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Autore: _Arias_    13/06/2019    2 recensioni
Monologo sulle sofferenze giornaliere di Klaus, che lo hanno portato ad odiare la vita ed a nascondersi dietro un sorriso e delle belle ma finte parole.
Una banale domanda che gli permetterà di attraversare un percorso psicologico basato su traumi infantili ed infelicità.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stai bene?”


 

Due parole semplici ma capaci di confondere il mio già instabile equilibrio mentale.

Io sto bene? Forse sì. Dopotutto riesco a mantenermi in piedi, gambe funzionanti, polmoni che respirano, cuore che viaggia, un ottimo udito ed una strabiliante vista, il mio corpo è forte a malattie ed infezioni, sporco nel sangue ma pulito nell’aspetto. Tutto sembra in ordine, dall’attimo in cui mi sveglio a quello in cui mi addormento, l’organismo soffre per molti miei maltrattamenti ma se la cava sempre, rendendomi già pronto ad una nuova battaglia appena ho le energie per alzarmi.

Ma che succede nel lasso di tempo in cui rimango sveglio? È facile aprire gli occhi dopo aver dormito, a volte anche poco come qualche ora, non ho mai avuto bisogno di una sveglia, fin da piccolo ero il primo ad alzarsi e trovare uno svago pur di non tornare a dormire. Già, non mi è mai piaciuto dormire, dovrebbe essere un momento di completo relax ma i frequenti incubi hanno sempre rovinato ogni aspetto. Incubi pertinenti gli eventi passati, ricordi distrutti da un padre severo e senza pietà, distrutti dalla vita di strada, dalle delusioni, dai tradimenti, dagli amori frantumati, dai cuori spezzati, da voci incessanti. Distrutti.


 

Non ci penso da tanto, ormai, a cosa faccio ogni giorno. Mi sveglio coi soliti modi, mi alzo e cerco la mia prima dose giornaliera e già da qui posso misurare la tranquillità del resto del dì:

C’è: vivo.

Non c’è: sono spacciato.

Non ragiono su altro senza aver trovato modo di procurarla, dopo averlo fatto, entro in quella finta pace chimica che mi dà sollievo, facendomi sognare, entrare in un mondo parallelo, più colorato, più gioioso.

Ma che succede quando entro in bagno, quando mi lavo il viso, quando mi guardo allo specchio? Vedo solo un’immagine sfocata di me in un vetro appannato.

Io sono davvero questo? Viso cupo, sudato, occhi stanchi, angoli della bocca tristi. Io non sono questo, sono nato con un carattere diverso, un carattere che mi ha cresciuto e che non ho mai voluto abbandonare: un carattere allegro.

A volte ho bisogno di ricordare cosa voglia dire l’allegria, molto spesso cerco con lo sguardo nello specchio uno spettro riflesso capace di darmi un suggerimento, magari quello di mio fratello, magari uno sconosciuto, l’importante è che sorrida, facendomi ignorare le altre centinaia che tristi, vagano senza meta od obiettivo se non quello di voler comunicare con me per aver ancora speranza nel raggiungere il regno dei vivi, che ormai non gli appartiene.

Creato il sorriso, la giornata può dirsi iniziata.

Ma è davvero giusto così?


 

Sto cercando ancora una risposta. Dove ho sbagliato? Dove mi sono fermato? Dovrebbe essere facile, è solo una domanda, una di quelle che si sentono ogni giorno anche solo camminando per strada. Allora, cosa sto ancora a pensare? Rispondo.

Ci provo, la voce non esce, la gola secca, le labbra asciutte, lo sguardo basso, perso. I pensieri tornano sul mio più brutto ricordo, le sensazioni erano simili a quelle riportate adesso, solo ampliate.

Oltre a queste, nei ricordi, erano presenti occhi dolenti non più capaci di distinguere la realtà dall’immaginazione, corpo tremante a causa del gelo di terrore, orecchie pervase da continui tormenti.

Sto parlando di quei momenti.

Il mausoleo più arricchito di defunti in pena per morti violente e senza gloria, anime irritate dalla sola mia presenza, divertite dalla mia paura.

In altri casi non meno frequenti, le fredde casse mortuarie nel quale il sadico tendeva a chiudermi, in presenza o meno dell’ospite morto.

