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Autore: Carmaux_95    24/05/2019    8 recensioni
[Maylor + accenni Freddie/Jim]
-Ti ricordi l'anno scorso quando abbiamo suonato per quella festa hawaiana? Abbiamo indossato degli assurdi gonnellini di paglia e dei finti orecchini!- e mentre parlava Freddie mimò una sorta di balletto ondeggiando i fianchi e le braccia. -Basterebbero due belle parrucche e un paio di quei seni finti che si gonfiano!-
Roger lo osservò senza dire una parola, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo indecifrabile, fino a quando fu John Reid, che non aveva ascoltato una parola ma aveva visto il pianista esibirsi in quella sottospecie di danza, a rompere il silenzio:
-Cos'ha il suo amico? Si sente male?-
-Lo spero.- rispose il biondo senza staccare gli occhi dal coinquilino.
-Ma Rog, sono tre settimane in Florida!-
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian May, Freddie Mercury, Jim Hutton, John Deacon, Roger Taylor
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO DODICI

Tre colpi metallici lo assordarono, svegliandolo di soprassalto. Si coprì le orecchie con le mani, stringendo gli occhi così forte da farli lacrimare. La testa gli doleva come mai prima d'ora e gli pulsava così violentemente da dargli l'impressione che potesse esplodere da un momento all'altro.

Espirò rapidamente, due, tre, quattro volte... e finalmente schiuse gli occhi, brucianti e arrossati. L'immagine sfuocata non gli permise di capire immediatamente dove si trovava. Con tutte le ossa doloranti, si mise a sedere, constatando di non trovarsi in camera sua, nel suo letto, ma su una scomoda e rigida branda metallica. Stropicciandosi gli occhi tentò di nuovo di definire i contorni che lo circondavano.

-John. Richard. Deacon.- ogni parola accompagnata da un nuovo colpo di manganello che si abbatteva contro le sbarre metalliche della cella nella quale il ragazzo si trovava.

Il bassista sentì il respiro farsi improvvisamente corto mentre si rendeva conto di cosa stava succedendo.

La testa gli faceva una male da impazzire, non solo la fronte e le tempie, che minacciavano di scoppiare da un momento all'altro, ma anche la nuca: si portò una mano fra i capelli e constatò di avere un grosso bernoccolo che gli dolse subito al tatto.

L'uomo dall'altra parte delle sbarre sembrò sorridere sotto quei baffi, osservandolo, poi riprese a parlare, senza leggere dal piccolo fascicolo che teneva in meno.

-Hai studiato ingegneria elettronica a Londra, con ottimi risultati.-

L'uomo infilò una mano nel fascicolo che teneva in mano e ne estrasse quelle che, poco dopo, John riconobbe come fotografie. Le sfogliò teatralmente fra le proprie mani, cominciando a camminare lentamente, avanti e indietro, davanti alla cella.

-Poi hai deciso di mollare tutto.- riprese a parlare.
Lasciò cadere una foto fra le sbarre.

-Per venire qui in America.-
Una seconda foto.

-A suonare.-
Una terza foto.

-Non ci sarebbe niente di male...-
Una quarta foto.

-Se lavorassi sempre in locali legalmente approvati. Questo credo sia il Rainbow, per esempio: un bel posto.-
Una quinta foto.

-Ma... il Kensington... il Marquee... il Youth Club...-
Altre tre foto.

-Non sono proprio, come si suol dire, conformi alle leggi in vigore negli Stati Uniti.-
Ancora una foto.

-Magari voi pomposi inglesi vivete in modo diverso, ma qui il proibizionismo è preso molto seriamente. E noi poliziotti applichiamo la legge non solo con i proprietari di questi locali, ma anche con i loro dipendenti che, o servendo ai tavoli, o suonando su un palco, contribuiscono a portare clientela. L'arresto comporta la reclusione, per diversi anni.-

Un tappeto di fotografie ritraenti John mentre suonava, spesso con un timido sorriso stampato sulle labbra, si stendeva davanti a lui, ancora seduto sulla branda.

Lentamente i ricordi della sera prima cominciarono a farsi più chiari: iniziò a ricordare i pezzi che aveva suonato, il rumore e le grida improvvise quando la polizia aveva fatto irruzione... ricordò di aver messo via il basso e di aver corso... poi più nulla.
Osservando il manganello ancora nelle mani del poliziotto si domandò se non fosse stato proprio quello a provocargli il gigantesco bernoccolo che gli mandava fitte di dolore per tutta la testa.

