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Autore: Claire DeLune    25/05/2019    0 recensioni
[Crossover DF-Eldarya-Howl's Moving Castle]
Il Q.G. aveva bisogno di cibo, le riserve iniziavano a scarseggiare e ancora ad Eldarya non si era trovato un modo per sostenere un'agricoltura stabile e autoctona. Per sopperire alle mancanze in fretta, Miiko decise di inviare nel nostro mondo due dei suoi migliori collaboratori, i capi della Guardia dell'Ombra, Nevra, e della Guardia dell'Assenzio, Ezarel. Ma in realtà era solo un pretesto, il vero motivo per cui li aveva mandati in avanscoperta sulla Terra era per ritrovare Valkyon e Leiftan, misteriosamente scomparsi durante l’ennesima missione di rifornimento.
Tuttavia, qualcosa è andato storto: il cerchio di funghi ha chiuso il passaggio da una dimensione a un'altra prima del previsto. I due, bloccati proprio in quel mondo da cui tempo addietro erano scappati, dovranno ora trovare il modo di tornare a casa, e per farlo dovranno affidarsi ad una giovane apprendista strega e a un mezzo-vampiro aberrante nei confronti della stirpe da cui discende, e dei vampiri stessi.
Non sarà affatto semplice, ma nella Boutique 'J' tutto è possibile, anche l'impossibile.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Castiel, Chani, Dolcetta, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Cross-over, OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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3.
In cui Castiel per poco non uccide Nilsa
 
   Oltrepassasti la soglia di casa con un sonoro sbadiglio, il cui suono venne coperto dal rumore della porta blindata che sbatteva contro lo stipite. Tenendoti in equilibrio su una gamba sola, ti levasti una scarpa, poi l’altra e riponesti le converse nella scarpiera. La tentazione di abbandonarle lì, nel bel mezzo del disimpegno all’ingresso, era forte, ma l’ultima cosa che volevi in quel momento era subirti l’ennesima ramanzina sul tuo, a dire di tua madre catastrofico, disordine. Dopo una pesante, noiosissima e spossante giornata al liceo, non eri certo in vena di farti fracassare i timpani dalla sua squillante voce; quella di Ambre era già stata più che sufficiente.
   Ma che diavolo mi è saltato in testa di ripararle la bambola al parco dieci anni fa… Se avessi saputo che mi si sarebbe incollata addosso come una cozza, non mi sarei lasciato impietosire, sbuffasti, avviandoti in direzione delle scale, avevi bisogno di riposare gl’occhi e la tua povera schiena, Ma poi, perché, dopo tutti questi anni, ancora non si è rassegnata? Non la ricambio e non la ricambierò mai…
   Avevi già un piede sullo scalino e il palmo retto al corrimano, quando: «Cassy, sei tu?».
   Serrasti i denti in un grugnito. Fanculo tua madre e quel cazzo di nomignolo.
   «Sì».
   «Hai già impegni stasera? È venerdì», chiese, emergendo dalla cucina con una teglia di biscotti in mano e un’espressione raggiante dipinta in viso.
   «No», lapidasti voltandoti a guardarla, luminosa come una supernova.
   Lei sorrise smagliante, «Bene! Allora stasera usciamo a cena. Tuo padre ed io dobbiamo parlarti di una cosa». Arcuasti in sopracciglio dubbioso. Aveva una strana luce negl’occhi mentre parlava, la sua stessa voce suonava insolita, come se non fosse la sua.
   «Se proprio ci tieni, okay». Facesti spallucce, più nel tentativo di scacciare l’oscuro pensiero piuttosto che sembrare disinteressato, rincamminandomi su per le scale.
   «Vestiti bene!», fu l’ultima frase che le sentisti dire, prima di chiuderti la porta alle spalle e buttarti sul letto a pancia in giù stremato, qualche ciuffo ribelle ti ricadde sulla fronte, ombrandoti la vista.
   Chiudesti le palpebre, inspirai forte e ti stringesti il setto nasale tra indice e pollice, pensando: Non sarà mica incinta? Sono un po’ vecchio per avere un fratellino…
 
Ϡɝϗ
 
   Eri nervoso. Il colletto della camicia tortora stringeva troppo sul pomo d’Adamo, le maniche della giacca elegante non ti lasciavano completa libertà di movimento; sentivi i capelli incollati e seccati dal gel, per non parlare delle scarpe in vernice talmente lucide da potertici specchiare e della cravatta che eri riuscito a evitare di indossare per il rotto della cuffia. Eri a disagio vestito in quel modo ricercato. Per quanto ti sentissi dire che stavi benissimo così, non riuscivi a vedertici completamente in quegli abiti d'alta sartoria, da business man – da damerino –, che sempre eri riuscito a rifuggire.
