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Autore: _Frame_    23/06/2019    5 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Capitolo 200 raggiunto, ciurmaglia! :D  *soffia dalla trombetta colorata, getta all’aria una manciata di coriandoli, accende la candelina sul cupcake, e si batte le mani da sola come una disperata*

Se dicessi che riuscirò a terminare la storia entro altri cento capitoli sarei un’ipocrita bell’e buona, quindi l’unica cosa che resta da dire è... verso i 300 e oltre! Come gli spartani, dai, porta fortuna. Circa. Spero solo di non fare la fine del signor Leonida.

Paradossale come, proprio in questo capitolo un po’ di passaggio e distante dalle carneficine, io mi sia ritrovata a inserire la scena che forse più mi ha disturbato scrivere in tutto il Miele, almeno finora. Il che è incredibile, considerando il calibro di tutti i massacri e sbudellamenti vari con cui mi sono beatamente crogiolata in duecento capitoli. Eppure questa, non so, mi ha lasciato addosso i sensi di colpa per giorni interi. Non esitate a fatemi sapere la vostra! Sperando si capisca di quale scena sto parlando...

Approfitto inoltre per segnalare che sono state aggiunte alcune foto al solito album dedicato ai lavori di voi lettori, dei fantastici cosplay ispirati al Miele e offerti dalle care lelouch 25 ed europa. Di nuovo grazie infinite per questo splendido regalo, ragazze, voi mi viziate troppo (T_T). Trovate gli aggiornamenti nel solito album “Miele” nella bacheca della mia pagina autore.

Grazie infinite a tutti voi lettori per il sostegno che mi date e per questo incredibile traguardo! (^-^)

 


200. Febbre e Geloni

 

 

13 novembre 1941

Orsha, Unione Sovietica

 

I soldati appartenenti al plotone che avevano mandato in avanscoperta solo un’ora prima depositarono sulla strada le casse di legno che avevano ammassato sul carro, le spinsero davanti a Prussia e Austria. Sfilarono i coperchi di legno consumato e incrostato dal ghiaccio, e ne svelarono il contenuto. Patate raggrinzite, grigie, simili a sassi, ancora sporche di terra, da cui sbucava qualche radice sfilacciata. “Questo è tutto quello che siamo riusciti a rimediare, signore.” Il soldato sfilò le mani inguantate dalla cassa che aveva appena depositato accanto alle altre, premette le mani sulle reni, fece schioccare la schiena, strinse la faccia arrossata e consumata dal gelo, e si rimboccò la giacca attorno al mento su cui qualche fiocco di ghiaccio era cristallizzato fra i peletti della barba. “Purtroppo non è molto.” La sua voce uscì assieme a una nuvoletta bianca. “Ma la terra ormai è durissima a causa del freddo e non c’è stato modo di scavare di più. Per di più, i russi hanno ripulito i campi poco prima di lasciare la città e le campagne, e hanno portato con loro ogni scorta.”

L’altro soldato che lo accompagnava annuì, si spostò di un passo di lato per far passare il carro con cui avevano viaggiato e che ora si rimetteva in moto per pattugliare il perimetro della città, e strofinò le braccia incrociate. “I viveri che abbiamo basteranno per una sola settimana, forse. Ma poi...” Spostò il peso da un piede all’altro, fece scricchiolare la neve congelata, ed emise un lungo sospiro. La nube di condensa celò la sua espressione infiacchita dalla preoccupazione. “Temo che se non riusciranno ad arrivare le scorte dalle linee di fronte allora rischieremmo di morire di fame, signore.”

Austria spinse indietro gli occhiali, sporchi anche quelli di ghiaccio tutt’attorno alle lenti. Distolse lo sguardo da quelle patate simili a pietre che erano come un pugno affondato nel suo stomaco azzannato dai crampi di fame, e lo posò su Prussia. Sollevò un sopracciglio. Attese.

Prussia si accovacciò sulla stradina da cui avevano spalato la neve, raccolse una delle patate, la rigirò, vi batté un dito sopra – durissima, proprio come pietra – e la ributtò dentro la cassa. “Riuscite almeno a cucinarle?”

I due soldati incrociarono uno sguardo incerto. Uno di loro si strofinò la nuca. “Sperando di riuscire ad accendere dei fuochi abbastanza abbondanti perché non si spengano, dovremmo riuscire a mettere insieme qualcosa.”

Un terzo di loro, uno di quelli che stavano trasportando le casse verso le cucine, si strinse nelle spalle mostrando lo stesso fare impotente. “Sempre ad avere abbastanza legna perché duri. E sempre se l’olio d’accensione non risulterà troppo vischioso perché faccia presa.”

“Provateci lo stesso.” Prussia si aggrappò al bordo di una delle casse, spinse le ginocchia sul suolo innevato, e si rimise in piedi. Sbatacchiò i pantaloni. “Mettete assieme più scorte che potete e date da mangiare per primi ai feriti. Non lasciate che s’indeboliscano.”

I soldati annuirono. “Sissignore.”

“Signore.” Passi in corsa li raggiunsero, si fermarono alle spalle di Prussia e Austria. Un altro soldato irrigidì un piccolo attenti, prese fiato soffiando condensa fra le labbra ingrigite dal gelo. “Ci sono dei problemi con i motori degli autocarri.” Aveva le guance asciutte e sporche d’olio per motori, profonde borse sotto gli occhi, e brevi spasmi a scuotergli le mani scorticate all’altezza delle nocche. “Non riusciamo a farli ripartire.”

Prussia annuì, si passò una mano fra i capelli per scostarli dalla fronte. “Arriviamo.” Diede una piccola pacca alla spalla di Austria e si fece seguire attraverso la carreggiata che diramava fra gli edifici occupati dai tedeschi. Pestarono i passi sulle strade asfaltate, libere dal fango che li aveva divorati nelle campagne, ma invase da dune di neve raccolte ai lati dei marciapiedi.

Un gruppo di soldati sgomberò uno dei carri che avevano usato per trasportare le casse di provviste e di patate. Si chinarono in quattro attorno alla carcassa di uno dei cavalli morti per il freddo, lo raccolsero per il collo e per gli arti irrigiditi, e lo sollevarono, caricandolo sul carro. Una colonna di vapore senza profumo soffiò dalle cucine che avevano installato fra due vecchie case di pietra. I soldati si passarono di mano in mano le gavette, rimestarono i cucchiai sorretti da dita inguantate o consumate dal freddo che le rendeva grigie come pezzi di pietra, uno di loro zoppicò lontano dal gruppo, altri si rannicchiarono uno affianco all’altro e alitarono sui palmi tremanti. I volti fiaccati, smunti, e gli occhi invecchiati attraverso cui si specchiavano i colori del maltempo trattenuto dal cielo grigio e gonfio di nuvole.

Prussia scosse il capo. Si massaggiò la fronte, stropicciò via quell’espressione buia. La traversata del fango li ha sfiancati, dannazione. È come aveva detto Romano. È come è successo agli italiani in Grecia. E anche ora che il fango è sparito non c’è possibilità di recuperare le forze, dato che il freddo sta terminando quello che la Rasputitsa ha cominciato. Calciò via un sasso. Per di più, dal momento che abbiamo dovuto lasciarci indietro artiglierie e carri, come faremo a recuperarli in tempo per preparare l’ultimo assalto su Mosca? E se anche quelli che ci sono rimasti rischiano di non ripartire più a causa del gelo... Incrociò le braccia, si strofinò le spalle, e piantò le unghie nelle maniche. Davvero non c’è più alcuna possibilità di recuperare?

“Siamo qui, signore.” Il soldato che stava scortando lui e Austria si fermò affianco a tre degli autocarri posteggiati sul ciglio della strada. Altri uomini che vi stavano lavorando attorno raddrizzarono le spalle, si strofinarono i panni sui volti sporchi di nero, uno di loro richiuse il cofano del suo mezzo e un altro aprì il portellone, scendendo dal posto di guida.

Prussia tenne le braccia conserte, le mani al caldo dentro gli incavi dei gomiti, e si chinò per scrutare sotto ogni autocarro. “Qual è il problema?”

“I motori non partono, signore,” rispose il soldato che li aveva accompagnati. “Ma anche i mezzi ancora funzionanti stanno dando problemi.”

Uno di loro si strinse nelle spalle, batté i denti e annuì. “Non sono ancora arrivate le catene antighiaccio, o le autocisterne con le scorte di benzina, e nemmeno quelle con l’olio per motori.”

“E quello che abbiamo diventa subito vischioso a causa del freddo,” si aggiunse un terzo. “Per questo non riusciamo a far ripartire i mezzi. Rischiano di rimanere ingolfati come quelli che abbiamo dovuto abbandonare nel fango, signore. Non possiamo permetterci altre perdite.”

Prussia andò a dare una controllata sotto il cofano che avevano tenuto aperto per lui e da cui saliva l’odore di benzina e di olio rappreso. Si chinò davanti al muso dell’autocarro, vi guardò sotto – si era aperta una chiazza nera in mezzo alla strada già sporca di neve –, e si rialzò. “Scaldateli con il fuoco.” Diede una pacca alla carrozzeria. “Accendete una piccola brace e fatela bruciare sotto il mezzo. Tenete i motori al caldo e fate lo stesso anche con le armi, con le mitragliatrici e con le batterie anticarro che ci sono rimaste. Lubrificatele ma fate in modo che l’olio stesso non le congeli. Se si ritenesse necessario, allora scaldate dei mattoni e teneteli accanto all’arma mentre la smontate e la ripulite. Non voglio che sprechiate neanche una goccia d’olio, ci siamo capiti?”

