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Autore: Marilia__88    24/05/2019    2 recensioni
Dal testo:
"Il palazzo mentale di Jim Moriarty non poteva essere definito propriamente un “palazzo”. Il suo accentuato egocentrismo non gli avrebbe mai permesso di elaborare un progetto così scontato per la sua preziosa mente. No, il palazzo mentale di Jim Moriarty era un imponente castello gotico in pietra nera".
Un breve viaggio alla scoperta della brillante mente criminale di Jim Moritarty.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jim Moriarty, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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                          YOU’RE ME








Jim alzò le braccia e le aprì, abbandonandole subito dopo a terra. “Quasi come Cristo sulla croce” pensò, lasciandosi sfuggire un sorriso sardonico, seguito da una lieve smorfia di dolore per quel brusco movimento.

Il pavimento era duro e freddo. Avvertiva dei brividi gelidi, alternati a delle intense fitte, lungo tutta la colonna vertebrale. Da quanto tempo era sdraiato lì a terra? Un’ora? Due? “Noioso, noioso, noioso…” si ammonì prontamente.

Il suo sguardo era fisso con insistenza sul candido soffitto ritinteggiato solo pochi giorni prima. Un bianco intenso, luminoso e vivo, che sembrava lo deridesse in tutta la sua sfacciata perfezione. Non riusciva a trovare un difetto in quel preciso lavoro di imbiancatura, né una crepa, né una macchia, neanche un invisibile dislivello che potesse in qualche modo rovinare quella disgustosa impeccabilità. Come osava deriderlo? Era irritante. Per un istante valutò l’idea di afferrare un qualsiasi oggetto abbastanza pesante e di lanciarlo con forza contro al soffitto, mettendo fine, con un semplice gesto della sua mano, a qualcosa di così schifosamente perfetto. Ma non aveva niente a portata di mano ed alzarsi da quel pavimento non era un’opzione contemplabile, non ancora almeno.

Molte cose riuscivano ad irritare la brillante mente di Jim Moriarty, una di queste era proprio la perfezione. E Sherlock Holmes rientrava esattamente in tutte le diverse accezioni del termine “perfetto”. Una mente brillante in un corpo statuario, il viso di un angelo del Paradiso con due gemme preziose al posto degli occhi; il tutto avvolto in un costoso Belstaff di alta sartoria che gli cadeva a pennello. “Fastidioso…” pensò “…davvero fastidioso”.

Chiuse gli occhi e respirò profondamente più e più volte. Aveva un compito ben più importante da svolgere sdraiato lì su quel freddo pavimento, non poteva lasciarsi distrarre. Avrebbe pensato a Sherlock Holmes a tempo debito. La loro resa dei conti era vicina, poteva quasi sentirne l’odore.

Il palazzo mentale di Jim Moriarty non poteva essere definito propriamente un “palazzo”. Il suo accentuato egocentrismo non gli avrebbe mai permesso di elaborare un progetto così scontato per la sua preziosa mente. No, il palazzo mentale di Jim Moriarty era un imponente castello gotico in pietra nera.


Un enorme cancello in ferro battuto si ergeva all’ingresso, esattamente nel punto in cui iniziava il lungo viale che portava all’entrata della spettrale struttura. Jim vi si posizionò di fronte, spalancando le braccia in un gesto di autocelebrazione ed esso si aprì davanti ai suoi occhi.

Iniziò a percorrere il sentiero con andatura lenta, godendosi la vista dei meravigliosi cespugli di rose nere che si mostravano in tutta la loro bellezza e che costeggiavano la stradina su entrambi i lati. Si fermò qualche istante, incerto, quando qualcosa di insolito attirò la sua attenzione. Un'unica, rara rosa bianca risaltava in tutto il suo splendore, interrompendo quell’eccellente effetto monocromatico. Jim la osservò a lungo, sorpreso e infastidito da quell’inspiegabile bizzarria. Una rosa bianca in mezzo ad un mare di rose nere. Com’era possibile? La colse con una leggera punta di curiosità per poterla studiare da vicino, ma nel momento in cui venne avvolta dalla sua mano, la rosa appassì improvvisamente, sgretolandosi davanti ai suoi occhi e tramutandosi in un insulso mucchietto di cenere. “Interessante…” sussurrò Jim sorpreso.

