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Autore: Imperfectworld01    04/06/2019    0 recensioni
Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede.
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.
Megan Sinclair è la brava ragazza del quartiere, quella persona affidabile su cui si può sempre contare, con ottimi voti a scuola e con un brillante futuro che la attende.
E poi, all'improvviso, una sera cambia tutto. Una notte, un omicidio e un segreto. Un segreto che Megan, con l'aiuto di un improbabile alleato, cercherà di mantenere sepolto a tutti i costi.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è giusto

Suonai al citofono della casa dell'avvocato Finnston, ancora scossa per la terribile discussione avvenuta con Dylan, e quella ancora prima con Lucy.

Le loro parole continuavano a sovrapporsi fra loro nella mia mente, procurandomi un mal di testa non indifferente.

La mia mente continuava a ripetermi che non avrei dovuto credere a nessuno dei due, né a nessun altro. Ero stata fregata così tante volte da essere ormai diffidente nei confronti di chiunque, oltre che poco disposta a concedere seconde possibilità a chi mi aveva dimostrato di infischiarsene di me.

«Ciao. Prego, entra.»

Sollevai lo sguardo e notai che l'avvocato Finnston mi aveva aperto la porta, accogliendomi, come di consueto, con un caloroso sorriso. Con me era sempre così gentile e premuroso. Chissà come si comportava all'interno di un'aula di tribunale. Lo avrei scoperto fra tre giorni.

Solo tre giorni. Quella consapevolezza mi terrorizzava a dir poco.

Mi sforzai di ricambiare il sorriso ed entrai in casa sua, che ormai vedevo tanto frequentemente quanto la mia.

Fin da subito mi accorsi del silenzio e della quiete che c'era in casa dell'avvocato. David non c'era. Anche l'ultima volta, del resto, era arrivato dopo, quando io e l'avvocato Finnston eravamo già nel suo ufficio. Quindi magari, dopo la sua uscita con Olivia, ci avrebbe raggiunti.

Ancora non potevo crederci. Fra le tante cose che mi avevano lasciata senza parole in quella giornata, vederlo insieme a lei si posizionava sicuramente fra le più sorprendenti. Insomma, non riusciva a trovarsene della sua età? Ero sicura che al college ci fossero tantissime ragazze stupende, con le quali avrebbe potuto provarci.

A maggior ragione perché secondo le leggi della Louisiana, solo a partire dai diciassette anni una persona veniva considerata consenziente ad avere rapporti con una persona di qualsiasi età, mentre lei ne aveva sedici. Non che necessariamente si sarebbero dovuti spingere fino a quel punto, ma... Oddio. A fare quei pensieri, non potei fare che sentirmi veramente ridicola, tanto che cancellai la cronologia del browser non appena lessi quelle informazioni.

Magari avevo soltanto frainteso tutto. Forse erano parenti, o magari amici da tanti anni. Il fratello di Olivia doveva avere all'incirca l'età di David, magari erano stati compagni di superiori e per questo si conoscevano. Le alternative erano molteplici, eppure nella mia mente continuava ad avere la meglio la prima ipotesi.

Mi chiesi se il signor Finnston ne fosse a conoscenza. O almeno se sapesse dove si trovasse il figlio in quel momento. Cercai di impegnarmi per trovare un modo sottile di chiederglielo, facendo sì che passasse come una domanda completamente disinteressata e che non fosse fuori luogo in quel momento.

«David non c'è?»

Be', non provo quello che intendevo.

Non solo gli avevo fatto una domanda che non c'entrava niente in quel momento, ma non ero nemmeno riuscita a usare un tono indifferente. Ero sicura che l'avvocato si fosse accorto della mia apprensione, totalmente immotivata, tuttavia rispose alla mia domanda senza darci troppo peso: «No, è all'università».

Sì, certo.

Annuii, fingendo di essere soddisfatta dalla risposta, e lasciai che cominciasse con la mia preparazione all'udienza.