I soldati annuirono, risposero all’unisono. “Sissignore.”

Prussia raccolse una manica di Austria e gli diede un piccolo strattone per farsi seguire. “Torniamo al Quartier Generale.” S’incamminarono. La strada di città si spalancò sotto il cielo scuro del tardo pomeriggio attraverso cui non s’intravedeva nemmeno un raggio di sole. Quel giorno non aveva ancora nevicato, ma Prussia arricciò la punta del naso e tastò l’odore ferroso del vento che gli graffiava le guance, della bianca ondata di tempesta in arrivo. Si strofinò le braccia conserte. “Avranno già cominciato la riunione, a quest’ora. Staranno aspettando il nostro rapporto.”

Austria tenne lo sguardo chino, si massaggiò anche lui le mani ancora bendate sotto la stoffa dei guanti, e annuì senza troppa convinzione. “Sì.”

I loro passi scricchiolarono sulle strade lastricate di ghiaccio e neve secca come farina. I soldati che avevano occupato gli edifici e che postavano di guardia fuori dalle case, dai palazzi, si passavano fra loro coperte e pellicce pulite che avevano trovato nelle abitazioni dei russi, s’imbottivano gli stivali con fogli di giornale, si aiutavano a vicenda a sfilare le calzature bucate, consumate all’altezza delle suole, scoprendo i piedi neri, già in cancrena all’altezza delle dita, e ricoperti di piaghe e di geloni gonfi e rossi.

Austria distolse lo sguardo, rabbrividì battendo le labbra tremanti sulla condensa del suo fiato, e raggiunse il fianco di Prussia. “Quanto credi ci vorrà ancora prima che arrivino gli equipaggiamenti invernali?”

Prussia gli rivolse un’occhiata sbieca e distratta da sopra la spalla.

Austria corrugò la fronte. Dietro le lenti sporche di ghiaccio, tornò la sua solita espressione di disappunto. “Le nuove uniformi non sono ancora arrivate,” si lamentò, “e quelle che abbiamo ormai sono logore per tutto il fango di cui si sono sporcate e che non siamo riusciti a lavare via. Non abbiamo coperte. Gli stivali non sono abbastanza resistenti per proteggere i soldati dal freddo, e le suole si stanno tutte scollando. La nostra situazione è tragica, mentre Russia sarà infinitamente più preparato di noi adesso che la guerra sta entrando nella sua fase invernale.” Levò lo sguardo fra i tetti spioventi della città, sui comignoli attraversati dai cavi della corrente, sui lampioni spenti. Le strade foderate di fango e di acquitrini gelati erano un amaro e umido ricordo. “Ora siamo in città, le conseguenze non sono così palpabili, ma cosa ci succederà quando anche noi torneremo a combattere nelle foreste e negli spazi aperti? Cosa starà succedendo adesso a tutti i soldati che sono già rimasti bloccati e che rischiano di morire congelati?”

Prussia aprì e strinse i pugni per impedire alle dita di intorpidirsi. Sollevò il bavero davanti alla bocca e si allontanò da quei pensieri, da quelle visioni. “Ma non possiamo farci nulla. Non prima che i trasporti non saranno ristabiliti, per lo meno.”

“Ristabiliti?” Una scossa d’indignazione bruciò attraverso il viso di Austria, gli incendiò le guance, gli fece riguadagnare un po’ di fiato. “E quando credi che saremo in grado di ristabilirli?” Accelerò la camminata per stare al suo passo, per continuare a lamentarsi guardandolo in faccia. “Quando le nevicate saranno ancora più abbondanti? Quando il ghiaccio sarà talmente spesso da coprire le rotaie? L’inverno è alle porte, e le temperature stanno già cadendo sotto lo zero.”

“Meglio.” Lo sguardo di Prussia rimase duro e gelido come quelle strade di ghiaccio su cui stavano pestando i passi. “Meglio un po’ di freddo in più piuttosto che il pantano d’inferno che abbiamo incontrato finora. Ora che la stagione del fango è finita, le strade torneranno a indurirsi come se fossero asfaltate, e allora potremo anche riprendere il nostro solito ritmo di marcia, nonostante i rallentamenti.”

Il viso rigido di Austria si sciolse in una profonda espressione di afflizione. I suoi occhi persero la fiamma, traballarono come specchi d’acqua intrappolati sotto un velo di ghiaccio. “Ma per quanto tempo credi che potremo resistere in mezzo al freddo siberiano? Quanto tempo credi che ci vorrà prima che il gelo crei ancora più danni del fango e prima che diventi mortale oltre che fastidioso?” Annodò anche lui le braccia al petto, si diede una sfregata alle spalle ingobbite, e continuò a camminare tenendo la testa bassa, lo sguardo distante dalle nuvole che gravavano su di loro come una minaccia. Socchiuse le palpebre. Soffiò un sospiro da funerale. “Non saremmo dovuti avanzare.” Gli facevano male le gambe, non si sentiva più i piedi, l’umidità era una zanna nelle ossa, la schiena gli bruciava, la stanchezza aveva risucchiato la luce dai suoi occhi, il profilo bianco ed elegante del suo viso ora era solo il pallido riflesso di un fantasma. “Ci saremmo dovuti fermare subito dopo la conquista di Kiev. Non avremmo nemmeno dovuto cominciare l’Operazione Tifone. Ucraina ha avuto ragione nel metterci in guardia.”

Sempre sui cigli delle strade, fuori dagli edifici occupati, alcuni soldati uscirono reggendo di peso gli uomini che avevano le gambe troncate dai congelamenti. Uno di loro strinse le braccia attorno alle spalle del soldato a cui era aggrappato, mentre altri due lo sorreggevano per le gambe rigide e congelate che indossavano ancora gli stivali. Il soldato ferito soppresse un rauco lamento singhiozzante.

Quel gemito trafisse il cuore di Austria, lo rese ancora più pallido in volto. Gli occhi ancora più bui e consumati da quella consapevolezza che non gli dava pace. “Il nostro primo errore è stato quello di continuare l’avanzata nonostante sapessimo dell’arrivo della Rasputitsa.” Riprese a strofinarsi le mani, a piegare le falangi, a far roteare i pollici, come faceva sempre per scaldarsi i tendini prima di mettersi a suonare. “Il fango ci ha bloccati e ora il freddo rischia di ucciderci nella sua stessa trappola, senza nemmeno offrirci la possibilità di una ritirata. Per di più, considerando l’atteggiamento che Germania sta dimostrando davanti a tutto questo...”

Atteggiamento?” Prussia frenò la camminata, lo trafisse con un’occhiataccia storta e carica di fuoco nelle iridi, e contrasse la bocca in un mezzo ringhio, come un cane che rizza il pelo. “Quale atteggiamento?”

Austria tenne lo sguardo alto. Nemmeno la minima sbavatura di paura a intaccarlo. “L’atteggiamento di non curanza e di diniego nei confronti di tutti questi problemi.” Un soffio di vento fischiò attraverso di loro, innalzò un piccolo vortice di neve secca attorno alle loro gambe, e congelò quell’atmosfera sospesa, sciogliendo ogni rumore attorno a loro. Austria sostenne lo sguardo. “Le temperature sono già sotto lo zero e scendono vertiginosamente ogni giorno che passa. I russi sono in grado di disporre di scorte e di uomini freschi d’addestramento, mentre i nostri soldati combattono ininterrottamente da giugno e sono sfiniti. Non abbiamo equipaggiamenti invernali e i trasporti sono bloccati, così come le comunicazioni. Per di più Germania sta restringendo ogni margine di manovra, impedendoci di creare una strategia sensata basata anche sul parziale ripiegamento delle truppe. Ormai avanziamo per inerzia, e non sarà abbastanza se l’obiettivo è davvero una spinta finale verso Mosca.” Schiacciò i pugni inguantati sui fianchi, e una scia di tremori risalì le braccia. “Rischiamo di rimanere bloccati per tutto l’inverno, non te ne rendi conto?”

“Certo che me ne rendo conto!”

Quella bolla di ghiaccio s’infranse con uno scoppio cristallino, Austria incassò la prepotenza di quell’esclamazione e sobbalzò di un passo indietro trattenendo il fiato, come se avesse ricevuto uno schiaffo. Il suo sguardo sgranato rimase però fermo su quello di Prussia. Vi lesse il primo vacillante brivido di paura.

Prussia irrigidì la mandibola con uno schiocco, chinò il capo, si passò una mano tremante fra i capelli, lasciò scivolare il tocco sul viso stanco, e spinse le nocche fra le palpebre arrossate, stropicciando i segni di stanchezza di chi non dorme da giorni. “Certo che mi sto rendendo conto da solo del rischio che stiamo correndo,” borbottò con voce ancora più aspra del solito, “certo che mi sto rendendo conto del pericolo in cui rischiamo di rimanere intrappolati, ma ormai rinunciare all’attacco è ancora più impensabile che continuarlo. Fermarsi ora sarebbe un suicidio, e rinunciare al territorio conquistato con un’arretrata sarebbe come ficcare la vittoria in mano ai sovietici. Se solo...” La consapevolezza del gelo che li circondava, di tutta la neve che li avrebbe travolti, del ghiaccio che si sarebbe solidificato fino in fondo ai loro cuori, gli aprì un buco nello stomaco. Tremò anche lui, senza sapere se per la rabbia o per il freddo. “Se solo non avesse cominciato a fare freddo. Andava tutto così bene, merda. Stavamo vincendo su qualsiasi fronte, e ora si mette a sbucare questa cazzo di neve.” La condensa gli traballò fra le labbra secche e tagliuzzate dal vento siderale. “Se solo le temperature reggessero per un paio di settimane, forse saremmo ancora in tempo per raggiungere Mosca prima che la situazione diventi completamente irrecuperabile.” Il suo fiato si ridusse a un sussurro. “Solo un paio di settimane.”