-Sai qual è il problema Johnny? Posso chiamarti Johnny, vero?- il bassista sollevò la testa da terra. -Il problema è che vietare vendita e consumo degli alcolici ha avuto conseguenze devastanti a livello sociale, soprattutto per quanto riguarda la criminalità. Lo sapevi che la maggior parte dei locali clandestini sono gestiti da gangster? Il vero problema è che il proibizionismo ha fatto aguzzare l'ingegno: i locali e i club ora sono nascosti fin troppo bene e i proprietari certo non aprirebbero le loro porte ad un poliziotto. Ad un musicista, invece...-

Il poliziotto tirò fuori un ultimo foglio, abbandonando la cartellina, ora vuota, per terra: -Un musicista che vedrebbe cancellata dal suo curriculum questa spiacevole esperienza. Che certo potrebbe tornare a vivere in libertà, senza sentire l'odore della galera.-

John sentì gli occhi pizzicargli, colmi di lacrime: non riusciva a credere di trovarsi in una situazione del genere.
La galera da un lato; la collaborazione con la polizia sperando di far cadere le accuse dall'altro.

Ecco a cosa aveva portato cercare di seguire la carriera musicale che sognava tanto da ragazzino... quando aveva cominciato a suonare aveva grandi aspettative e il sostegno di Brian... ma quando, non riuscendo a stare dietro a bollette e affitto aveva dovuto ripiegare su impieghi illegali... non aveva avuto il cuore di dirlo al suo migliore amico. Se ne vergognava troppo per parlargliene. Sapeva che si sarebbe offerto di rimetterlo in piedi, di pagargli gli arretrati e, se ne avesse avuto bisogno, di ospitarlo persino a casa sua o sul suo yacht, con il quale stava girando il mondo. Sapeva che poteva permetterselo. Ma non voleva che lo facesse. Per cui gli aveva raccontato di come in mancanza di lavoro nel ramo della musica, fosse stato costretto a cambiare lavoro più e più volte.

Deglutì e annuì silenziosamente, mentre una singola lacrima andava a inumidire la guancia. Il rumore del foglio con il suo verbale d'arresto che veniva strappato lo fece sospirare. Si chinò per terra, raggruppando le fotografie. Osservò le proprie labbra incurvate verso l'alto, in ciascuna foto: si domandò per quanto tempo non gli sarebbe più venuto spontaneo sorridere.

-Non ti illudere: di quelle ne ho altre copie.-

Di nuovo, John annuì, senza alzare lo sguardo da terra.

Non poteva sapere che nella tasca interna della giacca del poliziotto giaceva, nascosta da occhi indiscreti, una piccola fiaschetta mezza vuota.

Come non immaginare che il foglio che il poliziotto – la targhetta sulla sua divisa recitava “P. Prenter” – aveva appena strappato come segno di buona fede era in bianco.


 


 

Roger non riusciva a chiudere occhio. Si girava e rigirava fra le coperte; alzava leggermente la testa per sprimacciare il cuscino con una manata e si sdraiava di nuovo nel vano tentativo di trovare una posizione nella quale stesse più comodo.

Avevano parlato a lungo, lui e Freddie, riguardo a quanto aveva scoperto entrando in camera di quel poliziotto.

Di quel pezzo di merda, si corresse da solo ripensandoci.

Perché in fondo capiva che, essendo stato colto in flagranza a suonare in un locale clandestino, John non poteva certo permettersi di lamentarsi di essere stato arrestato; Roger poteva persino capire, più o meno, l'idea di sfruttare il poverino – costringendolo a fare da esca, talpa e a regalare soffiate circa i locali illegali più frequentati – consentendogli di scampare alla galera... ma la polizia teneva dei registri molto dettagliati con i nomi degli informatori e il numero delle volte in cui gli era stato chiesto, o forse sarebbe stato meglio dire “imposto”, di collaborare. Per forza: le accuse a loro carico sarebbero cadute con il tempo in base al numero di interventi con i quali avevano aiutato la polizia.