•••

Una volta rientrata a casa, ero completamente sfinita. Eppure, pian piano, stavo iniziando ad avere più fiducia. Essere l'imputata, per quanto assurdo sembrasse dirlo, aveva anche i suoi vantaggi. Potevo inventare la storia che volevo. Potevo decidere se rispondere con sincerità o meno alle domande che mi venivano poste. Certo, dovevo riflettere attentamente e dare risposte che potessero risultare il più possibile credibili, ma almeno non ero vincolata a nessun giuramento, a differenza dei testimoni. Il fatto di poter avere anche solo un minimo di controllo della situazione, mi faceva sentire più sicura.

Non appena svoltai l'angolo dell'anticamera e giunsi in salotto, vidi mia madre inginocchiata a terra vicino al divano, con decine di fotografie sparse attorno a lei.

«Che stai facendo, mamma?» chiesi, prima di sedermi a terra di fianco a lei.

Scrollò le spalle: «Sfogliavo i vecchi album di famiglia».

Normalmente in quelle situazioni mi sarei ritirata di corsa in camera mia, per evitare che iniziasse a fare paragoni rispetto agli anni precedenti e a farmi notare quanto fossi più magra e in forma rispetto a ora, ma in quel caso sapevo che era diverso. Aveva un'aria più malinconica. Teneva in mano una foto in cui c'era lei sul letto d'ospedale, con me in grembo, appena nata. «Sei cresciuta così tanto. E in fretta.»

«Non che adesso sia così tanto grande» le feci notare. «In fondo ho solo sedici anni.»

«Diciassette fra soli tre mesi» puntualizzò. «Però è vero, sei ancora molto giovane. Troppo giovane. Hai ancora tutta la vita davanti, o così dicono. Ma a volte la vita è così ingiusta che potrebbe esserti strappata in modo brutale e crudele, da un momento all'altro.» Si stava riferendo a Emily. Iniziai subito ad avvertire un nodo formarmisi in gola, il battito cominciare ad accelerare. «Per questo non devi mai, mai e poi mai darla per scontato. Devi goderti ogni momento fino in fondo, e non devi mai privarti di qualcosa solo perché hai paura.»

Sembrava quasi un discorso banale, a cui nessuno avrebbe dato mai davvero ascolto, eppure lo feci. Diedi un'importanza colossale a quelle parole. Quasi mi sembrava irreale pensare di essere la stessa persona che poco meno di due settimane prima aveva cercato di buttarsi sotto una macchina.

Rimasi in silenzio e abbracciai mia madre. Dopodiché notai una mia foto in compagnia di un altro bambino, mentre giocavamo a lanciarci la palla in giardino. Dovevo avere all'incirca quattro o cinque anni, mentre il bambino, un po' cicciottello, sembrava avere il doppio dei miei anni. Ci impiegai un po' a riconoscerlo, specialmente perché non ne avevo alcuna memoria, ma poi riuscii a identificarlo. Era cambiato tantissimo.

Mia madre si accorse del mio sguardo confuso, così mi diede ulteriori delucidazioni: «Lo sai che Frederick è nostro amico dai tempi del college, no? A volte veniva a trovarci e tu giocavi con suo figlio. Sebbene fosse un bel po' più grande di te, vi trovavate lo stesso bene. Non facevi che chiedere di lui, sai?».

Mi si formò un sorriso spontaneo in volto. Avevo davvero rimosso ogni ricordo a riguardo. Trovai altre foto, tra cui alcune in cui ero in braccio all'avvocato Finnston, non dovevo avere più di due anni. 
Poi, quasi d'istinto, mi sorse un dubbio. In nessuna di quelle foto era presente la mamma di David. «E sua madre?» chiesi. Nemmeno nelle foto in cui lui dimostrava circa sei anni e io ero una neonata era presente. Non ci avevo mai fatto tanto caso a dire il vero, fino a quel momento. Forse si sono solo separati, pensai.