La paura trasudata dalle parole di Prussia attraversò Austria come quell’alito di vento e nevischio che aveva congelato entrambi in mezzo alla strada. Il suo cuore accelerò, soffocato da un battito di terrore, e la neve in cui erano affondati i suoi piedi si fece più fragile, pronta a rompersi, a spalancare le fauci di ghiaccio e a divorarlo nelle viscere di quel paese nemico che stavano invadendo e che in cui rischiavano di ritrovarsi fagocitati. Austria compì solo un passo, sfiorò la spalla di Prussia. “Prussia...”

“Sto bene.” Prussia si sottrasse e sollevò la mano per tenere Austria distante, per nascondersi. “Sto bene,” ripeté. Gli diede le spalle, si rimboccò la giacca che non teneva più caldo. “Torniamo da West.” Fece strada. “Avranno già cominciato la riunione, a quest’ora.”

Austria annuì di controvoglia, seguì le sue impronte trascinando passi sempre più appesantiti, e si strofinò ancora le mani. Bruciavano. Si sfilò un guanto, espose la fasciatura. Flesse le punte delle dita, una ramificazione di dolore lo bloccò, mordendolo fino alle punte delle dita, rigirò il polso, si massaggiò il dorso, e tenne ben tappati gli spazi di pelle fra le bende dove il rossore si stava già espandendo e gonfiando. Si rinfilò il guanto, strinse le braccia al petto, proteggendo le mani sotto i gomiti, e seguì Prussia. Per la prima volta, nemmeno lui ebbe la forza di continuare a polemizzare.

 

.

 

Quando Prussia e Austria s’infilarono nell’edificio che avevano adibito a Quartier Generale, la riunione era già cominciata. Seguirono il rimbombare profondo della voce di Germania che proveniva dal piano di sopra e che si diffondeva attraverso le pareti come un eco del vento carico di neve che avevano sigillato fuori dalla porta.

“La rotabile che ci siamo aperti conquistando l’autostrada per Mozhaisk ormai risulta completamente intransitabile a causa delle distese di fango che ci hanno costretto a bloccare i trasporti e le marce dei soldati. Tuttavia...”

Prussia e Austria spinsero la porticina che gli altri avevano lasciato socchiusa, scivolarono nella sala delle riunioni tenendosi accostati alla parete, e Prussia si sbottonò le prime aperture della giacca, godendosi il breve attimo di tepore.

Germania proseguì il discorso tenendo l’indice sulla cartina. “C’è anche da considerare che siamo riusciti a ottenere dei progressi notevoli e che le nostre avanguardie si trovano a soli cinquanta chilometri da Mosca.” Non sollevò gli occhi, come se non si fosse nemmeno accorto del loro arrivo.

Austria si portò affianco a Ungheria, le sfiorò la spalla. Ungheria gli sorrise. Gli avvolse il braccio con cui lui l’aveva raggiunta e si strinse al suo fianco.

Prussia sgusciò dietro Bulgaria e Romania, si mise affianco a Spagna che pareva messo lì di guardia alla schiena di Romano. Gli bussò sulla spalla.

Spagna si girò di scatto, realizzò di avere Prussia affianco con un sussulto, si spinse indietro di un passo e lo interrogò con occhi ansiosi. “Com’è là fuori?”

Prussia scosse il capo, si sforzò di tenere nascosto il suo sorriso disperato. “Una merda. Lasciamo perdere.” Premette le mani sulle guance arrossate dal freddo e si strofinò il viso. Bruciava come se gli avessero preso la pelle a frustate. “Se continua così non riusciremo a fare più di tre chilometri al giorno e Mosca ce la sogniamo.”

Spagna, pallido in viso e con la stessa faccia da funerale di Austria, fece per ribattere, ma Germania proseguì il discorso.

“Ciò di cui ora dobbiamo preoccuparci,” disse, “non è tanto dell’ondata di gelo, quanto dei contrattacchi sovietici. Abbiamo ricevuto segnalazioni di orde di partigiani provenienti dalle foreste, più precisamente in questa zona del Fronte Occidentale.” Usò l’indice per tracciare la zona a semicerchio attorno a Mosca. “Stanno facendo saltare tutti i ponti rimasti e stanno seminando campi minati dovunque.”

Bulgaria fece tamburellare le dita sulle braccia conserte, aggrottò le sopracciglia e inviò a Germania un’occhiata sbieca da dietro la fioca luce della lampada a metano. “E poi c’è anche il problema che i russi si stanno riorganizzando e rinforzando con tutte le riserve che continuano a sfornare.”

Germania scosse il capo. “Non dobbiamo temere l’incremento di uomini da parte dei sovietici, perché quelli che stanno arruolando sono contadini, civili, ragazzi che imparano a tenere un fucile fra le mani nel giro di una settimana. Cento uomini sovietici valgono quanto un solo soldato tedesco.”

“Ma i russi si stanno facendo più furbi del previsto in quanto a contrattacco.” Bulgaria gli stette addosso con lo sguardo attraversato dai tratti duri e spigolosi delle cicatrici e scivolò davanti a Romania per portarsi più vicino al tavolo. “Non te ne sei accorto?” Anche lui picchiò l’indice sulla mappa sgualcita a forza di ripiegarla, di rigirarla, e di spostarci i segnalini sopra. “Continuano a spezzare le nostre sacche e stanno modificando la tattica con i loro carri armati. Ormai hanno imparato a copiare le nostre formazioni invece, non li utilizzano più in maniera sparpagliata, solo come ausilio della fanteria, come facevano prima. E hanno già cominciato a farlo a Borodino. Ce ne siamo accorti, no?” Diede una spallata a Romania. “Vero, Rom?”

Romania compì un rimbalzo improvviso, spalancò le palpebre che fino a quel momento aveva tenuto socchiuse, riparate nella penombra. “Uhm, s...” Socchiuse un occhio, incerto. “Sì?” Si portò entrambe le mani alla fronte imperlata di sudore, soffiò un sospiro affaticato fra le labbra troppo sottili, si massaggiò le tempie, pigiò i polpastrelli contro le palpebre gonfie e nere, e mugugnò. “È vero.” Aveva gli occhi piccoli e luccicanti di un bambino a letto con la febbre.

Su di lui volarono altre occhiate sospese fra dubbio e preoccupazione, ma nessuno intervenne.

Germania rivolse finalmente la sua attenzione a Prussia, scrutandolo da dietro le ombre traballanti della lampada. “Fuori come procede la situazione?” Sfilò la mano dalla carta topografica e infilò il tocco nella tasca della giacca, dove il peso della croce di ferro di Italia riposava e respirava come un piccolo cuore. La rigirò fra le dita, la racchiuse nel palmo, e si aggrappò a quel calore che lo teneva ancora a galla.

Prussia si strinse nelle spalle con un sospiro impotente. Spiattellò tutto. “I motori si stanno congelando, ed è sempre più difficile far ripartire i mezzi, forse ancora di più rispetto a quando erano solo incastrati nel fango. Direi che dovremmo approfittare ora che le temperature sono ancora...” Si rosicchiò il labbro per trovare la parola. “Stabili.” Spostò lo sguardo fuori dalla finestra, dove i cristalli di ghiaccio si stavano arrampicando attorno alla cornice e dove i sibili del vento graffiavano il vetro come piccoli artigli. “E che almeno hanno indurito le strade, rendendole di nuovo transitabili. Ora non ci resta altro da fare che recuperare tutto quello che ci siamo lasciati indietro, ristabilire i collegamenti delle comunicazioni, e rimetterci in marcia prima che il freddo diventi insostenibili e prima che la neve ci arrivi fin sopra i capelli. Abbiamo ancora un mese intero prima dell’arrivo dell’inverno vero e proprio, non c’è nulla di cui disperarsi.”

Bulgaria sbuffò, fra le sue labbra traballò un sorrisino carico di una macabra ironia. “E quando arriverà l’inverno vero come faremo?”

“Quando l’inverno arriverà,” gli rispose Prussia, gelido come lo era stato con Austria, “noi saremo a Mosca.”

“Balle.” Bulgaria sgranchì i pugni, cominciò a scaldarsi, inasprì il tono di voce. “Avevate detto che avremmo raggiunto Mosca ben prima dell’arrivo della neve, e invece guardate.” Spalancò il braccio contro la finestra incrostata di ghiaccio. “Siamo già con la neve alle ginocchia! E ci vorranno solo pochi giorni prima che ci arrivi alla gola.”

Romano lo guardò di traverso. Anche lui snudò un mezzo ringhio che innalzò una scottante aura di difensiva. “E allora quale sarebbe la tua geniale alternativa?”

“Ripiegare.”

Germania, Prussia e Romano risposero in coro: “Escluso”.

Ungheria abbassò le palpebre, fece cadere il capo in avanti, si scostò una ciocca di capelli che gli era piovuta sul viso, e andò in cerca dello sguardo di Austria, di un supporto, di un incoraggiamento. Trovò due occhi ancora più disperati e arrendevoli dei suoi.