Riprese la sua lenta marcia, continuando a pensare a ciò che era appena accaduto. Non era mai successo niente del genere nella sua mente. Forse gli eventi che lo avevano spinto così profondamente nel suo inconscio stavano apportando alcune modifiche incontrollate? Non aveva tempo di pensarci, ma non poté fare a meno di eccitarsi al solo pensiero.

Camminò con aria pensierosa finché non arrivò a pochi passi dal grande portico, poi si fermò di colpo qualche metro prima dei sette gradini che conducevano al lavorato portone d’ingresso. Alzò gli occhi ed un sorriso compiaciuto nacque spontaneo sul suo viso. Aveva fatto davvero un ottimo lavoro. Quel castello era maestoso, stupefacente, incredibilmente inquietante. Quattro enormi torri a pianta quadrata dominavano i quattro angoli della struttura. Altre quattro, di dimensioni leggermente più piccole, ma della medesima forma, erano poste tra quelle più grandi esattamente ai quattro centri. Le mura infine, che si abbassavano anch’esse rispetto alle torri, erano costruite con grossi mattoni di pietra nera e decorate interamente con una merlatura guelfa.

Sorrise di nuovo, stavolta con maggior convinzione, e raddrizzò le spalle, gonfiando il petto ed aprendo le braccia con aria solenne. “Io sono il re…” annunciò con immenso orgoglio.

Non appena la porta d’ingresso si spalancò davanti a lui, Jim si addentrò all’interno del castello deciso più che mai a trovare ciò di cui aveva bisogno.

L’interno dell’edificio era esattamente l’opposto di come appariva all’esterno. Sulle pareti, tinteggiate con colori chiari e sgargianti, risaltavano costosi quadri di arte barocca. Dettagli d’argento e alcuni ritocchi neri, poi, creavano un suggestivo gioco di colori e riuscivano ad impreziosire maggiormente le enormi stanze poste al suo interno. Una sfarzosa scalinata in pietra con un elaborato corrimano in marmo bianco e nero si ergeva di fronte a lui: quella era la strada che conduceva nella parte più importante della sua mente, nel fulcro di tutti i suoi geniali pensieri. Ma non era lì che doveva recarsi. Si guardò intorno ed osservò le varie porte presenti ai due lati della scalinata. Quelle porte conducevano ai suoi ricordi: quelle a destra ai ricordi più gloriosi, quelle a sinistra, invece, ai ricordi peggiori, quelli che aveva custodito e chiuso a chiave in stanze a sé stanti. Una porta, in particolare, non era stata più aperta da molti anni. Ed era quella che Jim guardava con insistenza. Si trovava sulla sinistra in fondo ad un piccolo corridoio e conduceva alla grande torre posta ad ovest della struttura. Ciò che stava cercando era lì e, seppur controvoglia, dovette muoversi nella sua direzione.

Aprì la porta con decisione e si immerse coraggiosamente nell’altro immenso atrio che dominava il piano terra della grande torre ovest. C’era una seconda scalinata di fronte a lui della stessa grandezza di quella principale, ma decisamente più cupa nelle decorazioni. Il corrimano, ad esempio, non era in marmo come quello precedente, ma era stato costruito in ferro battuto nero, lavorato a mano, su cui risaltavano dei particolari motivi tondeggianti. Delle vetrate, poste a metà scalinata, si affacciavano sul macabro cimitero presente sul lato ovest del castello. È lì che Jim indugiò qualche istante, puntando il suo sguardo affascinato sulle lugubri lapidi scure, prima di avventurarsi al primo piano della torre.

Il lungo corridoio posto al primo piano era più cupo di come Jim lo ricordava e questo non fece che accrescere la sua già profonda eccitazione.