Ma l'espressione che assunse mia madre mi suggerì ben altro. Si rabbuiò in volto. «Ah, una vera tragedia... è venuta a mancare pochi mesi dopo la nascita di suo figlio. Suicidio. Dico io, come si può anche solo pensare di lasciare solo un figlio appena nato e suo marito a crescerlo?»

Come al solito la sfrontatezza di mia madre non aveva limiti. Se, dopo averle parlato, stava imparando a essere più delicata nei miei confronti, rimaneva comunque nella sua indole, e la sua lingua spesso non aveva freni.

Ci rimasi malissimo. Io ero cresciuta con tutti e due i genitori e, sebbene avessi incontrato molte difficoltà nel mio rapporto con loro, almeno li avevo sempre avuti con me. Non riuscivo neanche a immaginare come fosse crescere senza un genitore.

Al dispiacere, poi, si aggiunse un impetuoso senso di colpa. Con tutte le persone che avrebbero potuto impedirmi di fare quel gesto stupido e avventato, era stato proprio David a farlo. Lui che, più di tutti gli altri, sapeva il dolore che si provava nel perdere qualcuno che si era tolto la vita.
In quel momento, più che mai, desiderai di non essere stata così idiota, debole, superficiale e stupida. Avrei voluto cancellare tutto, così da far svanire il senso di colpa. Ma forse l'unico modo che avevo per rimediare era il più semplice di tutti: vivere. 
Vivere per davvero, cogliere l'attimo, senza avere paura delle conseguenze, non lasciarmi perdere nessuna occasione.

•••

«Io, ehm... devo dirti una cosa» fu la prima cosa che mi disse Tracey non appena salii nella sua auto il mattino seguente. Sembrava tesa e preoccupata. L'ultima volta che l'avevo vista con quell'espressione, avevo saputo che Dylan aveva diffuso in giro per la scuola quei dannati volantini

Cos'altro c'è?, mi venne spontaneo chiedermi.

«Dimmi.»

«Mi prometti che non ti arrabbierai?» chiese.

«Trace, di che si tratta?» domandai a mia volta.

«Meg, promettimelo.»

Roteai gli occhi, cominciando a spazientirmi. «Non posso decidere di controllare le mie reazioni prima ancora di sapere che cosa vuoi dirmi.»

«Be', provaci. Perché... perché è per te che l'ho fatto.»

Fatto cosa?

«Tracey...»

Lo sguardo angosciato e preoccupato di Tracey non prometteva nulla di buono.

Prese un respiro profondo e poi parlò. «Non è stata Lucy ad aver sabotato la commemorazione di Emily mandando in onda quel video. Sono stata io.»

Boccheggiai per una decina di secondi, incapace di dire qualsiasi cosa. «Per... perché diamine l'avresti... perché l'hai fatto?»

«Non ce la facevo più a vederti star male per il fatto che tutti ti evitassero a scuola, così ho pensato che...»

«Cosa cazzo hai fatto?» la interruppi, montando su tutte le furie e preparandomi a uscire dalla sua auto. Al momento sentivo soltanto il bisogno di stare il più possibile lontano da lei.

Mi afferrò per il braccio prima che aprissi la portiera, costringendomi a rimanere: «Meg, non lo capisci? Ora tutti ce l'hanno con Lucy e sono dalla tua parte. Ha funzionato!».

La guardai con disdegno. «Già, e Lucy? Lei come sta adesso, a causa tua?»

«Non mi importa di Lucy, né di chiunque altro ci fosse stato al tuo posto: per me conti tu, Megan. Tu stavi male e io ho cercato di porre fine al tuo malessere, tutto qui.»

Non sembrava minimamente risentita, non dava segno di nessun senso di colpa. Era del tutto convinta di quello che aveva fatto.

