versione semplificata dei due numeri che suggellano le vicende tra Dylan Dog e suo padre. Per non inserire tutti i personaggi della vicenda originale e focalizzare l'attenzione su loro due ho rivisitato alcune delle scene per adattarle alle esigenze della storia, ma il tema e gli eventi cardine sono identici.


Martedì 07.03.2010. Ore 9.45.
Giorno 3915.
Dopo 15 giorni dal Rientro, il soggetto Theta è in perfette condizioni. Colore dell’iride nella norma, peso in diminuzione ma nel corretto percentile. Gli altri ratti non sono ancora Rientrati ed un paio hanno riportato i soliti effetti indesiderati, ma Theta non manifesta alcun sintomo.
Le analisi rilevano solo un lieve aumento degli eosinofili.
Ce l’ho fatta.
Theta è Rientrato.
Ce l’ho fatta.


Il tempo, questo sconosciuto.
Xabaras guarda il proprio riflesso nella vetrina.
Ha sempre cercato di arrestare il tempo, lui.
Il caos del centro commerciale lo avvolge, gli annega i sensi. Non è mai stato un amante delle folle.
Si sente bene. Anzi, benissimo.
Non è mai stato meglio. Persino quel fastidioso dolore al ginocchio destro è sparito.
Guarda un paio ragazzi, hanno circa la stessa età di Dylan. Sbirciano quasi in punta di piedi il modello della nuova Jaguar esposta al piano terra. Sognano, e si scattano le foto vicino al veicolo, sfoggiando un paio di chiavi.
Si chiede se a Dylan piacciano le Jaguar.
Si chiede se ogni tanto vada anche lui al centro commerciale, alle sfilate, ad impregnarsi dell’odore del genere umano al massimo del suo benessere. Se sia un tipo più da iPhone o da Samsung, da Liverpool o da Manchester United. Sa così poco di lui, eppure così tanto.
E no, potrebbe comprargli anche tutto il centro commerciale, ma non c’è niente in quella calca di merci che possa accompagnare degnamente il dono che ha preparato per lui.
Nemmeno un po’.
I ragazzi escono fuori, stanchi.
Non hanno comprato nulla.


Mercoledì 29.03.2010. Ore 13.03
Giorno 3937.
I risultati ottenuti superano le mie aspettative. Non solo Theta, ma anche Lambda e Mi sono Rientrati. Li avevo soppressi in maniera differente -vedere gli appunti in data 08.03.2010- , eppure i loro corpi non mostrano alcun segno del trauma subito.
I parametri sono eccellenti.
Theta ha iniziato a mangiare un po’ meno. Ritengo sia dovuto all’eccesso di peso ponderale dovuto all’assunzione di cibo successivo al Rientro. Il livello di eosinofili è alto, ma si è arrestato ad un picco perfettamente compatibile con la vita.
Quella dei ratti, almeno.
Il prossimo step è abbastanza logico.



Il tempo, questo sconosciuto.
Il tempo, che questa sera sembra giocargli un brutto tiro.
Potrebbe alzarsi e sbattere la porta. Non ha visto nessun energumeno pronto a riportarlo dentro, e sa che Xabaras non si circonda di assistenti o servitù. Vivi, almeno.
Potrebbe sbattergli il piatto in faccia, e chiedergli il perché di quella farsa.
Potrebbe piantargli un proiettile in petto.
Potrebbe.
Dylan potrebbe molte cose.
“Non è cotta bene?”
Rigira la forchetta nel piatto dove è rimasta per gli ultimi venti minuti. Prende del pane e lo assaggia a piccoli morsi. Tortino di carote e formaggi, ed un contorno di patate arrosto.
Xabaras sa che è vegetariano.
Sì, Dylan riflette, potrebbe andarsene. Il negromante non gli ha requisito la pistola.
Quanto tempo ha passato nel tentativo di fermarlo? Manda giù i bocconi, ma perde il conto.
L’uomo di fronte a lui ha distrutto il villaggio di Undead. Ha rapito uomini e donne, ed ha ucciso. È un mostro, un mostro con gli occhi azzurri come il cielo.
È un mostro, e Dylan per mestiere i mostri li uccide, soprattutto quelli che sembrano umani. Perché, in realtà, di umano hanno soltanto i vestiti, la voce, le labbra. “Cosa vuoi da me?”
“Un padre non ha diritto di invitare il proprio figlio a cena?”
“Non vedo nessun padre”.
Se deve qualcosa a quell’essere a metà tra lo stregone e l’alchimista, non sarà certo quel tortino di carote sbriciolato a farglielo tornare in mente. Forse gli incubi, quelli sì.
E la paura.
La ricorda bene, la paura di essere lasciato solo. Quella che ti spinge a guardare oltre la finestra di un convento buio insieme ad altri bambini nella speranza che una di quelle coppie di adulti, quei signori e quelle signore che hanno delle bellissime automobili, scelga proprio lui. Che uno di quegli uomini ben vestiti, magari il signore con la camicia rossa e la cravatta un po’ disordinata, si chini su di lui con un lecca-lecca in mano e gli dica “Ciao. Posso essere il tuo nuovo papà?”.
Un ricordo dove l'uomo che lo ha abbandonato per inseguire le sue matte ricerche non è mai presente.
Il regalo, avvolta da un nastro ed una carta dai colori impensabili, gli viene messo tra le mani. Glielo appoggia in modo strano per una persona le cui dita hanno passato più notti a dissezionare cadaveri che non ad accarezzare il proprio figlio. Scarta il pacco, curioso, e gli occhi dell’altro sono colmi di qualcosa a cui non saprebbe dare un nome.
Una provetta, un fluido verde. Una siringa.
“Buon compleanno, Dylan”.