“Jimmy!” esclamò una voce alle sue spalle “Non sai quanto mi riempie di gioia rivederti”.

Jim arrestò la sua camminata. Il suo sorriso eccitato svanì in un istante e i tratti del suo volto si incupirono minacciosi. Conosceva bene il proprietario di quella voce baritonale e non rimase affatto sorpreso nell’udirla. Tuttavia, nel momento in cui si voltò verso il suo interlocutore, non proferì parola, si limitò ad ostentare una finta espressione stupita, di sicuro troppo marcata per far sì che sembrasse credibile.

“Perché non vieni a salutarmi, Jimmy?” continuò l’uomo, sorridendo con aria saccente.

Jim allargò leggermente le gambe e rilassò la sua postura, infilando le mani in tasca con disinvoltura. “Non ho paura di te, padre. Puoi toglierti quello schifoso sorriso compiaciuto dalla faccia”.

Suo padre scoppiò in una fragorosa risata agghiacciante. “Sei sempre stato uno stronzetto arrogante, Jimmy! Dovrei mettere a tacere la tua bocca insolente proprio come ai vecchi tempi. Cosa ne dici?” sbottò, avvicinandosi a lui e strattonandolo da un braccio.

“Ed io potrei ucciderti di nuovo. Cosa ne dici?” rispose Jim a tono, divincolandosi dalla stretta. Si sistemò la giacca con cura e posò di nuovo lo sguardo su quell’uomo. Poteva sentire ancora l’eccitazione che aveva provato, quel giorno di tanti anni prima, quando aveva messo fine alla sua insignificante vita. Conservava ancora un’immagine vivida dello sguardo sorpreso e spaventato di suo padre negli ultimi istanti della sua vita. Non avrebbe mai dimenticato la sensazione di assoluta potenza che si era impadronita di lui nel vedere la luce della vita lasciare quegli occhi marroni. Due occhi improvvisamente vuoti, un corpo accasciato a terra privo di vita, l’odore pungente del sangue e le urla di sua madre. Già, le urla di sua madre. L’unico elemento contrastante che era riuscito a stravolgere la cruenta armonia di quella scena, un quadro perfettamente equilibrato deturpato dall’improvvisa disperazione umana. “Sei un mostro!” non faceva che ripetere tra le urla ed i singhiozzi insistenti. Jim inspirò a fondo. “Sei un mostro” sussurrò sottovoce con aria pensierosa.

“Sei un mostro!” ripeté la sagoma ormai sbiadita di suo padre.

“Sei un mostro!” gridò con forza una voce femminile alle sue spalle. La gracile figura di sua madre si era improvvisamente materializzata in quel sempre più oscuro corridoio della sua mente.

“Sei un mostro!”. Un’altra voce si unì al coro, questa volta quella di un ragazzino: Carl Powers. Aveva i vestiti bagnati fradici che gocciolavano copiosamente sull’antico pavimento in legno e creavano, a poco a poco, un’evidente chiazza d’acqua intorno ai suoi piedi senza scarpe.

“Sei un mostro!”. Altre sagome di persone che ricordava appena comparvero, una dietro l’altra, urlando la medesima frase. “Sei un mostro!”

“Sei un mostro!”

“SEI UN MOSTRO!”

Jim chiuse gli occhi e strinse le mani a pugno, infastidito da quelle urla incessanti che riecheggiavano con insistenza in quel sempre più stretto corridoio della sua mente. “Ora basta!” gridò infuriato, riuscendo in un secondo a riportare l’ordine e il silenzio. Aprì gli occhi ed osservò quelle figure, ora spaventate e intimorite, con un sorriso compiaciuto. Alzò la mano con lentezza e, quasi come fosse un direttore d’orchestra, la agitò in modo teatrale, indicando con l’indice teso ognuna di quelle persone. Una ad una, tutte sparirono dalla sua vista. Tutte tranne una. Si trattava di una figura slanciata che giaceva immobile nella parte più oscura del corridoio.

