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Autore: Surya_Asu    02/06/2019    0 recensioni
Seconda metà del secolo corrente. Crisi energetica e sovrappopolazione innescano circostanze drammatiche e precipitano il mondo nel caos. In un’ottica di conservazione del benessere, ogni essere umano diventa vittima e carnefice allo stesso tempo. Elio, ingegnere energetico italiano emigrato in Pennsylvania, cerca di salvare la sua famiglia dal male che è giunto. Un male che culmina con un nuovo olocausto per il genere umano. Ma non è tutto qui: c’è chi trama per soluzioni ancora più estreme e ci sono persone ancora più disperate di quelle che vengono sacrificate alla luce del sole.
Genere: Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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03 marzo 2065
Erano le 7 del mattino di un giorno che apparteneva a una nuova vita.
La famiglia De Leo si era trasferita a Salem Township, nella contea di Luzerne.
Noe arrivò trafelato in cucina, dribblò alcuni scatoloni impiegati per il trasloco, non ancora vuotati, e si fiondò su un sandwich al burro di arachidi.
«Ehi campione, sei pronto per il compito di matematica?»
«Sì, pa'. Ho studiato» rispose.
Tenendo il sandwich tra i denti, si chinò ad allacciarsi le scarpe.
«Sbrigati, che si sta facendo tardi» lo rimproverò Maria.
Noe si spinse l'intero sandwich in bocca, inforcò lo zaino e corse via facendo ciao con la mano.
Elio terminò il suo caffè e si allacciò un marsupio alla vita. Schioccò un bacio a sua moglie e si lasciò alle spalle l'odore della colazione per affacciarsi nel bel quartiere residenziale di Salem, interamente percorso da piste ciclabili costeggiate da olmi. Ancora non si capacitava di come la sua vita fosse così profondamente cambiata: l'addio alla UFP, il nuovo impiego alla centrale nucleare e il trasloco; tutto in appena due settimane da ché aveva sostenuto con successo il colloquio con Youssef Tahimàd.
Raggiunse il garage e aprì il basculante.
Andò spedito al calendario appeso a un chiodo. Prese una penna dal marsupio e fece una croce sulla data presente. Spostò il foglio del mese corrente, marzo, e tornò a febbraio per contare tutte le croci. Dieci giorni. Da tanto era che al mattino, sabato e domenica a parte, si recava alla centrale nucleare anziché alla UFP. Tuttavia, dopo l'euforia del cambiamento, ogni suo pensiero era tornato a velarsi di ombre e d'angoscia.
Entrò in macchina e mise in moto. L'autoradio si avviò insieme al motore. La spense mollando un pugno sul cruscotto e ingranò la marcia.
Si accorse che la spia del carburante era accesa e si fermò al primo distributore.
Scese dall'auto e consegnò la tessera carburante a un addetto.
Questi la inserì in un lettore portatile e glielo porse.
Elio schiacciò l'indice contro il quadratino di vetro che si trovava in alto a destra.
Seguì un bip.
«Impronta riconosciuta, può digitare l'importo.»
«Deve essere complicato gestire l'impianto con le nuove norme» disse Elio mentre sfiorava il numero venti sul touch screen.
L'uomo scosse la testa. «È semplicissimo invece. Il sistema informatico è collegato all'anagrafe del carburante umano e ogni transazione viene riportata in automatico.»
«Non scappa una goccia...»
«Già, ma è giusto così.»
Elio ripose la tessera carburante nel portafogli, fece rifornimento e ripartì.
Guidò fino alla centrale seguendo con lo sguardo il profilo delle torri di raffreddamento.
Sentì pulsare il labbro inferiore e si rese conto che se lo stava masticando.
Arrivato ai cancelli, abbassò il finestrino. Strisciò il badge nel lettore magnetico offertogli da una guardia e aspettò che la barra di sicurezza si sollevasse per lasciarlo passare. In ogni angolo della struttura c'erano addetti alla sorveglianza.
Si accorse che mentre procedeva verso il parcheggio aveva almeno una dozzina di paia d'occhi puntati addosso.
Trovò un posto libero e ci infilò l'auto. Mentre scendeva ebbe un capogiro, ma strinse i denti e tirò dritto verso l'ingresso.
Una guardia gli si parò davanti. Elio mostrò ancora una volta il tesserino e, come da regolamento, consegnò le chiavi dell'auto e il telefono cellulare.
Una approfondita perquisizione corporale completò la trafila quotidiana. Lisciandosi i pantaloni stropicciati dalle mani irriverenti della guardia, Elio si congedò e fece per andarsene, ma questi glielo impedì.
«Si accomodi nella sala d'attesa, signor De Leo» disse e gli indicò un ampio gabbiotto prefabbricato.