Venerdì 02.04.2010. Ore 23.45
Giorno 3942.
I risultati ottenuti sulle cavie non sono nulla rispetto a ciò che il mio siero riesce a sviluppare sugli esseri umani. Se nei ratti si osserva la realizzazione di una nuova proteina monofilamento-la chiamerò dylanina, se un giorno il mondo scientifico vorrà usufruire della mia ricerca- in aggiunta all’actina ed alla miosina, nei soggetti umani la dylanina è ramificata in una struttura elicoidale che arriva da sola a comporre più del 40% del tessuto muscolare. L’aumento della capacità contrattile supera del 37% i valori medi. Suddetta forza contrattile raggiunge un incremento anche del 50% a livello del miocardio, con un superamento quasi totale delle patologie da stasi venosa.
Dunque non solo gli esseri umani potranno Rientrare dalla morte, ma lo faranno in dei corpi più forti, migliori.
Quando mi sono sparato, subito dopo essermi iniettato il siero, sapevo che sarei Rientrato. Certo, avrei dovuto aspettare per valutare reali effetti indesiderati a lungo termine, ma ho deciso che sono stanco.
Ho dedicato la mia vita alla ricerca della cura per la mortalità.
E, se lo ho fatto, è perché ho qualcuno la cui vita mi è cara.
Quando Dylan deciderà di iniettarlo in sé, sconfiggendo la Morte, allora il mio ruolo di padre sarà concluso.
E forse, quel giorno, potrò espiare per tutto il male che gli ho fatto.



Il tempo, questo sconosciuto. Potrebbe farlo suo, tutto questo tempo.
Tutto tace nel giardino della villa. Regna l’umido della sera, della pioggia, dei pensieri del domani.
Si leva le scarpe, Dylan. L’erba si piega tra le sue impronte mente raggiunge quell’area del giardino che Xabaras ha reclamato per sé.
L’uomo manovra il telescopio come uno strumento musicale. Le dita scorrono dalle ghiere metalliche ai suoi fogli degli appunti senza che lo sguardo le guidi, sfiorano mappe del cielo che ad occhio e croce avranno due secoli o tre. È l’unico uomo che conosca in grado di leggere il cielo anche nello smog di Londra.
“Hai preso la tua decisione?”
“Sì”
Quanti amori, Dylan? Quante storie? Migliaia, ma le conti tutte. Le sapresti elencare, una dopo l’altra, senza mai sbagliare. Quante avventure? Le vivi perché ti chiamano una dopo l’altra. Perché credi, e ti hanno raccontato che ad un cuore che crede tutto è possibile. Se ripensi alla tua vita riesci ad uscire dal gioco degli specchi?
Sai meglio di tutti noi che essere umani vuol dire avere un termine. Godersi ogni cosa, perché anche un semplice soffio di vento può portarci via tutto. La paura è la nostra compagna di viaggio. Naturale e bellissima.
E quell’uomo dagli occhi azzurri è riuscito a sconfiggerla.
Dylan si siede sull’erba. Appoggia la mano contro la camicia, dove tiene il siero. Negli ultimi giorni non riesce ad uscire di casa senza quella fiala, la porta con sé. Xabaras non lo tiene prigioniero, né gli chiede dove vada.
E, per quanto Dylan vorrebbe fuggire da quella casa, i passi lo riportano sempre lì prima del tramonto. Davanti a quell’uomo ed al suo sorriso triste.
Una sola goccia di quel preparato potrebbe essere immortale. Non invecchiare, non soccombere alle malattie. Non temere le lame ed i proiettili, o i mostri affamati. Xabaras lo ha testato su di sé, e Dylan gli ha visto rimarginarsi ferite profonde, o guarire ossa spezzate. La vita eterna, la prerogativa di Dio. “Sei troppo umano per non desiderare questo dono”.
“È normale avere paura di un potere così grande?”
“Non è normale. È bellissimo. E sono felice che tu abbia anche solo accettato di ponderare questa mia idea. Voglio che tu abbia una motivazione forte prima di intraprendere questo cammino”.
Dylan sorride. Seduto al fianco del nemico a cui per anni ha dato la caccia. Da quando sente quella fiala premuta contro il proprio petto sa di aver trovato la risposta a mille delle sue domande. “Ho l’unica motivazione che conti”.
Sì, Dylan. Sei decisamente troppo umano.
“Voglio rimanere con te”.