“Chi sei?” chiese Jim incuriosito, ma non ottenne risposta. Ridacchiò divertito e, a passo lento, si incamminò in direzione di quella sagoma. Aveva un’aria familiare, Jim lo aveva avvertito già dal primo istante in cui aveva posato lo sguardo su di lui. Eppure, nonostante i suoi sforzi, non riusciva a capire perché quella strana figura gli provocava un brivido freddo d’eccitazione lungo tutto il corpo. Chi era? E perché non era scomparso come tutti gli altri? Si trovava nel suo palazzo mentale, aveva il pieno controllo di tutto ciò che accadeva al suo interno. E allora perché la persona che aveva di fronte e che stentava a riconoscere riusciva tranquillamente a sfuggire al suo volere? Cosa aveva di speciale? Non poteva rispondere a quelle domande, almeno non nell’immediato, poiché il volto dell’uomo sconosciuto era ancora completamente nascosto dalle tenebre di quel luogo.

Dopo aver percorso alcuni metri, un dolce profumo di rose arrivò alle sue narici, una fragranza insolita ma al tempo stesso familiare, che si intensificava sempre più ad ogni suo passo. Jim bloccò la sua camminata e si guardò intorno incuriosito: quattro grossi cespugli di rose bianche erano improvvisamente apparsi ai lati di quel sempre più sorprendente corridoio. Quattro grossi cespugli di rose bianche in cui spiccava, come un’evidente macchia d’inchiostro, un’unica rosa nera. Si soffermò, incerto, ad ammirare quella strabiliante visione e, dopo alcuni istanti di indecisione, si avvicinò al cespuglio alla sua destra e colse, con la mano leggermente tremante, quell’incantevole rosa nera. Quello che Jim si aspettava, era il ripetersi di ciò che era accaduto nel viale d’ingresso del suo castello mentale. E invece, con sua enorme sorpresa, quella rosa rimase intatta nella sua mano, bella in tutta sua oscura perfezione. Quello era il segnale. Ne era certo, ma al tempo stesso non ne capiva la ragione. Era una consapevolezza inconscia la sua: con quella rosa nella sua mano, lo sapeva, avrebbe scoperto finalmente l’identità dell’uomo misterioso.

Nel momento in cui riuscì a distinguere chiaramente i lineamenti di quel famoso viso, Jim capì la causa di quella fastidiosa sensazione all’altezza dello stomaco. Si diede mentalmente dell’idiota per non averci pensato prima. “Sherlock Holmes!” esclamò non molto sorpreso. “Quale onore averti qui in questa mia umile dimora” aggiunse, inchinandosi appena. “Avanti, voglio sentirtelo dire. Non essere timido”.

La sagoma di Sherlock, però, non parlò. Con uno strano sorriso sul volto e con le mani infilate nel suo prezioso Belstaff manteneva lo sguardo fisso su di lui. C’era una particolare scintilla di malizia nel suo sguardo, qualcosa di insolito, qualcosa di profondo che mai aveva intravisto negli occhi del suo nemico. Sorrideva, lo faceva con un’aria fin troppo consapevole, come se si compiacesse della sua posizione di superiorità intellettiva: c’era qualcosa che a Jim sfuggiva, qualcosa che Sherlock invece aveva compreso. E questo era fastidioso, forse un po' stuzzicante, ma per di più fastidioso.

“Sei un mostro” canzonò Jim con voce stridula nel ridicolo tentativo di imitare la voce del detective. “Andiamo, non avere paura. So che muori dalla voglia di dirlo”. Ma Sherlock ridacchiò e negò con capo. A che gioco stava giocando? Perché continuava a restare in silenzio? Perché non si comportava come tutti gli altri?

“Perché non ti comporti come tutti gli altri?” gridò Jim infastidito da quell’inspiegabile comportamento.

“Perché non ti comporti come tutti gli altri?” ripeté, questa volta sottovoce, forse più a sé stesso che al suo interlocutore.