Elio obbedì e andò nel gabbiotto, il cui interno aveva l'aspetto di un area picnic, con alcuni tavoli e numerose panche di legno. Era decisamente affollato: c'era almeno una cinquantina di persone lì dentro. Si sedette su una panca e si consultò con gli altri.
«Avete idea del motivo per cui siamo qui?»
«No, io ho chiesto alle guardie, ma mi hanno detto che ci avrebbero spiegato dopo» rispose un uomo dai capelli rossicci.
«Boh, forse vogliono fare un briefing» disse un altro tizio.
Nei minuti che seguirono, arrivarono altri uomini, una decina forse. Anch'essi con l'aria di chi non aveva alcuna idea della ragione per cui fossero stati mandati lì.
D'un tratto, nella cabina si diffuse un suono orribile, come di unghie trascinate lungo una lavagna. Elio lo sentì penetrargli nel cervello, tramutato in una miriade di aghi che gli trapassavano la scatola cranica.
Scivolò dalla panca e si ritrovò in ginocchio a premersi le tempie più forte che poteva, come se volesse farsi esplodere il cranio e far schizzare fuori la materia grigia. Avrebbe fatto qualunque cosa purché quella tortura cessasse.
Roteando gli occhi tutt'intorno, si accorse che anche gli altri erano contratti, sofferenti e spaventati. Poco dopo però, il dolore iniziò a scemare.
Quello che seguì fu ancora peggio.
La mente di Elio iniziò a comportarsi come un'entità estranea che proiettava scene terribili di morte e sofferenza.
Le immagini si fecero man mano più vivide e il loro significato fu improvvisamente chiaro: non erano allucinazioni, ma ricordi.
Iniziò ad ansimare. Cercava disperatamente di ingoiare aria per non soffocare mentre combatteva per assimilare la realtà, cioè che quanto era appena accaduto succedeva ogni mattina e ogni sera alla centrale nucleare.
Quando tutti si furono ricomposti, due guardie aprirono la porta del gabbiotto. Quelli che vi erano stati rinchiusi presero a sciamarne fuori ordinatamente, come schiavi che temono le fruste di aguzzini. Uno però perse il controllo e si mise a correre in direzione del parcheggio. Urlava come un ossesso e le sue gambe avevano una spinta da runner professionista.
Il suono di uno sparo e, quasi in contemporanea, il tizio virò di novanta gradi con un braccio slanciato in avanti. Smise di urlare, cadde a terra e cominciò a frignare.
«Guardate bene quell'uomo» disse una delle guardie, gesticolando con una pistola.
«Oggi è stato fortunato, ma se ci riprova lo sistemeremo definitivamente.»
Raggiunse il tizio a terra: «Mi hai sentito?» strillò.
L'uomo, rannicchiato su un fianco, si teneva stretto il braccio ferito. Annuì.
«Bene. Adesso ognuno raggiunga la sua postazione di lavoro.»
Un'altra guardia parlava al telefono: «Abbiamo di nuovo fermato un eversivo, manda il personale medico.»
Tutto tornò in ordine.
«Se continuano così verranno scoperti» disse sottovoce uno di quelli che erano stati liberati dal gabbiotto. Nei suoi occhi c'era una tenue speranza.
«Come no, vedrai che lo cuciranno per bene e gli ficcheranno in testa la memoria di un incidente sul lavoro» disse un altro.
Elio affrettò il passo e quasi si scontrò con un sorvegliante. Costui gli rivolse qualche parola in arabo, che non gli servì tradurre per capire fosse un insulto.
Si scusò e scappò via.
Da quando era lì non aveva mai incontrato una guardia che non fosse mediorientale e non aveva mai visto un mediorientale subire ciò a cui si veniva sottoposti dentro al gabbiotto. Era palese che, al contrario suo e di tanti suoi colleghi, loro erano lì volontariamente, cagnolini devoti che non avrebbero mai tradito il proprio padrone.
Formulando mentalmente alcune ipotesi riguardo lo scopo di quell'assurda macchinazione, camminò fino agli uffici. Chiese a un impiegato il piano di produzione giornaliero. L'impiegato aveva i tratti mediorientali, come tutti quelli che lì svolgevano mansioni che non richiedevano titoli di studio particolari.
Hanno bisogno di particolari competenze, per questo hanno coinvolto gente come me, rifletté.
L'impiegato gli allungò un foglio.
Elio vi lesse sopra e scoprì che avrebbe dovuto occuparsi di quindici persone: due comuni e tredici trattate. Poi avrebbe dovuto fare manutenzione all'impianto di trasformazione e infine avrebbe potuto montare servizio al reattore numero 2.
«Speriamo di finire in fretta» disse a se stesso.
Camminò come un automa guardando sempre e solo dritto davanti a sé. Raggiunse la prima postazione e iniziò a impostare dei parametri su un computer. Già si udivano delle grida disperate.