“Insegnamenti” che non scordo, il terrore che la morte mi provoca, è dovuto principalmente da questi e solo Dio, o forse neanche lui sa, quanto quell’uomo sicuro di sé in realtà abbia fallito.


 

Bene. Questa è una delle parole che più ha utilizzato mio padre.

“Lo faccio per il tuo bene”, “È per il bene del mondo”, “Per il bene della scienza”. Ma mai, mai la ha usata per l’unica frase che avrei voluto sentire da un genitore: “ti voglio bene”. Sarebbe bastata una singola occasione per rendermi già un ragazzo più felice, speranza che ho abbandonato presto con gli anni a venire. Severità, sguardo spento, irritato dai suoi esperimenti falliti, che siamo noi figli. Ricordo appieno l’espressione che mi rivolgeva dalla sua altezza, sembrava essere così alto, così lontano… ed io mi sentivo il più piccolo, inutile, insensato essere vivente sul pianeta, avrei preferito scambiarmi con una formica pur di non essere gelato sul posto, tremante e pauroso solo per una sua occhiata data di troppo.

Pensavo di essere sbagliato, forse lo sono su molti punti di vista ma davvero mi sono meritato un trattamento simile? Non ricorreva alla violenza fisica, poche volte la toccava, lui soggiogava la mente ed è ben peggiore, perché dopo dieci anni le ferite corporee svaniscono, ma quelle mentali restano, potenti, strazianti, come voci vive dentro la testa che vorresti solo mettere a tacere.

Un figlio inutile.


 

Non sono mai stato il suo preferito. Anzi, mi considerava il peggiore.

Il peggiore negli allenamenti, il più debole, il più svampito, il più distratto e… quello con il potere futile. Vedere i morti non mi avrebbe aiutato nella vita o nelle missioni, chi si godrebbe un mondo pieno di zombie pronti ad inveire su di te?

“Non è solo questo” continuava a ripetermi ed a breve ho capito cosa intendesse, ho realizzato di avere una nuova qualità, il poter dare attimi di vita ad un corpo non più tra noi. Ma quanto questo può riuscire a far felici le persone? Ed a me, cosa serve? Ancora una volta, niente. Anzi, la situazione è di gran lunga peggiorata, pare esserci la fila tra i morti per chi vuole resuscitare per primo. Ma non è così, io non posso aiutare nessuno, non è un bene questo dannato potere, può solo che fare del male dando speranza per un obiettivo irraggiungibile.

A cosa mi è servita tutta questa severità se neanche riesco a rispondere ad una stupida domanda? Sono ancora qui, in piedi come un fesso, mentre tornano a galla i mille ostacoli passati, tutti quegli allenamenti incessanti, faticosi… e soprattutto, dolorosi. Ricordo le gambe stanche e pesanti che cedevano ad ogni passo mentre tornavo a letto, di notte, dopo una giornata sofferente. Ricordo le palpebre pizzicare, i tagli sulle labbra, la saliva densa, la necessità di riposare dalla paura. Ricordo la finestra, la Luna, le macchine suonare, la voglia di fuggire. Ricordo i lamenti di Ben nella stanza accanto, le sue ferite a causa dei poteri incontrollati ma che nostro padre continuava a costringergli, i pianti soffocati, i sorrisi falsi del mattino successivo, i suoi “sto bene” bugiardi.

Ora è finito tutto ciò. Finito come lui.

Ed è anche per lui che lo chiedo ancora una volta… a cosa è servito questo trattamento?


 

Sono in gabbia. La creatività limitata, i sogni in una scatola abbandonata. Mi sento in una prigione ed il padrone della chiave è il destino, che tra tutta l’umanità ha scelto proprio me da sbattere dietro le sbarre. Avrei superato le parole di mio padre, il mio considerarmi insensato, sarei riuscito ad andare avanti, ad avere una vita. Ma tutto… è rovinato dalla costante presenza del mio potere, sottovalutato da tutta la famiglia.

Dovrebbe esser diventata un’abitudine ma come si dice spesso anche se non sopporto ripeterlo, non ci si abitua mai a ciò che si odia. È proprio questo il punto della questione, il potere mi ha portato ad avere cicatrici indelebili nella mente così profonde e rimarcate costantemente che ad ogni azione è difficile ignorarle.