Un’idea improvvisa illuminò lo sguardo di Jim Moriarty, che si ritrovò a ridere di gusto senza alcun contegno. Tutto era finalmente chiaro. Ora comprendeva le ragioni che, dall’inizio della sua avventura nel suo inconscio, avevano regolato tutte quelle bizzarrie. “Tu non lo pensi” affermò ormai consapevole “Tu non sei come gli altri, Sherlock Holmes. Oh, tu non provi disprezzo per ciò che sono” aggiunse, avvicinandosi sempre più al suo avversario “Ai tuoi occhi non sono un mostro. Oh no, sono stimolante, sono brillante, sono tremendamente affascinante” continuò in un sussurro a fior di labbra. “Tu sei come me, Sherlock. Tu sei me”.

Jim spalancò gli occhi ed un sorriso soddisfatto apparve sul suo volto. Tastò con le mani il freddo pavimento, su cui giaceva disteso da chissà quanto tempo e scosse il capo incredulo, divertito da ciò che la sua mente era stata in grado di fare. Alzò il braccio sinistro e guardò l’ora. Il momento finalmente era giunto e, grazie al suo piccolo viaggio nei meandri della sua mente, ora sapeva cosa fare. E si augurava con tutto il cuore che il suo avversario non deludesse le sue aspettative.




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Jim si allontanò da Sherlock, che giaceva in piedi, immobile e pensieroso, sul cornicione. Era il momento decisivo, quello che aveva temuto sin dal primo giorno in cui aveva ideato il suo brillante piano, quello che lo aveva spinto ad affrontare un assurdo viaggio nel suo oscuro palazzo mentale. Camminava lentamente, calibrando ogni singolo passo nell’attesa di quella svolta che aveva sempre sognato. La voleva, la desiderava con ogni fibra del suo essere.

Eppure, intorno a lui, niente faceva presagire un imminente colpo di scena. C’era solo silenzio, un silenzio devastante che dava voce a tutti i suoi più profondi timori. Il suo avversario non proferiva alcuna parola. Se ne stava lì, fermo, a contemplare il paesaggio come un uomo che, ormai alla fine del suo viaggio, osserva tutto per l’ultima volta, prestando ad ogni dettaglio la giusta attenzione. Perché si comportava così? Era forse rassegnato al suo tragico destino? Aveva commesso un enorme errore di valutazione? Al solo pensiero, un barlume di delusione iniziò a pizzicare il suo orgoglio con fastidiosa insistenza.

E poi all’improvviso la sentì. Una risata. Sherlock Holmes stava ridendo di gusto e Jim provò un enorme sollievo. Ma non poteva distrarsi, Jim lo sapeva bene. Lo spettacolo doveva continuare. Si voltò di scatto, mostrando una finta espressione infastidita. “Che c’è?” esclamò in tono grave “Cosa c’è? Cosa mi è sfuggito?” aggiunse, alzando il tono di voce.

Sherlock scese dal cornicione con un balzo e gli si avvicinò con aria soddisfatta. “Non hai intenzione di fermarli. Quindi gli assassini si possono fermare con un codice, una parola o un numero. Non c’è bisogno che muoia, se ho in mano te”.

Nell’udire quelle parole, Jim dovette fare uno sforzo immane per riuscire a nascondere il suo accentuato entusiasmo. “Oh!” esclamò con finta sorpresa, lasciandosi però sfuggire una piccola risata divertita. “Pensi di farmi annullare l’ordine. Pensi davvero che tu possa riuscirci”

“Sì!” rispose con sicurezza Sherlock, continuando a girargli intorno “E lo pensi anche tu”

“Sherlock, né tuo fratello, né tutti i cavalli del re potrebbero farmi fare cose che non voglio”

Sherlock arrestò la sua camminata e gli si parò di fronte, avvicinando il viso al suo con fare minaccioso. “Sì, ma io non sono come mio fratello, ricordi? Io sono come te. Pronto a fare qualunque cosa, pronto a bruciare, pronto a fare ciò che le persone comuni non farebbero. Vuoi che ti stringa la mano all’inferno? Io di certo non ti deluderò”.