Peccato che il nome di John non comparisse su nessun foglio, in nessun elenco, in nessuna fottutissima registrazione firmata dalla polizia.
Evidentemente, compilare le scartoffie che avrebbero regolarmente inserito John nell'elenco avrebbe richiesto troppa fatica e troppa onestà: era stato molto più facile mentire ad un povero musicista terrorizzato dall'idea di finire in carcere e sfruttarlo senza che fosse legalmente obbligato a farlo. Senza contare che, data la sua assenza nei registri e negli archivi della polizia, la sua “collaborazione” non aveva data di scadenza: quello stronzo lo teneva al guinzaglio come e quanto voleva, la minaccia di arrestarlo – con le solide motivazioni dettate da decide di fotografie che lo incriminavano – sempre in agguato.

Roger si sentiva male all'idea di trovarsi in una situazione del genere...

Ovviamente John non ne era a conoscenza, altrimenti avrebbe potuto andarsene quando voleva. Previa l'acquisizione di quelle dannate foto, ovviamente.

Rubargliele non sarebbe stato difficile...

Ne aveva parlato con Freddie.

Perché da un certo punto di vista John era come loro. Era uno di loro: un musicista che, messo in ginocchio dalla vita, aveva dovuto adattarsi e trovare un modo per sopravvivere.
Quello che aveva detto a Freddie nel pomeriggio era vero: John gli stava simpatico, gli piaceva, e vederlo così ingiustamente sfruttato lo infastidiva.
Da un altro punto di vista, la loro situazione era già sufficientemente in bilico così com'era: aggiungere un nuovo problema – perché poi avrebbero dovuto trovare un modo per giustificare la loro scoperta – avrebbe causato non pochi problemi che non erano sicuri di saper gestire e risolvere: John non era il solo che rischiava la galera ad ogni respiro fuori posto.

Roger aveva anche pensato di dirlo a Brian, che sicuramente non ne sapeva niente: lui di certo sarebbe stato in grado di aiutare John... ma non si sentiva a suo agio con l'idea di rivelare un segreto non suo e così importante ad un'altra persona... nemmeno a Brian.

Il pensiero del professore gli fece tornare il sorriso per un momento.

Avvolto nelle coperte e con il viso sprofondato nel morbido cuscino, si volse in direzione del letto di Freddie. Si morse le labbra e alla fine sbuffò, mettendosi a sedere.

-Va bene.- dichiarò. -Però... non sfottermi, d'accordo?- Freddie non si mosse di un millimetro. -Senti! Lo so che non stai dormendo! Ti conosco! Se smetti di fare il finto offeso ti racconto di Brian.- Roger alzò gli occhi al cielo: -In dettaglio.-

Riuscì a percepire il movimento delle sue labbra che si piegavano in un ghigno prima di vederlo girarsi su sé stesso e incrociare le gambe per mettersi seduto a sua volta.

-Cos'è cambiato?- gli domandò Freddie, coprendosi le spalle con la coperta. -Perché non me ne hai parlato quando te l'ho chiesto?-

-Voglio raccontartelo perché voglio, non perché mi sento obbligato.- spiegò semplicemente, scrollando le spalle.

-Mi sembra giusto... non volevo infastidirti, ma tu sei il mio fratellino: mi piace punzecchiarti.- lo trascinò in una piccola risatina. -Ti ascolto.-

Roger rimase in silenzio a lungo, il viso abbassato sul proprio letto, la fronte corrucciata: ad essere onesti, non sapeva da dove cominciare.
Freddie venne in suo soccorso:

-Cosa ti piace di lui? Voglio dire, non è il tipo di persona che solitamente attira la tua attenzione.-

-Non lo so... niente di quello che solitamente troverei attraente... niente di quello che mi piaceva di Dominique, per esempio...-

-Eh, grazie al cazzo, Rog!- sbottò il cantante, ma rendendosi subito conto di quanto si stesse sforzando per parlargliene, alzò le mani in segno di scusa e per invogliarlo a proseguire.