Prussia si tolse dal fianco di Spagna, urtandogli la spalla, e si portò a capotavola. “L’ho già detto e lo ribadisco.” Picchiò il palmo sulla carta. “Ripiegare o fermarsi ormai significherebbe regalare un vantaggio spropositato a Russia, e non possiamo permettercelo. Ormai abbiamo le mani in pasta, e l’unica soluzione per non rimanervi incollati è continuare ad avanzare.”

“Ma i soldati sono sfiniti!” insistette Bulgaria. “Se invece aspettassimo il disgelo e la primavera allora potremmo contare su divisioni fresche e più adatte a tentare un altro sfondamento su Mosca, ma così stiamo solo...”

“Primavera?” lo interruppe ancora Romano. “E intanto cosa credi di fare fino alla prossima primavera, eh?” Si aggrappò al bordo del tavolo e spinse le spalle in avanti per fronteggiarlo. “Aspettare con le mani in mano che Russia si riorganizzi e che prepari nuove linee di difesa, nuovi contrattacchi, che rafforzi i bunker e che scavi ancora più fossati anticarro, o che continui ad addestrare uomini e a sfornare armi e carri armati, per di più mentre Veneziano è ancora suo prigioniero?” Sottili schegge di legno scricchiolarono sotto le sue unghie artigliate al tavolo. “Io non ho intenzione di lasciare mio fratello fra le mani di quello psicopatico un solo giorno di più.”

Bulgaria si mise a braccia conserte, piantò un grugno immusonito, allontanò lo sguardo per non sentirsi incenerito dagli occhi fiammeggianti di Romano, e picchiettò una suola sul pavimento. “Se è solo di questo che si tratta,” disse, “allora puoi anche prendere zaino e fucile, farti da solo la scarpinata fino a Mosca e andare a riprendertelo. Perché ormai è solo di questo che si tratta, no?”

Il gelo che regnava fuori dall’edificio penetrò la camera, abbassò la luce della lampada a metano, e fece rabbrividire tutti, si appese alle loro gole.

Romano storse una mezza smorfia, batté le palpebre, e mantenne quell’espressione piatta di chi sta ancora cercando di capire se ha sentito bene. “Che cazzo stai dicendo?” Schiacciò un pugno sul tavolo, fece pulsare le vene fra le nocche, e Spagna gli toccò il polso per anticipare il suo cazzotto.

Bulgaria tenne il viso alto e lo sguardo fermo senza alcuna paura. “Non prendiamoci in giro,” sbottò. “Ormai abbiamo capito da un pezzo che con l’arrivo del freddo andrà tutto a puttane, e abbiamo anche capito che è solo per Italia che state tanto insistendo di continuare l’offensiva su Mosca. Se lo rivolete allora andate a riprendervelo, ma piantatela di mettere a repentaglio un intero esercito solo per lui!”

Romano sfilò il polso da sotto la mano di Spagna, pestò un passo contro Bulgaria e tirò su il pugno, circondato da una violenta fiammata di rabbia. “Ripetilo, fottuto bastardo!”

Spagna lo placò, riuscì a tirarlo indietro, ma una breve scalciata di Romano riuscì a sfiorare la gamba di Bulgaria.

Bulgaria compì un cauto passetto all’indietro. Indurì lo sguardo, innalzò uno scudo difensivo, e fulminò tutti gli altri. “Chi vi credete di essere, eh? Qui non si tratta più solo della guerra, ma anche della vita di tutti i soldati che state solo sacrificando per un vostro capriccio.”

“Ehi!” Questa volta fu Ungheria ad abbaiargli addosso. “Salvare Italia non è un capriccio!”

“Ma piantatela,” ribatté Bulgaria. “Italia non è in pericolo di vita. Gli uomini che stiamo guidando lo sono.” I suoi taglienti sguardi d’accusa sfrecciarono fra Germania e Prussia. “Posso ricordarvi che non sono immortali come noi? Che i loro organismi non funzionano come i nostri? Che non possiedono la nostra resistenza e le nostre capacità rigenerative? A questo punto non si tratta più di guidarli attraverso una guerra, ma di giocare con le loro vite.” Sul suo sguardo calò una tetra maschera di buio. “E io non intendo più appoggiare questa carneficina solo perché non avete intenzione di usare la ragione.”

Stiamo usando la ragione!” Prussia picchiò un pugno sulla carta. “E in questo momento la scelta più ragionevole è andare avanti. Credi che anche arretrando o fermandoci così di colpo le cose diventerebbero improvvisamente più facili, o che i nostri guai scomparirebbero, o che non ci sarebbero più vittime?” Riaprì la mano e passò l’indice sulle linee del fronte che le divisioni tedesche stavano spingendo in avanti. “I russi ci spingerebbero indietro, sarebbero loro a invadere noi, e sterminerebbero anche i civili, non solo i soldati. Raggiungerebbero persino la tua nazione.” Nei suoi occhi si accese una fiamma di sfida, la sua ombra s’ingigantì, lo rese più intimidatorio. “E allora vedrai come ti passerebbe la voglia di fare lo sbruffone.”

Bulgaria strinse i denti, crogiolò di rabbia, masticò tutte le parole che non era capace di cavare fuori per ribattere, e rabbrividì nella sua bolla di frustrazione. Maledetti. “Ehi, Rom.” Si girò verso Romania, gesticolò contro gli altri. “Rom, dammi una mano, per Dio.”

Romania compì di nuovo quel gesto con il capo, il breve scatto di chi è stato svegliato all’improvviso. Socchiuse una palpebra alla volta, si spostò di un passo di lato per poggiarsi al tavolo e non perdere l’equilibrio, e si resse la fronte bianca come un osso, madida di sudore. “Uhm, io...” Si spostò una manciata di capelli rimasti incollati alla fronte, chinò il capo che ricadde molle e pesante fra le spalle, si strofinò le tempie, e mormorò con una voce così flebile che parve provenire fuori dalla finestra congelata. “Io vado un attimo in bagno.” Piegò il gomito sull’orlo del tavolo, si diede la spinta, poggiò la gamba zoppicante, e si trascinò fuori dalla stanzetta.

Lasciò la porta socchiusa. Entrò un filo d’aria dal corridoio che sibilò dietro le orecchie di tutti, rizzò la pelle d’oca sotto gli abiti troppo leggeri, e diffuse uno scricchiolio sinistro attraverso le pareti gonfie di umidità, sbriciolando quel silenzio tombale.

Austria abbassò le palpebre, spinse gli occhiali all’indietro, corrugò le punte delle sopracciglia in un’espressione amareggiata che non riusciva a sciogliere dal viso, e scosse il capo. “Tutto questo non sarebbe mai successo,” socchiuse gli occhi dove vibrava una scintilla di risentimento, “se solo...”

Germania lo guardò di traverso. Gli spicchi di penombra infossati nel suo viso toccato dalla luce della lampada resero il suo profilo duro come granito. “Se solo cosa?”

Austria lo guardò dritto negli occhi nella stessa maniera con cui l’aveva guardato durante la loro prima riunione a Rastenburg, quando aveva posato per la prima volta gli occhi sul piano d’attacco di Germania, quando avevano battezzato il nome Barbarossa, quando ancora non sapevano che quella battaglia avrebbe sconvolto in tale maniera le loro vite e le loro nazioni. “Se Mosca fosse stata fin dall’inizio il nostro obiettivo principale e se avessimo concentrato tutte le forze sulla capitale, invece che sparpagliando le armate su Kiev e su Leningrado. Se a giugno avessimo compiuto uno sfondamento diretto su Mosca, ora la battaglia sarebbe già conclusa. E la vittoria sarebbe stata davvero nostra.”

Ungheria si rosicchiò l’unghia dell’indice, fece volare lo sguardo su Prussia che però schivò quell’occhiata in cerca di appoggio. Anche Spagna e Romano si guardarono sottecchi, senza fiatare, rispettando quel silenzio che pareva essersi addensato attorno a Germania come una nebbia.

Germania si spostò di un passo lungo il perimetro del tavolo, fece scricchiolare gli stivali. “Discutere su questo ormai non servirà a nulla, tantomeno a vincere la guerra.” Teneva lo sguardo celato. “Quel che è fatto è fatto, e non si torna più indietro. E, fino a prova contraria, l’ultima parola spetta solo a me.” Aveva di nuovo la mano in tasca, le dita intrecciate alla croce di ferro di Italia. La rigirò più volte, tornò a concentrarsi sulla carta topografica. “Ormai è chiaro che l’ipotesi di porre un arresto all’Operazione Tifone così bruscamente è fuori discussione. Ed ero stato chiaro fin dal principio: non voglio che questa diventi una logorante guerra di posizione, per questo ribadisco il divieto di organizzare una linea arretrata e la costruzione della rete di trincee.” Rioccupò la sua posizione a capotavola e tornò a indicare l’area a semicerchio che proteggeva la capitale. “I russi stanno stringendo le linee di difesa, hanno compreso la nostra volontà di accerchiare Mosca, per questo stanno mantenendo le posizioni anche a sud e a nord e perché continuano a contrattaccare anche quando riusciamo a conquistare le città.” Strinse il pugno, batté le nocche sul duro. “Ma noi abbiamo bisogno di queste conquiste. Ecco perché non permetterò alle divisioni di arretrare e di perdere posizione.”