Domenica 04.04.2010. Ore 22.07
Giorno 3944.
Le mie cavie. Potrei riconoscere quell’odore ovunque.
Un solo verso mi risponde dall’altra parte del vetro: la creatura ha il pelo rado a chiazze bianche e grigie, e nei suoi occhi c’è quel male che ho sempre cercato di sopprimere.
Theta si muove tra i resti delle altre cavie. I suoi occhi rossi mi fissano da oltre il vetro mentre divora quello che resta dei suoi fratelli.
Dio, tu sia maledetto.



Il tempo, questo sconosciuto. Quando meno te lo aspetti, ti porta ciò che hai sempre desiderato.
Una mano sulla spalla. Quella mano. Quel calore.
“Tutto a posto? Sei pallido …”
“Non è nulla, Dylan”.
Il tempo si diverte a ricordargli quanto ha sacrificato negli ultimi anni per sentire quel tocco su di sé. “Un po’ di ansia per domani, tutto qui. Hai deciso di accettare il mio regalo”.
“Non dovrei essere io quello preoccupato?” mormora “È il frutto della tua ricerca. So che funzionerà”.
Tante cose vorrebbe dirgli, e convincerlo a fermarsi.
La sente ancora, quella mano, gli entra dentro fino a bruciargli le viscere. Perché da tre giorni e tre notti il suo corpo non sente più il bisogno di sonno, cibo o acqua, eppure l’odore di quel giovane vivo al suo fianco lo inebria nel profondo. Ne sente l’odore, non del dopobarba da supermercato dozzinale ma quello vero, impregnato del battito del suo cuore pulsante. E ha fame, ma solo di sangue e carne.
La fame dei morti viventi.
Vorrebbe e dovrebbe dirgli che ha fallito, e che quella fiala spalanca le porte dell’immortalità peggiore, della morte eterna.
Ha una notte, una soltanto. Ma quante cose piò fare il più grande negromante del mondo in una notte? “Forse un po’ di sonno è tutto quello che mi serve”.
Deve creare un antidoto.
E farlo prima che sia troppo tardi.


Giovedì 08.04.2010. Ore 4.34
Giorno 3948
Ho fame. Solo fame.
“Quella” fame. Ho dovuto divorare Theta per non impazzire, ma so che non durerà.
Non funziona. Non ho nessun antidoto per me.
Perdonami, Dylan. La mia unica felicità è che non cadrai con me nell’Abisso.