Di nuovo, Roger tenne la testa bassa, tormentandosi le mani, e aspettò prima di parlare di nuovo: -Mi piace il modo in cui mi parla.-

Sorpreso dalla risposta, Freddie alzò le sopracciglia: -In che senso?-

-Lui è... un miliardario... non l'ha detto chiaro e tondo, ma è evidente. Tu... non hai nemmeno idea di cosa sia il suo yacht: eleganza, ricchezza, vini costosi... e io sono...- lanciò un'occhiata alla sedia, sulla quale erano abbandonati i vestiti di John. -Beh, mi vedi: indosso gli abiti rubati ad un altro uomo perché non posso permettermi di comprarne. E per di più non sono nemmeno della mia taglia.- prese fiato senza alzare, di nuovo, la testa. -Chiunque abbia incontrato in questi ultimi anni, parlandomi mi ha sempre fatto sentire niente più di quello che sono...- scosse la testa: -Brian non mi guarda dall'alto in basso. Mi fa sentire a mio agio... che gli stia rubando il posto a tavola o che sia in piedi sul suo prezioso divano di alta falegnameria. E lo sa, lo vede, che non sono come lui... e non gli importa. Mi guarda come se vedesse dell'altro... oltre al Roger grezzo e poveraccio che è sotto gli occhi di tutti.- finalmente guardò l'amico: -Mi fa sentire come prima di partire, quando vivevo in Inghilterra... o come quando sono con te.-

Fred sorrise intenerito: lo faceva sentire a casa.


 


 

Era contento per Roger, gli faceva piacere che avesse incontrato qualcuno che lo facesse sentire bene. Allo stesso tempo si sentì in dovere di assestargli un calcio, che rimase nascosto agli occhi di Brian, quando lo vide troppo interessato a quello che il professore stava dicendo. Seduti ad uno dei tavoli del salone dell'albergo, avevano finito di cenare e ora si gustavano la musica che proveniva da un gruppo cubano che era stato ingaggiato per la serata e che gli avrebbe permesso di godersi una serata libera. Avevano deciso di non ritirarsi immediatamente in camera, un po' per lo sfizio di godersi un po' di musica senza esserne gli artefici, e un po' per tenere d'occhio John e il suo “datore di lavoro”. Proprio mentre lo stavano osservando, seduto insieme a lui a qualche tavolo di distanza, Brian li aveva colti di sorpresa prendendo posto al loro tavolo, non volendo disturbare John.

Roger regalò a Freddie uno sguardo in cagnesco e aspettò che Brian si fosse alzato per andare a prendere qualcosa da bere per chinarsi e massaggiarsi la gamba:

-Era davvero necessario?!-

Freddie alzò le sopracciglia: -Sai perché si chiama “attrazione fisica”?-

-Avanti, spara la cazzata.-

-Perché “ti salterei addosso ogni volta che mi guardi anche per sbaglio” era troppo diretto! Quindi, se ti vedo con un'espressione che non lascia spazio al dubbio, sì, diventa davvero necessario ricordarti che in questo momento sei Clare e non Roger!-

-Non avevo quella faccia...- sussurrò, non sapendo nemmeno lui se crederci o meno.

Fred non replicò e nascose un sorriso mentre Brian tornava a sedersi fra di loro. Stava per aprire bocca per chiedere qualcosa a Clare quando una mano entrò nel campo visivo di quest'ultima che, girando il capo, identificò il suo proprietario:

-Credo che lei mi debba un ballo...-

-Cazzate!?- esclamò Roger sgranando gli occhi di fronte a Mallett, ricevendo una seconda pedata, che sicuramente gli avrebbe lasciato un livido, da Freddie.

-Questa orchestra cubana è... davvero formidabile. Se la ricorda? È la stessa che siamo andati a sentire al nostro primo appuntamento. E lei ieri mi ha concesso un ballo.- spiegò Dave tranquillamente.

-Cos'ho fatto, scusi?- domandò Clare: il giorno prima era stato facile disfarsi di Mallett... forse troppo... Roger, così assorto nei propri pensieri, non si era nemmeno reso conto di cosa aveva risposto all'uomo che ora gli si stagliava davanti per reclamare quella promessa.

Il biondo si volse verso Freddie, cercando sostegno ma trovando solo uno sguardo divertito e per nulla intenzionato ad aiutarlo. -Ma Cristo...- sussurrò fra i denti mentre si alzava controvoglia. Dopotutto non poteva fare niente di diverso: non voleva dare nell'occhio facendo una scenata e, così su due piedi, non gli veniva in mente nessuna bugia che potesse giustificare il suo rifiuto.

Un ultimo sguardo all'amico e a Brian e, imprecando silenziosamente, acconsentì, allontanandosi con Dave verso la pista da ballo.


 


 

Fred, che si era trattenuto fino a quel momento, si concesse una risata quando vide Mallett recuperare una rosa e portarsela alla bocca, stringendo delicatamente il gambo fra i denti.