Dovrei curare più spesso queste ferite lasciate aperte, tante volte l’unico fratello rimasto accanto mi aiuta, ma tante altre volte non basta. È come se avessi un cerotto per bambini per coprire lo sgorgare di sangue di un colpo da sparo. È talmente ridicolo da farmi sfuggire un sorriso che assorbe in un’espressione facciale la mia innata incapacità di esprimere a parole ciò che sento. Non sono mai stato alla ricerca di un cerotto più grande o una benda, ho sempre pensato che fermarsi e curare sia peggio di proseguire in tutta fretta con la speranza che le gambe non abbandonino le forze prima del luogo da raggiungere, luogo che io chiamo “Felicità”.


 

Felice… cosa vuol dire?

Comprendo la felicità per minime frazioni della mia vita, qualcosa come la sorpresa, una risata, una battuta e poi… a picco verso il degrado.

In realtà, io una gioia la ho trovata, qualcosa che mi ha portato a perdere tanto altro, perdere la fiducia, perdere l’amicizia, perdere la dignità, perdere il bene dei fratelli, perdere ogni speranza di uscirne.

Parlo proprio di lei, la mia amatissima ed odiata droga. Ma tante volte sorge in me una domanda: quanto conviene continuare?

Lei, compagna di avventure, mi ha portato la possibilità di dare una tregua ai miei poteri, facendomi volare in alto ad ogni utilizzo, sentirmi leggero, spensierato, fresco e… vivo. Finalmente vivo. Ma si sa, poi torni sempre a guardare verso il basso e più in alto voli, più poi la caduta farà male quando il nuovo potere delle ali svanirà.

Ma sono troppo belle queste ali, forse sono loro la vera felicità della vita, così colorate, così forti, così… protettive verso una realtà non giusta.

Ti concedono di restare per sempre in una confusione mentale che, per quanto lo è, riesce a farti trovare la strada migliore verso ciò che hai sempre desiderato. Missione che nel profondo del mio cuore so essere un’illusione. Ma amo crederci, tutti nella vita sentono il bisogno di credere in qualcosa ed io voglio credere a lei.

Solo a lei, per la quale prego ogni giorno come divinità.


 

Vorrei solo essere compreso. Vorrei avere una vita normale. Questo è il mio più grande desiderio.

Anche io avevo dei sogni e se ci penso… sono così banali e stupidi che chiunque potrebbe portarli a termine. Chiunque, ovviamente, tranne me.

Sogni rappresentati da una piccola casa, un cagnolino che ti aspetta all’ingresso, un giardino pulito, un amante che ti saluta con un bacio, un bambino che ti abbraccia le gambe e tu, con una borsa in mano, appena rientrato da chissà quale compito. Una vita semplice con tutte le sue sfaccettature positive e negative: un lavoro noioso, un uomo geloso, un bambino ansioso.

Avrei accettato di tutto… e la sola immagine di questo futuro impossibile mi reca un peso al cuore tanto forte da doverlo sorreggere con mano per non permettergli di cadere.

Un cuore rinchiuso, protetto da mura che ormai sono cenere. Colpito da mille parole, mille gesti e mille sogni irrealizzabili che lo hanno ferito a sangue, indelebilmente.


 

Solo. Lo sono sempre stato. E quel cuore non vorrebbe davvero esserlo.

Per quante conoscenze io abbia passato non ce n’è una che mi ha fatto sentire in compagnia. Preferirei divenire sordo pur di non essere costretto ad ascoltare ancora una volta “smettila con questa droga”, vorrei qualcuno che capisse il mio dolore e non lo sottovalutasse. Ma le uniche volte che ho tentato di aprirmi, ho ricevuto le più grandi delusioni. Nessuna mano sulla spalla, nessuna carezza sul cuore, nessun pianto condiviso. Semplicemente uno sguardo schifato ed un rifiuto per poi assistere alla classica vicenda: la sparizione.

Chi vuole essere amico di quello che si presenta come un senzatetto, un combina guai, un ladro, un fattone, uno strano manipolatore della morte, un medium senza scopo, un vigliacco.

È questo che sono, il mio potere ed il mio carattere mi hanno portato a passare notti insonni in vicoli ciechi, a terra con qualche birra insieme a delle ferite procurate nelle risse, con l’unica compagnia delle lacrime, quelle incessanti. Perfino le voci sarebbero state di aiuto, ma in quei momenti sento solo che un profondo silenzio, un’oscurità che mi ingloba, un buio che mi spegne, mi fa sentire inadatto a vivere anche solo un giorno di più. Per quale motivo poi? Ritrovarmi qui? Posso riderci a volte, mischiare le lacrime di dolore con quelle di divertimento, un falso divertimento che alla fine mi porta sempre allo stesso punto: alla voglia di non vivere più.