   Sempre, tranne in quell’occasione.
   A farti cedere era stata di nuovo l’espressione raggiante sul viso tondo di tua madre: gli zigomi rialzati dall'ampio sorriso bianco, incorniciato dal rossetto rosso mattone, gli occhi nocciola assolati da qualche pagliuzza dorata e dall’ombretto pescato, le guance arrossate dall'emozione più che dal blush.
   Era incinta, ormai ne eri certo. I sintomi c’erano tutti.
   Pelle luminosa.
   Occhi che luccicano.
   Eccessiva allegria che nei prossimi mesi si sarebbe alternata a sbalzi d’umore come se esso fosse un’altalena.
   Ciò ti faceva sentire alle strette, in difficoltà, perché sapevi già che la tua reazione alla notizia l’avrebbe delusa. Non eri affatto elettrizzato all’eventualità di diventare un fratello maggiore, non a diciassette anni, e non vedevi neanche la presenza di un nuovo piccolo Leroux come una compagnia o una consolazione dalla solitudine; ciò non avrebbe reso i tuoi genitori più presenti a dispetto degli impegni lavorativi, sareste solo diventati due solitudini che coabitavano, o peggio, egli sarebbe diventato un nemico che ti avrebbe portato via ulteriore tempo con loro.
   Al solo pensiero ti sentivi soffocare, asfissiato dalle pareti in legno e specchi del ristorante stellato, dalle luci soffuse, dalle poltroncine che sostituivano le sedie, dai fini calici di cristallo sul runner12 lobelia, che cozzavano con le bacchette di legno del servizio asiatico e col porta-soia in ceramica scura a venature ramate.
   Aspettasti che i tuoi genitori prendessero posto a sedere, prima di fare altrettanto. In quel luogo il bon ton era d’obbligo. Jean-Louis accompagnò la sedia di Valérie mentre lei si accomodava, poi slacciò i bottoni e finalmente si sedette a sua volta, seguito a ruota da te che ne imitasti i gesti e per un istante ti sembrò di poter respirare di nuovo.
 
   Fosti teso per tutta la durata della cena, articolata da conversazioni di poco conto tra una portata e l’altra, nelle quali, tralasciando qualche mugugno e risposta risicata, da parte tua era regnato il silenzio. Ti trovavi in una situazione scomoda, i tuoi genitori non facevano altro che scambiarsi occhiatine da innamorati come due adolescenti alla prima cotta. Erano imbarazzanti e tu ti sentivi totalmente fuori luogo, un terzo in comodo a reggere la candela.
   Ridicolo… Non faccio la spalla al rimorchio coi miei amici e ora lo sto facendo coi miei genitori… Assurdo…
   Non eri nuovo alle loro effusioni, ai loro scambi di sguardi carichi di significato, alle loro moine e sorrisi, non avevano mai nascosto a nessuno che il loro fosse un matrimonio felice e armonioso, che nonostante lo scorrere degli anni ancora si amavano come agli inizi, ma… diavolo, così era davvero troppo! Si erano rinchiusi in una bolla, come se non esistesse nessun’altro al difuori di loro. E tutto questo per un embrione che probabilmente era ancora un mero ammasso di cellule?
   Si comportavano così anche quando aspettavano me? Dovevano essere insopportabili. Diventeranno insopportabili…
   Non ti godesti minimamente la cena, nemmeno i nigiri di amaebi13 – il tuo piatto sushi preferito –, evento più unico che raro sapendo quanto ami la cucina giapponese, in particolare i piatti di pesce crudo. Sicuramente ti portarono in un costoso ristorante nipponico proprio perché consci che fosse il modo migliore per assicurarsi il tuo buon umore e favore all’annuncio, ma invece sortirono solo nell’effetto opposto; ti fecero chiudere lo stomaco, venire la nausea alla sola idea di impugnare le bacchette, o al momento il cucchiaino per mangiare il gelato al tè verde.
   Non ce la facevi più ad aspettare che prendessero coraggio per affrontarti, ma ormai la cena era agli sgoccioli, la bomba stava per essere lanciata.