Anche Prussia spostò il peso da una gamba all’altra, facendo scricchiolare il pavimento sotto le suole. Passò una manata fra i capelli e si strofinò la nuca dove i brividi lo stavano rosicchiando. “Come sviamo il problema del gelo?”

“Riprendendo subito l’avanzata,” rispose Germania, “senza perdere un giorno di più.”

Bulgaria spostò la coda dell’occhio sulla porta lasciata socchiusa dopo che Romania si era trascinato fuori dalla stanza. L’eco dei suoi passi zoppicanti era svanito. Nessun rumore dal corridoio, solo quella nera ombra di cattivo presagio.

Dietro il suo orecchio, il discorso di Germania proseguiva. “Secondo i miei calcoli e le mie osservazioni, questa ultima resistenza da parte dell’Armata Rossa non sarà così consistente come vogliono farci credere, ma sarà solo un loro ultimo disperato tentativo di allontanarci.” Fruscio delle sue dita spostate lungo la mappa. “Non sono più in grado di mantenere un fronte compatto, per questo stanno già evacuando la regione fra il Don e il Volga, mantenendosi...”  

Bulgaria si guardò attorno – gli sguardi di tutti chini sul tavolo, nessuno che badava a lui –, scivolò lungo la parete sfiorando la schiena di Austria, passò oltre Ungheria, e zampettò in punta di piedi verso la porta.

Un bisbiglio di Ungheria lo inseguì. “Dove vai?”

“Al cesso anch’io.”

Germania proseguì come se non si fosse nemmeno accorto che lui si era allontanato dalla tavolata. “La rete ferroviaria è ancora completamente operativa fino a Bryansk, Vyazma e Rzev, perciò anche i trasporti non costituiranno un vero problema. Non sarà possibile farli correre a pieno carico per il rischio che deraglino, ma è sempre...”

Bulgaria spinse la porta accompagnandone il cigolio, allungò un primo passo fuori, si guardò ancora alle spalle, s’infilò nel corridoio, e andò in cerca del bagno.

 

.

 

Romania svitò l’erogatore del rubinetto, aprì il getto ghiacciato che scrosciò fra le pareti di smalto scrostato del lavandino, vi tuffò sotto le mani aperte a coppa, e infranse lo specchio d’acqua contro il viso pallido e sudato. Strofinò le palpebre brucianti, raccolse altra acqua, si bagnò ancora, e riprese fiato a pesanti e dolorosi boccheggi, scosso dai brividi e dagli spasmi di dolore all’altezza del fianco sinistro. Batté gli occhi per allontanare lo sciame di scintille. Si strinse una mano umida fra i capelli, serrò le dita, barcollò di un passo di lato, gli girò la testa, dovette artigliare l’orlo del lavandino per non sentirsi cadere a terra.

Guadagnò altre boccate di fiato. La mano aggrappata al lavello tremò, le unghie graffiarono la vernice scrostata, brividi ghiacciati come l’acqua che si era spruzzato addosso gli percorsero le gambe traballanti. Maledizione. Perché... Tirò su lo sguardo, scostò una ciocca di capelli dal viso umido, si affacciò alla sua immagine appannata e riflessa nello specchio impolverato e sporco di nero agli angoli. Gli venne un colpo. Non si riconobbe. Guance asciutte, occhi incavati in un’ombra di agonia, labbra secche e tremanti, sguardo smorto e goccioline di sudore a rigargli la fronte. Tremò ancora, deglutì, gli si chiuse lo stomaco. Perché sto così male?

Richiuse il rubinetto.

Una fitta lo trafisse al fianco sinistro, violenta e improvvisa come una scossa elettrica. Romania si accartocciò in avanti, “Ghnn!”, strinse i denti, strizzò gli occhi da cui gocciolarono due rivoletti d’acqua, si aggrappò al fianco ferito che gli avevano ricucito dopo lo scontro a Borodino, e si costrinse a respirare per non perdere i sensi, per non farsi risucchiare dalla nuvola nera che gli galleggiava attorno alla testa. 

Si sbottonò la giacca pesante, sfilò il doppio strato della camicia dall’orlo dei pantaloni, sollevò la stoffa della maglia di cotone, e snudò il fianco bendato da cui salì una vampata di odore nauseabondo.

La vista si sdoppiò, Romania si sentì mancare per la seconda volta. Oh, no.

La ferita aveva spurgato una chiazza di sangue purulento attraverso il bendaggio. Sotto la chiazza rossa, bordata da un alone giallognolo, spingevano i profili acuminati dei punti di sutura attorno a cui l’infezione si stava espandendo, gonfia e pulsante. Romania pressò le punte delle dita sulle bende. Le trovò umide e tiepide. Infilò le unghie fra uno spazio e l’altro delle fasce, separò il tessuto infrangendo una crosta di sangue che aveva la consistenza del miele, scoprì uno spicchio di pelle rossa, gonfia e lucida bucata dai punti che ora fuoriuscivano dalla carne lasciando scoperte le labbra della ferita. Spinse il tocco ancora più a fondo, dove la pelle divorata dall’infezione era cedevole come la polpa di un frutto troppo maturo, e le sue dita si bagnarono di sangue e pus. 

Lo aggredì una botta di vertigini e di terrore. Sudò freddo. Il battito accelerò, il respiro si fece più pesante, le ginocchia ripresero a traballare. Merda, merda, merda, si sta infettando. Ecco perché mi sta salendo la febbre.

Dovette di nuovo appoggiarsi al lavello per non sentirsi cadere sul pavimento. Premette il polso sulla fronte. Bruciava, nonostante l’acqua fredda con cui si era appena lavato il viso. Perché proprio ora? Fra tutti i momenti in cui poteva succedere in questi mesi... Strizzò di nuovo le dita sul bordo del lavandino e scrostò uno strato di smalto secco sotto le unghie. Si morse il labbro tremante. Sapeva di ferro. Proprio adesso che i medicinali scarseggiano e che i trasporti sono bloccati, impedendo l’arrivo delle scorte. Per di più, con tutto questo freddo sarà impossibile riuscire a tenerla pulita e disinfettata. Se dovessi anche solo sbottonarmi la giacca all’esterno rischierei di morire congelato.

Stritolò la mano con cui si stava sorreggendo al lavandino e sbatté un pugno sul sifone. Riaprì il getto, intinse le dita nell’acqua, e aspettò che s’intiepidisse. Anche l’acqua odorava di ferro. Avrei bisogno di antibiotici, di disinfettanti, di acqua calda e di garze pulite. Ne raccolse un po’ fra le mani di nuovo aperte a coppa, e si sciacquò le bende sporche e appiccicose da cui saliva l’odore pungente di sangue infetto. Germania ha detto che vuole tentare l’ultimo sfondamento su Mosca, che torneremo a combattere, e che quindi lasceremo il Quartier Generale. Come farò... Sgocciolò le dita, si prese la fronte per fermare un altro capogiro, e i suoi occhi lucidi e febbricitanti si affacciarono a un baratro di vuoto. Si persero. Come farò a resistere in queste condizioni, in mezzo al gelo, dove non potranno medicarmi?

Gli tornò a cadere addosso l’atmosfera di tensione che regnava nella camera delle riunioni, quell’aria elettrica a cui lui si era sottratto sgattaiolando in bagno. Tornò il volto di Germania, quella rigida maschera attraverso cui stavano scricchiolando le prime crepe, e i suoi occhi che gli erano apparsi più distanti e fragili rispetto a quelle indistruttibili e felide sfere di ghiaccio che li avevano guidati attraverso quella guerra.

Però non posso nemmeno chiedergli di farmi rimanere indietro, ragionò Romania, di separarmi da loro per non rischiare di rimanerci secco. Anche se di poco, la mia forza gli serve. Gli serviamo tutti in un momento critico come questo, dove anche lui rischia di perdersi. Strizzò la mano bagnata sulla garza inumidita. Rivoletti d’acqua sporca di rosso gli attraversarono le dita bianche. Romania lasciò cadere il capo fra le spalle, si tenne aggrappato al lavello con un solo braccio, flesse le ginocchia traballanti, e premette la fronte sul fresco della ceramica che gli diede sollievo. Il bruciore della febbre gli batteva sul cranio, gli consumava il respiro. Il sudore grondò dalla pelle del viso e si riversò nel lavandino, mescolandosi all’acqua del getto. La mia unica speranza è di arrivare in fretta a Mosca. Una volta che ci stabilizzeremo, potrò curarmi, potrò riposare. Ma se non ci sbrighiamo... Un battito di paura picchiò sulle costole. Per me è finita.

La porticina del bagno si aprì con un cigolio. “Ohi, ciccio.” Pochi passi alle sue spalle e ancora la voce di Bulgaria. “Com’è che sei...” Bulgaria batté le palpebre e catturò quell’immagine. Romania chino sul lavandino aperto, la schiena tremante e ricurva, una mano spremuta sul fianco bendato, l’altra stretta a pugno sull’orlo di ceramica, e i capelli riversi sulle guance e agli angoli delle labbra socchiuse e ansimanti. Lo punse una scossa di timore. “Stai bene?”

Romania compì uno scatto di spalle, raddrizzò la schiena, e riabbassò gli abiti sul fianco, sporcando la stoffa con il sangue trasudato dalla fasciatura bagnata. Lisciò per bene la giacca, nascondendo tutto sotto. “S-sì, stai tranquillo.” Riavvitò il pomo del lavandino e scrollò le gocce d’acqua dalle dita. Soffiò un lungo sospiro. “Niente di grave.”