Intercettando uno sguardo incuriosito di Brian, indirizzato verso Clare, il pianista lo chiamò, indagando su cosa avesse attirato la sua attenzione.

-So che sembrerà un'idiozia da dire, ma alcune sue espressioni... sono identiche a quelle di Roger.- commentò ingenuamente. -Ma immagino che sia quasi normale, tra gemelli.-

-Oh sì.- Fred si affrettò a rispondere. -A volte è come se fossero la stessa persona!-

-Non dovremmo aiutarla?-

Come se non lo avesse sentito Brian indicò la ragazza con un cenno del capo, alludendo al suo sguardo che tradiva la sua totale mancanza di entusiasmo e di pazienza quando sentì una mano di Dave scivolare un po' troppo in basso sui suoi fianchi.

Eccessivamente divertito per le sfortune del coinquilino, Fred scosse la testa: -Nah: sa cavarsela da sola. Cosa voleva chiederle prima che foste interrotti?- sperò di non sembrare un ficcanaso, ma era la prima volta che si trovava effettivamente da solo con la persona che aveva così acceso l'interesse di Roger: voleva sfruttare quell'occasione. Non si vergognò del fatto che avrebbe voluto spettegolare, che avrebbe voluto metterlo alle strette come aveva fatto con Roger, per sapere qualche dettaglio in più, per conoscere anche la sua versione di quanto successo. Sapeva che Roger gli avrebbe dato dell'impiccione, ma in fin dei conti... non era poi un grande insulto.

Brian rifletté un secondo prima di parlare con finta indifferenza: -Conosce anche lei Roger?-

Fred annuì sornione.

-Preferirebbe un piatto di carne o è più tipo da insalata? E' così magro che non riesco a capirlo...-

-Vuole invitarlo a cena? Un altro appuntamento?-

E per la prima volta lo vide imbarazzato e a corto di parole per formulare la domanda che gli era subito nata sulle labbra. Fred sorrise di nuovo: -Me lo ha detto Clare.-

-Oh... non pensavo che Roger ne avesse parlato con qualcuno...-

-Gliel'ho detto: è come se quei due fossero una persona sola...- vedendolo pensieroso, Freddie rispose finalmente alla sua domanda, ottenendo in risposta un sorriso strano che il cantante non seppe del tutto come interpretare: -Carnivoro. Decisamente carnivoro. Famelico.-


 


 

Il freddo gli penetrava nelle ossa.

Accendersi una sigaretta per distendere i nervi era stata una pessima idea: fintanto che aveva tenuto le mani in tasca, almeno loro erano rimaste al caldo; il tempo impiegato per coprire la tenue fiammella dell'accendino dal vento invernale di modo da riuscire ad accendere il tubicino era stato sufficiente per congelarle in modo irreversibile. Le aveva sfregate fra loro rapidamente, le aveva chiuse a pugno soffiandoci dentro aria calda, ma non era servito a niente: ormai il danno era fatto.

Si appoggiò al muro con una spalla, osservando davanti a sé l'ingresso del Rainbow con l'elegante insegna luminosa ancora lampeggiante, segno che erano ancora aperti nonostante l'ora tarda.

Quella sarebbe stata l'ultima notte in cui quel locale sarebbe stato aperto: la polizia avrebbe fatto piazza pulita, arrestando tutti al suo interno.

John si sentì un verme.

Aveva suonato anche lui lì.
La prima volta nella sala principale. La seconda in quella nascosta al piano di sotto... quella che sarebbe dovuta rimanere ignota alla polizia.

Il proprietario era stato gentile con lui... e John ora lo ripagava informando la polizia della sua compravendita illegale di alcolici, ancora sconosciuta.

Pensò a tutti i musicisti che sarebbero finiti in galera per colpa sua, colpevoli unicamente di non avere un soldo e di nuovo si sentì disgustato di quella situazione. Non gli piaceva fare la spia, lo faceva sentire male con sé stesso. Tuttavia non aveva alternativa... non sarebbe sopravvissuto in galera... non per dieci anni, come aveva minacciato Prenter.

Rimase appoggiato al muro e abbassò il capo, fissandosi i piedi e stringendosi nel cappotto, ormai decorato da numerosi fiocchi di neve candida.