«Maledizione! Quante volte devo dirlo che sono io a chiamare quando è tutto pronto?» urlò a un giovane collega.
«Ehi, i tuoi problemi personali tieniteli a casa!» gli rispose quello. «Credi che io mi diverta a sentire quei poveracci? Sbrigati piuttosto, così li buttiamo dentro e non ci pensiamo più.»
Elio si gelò a fissare con disprezzo quel ragazzo insolente. Lo avrebbe preso a sberle, ma poi concluse che quello stronzetto aveva ragione: meglio sbrigarsi.
Le urla furono presto vicine a stuzzicare quella parte di coscienza che si sforzava quotidianamente di sopire per salvaguardare se stesso e la sua famiglia.
Fece del suo meglio per fare prima possibile a concludere le operazioni preliminari.
«È tutto pronto» comunicò appena ebbe finito, urlando, per riuscire a farsi sentire in mezzo a quel coro straziante. Il collega aprì gli sportelli vetrati che davano su una grossa cabina rettangolare. La parte inferiore della cabina era composta da una vasca d'acciaio profonda circa un metro, la parte superiore era costituita da una struttura vetrata attraverso la quale si poteva vedere quello che accadeva all'interno. Alcuni tubi metallici di diametro differente erano collegati alla struttura nella parte superiore.
Elio si fermò a guardare quelle persone disperate. Erano maschi e femmine, tutti nudi.
Solo due avevano i capelli in testa, due donne, soggetti comuni. Tutti gli altri erano trattati e ciondolavano disorientati come creature di un altro mondo con le loro teste rasate a zero marchiate tutte dalla stesso identico segno: un taglio fresco sul lato sinistro che partiva grossomodo dalla zona dove avrebbe dovuto esserci l'attaccatura dei capelli e si estendeva per circa cinque centimetri verso la sommità del capo.
I trattati si limitavano a piangere e urlare; le comuni, coprendosi con imbarazzo le parti intime, recitavano preghiere soffocate nel pianto, intercalando di tanto in tanto imprecazioni contro i carnefici.
Era sempre così, una scena che si ripeteva ogni volta identica. Elio non riusciva ad abituarsi alla vista di quei bambini portati chimicamente ad assumere la massa fisica di persone adulte e a quelle donne, rapite appositamente per sfornarli, che terminata la fase di prolificità ne condividevano il destino.
«Forza, entrate!» urlò il suo collega e iniziò a spingerli uno alla volta dentro la cabina di vetro sufficientemente grande per contenere tutti quanti.
Quando fu dentro anche l'ultimo dei disgraziati, l'uomo serrò il portellone.
«Ok, procediamo» disse.
Elio annuì e abbassò una leva d'acciaio. Il gas soporifero si diffuse rapidamente dentro la cabina avvolgendo in una nuvola densa le vittime. I corpi nudi si accasciarono uno dopo l'altro, alcuni schiantandosi contro le vetrate, altri rovinando direttamente sul fondo metallico.
La vista di Elio fu offuscata da una pioggia di puntini bianchi.
Si appoggiò al pannello di controllo e premette un piccolo pulsante.
Il gas si diradò e un liquame rossastro penetrò nella camera della morte.
La fluidificazione dei corpi richiedeva circa quindici minuti.
Mentre il liquido enzimatico faceva il suo dovere, pensò di approfittarne per andare in bagno a sciacquarsi il viso.
Procedette annaspando per i lunghi e contorti corridoi, sperando di non dare nell'occhio.
Doveva assolutamente tenere nascoste le sue inquietudini per non rischiare di essere eliminato come accadeva agli operatori troppo sensibili.
Incespicò quando incontrò un uomo che trainava un carrello con dentro dei Soggetti che pur avendo una certa mole dovevano essere degli infanti. «Tutto bene, collega? Mi sembri un po' pallido.»
«Sì, sto bene.»
Elio si allontanò rapido, seguito dagli occhi spauriti dei bimbi.
Non ce la faccio più a guardare in faccia questa gente, rimuginò mentre si gettava acqua fredda in faccia.
«Non ce la faccio più neanche a sostenere la mia stessa vista» disse a mezza bocca, guardando il suo riflesso nello specchio della toilette.
Alla fine del giorno dieci, prima di rincasare, prese sotto braccio il vecchio mostro dell'alcol e si apprestò a scegliere un bar.
Scartò quelli dove si servivano allegri aperitivi a una vivace gioventù e scelse il più rozzo di Salem Township.
Ordinò un whisky liscio, lo buttò giù in un colpo e ne chiese un altro. Mentre se ne stava in un angolo del bancone, solo col suo mostro, prese a rivivere come in un film il suo primo giorno di lavoro alla centrale nucleare.