Bulgaria inarcò un sopracciglio. “Serio?” Flesse il capo di lato, squadrò il profilo della sua faccia. “Sei bianco come un cencio.”

“È solo...” Romania si passò la mano fra i capelli, scollò le ciocche umide rimaste appiccicate al viso, allontanò lo sguardo vacillante. “Solo un calo di energie, probabilmente. Ho dormito poco e sai...” Un altro brivido di freddo e dolore gli fece battere i denti. “Abbiamo mangiato solo le patate rinsecchite che abbiamo trovato nei campi. Starò...”

Bulgaria gli fu affianco con un passo. Gli passò anche lui la mano fra le ciocche spettinate, gli tastò la fronte. Corrugò le sopracciglia. “Scotti.” Lo guardò dritto in quegli occhi lucidi, dalle pupille ristrette e sofferenti, che non si facevano trovare. “Hai la febbre, non puoi tornare a combattere.”

Romania scosse il capo, gli fece abbassare il braccio e si sottrasse al suo tocco. “Sarà solo lo stress,” disse. “Mi sale sempre la febbre quando non riesco a riposarmi per bene. Oppure sarà lo sbalzo termico. Vedrai che appena potrò dormire mi passerà.” Gli camminò affianco, zoppicò con la gamba sinistra, si diede un’altra strofinata al fianco dolorante, e riaprì la porta del bagnetto. “Avete finito la riunione? Germania che dice?”

Bulgaria alzò gli occhi, esasperato, e levò i palmi al soffitto. “Che si va su Mosca,” si lamentò. “Ultimo tentativo prima dell’inverno vero e proprio, a quanto pare.”

“Quindi...” Romania si tenne aggrappato allo stipite della porta, senza allungare piede nel corridoio, voltò la guancia e inviò a Bulgaria un’occhiata più buia e dura. “Se non dovessimo raggiungere Mosca entro dicembre cosa credi che...” Un tremore lo scosse di nuovo fino alle ossa, ma questa volta non per la febbre.

Bulgaria si ficcò le mani nelle tasche della giacca, fece spallucce con un rimbalzo, e le sue labbra si piegarono in un ghigno tetro ma sdrammatizzante. “Credo che sarà un suicidio.” Riattraversò l’entrata del bagno, sfiorò il fianco a Romania, e imboccò il corridoio seguito da un’ombra di cattivo presagio. “E credo che dovremmo cominciare ad arrenderci all’idea di dover diventare una cosa sola con Madre Russia.”

Romania provò una fitta alla bocca dello stomaco. Si strinse il petto, sfregò via quella pressione, la sensazione di essere soffocato da catene ancora più pesanti di quelle dell’Asse, e si allontanò anche lui. Scesero entrambi, uscirono in strada, in mezzo al freddo, senza nemmeno aspettare gli altri.

 

.

 

“In conclusione...” Germania, le mani ferme sulla carta spalancata, risollevò le spalle e si massaggiò un’articolazione che schioccò sotto le sue dita. Aveva tutta la schiena indolenzita a forza di starsene piegato. “Tenteremo un altro accerchiamento. L’ultimo. Quello definitivo.”

Romano si resse la testa che cominciava a pesare come se fosse stata imbottita di sabbia. Si stropicciò gli occhi stanchi e brucianti per la luce troppo bassa. “Definitivo se Dio vuole.”

Germania fece scivolare il tocco sulla mappa, sui segni freschi che aveva appena tracciato, sui nuovi ovali che racchiudevano città sempre più vicine a Mosca. “Come ho già sottolineato prima,” ripassò, “uno dei bracci della tenaglia dovrà per forza passare attraverso Tula, dato che è un importante nodo di comunicazioni e dato che possiede un centro di aviazione che potremo sfruttare per accelerare i trasporti.” Disegnò con l’indice il movimento del braccio ricurvo da sud a nord. “Questa spinta sarà data dalla Seconda Armata Corazzata che, una volta conquistata la città, procederà con l’accerchiamento di Mosca e con la presa della capitale alle spalle. Solo allora si ricongiungerà con il braccio della tenaglia che invece scenderà da nord.” Passò nella zona settentrionale, dove i fiumi s’intersecavano in grosse linee azzurre. “Attraversando il canale che collega il Volga alla Moscova e sfondando attraverso la rotabile che collega Klin a Kalinin e a Mosca, conquistando in questo modo il nodo stradale.”

Spagna corrugò un sopracciglio, incerto, e contò sulle punte delle dita per riordinare i pezzi. “E a fare questo sarà...”

“Il Terzo Gruppo Corazzato,” specificò Germania. “Una volta formato l’anello di contenimento della sacca che ingloberà anche le retrovie di Mosca, infine, la Quarta Armata e il Quarto Gruppo Corazzato procederanno al colpo frontale, completando l’attacco e non lasciando in questo modo alcuna via di fuga alla difesa sovietica.”

Prussia lo assecondò con un breve cenno del capo. “Nessuna tregua?”

“Nessuna tregua,” confermò Germania. Nessuna tregua come quella che aveva mostrato contro Russia durante la battaglia a Borodino. Sia il fisico che la psiche di Russia si sono indeboliti, pensò. Sono molto più vulnerabili rispetto a quando l’operazione è cominciata. Ormai non c’è più nulla che possa renderlo forte com’è stato finora. “Dopo l’ultimo nostro scontro a Borodino,” riprese Germania, socchiudendo gli occhi sotto la luce fioca della lampada, “Russia era molto indebolito, l’ho ridotto allo stremo delle forze, e proprio per questo ora voglio essere sicuro di non perdere altro tempo e di sferrare l’ultimo attacco prima che possa ristabilirsi.”

Romano fece roteare lo sguardo, contenne uno sbuffo, ma evitò di parlare ad alta voce. E allora avremmo anche potuto continuare ad avanzare nonostante il fango, invece che aspettare questo cazzo di freddo.

“Come facciamo con Ucraina?” Questa volta fu Austria a intervenire. “Dovremmo tenerla prigioniera qui nelle retrovie o dovremmo...” Sbirciò verso la porta socchiusa che dava sul corridoio. Abbassò la voce, quasi temendo che lei potesse sentirli attraverso le pareti. “Farla trasportare a Berlino?”

Germania corrugò la fronte, tamburellò le dita sulla carta ancora stesa sotto le sue mani, s’impensierì, e guardò fuori dalla finestra.

Il cielo si era scurito, le nuvole si erano abbassate, minacciavano di schiacciare i tetti della città, il ghiaccio si stava inspessendo agli angoli del vetro, e quell’aria di bufera non fece altro che rendere i suoi pensieri ancora più soffocati e rumorosi.

Germania inspirò a fondo. Devo fare chiarezza una volta per tutte. Ripiegò la carta topografica, ne lisciò i bordi, e la riordinò spingendola all’angolo del tavolo. “Richiamate Romania e Bulgaria e aspettatemi fuori.” Uscì.

Attraversò il corridoio imboccando l’ala opposta a quella in cui erano sgattaiolati Romania e Bulgaria, s’incamminò fra le pareti fredde e buie, risalì un piano dell’edificio, e raggiunse una nicchia che custodiva l’entrata di uno stanzino sorvegliato da due soldati armati.

Germania avanzò senza esitazione, gettò la sua ombra su di loro.

I due uomini lo riconobbero e piantarono un attenti granitico. “Signore.” Si spostarono entrambi. Uno di loro calò il copricapo sulla fronte e gli inviò un cenno d’assenso. “Prego.”

Germania socchiuse la porta cigolante ma non entrò. Rivolse ai due un’autoritaria occhiata di ghiaccio. “Non permettete a nessuno né di entrare né di interferire.”

“Sissignore.”

“Agli ordini.”

Germania varcò la soglia e si chiuse la porta alle spalle. Lo avvolse un’atmosfera fredda, polverosa e sospesa, più buia rispetto alla sala in cui avevano imbastito la riunione. Non c’era il chiarore della lampada a metano a scaldare le tinte grigie e bluastre provenienti dall’unica finestra. In un angolino, sotto il largo fascio di riverbero che cadeva dal rettangolo della finestra, Ucraina se ne stava seduta davanti a un tavolino spoglio. Lo sguardo triste rivolto alla luce esterna, la condensa del respiro a sfiorarle le guance, i pugni stretti sulle cosce e le braccia rigide come se fosse stata incatenata.

Ucraina voltò la guancia e posò lo sguardo su Germania. I suoi occhi erano spicchi di luce smorta, consumati da una vecchiaia che non le apparteneva. “Sei qui per uccidermi?”

Germania non le rispose, attraversò la stanza in silenzio, seguito dal suono cadenzato dei suoi passi.

Ucraina trasse un sospiro che la alleggerì. Guardò di nuovo fuori con i suoi occhi avviliti, senza riuscire a raggiungere alcuna luce, alcuna speranza. “Cerca solo di fare in fretta. Non credo di essere più in grado di sostenere questo peso.”

“Non sono qui per ucciderti.” Germania raccolse l’unica altra sedia disposta attorno al tavolino e si sedette di fianco a Ucraina. “E non ho nemmeno più intenzione di lasciarti nelle retrovie.” Le rivolse lo stesso sguardo carico di sovranità che aveva gettato sui due soldati quando era entrato. “Tu verrai con noi.”

Ucraina trasse un sussulto che la fece rimbalzare sulla seggiola. Si posò la mano sul cuore. “Cosa?”