 

Vivere… cosa significa? Sono vivo se cammino, se faccio dei pensieri, se prendo decisioni, se parlo o se rido. Ma sono vivo se il mio cuore è morto?

Nella gioia, nella paura, nella tristezza questo si fa sentire, batte contro il petto irrigidendo all’istante i muscoli. Ma quanto può essere vivo un corpo con una mente ormai stanca?

Stanca di tutto questo schifo, non ho mai desiderato vivere per strada o fare ciò che faccio. Ho passato la mia intera esistenza a convincermi che questo sia giusto, che non ci sia speranza, ma chi ama fare ciò che faccio io? Nessuno. Anche chi vedo messo come me non è felice, un’apparente sorriso che nasconde disperazione, riconosciuto solo da chi vive nella stessa situazione.

Commettere crimini ogni giorno fregandosene di chi li subisce, rischiare la salute o perfino la vita tua e di chi ti sta accanto, accettare le peggio schifezze pur di avere un posto dove dormire, un pasto caldo da mangiare. Rubare, rapinare e prostituirsi, nulla di tutto questo mi è nuovo nonostante io mi sia ormai allontanato dall’ultima pratica che mi è stata vicina per anni dopo la fuga dalla casa madre. Non è mai stato bello unirsi a uomini che non si conosce, uomini della peggior specie, ma lo ho accettato per degli inutili pezzi di carta con valore, come tutto d’altronde.

Questo è vivere? Se è questo, forse è meglio non nascere. È ciò che avrei voluto dire al figlio di una donna di strada mentre ho assistito al parto, qualcosa di veramente lurido, neanche un lettino dove stare o medicinali per alleviare quelle sue urla disperate per dolori ed un figlio che non ha mai desiderato. Semplicemente lì, in mezzo ad un vicolo poco trafficato, in mezzo allo smog del traffico della strada accanto ed in mezzo agli sguardi schifati di qualche passante, schifati perché lei sporca e malandata, incapace di seguire il buon alto stato di livello sociale a causa del soldi mancanti. Se fosse stata una donna di classe chiunque si sarebbe fermato.

Avrei voluto dirglielo a quel neonato pieno di sangue, che più sangue pareva attornato da fiamme liquide, come se il suo destino fosse già scritto nell’Inferno. Lì ho avuto parole in mente che ben ricordo: “piccolo e puro essere già sfortunato dalla nascita, sei sicuro di voler vivere? Dovresti morire adesso, sarebbe la tua fortuna”.


 

Senza niente. Senza protezione, senza veri amici, senza la fiducia della famiglia, senza un amore.

Dico che non mi interessa vivere così, che non mi interessa essere lasciato da parte, che non mi interessa non possedere niente.

Non è vero.

Io vorrei tutto, vorrei sentirmi a posto con me stesso, vorrei un nido caldo in cui poter tornare insieme ad altri a cui voglio bene. Altrimenti che senso ha tutta la vita? Il mio destino, finché qualcosa non mi ucciderà, è davvero quello di rimanere intrappolato in questa Terra che non voglio? Intrappolato dai miei problemi, dai continui nocivi pensieri che scaccio continuamente.

Io non voglio!

Ho detto basta troppe volte senza portare a termine l’obiettivo che mi sono imposto ormai troppe volte, questo sarebbe riuscito a liberarmi dalla malavita, ma anche da qualcosa che, chi lo ha già raggiunto, desidera ardamente: poter vivere di nuovo.

È così che sconfiggo la voglia di farla finita una volta per tutte, guardando le anime che desiderano il contrario, convincendomi che sentire la terra sotto i piedi, sentire le lacrime che scendono sul viso, sentire dolore e diventare vecchio, sia qualcosa di positivo. Sono loro che involontariamente mi mandano avanti.


 

Morire è stata da me sempre considerata una liberazione. Chiunque non sia felice nel mondo dei vivi può scegliere questa meta eterna dove in teoria c’è pace. In realtà anche tra le anime ci sono molti conflitti, le menti non cambiano e l’attaccamento alle cose terrene per tanti non differisce.