Ma come poteva non rendersi conto di quanto fosse sbagliato? Aveva cercato di salvarmi dai bulli diventando una bulla lei stessa. Nei confronti di Lucy, che non c'entrava niente e che, anzi, forse era stata l'unica persona a essere stata sincera con me.

«Se davvero non riuscivi a startene con le mani in mano e volevi aiutarmi, avresti potuto farlo in altri modi. Perché hai dovuto fare un torto a Lucy?»

Proprio durante la commemorazione di Emily. Non poteva scegliere un momento peggiore.

«Perché è giusto così! Chi dice che il male si sconfigge con il bene, allora non ha capito niente di come funziona realmente il mondo. A volte bisogna tirare fuori gli artigli. Mi dispiace per Lucy, davvero, ma andava fatto e lo rifarei.»

Scossi la testa, profondamente delusa e contrariata. «E riguardo a Dylan? Mi hai mentito anche su quello?» chiesi poi, incrociando le spalle al petto.

«Certo che no! Allora non hai capito niente del discorso che ti ho fatto?»

«Ho capito che mi hai mentito, tanto per cominciare.»

Tracey roteò gli occhi. Con quale coraggio?, mi chiesi. «Davvero vuoi avercela con me? Io l'ho fatto solo e unicamente per te. Se non te l'ho detto subito, era perché temevo che avresti avuto questa reazione. Non ti ho mentito allo scopo di ferirti. La mia è stata solo una piccola bugia bianca» disse.

«Ok, ma ti rendi conto che quello che hai fatto a Lucy è sbagliato e non era per niente necessario?»

«Per quanto mi riguarda, ho la coscienza pulita. In fondo una brutta azione, se fatta per le persone a cui teniamo, non è poi così brutta, no?»

Ripensai a quando avevo scoperto che Tracey aveva preso l'arma del delitto di Emily, sulla quale c'erano le mie impronte. L'aveva fatto per me, anche quella volta. L'aveva fatto, pur correndo il rischio di mettersi seriamente nei guai con la polizia distrettuale nel caso in cui l'avessero scoperto. Soltanto per me, per proteggermi.

Ecco che mi resi conto, ancora una volta, di quanto fossi fortunata ad avere un'amica come Tracey. Lei era sempre stata pronta a rischiare tutto per me, da quella sera in avanti. E io invece ero solo stata capace di urlarle contro, senza capire realmente fino a che punto teneva a me e alla nostra amicizia.

«Scusami...» sibilai. «Sono una pessima amica.»

Trace mi appoggiò una mano sulla spalla: «No, Meg, che dici?».

«Sono sempre stata una pessima amica. Prima con Emily, ora con te.»

Emise un sorriso amaro. «Megan... tutti sbagliamo, sempre. Le persone imparano a convivere con i loro sbagli, ma tu... tu ti demolisci da sola, di continuo. So che i tuoi ti stressano con questa storia dell'essere sempre al massimo e perfetta in ogni cosa, ma forse è il caso di imparare a essere semplicemente te stessa. Sei umana, accettalo. Non puoi continuare a vivere nel passato.»

Annuii. «Sì, lo so... Ci sto lavorando.» A quel punto, dopo avermi dato un buffetto affettuoso, Tracey mise in moto e cominciò a dirigersi verso scuola.

Dopo pochi minuti, una volta assimilato e rielaborato il tutto nella mia testa, mi sorse spontanea un'altra domanda: «E ora che ne sarà di Lucy?».

«La preside Fitzpatrick l'ha ritenuta colpevole e per punizione le ha assegnato trenta ore di servizi sociali, tipo raccogliere l'immondizia o robe simili, in aggiunta ad averle imposto di partecipare a dei seminari contro il bullismo.»

«Non è giusto» commentai, scuotendo la testa.

«Lo so, ma ormai non possiamo farci niente.»

Una cosa potevo farla, invece. Non sarebbe servito a rimediare le cose, ma forse mi avrebbe aiutata a sentirmi meno in colpa: avrei dovuto scusarmi con lei.
Anche se ancora non sapevo come avrei fatto a farlo senza mettere in mezzo Tracey, avrei dovuto necessariamente trovare un modo.