Quando sentì un rumore provenire da dietro l'angolo alle proprie spalle, la prima cosa che pensò fu che uno dei poliziotti colleghi di Prenter fosse già uscito passando dall'uscita posteriore del locale, per bloccare qualunque tentativo di fuga disperata. Una piccola imprecazione si mescolò alla confusione dovuta alla retata: qualcuno alle sue spalle era quasi scivolato in terra per colpa del ghiaccio che aveva attecchito sul marciapiede. John non si volse, per nascondere un sorriso sotto i baffi, sperando che si trattasse davvero di uno dei poliziotti.

Non che solitamente si divertisse a spese altrui... ma, in quel momento, se avesse dovuto scegliere avrebbe volentieri messo in difficoltà il corpo di polizia.

Aspettò qualche secondo, ma nessuno lo sorpassò, né un passante né un poliziotto. L'idea che la persona che a momenti aveva messo a repentaglio la propria fuga rocambolesca, per poi cambiare direzione verso una strada più sicura, fosse uno dei musicisti lo rese temporaneamente cieco e sordo.

-Deacon!- esclamò Prenter qualche attimo dopo, uscendo dall'ingresso principale. -Non stare lì impalato come un idiota! È uscito qualcuno dalla porta sul retro?-

-No, signore.-

-Ne sei sicuro?-

No.

-Sì, signore.- Prenter lo superò e lanciò un'occhiata nel vicolo dietro l'angolo, entrandovi di un paio di passi, per poi tornare indietro. -Stai collaborando, Deacon?-

-Certamente, signore.-

Il poliziotto sbuffò rabbiosamente dalla bocca: -Piccoli bastardi!-

-Qualcuno manca all'appello?- si azzardò a domandare John, fingendo disinteresse.

-Ne mancano due! Razza di incompetenti...- ringhiò in direzione dei propri colleghi: -Come cazzo si fa a farsi scappare un musicista che si porta dietro il peso di una grancassa! Posso capire il cantante che non ha impedimenti... ma una cazzo di batteria no!-

John nascose un sorriso vittorioso. Sapeva che aveva appena fatto chiudere i battenti al Rainbow, ma la consapevolezza di aver risparmiato una brutta fine a due persone sfortunate quanto lui lo rasserenò.


 


 

-Sei l'informatore migliore che abbiamo mai avuto. Ho fatto proprio bene ad arrestarti.-

John tentò di non rovesciare gli occhi mentre Prenter gli batteva una mano sulla schiena, complimentandosi per la precisione del lavoro svolto in quelle settimane.

Il bassista, da quando era arrivato a Miami, aveva trascorso la maggior parte del suo tempo osservando silenziosamente e prendendo appunti: numero di ospiti, numero di dipendenti, disposizione di stanze, camere, uffici dell'amministrazione e tanto altro.

Osservare e riferire.

Questo era il suo compito.

Ormai conosceva la planimetria di quell'immenso albergo meglio delle proprie tasche. Il suo resoconto, sotto quell'aspetto, non avrebbe potuto essere più preciso e dettagliato. La cosa gli faceva piacere e lo innervosiva allo stesso tempo: più il suo lavoro si fosse rivelato soddisfacente, più alte sarebbero state le probabilità di vedere la fine del suo contratto a tempo indeterminato; sotto un altro aspetto, aiutare un poliziotto corrotto lo disgustava...

La sera prima della partenza dell'orchestra per la Florida, Prenter gli aveva telefonato, infuriato come poche volte gli era capitato di sentirlo. Gli aveva urlato addosso spiegandogli quanto appena successo: John venne a conoscenza della “strage di San Valentino” prima di chiunque altro a Chicago e quando, la mattina dopo, aspettando il treno, aveva comprato un giornale da un ragazzino che girava per i binari con le braccia cariche di copie, aveva constatato che il racconto riportato mancava di qualche dettaglio.

Come la prodigiosa fuga di due testimoni che si erano trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Il giornale non aveva riportato questa notizia. Quei due erano già stati miracolati una volta: rendere pubblica la loro esistenza sarebbe equivalso al firmare la loro condanna a morte. E la polizia aveva bisogno di loro vivi di modo che potessero testimoniare contro quei gangster sanguinari e inchiodarli una volta per tutte.

Spiegandogli questo scenario, Prenter aveva proseguito ordinando a John di svolgere il lavoro il meglio possibile: se i due testimoni non fossero saltati fuori, il Decimo congresso degli amici dell'opera italiana sarebbe stata la loro occasione migliore per tentare di incastrare quei malviventi. Non era un mistero che questi facessero parte di quell'organizzazione ma, fino a quel momento, la polizia non aveva trovato un motivo abbastanza valido per costringerli ad un interrogatorio.