Il tempo, questo sconosciuto. Vuole farsi misurare con i battiti del cuore.
Dylan lo ha capito quando ha avvertito dei passi al proprio fianco, durante il sonno, ed ha trovato la fiala sul pavimento in mille pezzi.
La porta del laboratorio di suo padre è chiusa a chiave dall’interno. “Vattene, Dylan”.
“Non pensarci nemmeno” grida. “Vengo a prenderti!”
“Non c’è più tempo!”
Il tempo, questo sconosciuto. Scorre, il dannato, trascinandogli il cuore in avanti.
Spara cinque colpi, la maniglia cede. Chi ha messo dei proiettili d’argento nella sua pistola?
Il mostro dagli occhi azzurri ha la pelle grigia, e quando si volta un orecchio gli cade a terra. C’è odore di morte in quella stanza, ed un numero imprecisato di cavie a brandelli riempie il laboratorio della morte eterna.
L’uomo che non è più un uomo scivola nell’angolo più buio della stanza. Non si vuole far vedere, Dylan lo capisce. Sa che è un’idiozia, ma lentamente ripone la pistola nella fondina. Sul tavolo alla sua destra vi sono decine di fiale sparse a terra, i libri aperti alla rinfusa e scritti in più punti; il disordine, nemico di Xabaras anche più dei fallimenti, sembra l’ultimo vincitore di un duello senza esclusione di colpi sul pianale di quercia. Si sente gli occhi azzurri addosso. “Vieni con me. Troveremo un modo per salvarti”.
“C’è un solo modo per salvarmi”.
Si china in avanti, le iridi che vanno asciugandosi puntate su di lui. Non è il primo morto vivente che si è trovato ad affrontare, e sa quando stanno per saltare addosso alla preda. Sa quando non possono più controllare la fame che hanno dentro.
Indietreggia, un passo alla volta.
Il calcio della pistola non gli dà alcuna sicurezza.
“Scappa, Dylan!”
Non riesce ad arrivare alla porta, perché la creatura è già su di lui. Chiunque parli dei morti viventi come di esseri lenti e stupidi è chiaramente qualcuno che non è mai incontrato uno, e Dylan riesce ad evitare i suoi denti intorno al proprio collo per pura fortuna. Per evitarlo inciampa in una delle gabbie, cade a terra e la pistola gli sfugge di mano.
Gli lancia contro un volume enorme che si ritrova sotto le dita, ma la creatura avanza come se nulla lo avesse sfiorato. Dylan fa forza sulle braccia, prova a rialzarsi e scattare verso la porta, ma non ha nemmeno ottenuto l’equilibrio che una delle mani putrescenti lo afferra per la camicia e lo tira a sé.
Sente di nuovo l’odore, l’odore della morte. Di suo padre, ormai, quell’essere ha solo i resti del camice.
Il vecchio trucco del calcio tra le gambe funziona fino ad un certo punto; l’altro non sente dolore, ma la spinta di Dylan è comunque bene assestata e lo fa arretrare di un passo. Libera il braccio dalla presa e le sue dita trovano un mobile alto quanto lui ma non troppo pesante, carico di chissà quanti e quali alambicchi; mette tutto se stesso nelle spalle e cerca di rovesciarglielo addosso, di guadagnare quei secondi che gli permetterebbero di lanciarsi nella tromba delle scale ed uscire.
Una seconda forza preme sul mobile, più decisa della sua. La creatura emette un verso di rabbia e blocca a metà la sua azione, rivolgendogli l’armadietto contro. Il peso dell’altro e del mobile gli tornano addosso e premono contro lo sterno. Dylan cade, ed in quell’istante qualsiasi cosa vi fosse lì dentro si fracassa in un tintinnare di schegge di vetro che per poco non gli si piantano in viso. Da sotto l’oggetto non riesce a muoversi, ma la pistola è accanto a lui.
Estende il braccio per afferrarla quando da sopra di lui la testa ormai quasi verde occupa tutto il campo visivo.
Vede l’arma anche lui.
E, motivo per cui Dylan odia gli stereotipi, i morti viventi non sono affatto stupidi.
Le loro mani arrivano sull’arma insieme. Dylan la stringe per la canna, ma l’altro la tira a sé ed il ragazzo vi si afferra, ma senza fortuna. Prova a riprendersela, scatta e lo strattona per il polso con l’unico risultato di ritrovarsi una manica del camice tra le dita.
Il tempo, questo sconosciuto.
Sta lì come osservatore, perché qualcuno lo ha sfidato e adesso guarda la vita e la morte sfidarsi a duello.
Dylan non respira, bloccato dal peso, e anche per estendere la mano verso l’alto un dolore impossibile gli si propaga nei polmoni. Il mostro maneggia l’arma con la delicatezza che aveva da vivo, ed il giovane si ritrova la canna davanti agli occhi. Prova un estremo guizzo per liberarsi dalla posizione, ma un non morto non dà possibilità alla propria preda di scappare.
“Scappa …”
La voce esce da una lingua putrida, blu, che gli pende di lato. Ma il tono, quello sì, lo riconosce ancora. “… scappa…”
Si puntella di nuovo a terra, ancora una volta senza risultati. Una costola deve essere andata.
Deve sbrigarsi.
Non può chiedere altro tempo a suo padre.
La canna è ancora rivolta verso la sua fronte e alza di nuovo le mani per strappargliela di nuovo, ma quella gli sfugge. Si solleva anche lei, e cambia bersaglio. Cambia il bersaglio e lui non può farci nulla, a parte gridare parole prive di senso.
Se possibile, c’è ancora dell’azzurro in quegli occhi. “Perdonami, Dylan”.
Il tempo, questo sconosciuto.
Si siede accanto a te, come se volesse soltanto una partita a carte. L’uomo che cercava la vita eterna ha provato a imbrogliarlo, ma il tempo sa muoversi bene a questo tavolo.
Gli piace vincere, e vincere sempre.
Dylan maledice il tempo nel laboratorio vuoto. E, in risposta, il tempo canta una preghiera.
Tutti conoscono In nome del Padre.
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni europei > Dylan Dog / Vai alla pagina dell'autore: whitemushroom