Era esattamente ciò che Jim voleva sentirsi dire. La svolta che aveva sempre sognato era lì, servita su un piatto d’argento dal suo ignaro avversario. Il suo brillante piano stava procedendo alla perfezione e Jim voleva assaporare quel momento fino in fondo. “No…” disse a mo’ di provocazione “Fai solo lo sbruffone. No, sei così ordinario. Sei una persona ordinaria dalla parte degli angeli”.

La provocazione risultò efficace. Lo Sherlock che aveva di fronte era l’esatta copia di quello che aveva incontrato nel suo palazzo mentale. L’avversario perfetto era finalmente lì davanti ai suoi occhi, pronto ad essere battuto, a sua insaputa, nel miglior gioco che avesse mai organizzato. L’ultimo gioco. L’ultima eclatante vittoria del più famoso genio del crimine.

“Sarò anche dalla parte degli angeli, ma non pensare neanche un secondo che io sia uno di loro, Moriarty!” rispose Sherlock.

Jim fissò il suo avversario per qualche istante. Non poteva permettere all’eccitazione di rovinare l’atto finale. L’ultima battuta doveva essere una degna chiusura della sua strabiliante commedia. Ogni parola era stata pensata, ogni gesto era già stato programmato nella sua mente. “No, non lo sei” disse, mostrando una finta espressione di improvvisa consapevolezza. Annuì con il capo e sorrise compiaciuto. “Ora capisco. Non sei ordinario. No. Tu sei me” ridacchiò di nuovo, finalmente appagato e soddisfatto. “Sei me! Grazie!”. Non riuscì più a contenersi. Alzò una mano, quasi come se volesse abbracciare il suo interlocutore, ma bloccò il gesto sul nascere. Un marasma di sensazioni stava scuotendo ogni fibra del suo corpo. Più di tutte, l’adrenalina. La sentì diffondersi con prepotenza, come un fuoco che si propaga in maniera incontrollata con una rapidità disarmante. “Sherlock Holmes” aggiunse, porgendo la mano ad uno Sherlock decisamente spiazzato dalle sue parole. Afferrò la sua mano con decisione e la strinse più del dovuto. L’ultima stretta di mano, l’ultimo contatto umano che metteva la parola fine ad una vita straordinaria. “Grazie! Dio ti benedica! Fin quando sarò in vita potrai salvare i tuoi amici. Hai una via d’uscita. Allora, buona fortuna”. Mantenendo ben saldo quel contatto fisico, alzò l’altra mano che già stringeva la sua pistola all’interno della sua giacca. La posizionò con decisione in bocca, permettendo al suo sconvolto avversario di divincolarsi dalla stretta e, con immenso orgoglio, premette il grilletto.













Angolo dell'autrice: Ritorno dopo una vita con una storia che parte da un intento ben preciso. Mi sono sempre chiesta come fosse il palazzo mentale di Jim Moriarty, è stato un pensiero fisso che mi ha perseguitato per mesi e mesi. Ho iniziato questa storia moltissimo tempo fa, ma non riuscivo a trovare la giusta inquadratura che potesse far capire cosa avevo in mente. Volevo conciliare la mia fantasia sul palazzo mentale con le motivazioni, o almeno con una piccola parte di esse, che avessero spinto il nostro amato Jim ad un finale così estremo. E' difficilissimo addentrarsi in discorsi prettamente "psicologici" e non intendevo creare una storia che risultasse troppo pesante ed elaborata. La mia intenzione era quella di fornire uno spunto di riflessione, cercando di proporre, mi auguro nel modo più chiaro e comprensibile, la mia idea di fondo. Spero vi piaccia.
Commenti, riflessioni, teorie, appunti, critiche e quant'altro sono ben accette.
Alla prossima.

Marilia












 
   
 
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