Lo sguardo di Germania fu di nuovo attratto dalle luci grigie e cristalline spezzate fra gli strati di ghiaccio che si erano inspessiti sulla finestra. “Non ho ancora intenzione di fermare l’avanzata verso Mosca. Volevo che tu lo sapessi. E volevo anche che tu fossi a conoscenza del fatto che...” Lo disse senza orgoglio, senza superbia, solo come un dato di fatto. “Ho sconfitto Russia a Borodino.”

Gli occhi di Ucraina si ravvivarono di una luce nuova, la sua mano tremò all’altezza del cuore su cui era ancora posata. “Lo hai incontrato?”

“Sì,” disse Germania. “Abbiamo combattuto. Io ho avuto la meglio, lui è rimasto ferito, l’ho costretto a una ritirata.” Strinse le dita che aveva poggiato sulla superficie del tavolo. Gli parve ancora di percepire la consistenza calda e densa del sangue di Russia sotto il suo tocco. “Ed è per questo che ho intenzione di approfittare della sua fragilità prima che sia in grado di recuperare le forze.”

“Oh.” Ucraina tornò a far scivolare lo sguardo vitreo sulla finestra. I suoi occhi azzurri si colmarono di quella luce grigia e morta, della freddezza appartenente al ghiaccio che si stava arrampicando attorno alla cornice. La scosse un brivido di disperazione. Ucraina si coprì la bocca e singhiozzò. “Oh...” Respirò forte fra le dita, il mento traballò, gli occhi gonfi e lucidi trasudarono le prime lacrime che lei raccolse lasciando cadere il volto fra le mani aperte. Si accasciò col petto sul tavolo, continuò a piangere fra le braccia incrociate.

Germania non provò alcuna compassione. “Perché piangi?”

“P-perché...” Ucraina singhiozzò ancora, si asciugò gli occhi. “Ho fallito.” La sua voce si fece più sottile e sofferta. “Ho fallito sotto qualsiasi punto di vista. E se Russia...” Tornò a tuffare il viso fra le mani già fradice del suo pianto. “Oh, Russia...”

“Ma c’è ancora qualcosa che tu puoi fare,” le disse Germania. “Ancora una scelta che ho intenzione di offrirti.” La guardò con occhi più scuri, più avidi. Occhi affamati dalla guerra. “Tu sei un territorio conquistato. Se accettassi deliberatamente la totale e incondizionata sottomissione, se rinunciassi a volerti ricongiungere con Russia, allora non saresti più in pericolo di vita. Non ti sarebbe più fatto alcun male e non saresti nemmeno costretta a vivere in prigione.”

“Do... dovrei...” Ucraina si asciugò le lacrime. Riguadagnò una spinta di coraggio che le fece tenere lo sguardo alto. “Non dire assurdità. Forse ora il mio corpo apparterrà a te, ma il mio cuore apparterrà sempre a Russia.”

“Eppure lui non è ancora riuscito a liberarti.”

“Ma tu non sei riuscito a sconfiggerlo,” controbatté Ucraina. “Lo hai solo indebolito. E questo è successo perché i nostri animi sono ancora uniti. Con la nostra forza a sostenerlo, Russia non potrà mai essere sconfitto.”

“Anche noi siamo un’alleanza.” Germania le impedì di continuare a ripetere quelle parole che già erano uscite dalla bocca di Russia, dure e veritiere come una profezia. “In cosa il vostro legame dovrebbe differire dal nostro?”

“Dalla sofferenza che ci accomuna.” Ucraina rispose senza pensarci. “Dal dolore e dalla solitudine sotto i quali Russia ci ha riuniti.”

Germania irrigidì i tratti del volto, trattenne un sibilo di fiato, e rimase sospeso in quel sentimento di stupore.

Ucraina tornò a posarsi la mano sul cuore. “Un legame come il nostro, che ha avuto origine e che ha resistito a secoli di dolore e di avversità, sarà sempre più forte rispetto a un legame artificioso come il vostro, nato invece in un clima di prosperità.”

Germania scosse il capo. No, mi rifiuto di sottomettermi a questa realtà. “Voi non siete sotto il controllo di Russia per far fronte a un dolore più grande di voi, per semplice solidarietà. Voi siete sotto il controllo di Russia perché lui vi ha conquistati, perché tiranneggia i vostri paesi, e anche ora continua a manipolarvi facendovi credere che l’Unione Sovietica sia l’unica soluzione ragionevole per sopravvivere.”

“E tu, invece?” Ucraina flesse leggermente il capo di lato. Lo mise all’angolo con quella dolce e disarmante sincerità che non l’aveva mai abbandonata nonostante i dolori della prigionia. “Tu in che modo hai manipolato i tuoi compagni, finora”

Germania schiuse le labbra, fece per risponderle, per snocciolare una scusa dalla nube di pensieri che era tornata ad abbassarsi e a ronzargli attorno alla testa.

Un forte colpo di vento tuonò contro la finestra. La botta di gelo scricchiolò attraverso il vetro, l’aria fischiò turbinando sul davanzale esterno, cristalli di ghiaccio azzurrino diramarono dagli angoli della cornice e riempirono lo spazio sempre più distorto.

Germania si alzò di scatto. “Cos’è stato?”

Ucraina chinò lo sguardo sui suoi pugni stretti sulle ginocchia. Non disse nulla. Sapeva già tutto.

Germania le strinse il polso e si precipitò fuori dalla camera portandosela appresso. “Vieni con me.”

Superarono i due soldati di guardia, corsero lungo il corridoio, scesero le scale, uscirono dall’edificio, accolti dalla vampata di freddo e nevischio, da una folata di vento che fu come lo sfregio di un rasoio sulle guance e contro le orecchie, e raggiunsero gli unici tre che si erano esposti alla bufera stando però riparati contro la parete.

Prussia rabbrividì, tenendo strette le braccia incrociate. Diede una piccola spallata a Germania e ridacchiò. “Si è alzato un tantino di vento.” Sia Spagna che Romano lo fulminarono di traverso.

Germania si riparò il viso dal vento e dagli sputi di neve, e si guardò attorno.

Spire di vento corsero lungo la strada, innalzando ali di neve secca che addensarono quell’aria opaca e sempre più grigia, e soffiando turbini bianchi che si arrampicarono fino alle nuvole che ormai toccavano i comignoli e i pali della luce. I soldati corsero a ripararsi contro le pareti degli edifici, alcuni si portarono sotto gli architravi delle porte, altri salirono sui mezzi posteggiati. Lo strato di neve si addensò sul ciglio dei marciapiedi, le finestre si lastricarono di ghiaccio, l’ululato del vento ruggì rauco e minaccioso attraverso ogni via della città. Le nuvole si divisero, scoprirono due angoli di cielo violacei, vibranti e minacciosi come un paio di occhi fissi su Germania.

Romano soffiò una spessa e lattea nuvoletta di fiato. Si strofinò il naso già arrossato per il freddo, si massaggiò le guance sfregiate dal vento, e si strinse contro il fianco di Spagna. “Cosa diavolo succede?”

Ucraina si passò una mano attraverso la frangia scossa dal vento, pettinò una ciocca bionda dietro l’orecchio. “Temo che la stagione del fango sia finita.” Giunse le mani in grembo e volse il viso al cielo. Si lasciò avvolgere dal vento, scuotere dalle sue spire, carezzare le guance dal tocco della neve. Il freddo non le fece nulla, la riconobbe, s’inchinò davanti a lei. “È arrivato il Generale Inverno.”

Cadde un silenzio tombale. Persino Prussia perse il ghigno, gli passò la voglia di ridere.

Ucraina sfiorò Germania con lo sguardo. “Rifletti su quello che stai facendo, Germania, e rifletti sui rischi che stai correndo. Perché da ora in avanti il Generale sarà fedele a Russia e non a te. E questo è un nemico che non puoi piegare o mettere in catene come hai fatto con me.”

Spagna si tenne ancora più stretto al fianco di Romano che gli tremava contro. Sgranò le palpebre. Finì fulminato da una realizzazione tanto gelida quando quel vento che gli stava congelando i capelli. “Ma noi non abbiamo ancora gli equipaggiamenti invernali,” soffiò. “E se il tempo dovesse peggiorare? E se poi non avessimo più la possibilità di tornare indietro? Resteremmo bloccati in Unione Sovietica fino alla prossima primavera.”

In un gesto ormai spontaneo e inconscio, Germania fece scivolare il tocco nella tasca della sua giacca, raggiunse la croce di ferro di Italia, e la inghiottì contro il palmo. Non percepì alcun singhiozzo di vita, lo sentì distante. Doveva fare presto. “Questo non ci fermerà comunque.” Strinse il pugno, tirò su lo sguardo senza alcun timore di fronteggiare quegli occhi violacei che lo scrutavano dal cielo, s’impose davanti alla furia del Generale come aveva fatto con Russia stesso sul campo di battaglia. “Andremo a Mosca, costi quel che costi.” Posò il suo sguardo di ghiaccio su Ucraina. “E Ucraina verrà con noi.”

Sopra di loro, il Generale Inverno ruggì di gioia, raccolse la sfida. Abbatté i suoi pugni di ghiaccio al suolo, soffiò un alito di vento e neve che risalì dalla terra, ghiacciò gli alberi, fece morire gli uccelli, scosse finestre e tetti, stritolando ogni casa e ogni palazzo nella sua morsa, e stese il suo bianco sudario di morte su tutta l’Unione Sovietica.