•••

Fu la prima persona che cercai una volta arrivata a scuola. Non fu tanto difficile, dal momento che il suo armadietto era di fianco al mio. Riconobbi subito il suo caschetto biondo e ondulato e mi avvicinai a lei. «Lucy» tentai di attirare la sua attenzione, e subito la vidi sussultare.

«Megan» disse, evitando di guardarmi negli occhi.

«Io... io penso di doverti delle scuse.» Sollevò lo sguardo e lo puntò sul mio, rivelando un'espressione sorpresa e anche spaventata. «Ci ho riflettuto e... è altamente improbabile che sia stata tu, fra tutti, a farmi una cosa simile. Perdonami per non averti dato nemmeno il tempo di spiegarti, il fatto è che... scoprire di essere stata tradita da una delle poche persone che mi avevano dato il loro appoggio... ecco, faceva troppo male per poter pensare lucidamente. Mi è venuto più semplice ereggere un muro piuttosto che fidarmi di nuovo e rischiare di rimanere scottata un'altra volta.»

Rimase in silenzio fino alla fine del discorso. Poi mi guardò di sottecchi, con un'espressione vispa. «Tu hai scoperto chi è il vero colpevole, non è così?»

Boccheggiai alla ricerca delle parole adatte per una decina di secondi. Non mi aspettavo che fosse così sveglia. Poi mi ricordai che io ero Megan Sinclair, e che anche una finestra avrebbe potuto capire tutto di me soltanto guardandomi. Deglutii. «Ho un sospetto. Ma non ne sono realmente sicura.»

I suoi occhi si animarono. «Chi? Ti prego, Megan, devi dirmelo! Tutti devono sapere chi è il vero responsabile.»

"Pensa, Megan, pensa."

L'unica cosa che potevo fare per poter uscire da quella situazione, era sacrificare qualcun altro. Ma chi? Olivia era ormai troppo scontata. C'era solo un'altra persona a cui avrei potuto dare la colpa...

«Dylan.»

Lucy sgranò gli occhi. «Cosa? Ma è... voi due non state mica insieme?» domandò confusa.

«No. Sì. Non più... credo. Io ho scoperto che è stato lui che ha diffuso in giro per la scuola quei volantini su di me. Non mi stupirei se avesse anche manomesso il video di venerdì sera.»

Corrugò la fronte. «Ma perché l'avrebbe fatto? Sei sicura al cento per cento che sia stato lui a creare quei volantini? Magari anche lui è stato incastrato.»

Avrei potuto pensarla in quel modo, se non fosse stato Herman a dirmelo. Di lui mi fidavo tanto quanto mi fidavo di Tracey. E poi ne avevo le prove, no?

«Hai provato a controllare il registro delle firme?» chiese.

«Il... il cosa?»

«Be', per usare i computer del laboratorio bisogna sempre firmare un apposito registro, lasciando anche il numero del proprio documento, così che nel caso in cui il tecnico noti qualche stranezza o danneggiamento da riportare, possa sapere chi è stato in quell'aula, in che giorno e a che ora» rispose, scrollando le spalle. «Così puoi vedere se Dylan è stato lì, e quando.»

Non me lo feci ripetere due volte: iniziai letteralmente a correre verso l'aula dei computer, così da poter avere le conferme che cercavo prima che suonasse la campana. Proprio di fianco alla porta dell'aula, era appesa una bacheca sulla quale vi erano appesi i fogli di cui parlava Lucy. Li consultai tutti, fino ad arrivare al giorno prima che comparisse il primo volantino, il giorno in cui si era diffusa la notizia che Emily era morta. Fotografai ciascun foglio, così da potermi concentrare in seguito sui nomi che erano riportati.

Il nome di Dylan non c'era da nessuna parte. Non era stato lui.

   
 
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