“Ma tu sei fortunato, Klaus. Tu puoi vedere come sarà e chi hai perso ti rimarrà comunque accanto”.

Ho sentito queste frasi così tante volte da chi conosce il mio potere che ormai ne ho la nausea. Non è fortuna poter sapere che anche ciò che ci aspetta dopo non è poi così bello e tanto meno è fortuna poter vedere chi abbiamo perso, perché le anime si presentano esattamente nello stato in cui hanno abbandonato il corpo. Osservare qualcuno a cui si vuole bene ferito per l’eternità, con arti in meno o senza gambe o indumenti, è bello? Non lo è. Ti ricorderà in ogni istante della tua intera vita che tu non hai potuto fare niente per evitarlo. In più, se si ha ciò che posseggo io, per ogni morto che si avrà sulla coscienza non rimarrà solo l’amaro in bocca ma si dovrà sconfiggere un’altra volta, faccia a faccia, chi si ha ucciso sulla Terra. Tutti quei morti in missione mi rendono la giornata ancora più improponibile, tutto per vendetta verso me e la mia famiglia, per cosa poi? Io ho sempre odiato uccidere e ad ogni compito di nostro padre tendevo a nascondermi e lasciare fare agli altri per non essere poi successivamente incolpato dai morti.

Perciò vederli non è mai stato un bene. Mai.


 

Pian piano comprendo tutto grazie a questo confuso ragionamento mentale durato qualche attimo, il tempo che la persona che ho davanti si accorga del mio stacco di spina, ma non troppo da farle chiedere cosa sta accadendo. Sto attraversando un percorso lungo a causa di una insulsa domanda alla quale tutti, o quasi, risponderebbero allo stesso modo. Dovrei farlo anche io ormai, a che servirebbe dare una spiegazione? Rimarrei comunque bloccato in questa sofferenza, comincerei ad apparire pazzo, depresso o penoso. Mi escludo da tale considerazione, non voglio ciò e sono abituato ad indossare le mie numerose maschere felici, perciò è ormai d’obbligo continuare. Nonostante questo, sto cercando ancora la più adatta per non ricevere altre domande ed anzi, parlare di qualcosa che mi distragga. È facile per me ormai mettere da parte qualsiasi tragedia che non mi piace e vivere il momento, dovrei farlo anche adesso, pensare a qualcosa di divertente o buffo per riprendere a ragionare “lucidamente” che per me significa il contrario di ciò che sto facendo adesso.

Ho iniziato dal credere che in fondo non fosse così brutto tutto ciò che provo ma poi, a causa mia, sono caduto a picco ritrovandomi come in mare senza fondo assente dalla possibilità di respirare. Ma almeno ora so cosa fare, come reagire.


 

Dentro di me ogni discorso mentale fatto ribolle portandomi a comprendere quanto disastrosa sia la mia vita… e come catastroficamente ho deciso di viverla. Non ho modo di scappare da questo male che mi divora lentamente, perciò, proprio ora che tutto mi è più chiaro e che ogni pensiero ha preso la sua strada, decido di smetterla.

Non c’è soluzione, ogni passo sarà falso, niente porterà ad una via dritta ed in discesa, il mio futuro è segnato dalla nascita.

Perché io sono solo che un orrendo mostro nascosto da una maglietta simpatica, una gonna carina e del trucco nero. Qualcosa nato dal nulla, da una donna che non mi ha mai voluto ed un parto sofferente. In pratica, uno scherzo della natura.

Sono giunto alla conclusione più adatta, ma non felice.

La risposta che darò non sarà vera perché mentire è l’idea migliore, ma la reale risposta la ho già data tra le righe dei miei scritti invisibili.

Un improvviso sorriso per bloccare il ricorrente bisogno di lasciar scivolare le lacrime che pizzicano gli occhi ormai lucidi. Un gesto spontaneo mi fa abbassare gli occhi, stanchi perfino di guardare quelli della persona che attende, stanchi perché vorrebbero condividere la tristezza tramite semplici gocce salate.

L’ultimo obbligo verso me stesso è quello di rialzare gli occhi e costringermi ad usare la voce. Rispondo ancora una volta con la solita, e per fortuna veloce, cantilena bugiarda.


 

Sì.”


 

Io Non Sto Bene, Non Sono Felice, Vorrei Solo Vivere Senza Morire Pian piano Dentro.


  
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