   «Castiel», il tono di tuo padre era solenne, fu impossibile non rispondere d’istinto incrociando quel suo sguardo tagliente così simile al tuo. I suoi occhi erano più sottili e affilati dei tuoi, così come i lineamenti del viso erano più spigolosi e severi, ma chiaramente gli somigliavi; saresti stato la sua copia sputata se i tratti dolci di tua madre non si fossero immischiati nel corredo genetico, ingentilendoti l’effige – e rendendoti anche un po’ più robusto di corporatura rispetto a lui.
    Sei sempre stato innegabilmente bello, sia da bambino sia adesso nonostante gli ormoni impazziti dalla crescita, ed era solo un segnale, un limpido appannaggio di ciò che saresti diventato da adulto. Quando ti guardavi allo specchio, per quanto sia poco virile concentrarsi sul proprio aspetto esteriore, non potevi non compiacerti di te stesso, dalla fortuna che aveva avuto la natura a mescolarsi così e a darti quel viso regolare, quelle iridi metalliche, i capelli corvini e lisci e quel fisico ben strutturato. Pensavi che fosse questo a far cascare lo studentato femminile ai tuoi piedi. Questo mixato alla loro superficialità, perché, diciamocelo, non avevi esattamente un carattere facile con cui avere a che fare… Mai avresti immaginato che il motivo fondante fosse legato ad altro, a qualcosa di più misterioso e oscuro della semplice avvenenza.
   «Tua madre ed io dobbiamo dirti una cosa», ecco che arrivava la granata, «Non c’è un modo facile per dirlo, perciò andrò dritto al punto. Ci trasferiamo».
   Interdizione, «… Cosa? Ma che stat–». Non era quello che ti aspettavi, non ti eri preparato a questo.
   «Oh, non ti preoccupare, tesoro», intervenne Valérie, «Sappiamo bene che è un pessimo periodo per te, che stai andando ancora a scuola, che l’anno è iniziato da poco, infatti tu non verrai con noi». L’ordigno esplose, ma non piombò dall’alto come immaginavi, ti scoppiò sotto i piedi non appena accennasti a muoverti, come una mina antiuomo.
   «Vedi, figliolo», continuò Jean-Louis, «Ho ricevuto un’importante promozione dalla compagnia aerea per cui lavoriamo, e ciò comporta un mio trasferimento alla sede centrale a tempo indeterminato e sai che non posso stare senza tua madre, perciò…».
   «Perciò avete deciso di abbandonarmi qui, aspettandovi persino la mia benedizione».
   Tuo padre sbatté le palpebre un paio di volte confuso, «Ma come… Non sei contento? Avrai la tua indipendenza, la tua privacy, niente genitori a romperti le scatole. È il sogno di ogni adolescente».
   «Come potrei mai–».
   «Cassy, ambientarsi ad anno già cominciato in una nuova scuola, in una nuova città è stressante. Se abbiamo preso questa decisione è stato solo per il tuo bene, per non sconvolgerti la vita e non rischiare di farti perdere l’anno. Dovresti esserci grato», affermò la donna a metà tra il conciliante e il deluso, afferrandoti la mano sopra al tavolo e accarezzandoti delicatamente il dorso col pollice, sotto lo sguardo glaciale di Jean-Louis che, grattando la gola vi richiamò all’attenzione, mentre trafficava con qualcosa che tintinnava in tasca, poi, soddisfatto, estrasse un mazzo di chiavi e lo posò sul tuo tovagliolo, assieme a un plico di fogli.
    «Queste sono le chiavi del tuo nuovo appartamento», sorrise, «E questi sono i documenti che attestano la tua emancipazione, la proprietà dell’immobile e il tuo conto bancario personale. Non ti preoccupare del tuo sostentamento economico e per le bollette, ti manderemo regolarmente dei bonifici».
   «Non è fantastico?», strepitò acuta tua madre, «Il mio bambino è cresciuto, è un uomo adesso!».
   No, non era fantastico. Era sconvolgente, disarmante, schiacciante, era tutto fuorché fantastico e tu non potevi farci niente, non sapevi nemmeno come reagire tanto era grande lo shock.