Invece, dopo la notte di San Valentino, il loro capo aveva mandato in lavanderia un paio di ghette sporche di sangue. Subito dopo un massacro che portava la chiara firma di una resa di conti fra bande rivali, quelle dannate ghette potevano fornire loro un ottimo pretesto per instaurare un contatto e osservare le loro reazioni.

Una volta arrivato in Florida, John era stato contattato di nuovo da Prenter, che gli aveva ribadito l'importanza del suo lavoro, soprattutto alla luce del fatto che i gangster, trovatisi davanti alla situazione, non aveva confermato né negato di essere i responsabili del massacro nel garage.

-Che mi dici della lavanderia De Luxe?- aveva domandato Prenter, sfacciato.

-Perché?-

-Il giorno dopo la sparatoria ci hai mandato un paio di ghette sporche di sangue.-

-Mi sono tagliato radendomi.-

-Ti radi con le ghette?-

-Io ci dormo, con le ghette. Dovresti saperlo: tutto il tempo che hai passato a studiare i miei spostamenti potrebbe farmi pensare a qualche tipo di molestia. Sto quasi pensando di denunciarti per violazione della mia privacy.-

-In ogni caso... lo sanno tutti che sei stato tu a sgonfiare le gomme al poveraccio che abbiamo trascinato fuori da quel garage... con quaranta proiettili in corpo.-

Il gangster non si era scomposto: -Tutti chi?-

-Almeno quei due testimoni che avete lasciato scappare.-

-E che voi non avete trovato.-


 


 

Prenter li aveva cercati per tutta Chicago, senza successo ma senza nemmeno stupirsi: se non erano idioti, dovevano già trovarsi dall'altro capo del mondo.

A quel punto, quello che doveva essere un piano secondario – catturarli all'Hotel del Coronado, dove avrebbero alloggiato in occasione del congresso – era improvvisamente diventato il solo e unico piano: avrebbe prolungato il soggiorno di John all'hotel e ci sarebbe riuscito; sarebbe riuscito a strappare quella confessione dalle loro labbra e, grazie alle informazioni di John, che gli avrebbe riferito anche i loro spostamenti, avrebbe disposto i suoi colleghi poliziotti di modo da impedire qualsiasi tentativo di fuga.

-Mi vuole mettere alle costole dei peggiori gangster di Chicago?!- esclamò John inorridito, ricordandosi solo a metà della frase di abbassare il volume della propria voce. -Ma signore! Non erano questi gli accordi... e se si accorgessero che li seguo...-

Prenter annuì silenziosamente, concedendogli solo uno sguardo di superiorità, completamente disinteressato: sacrificare un insulto musicista era un prezzo che era pronto a pagare.

Guardandosi attorno, per fargli capire ancora una volta quanto fossero inutili le sue proteste, adocchiò uno dei tavoli, occupato da due persone: -Dì un po', Deacon.- disse, interrompendolo. -È una delle tue musiciste quella corvina?-

 


 


 


 

Angolino autrice:

Buon pomeriggio lovies! ^^

Chiedo scusa per gli 11 giorni di attesa per il capitolo 12: con il viaggio sono rimasta un filo indietro con la correzione del testo XD ma non sono rimasta con le mani in mano! Sto lavorando ad altri piccoli progettini (per chi di voi fosse interessato, uno di questi giorni pubblicherò una one shot nel fandom di Game of Thrones)! ^^

Ma passando al capitolo,
finalmente John non ha più segreti da nascondere (non a voi lettori almeno XD)! Mi dispiace essere stata così cattiva nei suoi confronti :( ma avrà modo di rifarsi! :)

Come già accennato nel precedente capitolo (scusate se sono noiosa...), mi sto allontanando un filo dalla trama originale del film anche perché ci tenevo ad aggiungere un qualcosa di originale, di mio, per non copiare proprio pari passo la storia.

È un capitolo a cui tengo molto, con alcuni rimandi ai capitoli precedenti :-P, e spero che vi sia piaciuto ^^

Credo di non aver altro da dire (e meno male XD)

Come sempre ringrazio tutti quanti, lettori, recensori, voi che seguite, ricordate e preferite! <3

Un bacione!

Carmaux

  
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