Era emozionato come uno scolaretto al primo giorno di scuola: stava uscendo dall'incubo della UFP e avrebbe guadagnato abbastanza da poter continuare a pagare le cure di Noe. L'ingresso era presidiato da guardie armate.
Aveva superato il cancello principale e si era fermato con l'auto davanti a una sbarra di sicurezza. Aveva porto a una guardia un documento d'identità.
L'uomo gli aveva chiesto di attendere e aveva fatto una telefonata con un cellulare.
Dopo una decina di minuti, dalla Centrale era giunto un fuoristrada con due persone a bordo. La barra di sicurezza si era sollevata, ma il fuoristrada non aveva attraversato il passo. Si era arrestato invece e ne era sceso un uomo che gli era andato incontro.
«Ben arrivato, signor De Leo!»
Elio, rimanendo nell'abitacolo della sua Dodge Canyon, aveva cacciato un braccio fuori dal finestrino per stringergli la mano. Subito dopo, il tizio aveva girato intorno all'auto e aveva aperto la portiera dal lato del passeggero. Si era infilato dentro, e aveva tirato indietro il sedile per allungare le gambe.
«La prego di seguire il mio collega, le mostrerà la strada per il parcheggio dei dipendenti.»
Basito, Elio aveva obbedito guidando in silenzio fino al parcheggio.
«Può lasciare a me le chiavi della sua auto» gli aveva detto l'uomo che era andato in macchina con lui non appena si furono fermati. «Da adesso in poi la accompagnerà Rahim Nafisi, il Responsabile della Sicurezza» aveva aggiunto indicandogli l'individuo non tanto alto, ma robusto, che avanzava a passo svelto nel parcheggio con fucile mitragliatore a tracolla.
Dopo le presentazioni, aveva potuto passeggiare per la prima volta tra gli edifici della Centrale. Aveva visitato i due reattori, le sale di controllo e l'edificio del combustibile, aveva camminato tra i depositi e accanto alle torri di raffreddamento. Man mano però, aveva iniziato a palpare delle vibrazioni negative. Non ne comprendeva la ragione, ma c'era come un'aura cattiva in quel posto.
Il Responsabile della Sicurezza lo aveva invitato nell'area relax dell'Edificio Salvaguardia numero 1 per un caffè.
L'area relax era una camera spoglia e fredda.
Oltre alla macchina del caffè, due panche di legno e un cestino portarifiuti, il suo arredamento consisteva in alcune sedie rivolte verso un monitor fissato alla parete. Nafisi lo aveva invitato ad accomodarsi per visionare un video.
Ma c'era qualche interferenza e lo schermo aveva proiettato solo una fitta pioggia di puntini viola. Sembravano scagliarglisi addosso, come una violenta pioggia che picchiava in orizzontale.
«Ci scusi, signor De Leo, ci deve essere un disturbo» aveva detto Rahim Nafisi impeccabile nella sua divisa pulita. Mitragliatore in bella vista, una mano dietro la schiena e l'altra che reggeva il telecomando.
Fermo e imperturbabile aveva avviato nuovamente la riproduzione.
Youssef Tahimàd era comparso nel monitor. Un sorriso brillante, reso ancor più bianco dal contrasto con la sua pelle bruna e levigata.
«Buongiorno, signor De Leo e benvenuto. Mi preme ringraziarla di aver accettato di mettere le sue competenze al servizio di questa Impresa. Sono lieto di averla qui con noi e spero che si troverà bene. Buon lavoro.»
Dopo il breve videomessaggio, Nafisi aveva preso un cellulare e aveva composto un numero.
«Il signor De Leo è pronto» aveva detto parlando nell'apparecchio. Aveva congedato l'interlocutore per poi rivolgersi di nuovo a lui: «Il Responsabile della Disattivazione è arrivato. La accompagno a conoscerlo, d'ora in avanti sarà il suo Capo» aveva spiegato riponendo il telefono nel taschino della camicia verde militare.
Al cospetto di Jaffar Aref, Responsabile della Disattivazione, Elio si era sentito a disagio.
Dall'alto della sua statura fisica, Aref lo aveva puntato in malo modo, con occhi che sembravano schizzare fuori dalle orbite tanto erano sporgenti. Gli zigomi pronunciati, guance infossate, mento sottile e naso aquilino, tutto nel suo viso era spigoloso come lo erano anche i suoi modi.
Quando si erano dati la mano, Jaffar gliel'aveva tenuta appena per un istante, senza stringere. Aveva frettolosamente lasciato scivolare via la presa, quasi che quel breve contatto gli avesse provocato fastidio. Tuttavia alla fine della giornata si era lasciato andare a una valutazione positiva e si era complimentato con lui per la sua capacità di adattamento.

 
   
 
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