 
Ϡɝϗ
 
   I mesi passarono, ma il dolore, lo sconforto, l’angoscia e la sensazione di essere solo al mondo, indesiderato e non amato non accennava a diminuire, nonostante la compagnia costante del tuo fidato mastino, nonostante tu ti sia tolto qualche sfizio da rocker ribelle come tingerti i capelli, cambiare look e fondare un gruppo con il tuo migliore amico Lysandre – beh, un duo più che un complesso, ma era un inizio – cose che, in parte, prima, non avresti fatto o ottenuto senza un estenuante scontro di opinioni con i tuoi genitori.
   Genitori… la sola parola ti era insopportabile. Non avevi più dei genitori, oramai ti consideravi orfano, rifiutato da quelle due uniche persone che, per natura, erano tenute ad amarti indiscriminatamente, a volerti proteggere e stare accanto per il resto dei loro giorni.
   Non eri altro che un reietto, un rifiuto, uno scarto. Non ti eri allontanato dai tuoi genitori per necessità, per volontà, per indipendenza e maggiori opportunità come avevano fatto Leigh e Lysandre, tu eri stato allontanato.
   Era dal giorno della loro partenza che non li sentivi, l’unico segno che erano ancora vivi erano i soldi che comparivano tutti i mesi sul tuo conto corrente, per il resto era come se non fossero mai esistiti. Mai un messaggio, una telefonata o una dannata mail, i loro cellulari risultavano perennemente staccati, sui social media erano introvabili. Spariti nel nulla e non avevi altri parenti a cui affidarti, potevi contare soltanto su te stesso e sui pochi veri amici che possedevi.
   La tua gioventù era sfumata totalmente e inesorabilmente in un battito di ciglia devastante e distruttivo, pari al battito d’ali di una farfalla che scatena un uragano dal capo opposto del pianeta14.
   Ogni giorno diventavi sempre più scontroso e scostante, irascibile e solitario. Cambiamento che, unito alla rottura con Debrah, al nuovo stile di abbigliamento, all’immagine di te assieme a un grosso cane dall’aria feroce e alle appena scoperte sigarette, ti affibbiò l’etichetta di bullo, di delinquente, di ragazzo da evitare, dal punto di vista dei tuoi coetanei, da tenere d’occhio da quello della preside, e da compatire da parte di quei pochi che avevano compreso il tuo malessere esistenziale, il tuo smarrimento. In questa cerchia ristretta rientravano un paio di professori e, ovviamente, il tuo migliore amico.
   Stavi proprio cercando il maledetto taccuino di quest’ultimo, imprecando a denti stretti sulla sua sbadataggine, quando uno strano profumo ti stuzzicò le narici. Era leggero, delicato, quasi impalpabile, ma talmente magnetico da far risuonare tutto il tuo essere fino quasi a farti perdere coscienza su ciò che stavi facendo, tanto era dolce e invitante. Ne percepivi la consistenza su di te, dentro di te, ovunque; ti avvolgeva come un velo, ti sfiorava la pelle come un sospiro, ti faceva rabbrividire piacevolmente come una carezza e ti chiamava con la sua voce femminea, sussurrata, sentivi il suo caldo respiro solleticarti l’orecchio, avvertivi le sue mani sottili ancorate alle tue spalle. Quell’aroma, quella fragranza era un’entità, era tutto. Aveva un odore, aveva un colore, aveva un suono, aveva… un sapore.
   La gola ti si fece improvvisamente secca, arsa come un pozzo prosciugato dalla siccità, e un’incredibile sete t’investì, costringendoti a stringerti i palmi sul collo in agonia. La faringe era in fiamme e faceva così male da desiderare di strappartela a unghiate, sembrava che una trave incandescente ti fosse stata infilata nell’esofago. Il labbro inferiore si era tagliato, sentivi delle gocce di sangue macchiarti le punte dei canini, i quali, a loro volta, dolevano come se avessero appena bucato la gengiva vergine.
   Il bruciore, l’irrazionale e impulsivo bisogno di bere si impadronirono di tutto il tuo corpo, che altro non poteva se non soccombere ad esso, mentre ti accasciavi a terra nella speranza che quella tortura finisse; ma nel farlo, i tuoi occhi, ridotti a due fessure finissime, si posarono sulla figura di una ragazza in piedi davanti all’ingresso del liceo con un foglio in mano. Non riuscivi a vederla con chiarezza tra le lacrime di dolore, le palpebre strizzate con forza e i rami dell’aiuola che ti ostacolavano la visuale, così come lei, di spalle, non poteva vedere te, accucciato che mugugnavi in lontananza, però una cosa i tuoi occhi, in mezzo a tutto quel delirante tormento, la videro.
   Videro la ciocca che veniva scostata dietro l’orecchio, mettendo in bella mostra la giugulare pulsante.
   Questo bastò a mettere a tacere tutto lo strazio, a non percepire più le fitte che ti schiacciavano al suolo, l’unica cosa che rimase fu la sete. Una sete cieca e totale, così istintiva e primordiale da cancellare qualunque traccia di umano raziocinio in te, che eri rimasto un guscio vuoto dai sensi amplificati, un animale in cima alla catena alimentare in balia dei suoi istinti, un predatore alla sua prima caccia, inesperto ma carico di quella forza bruta che solo la fame può alimentare e che solo la sazietà può placare.
   Ti rialzasti in piedi pronto a scattare come un ghepardo su una gazzella, potevi già avvertire la sua morbida carne sotto le zampe, il fragile collo sotto le zanne. La preda era lì a qualche metro di distanza, un breve corsa e sarebbe stata tua, ma proprio quando stavi per lanciarti oltre i cespugli, qualcosa ti piombò addosso e ti atterrò, immobilizzandoti sotto al suo peso, con il viso rivolto ai fili d’erba e l’addome tra le sue ginocchia che stringevano sulle costole, rendendoti difficile respirare, mentre le braccia erano bloccate dietro la schiena per i polsi.
   Cercasti di divincolarti inutilmente. Ad ogni movimento la morsa sui tuoi fianchi aumentava e la presa sulle tue mani si stringeva, mentre una mano andava a premerti la nuca.
   A un certo punto sentisti il corpo seduto su di te piegarsi in avanti fino a raggiungere il tuo orecchio, dove la sua voce vibrò affannata e arrocchita dallo sforzo, «Ascoltami bene, ragazzo. Fai come ti dico o, giuro, anche se sei mio fratello, ti picchierò fino a farti perdere i sensi. Tutto chiaro?».
   Fratello?, a quelle parole ti dimenasti con ancora più energia per sgusciare dalla sua presa ferrea, ma questa non fece altro che rafforzarsi, l’uomo impugnò così forte i tuoi polsi da far scricchiolare le ossa al loro interno, «Odio ripetermi», sbuffò, poi con la mano che ti teneva la nuca andò a tirarti i capelli, «Sono stato chiaro?».
   Sconfitto, annuisti.
   «Bene», esclamò, allentando un poco la stretta e addolcendo la postura, pur rimanendo carponi su di te, «Per prima cosa: smetti di respirare».
   «Ma che---».
   Ti diede uno scossone, «Lo so che sembra assurdo, ma fidati, sei in grado di farlo. Chiudi gl’occhi e concentrati unicamente sul tuo respiro, trasforma il gesto da involontario a volontario e bloccalo».
   Per quanto insensato sembrasse, seguissi le sue istruzioni. Serrasti le palpebre e rilassasti le membra sotto al peso di quell’estraneo che stranamente riusciva a tenerti calmo e tranquillo, nonostante ti stesse tenendo ancorato al terreno come un assalitore, poi visualizzasti nella tua testa il movimento dell’aria che entrava e usciva, le nari che inspiravano ed espiravano, i polmoni che si gonfiavano e sgonfiavano, la cassa toracica che si allargava e stringeva. Man mano il respiro divenne quieto e regolare, mentre il corpo si distendeva sul prato, fino ad affievolirsi sempre di più sino a spegnersi. Di primo acchito ti venne da trattenerlo, ma poi l’ultimo anelito di fiato si disperse tra le tue labbra; riapristi le palpebre di scatto, convinto che di lì a poco avresti iniziato ad annaspare avido d’aria, e invece niente.
   Lo sconosciuto finalmente ti si levò di dosso e ti sedette accanto, dandoti modo di guardarlo in faccia stralunato. Com’era possibile che riuscivi a sopravvivere senza respirare? Chi era il tizio che ti fronteggiava? E perché assomigliava così tanto a tuo padre da sembrare lui da giovane?
 
[12] Tipo di tovaglia
[13] Gambero rosso crudo
[14] Effetto farfalla: In matematica e fisica è una locuzione che racchiude in sé la nozione maggiormente tecnica di dipendenza sensibile alle condizioni iniziali, presente nella teoria del caos. L'idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema.
   
 
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