 

♦♦♦

 

23 novembre 1941

Klin, Unione Sovietica

 

Il soldato tedesco affondò la falcata nella scia di neve sporca e schiacciata dalla marcia della sua divisione. Strinse le mani indurite dal freddo sulle bretelle dello zaino, soffiò un rauco gemito fra le labbra secche e spaccate dai cristalli di ghiaccio, stropicciò la faccia in un’espressione dolorante, e zoppicò di un altro passo più breve. Ricadde con le spalle in avanti, urtando un compagno, raddrizzò la schiena nonostante la fitta di dolore alle ossa. Avanzò ancora. Sprofondò con la gamba fino al ginocchio. La neve fresca chiuse le fauci su di lui, il gelo penetrò lo stivale, gli azzannò il piede già consumato dalle piaghe e dai geloni, e gli scaricò addosso una scossa di dolore da capogiro. “Urgh...” Il soldato crollò fra i compagni. Uno di loro fece in tempo ad afferrargli le braccia, ma lui ricadde comunque con le ginocchia a terra, debole, tremante, senza più alcuna sensibilità alle gambe diventate due pilastri di pietra. “Non ce la faccio.” Scosse il capo. Lacrime di disperazione si cristallizzarono fra le ciglia, bianche come neve. “Non ce la faccio, mi fa troppo male.”

Altri uomini più vicini a lui si chinarono a sorreggerlo. “Coraggio, coraggio.”

“Resisti.”

Uno di loro sventolò il braccio verso la formazione che marciava in testa assieme agli autocarri, accostò la mano alla bocca per indirizzare la voce. “Un medico, presto!”

Un altro dei soldati uscì dalla formazione, corse affianco a uno dei panzer che si erano ingolfati per il troppo freddo, schivò i fianchi degli uomini che marciavano in doppia fila, e sbracciò anche lui sopra le teste di tutti. “Altra morfina,” esclamò. “Qui! Qui c’è bisogno di altra morfina, fate presto.”

La marcia dei soldati superò gli uomini che si erano fermati attorno al ferito che continuava a singhiozzare, a dondolare le spalle avanti e indietro, e a strizzare le mani sulle gambe in cancrena. Proseguirono affondando altre impronte nella neve, sollevando piccoli schizzi bianchi attorno alle ginocchia, circondati dalla nebbiolina dei loro fiati affaticati e dall’odore del carburante congelato e dei motori sottosforzo. Le facce sciupate e irriconoscibili, gli occhi iniettati di sangue trattenuti fra palpebre raggrinzite, le spalle tremanti, gli sguardi sfiancati, e il peso del cielo plumbeo, brulicante di maltempo, a gravare sulle loro schiene ricurve.

Bulgaria e Romania pestarono la neve sollevata dalla marcia zoppa dei soldati, passarono affianco a quelli che si erano lasciati cadere a terra, a quelli costretti a rallentare per i geloni, a quelli che spingevano assieme contro il retro di uno degli autocarri bloccati, cercando di liberarlo dal fosso in cui era sprofondato.

Romania si passò una manica della giacca invernale sulla fronte sudata, raccolse qualche gocciolina che gli era rotolata fino al mento, batté i denti, masticò un sibilo ansimante, e si fece ancora più bianco della neve in cui sguazzava assieme ai soldati. Zoppicò sulla gamba sinistra, urtò la spalla a uno degli uomini.

Bulgaria gli raccolse il gomito, se lo portò dietro per evitare che finisse spinto via dai fianchi dei soldati, e gli diede una scossetta al braccio. “Ehi, Rom, ci sei?”

Romania richiuse la bocca ansimante, deglutì buttando giù il sapore pastoso del fiato secco, e tenne lo sguardo incollato a terra, celato dai capelli ricaduti sulle guance. “S-sto bene.” Ciondolò e batté il capo sulla spalla di Bulgaria.

Bulgaria gli strinse il braccio e gli avvolse la schiena. Lo sorresse dandogli un’altra spintarella d’incoraggiamento, rallentò assieme a lui e ripeté le stesse parole che i soldati avevano rivolto ai feriti. “Forza, resisti.” Gli diede una strofinata alla schiena. “Non pensare al freddo, immagina di stare al caldo. Abbiamo anche le uniformi invernali, dovrebbe essere più facile.”

Romania batté i denti e sollevò gli angoli delle labbra in un sorriso triste. “C-chissà pe-perché i vestiti invernali n-n-non mi consolano.”

Passi più incalzanti li raggiunsero, accompagnati dalla voce di Austria, rotta anche quella dal fiato pesante. “Forse perché siamo a trenta sottozero.” Austria si strinse nella giacca bianca, l’uniforme invernale che finalmente era giunta poco prima che lasciassero Klin, rabbrividì tenendo la fronte corrugata, e proseguì affondando pesanti passi nella neve in cui si sentiva sprofondare. “Perché ci vorrebbero gli stivali di feltro, e non quelli chiodati che fanno arrivare più velocemente il freddo alle piante dei piedi. E perché il tessuto non è abbastanza resistente per temperature estreme del genere.”

Bulgaria annuì. Per una volta non poté fare altro che dargli ragione. “Già, bella fregatura.” Levò lo sguardo al cielo che pareva un’infinita lastra di ghiaccio grigio, spaccato dalle venature nere che attraversavano le nubi, e si sentì gelare il sangue solo tastando un soffio d’aria. Era come respirare tenendo il naso in una vasca d’acqua gelida. “E meno male che Germania aveva detto che il freddo non sarebbe stato un problema.”

Ungheria si tenne al passo con la camminata di Austria, sporse le spalle in avanti, facendo scivolare i capelli sciolti sul petto, e squadrò il profilo zoppicante di Romania. Sollevò un sopracciglio, scossa da un prurito d’allarme. “Stai bene, Romania?”

Romania sussultò e si affrettò a voltare il viso sbiancato. “S-sì.” Tirò su col naso, rimase nascosto dietro il fianco di Bulgaria. “Non ho niente.”

“Ha la febbre.” Bulgaria lo tenne stretto a sé e allontanò Austria e Ungheria con uno sguardo iperprotettivo. “Sto io con lui, voi dite a Germania che rallentiamo un po’.”

Austria annuì. Sfiorò la spalla di Ungheria ed entrambi accelerarono il passo, si staccarono dalla formazione dei soldati, e puntarono il gruppetto di uomini fermi sulla bianca linea d’orizzonte, dove la gran parte dei mezzi militari erano posteggiati fra la neve, dove il canale dell’Istria sprofondava nel suolo ghiacciato, e dove i genieri stavano gettando le basi per la testa di ponte. Austria mosse le mani inguantate, grattò le unghie sulla stoffa, si fermò per resistere a una scarica di dolore, e si accorse di non riuscire più a sentire le punte delle falangi. Trasse un sospiro tremante, sudò freddo, giunse le mani a guscio e le poggiò sulla fronte, racchiudendosi in quel muto istante di preghiera. Va tutto bene, ripeté a se stesso. Le mani stanno bene, sono al caldo, non mi stanno venendo i geloni, posso ancora muoverle, potrò ancora muoverle quando la battaglia sarà finita. Non ho nulla di cui spaventarmi.

Il suono scrocchiante della marcia lungo la distesa di neve congelata si affievolì, lasciò spazio ai fischi di vento che soffiavano liberi sul terreno aperto, innalzando ali di cristalli ghiacciati, ai rombi dei mezzi ancora in funzione, allo scroscio dell’Istria che sguazzava nel suo letto congelato, e alle voci dei genieri che discutevano con Germania.

“Il problema non è solo questo, signore, ma è anche il fatto che mancano materiali e mezzi di trasporto per poterne accelerare la costruzione.” L’uomo si spostò per lasciar passare uno dei gruppi che stavano scendendo verso la riva, si strofinò la nuca e rivolse una nervosa occhiata al cielo annuvolato. “E i contrattacchi dei sovietici non sembrano avere fine, e con tutte queste interferenze, non sappiamo se...”

“Se i contrattacchi persistono, allora respingeteli.” Germania strinse le mani dietro la schiena, marciò di guardia agli uomini che lavoravano, che si scambiavano i turni sulla sponda del fiume. I suoi occhi vigili, la sua posa solenne, il tono di chi non ammetteva repliche. “Difendete le postazioni dei genieri e andate avanti. Voglio che la testa di ponte sia stabile entro questa sera stessa, prima che faccia buio.”

“Io...” L’uomo lasciò scivolare la mano da dietro la nuca, cedette con un sospiro. “S-sissignore.”

Ungheria corse da Prussia che se ne stava seduto sul cofano dell’autocarro dove avevano fatto viaggiare Ucraina, perché non scappasse. Gli andò incontro con il fiato arrochito dal gelo che le graffiava la gola e con i capelli al vento. “Cosa succede?”

Prussia si diede una strofinata alle maniche della giacca bianca e nuova – anche lui indossava l’uniforme invernale appena arrivata – e non si mosse da dov’era, tenne gli occhi fermi sul profilo di Germania che capitanava le operazioni. “I russi a quanto pare mantengono le posizioni, non hanno intenzione di farci passare attraverso l’Istra, ed è pericoloso proseguire con i lavori della testa di ponte.” Soffiò una bolla di fiato sulle mani nude, si diede una strofinata, e scavò nelle tasche in cerca dei guanti. “Potrebbero ripetere l’attacco da un momento all’altro.”

“E quanto è grave?”

“Parecchio,” rispose Prussia, lapidare. “Anche perché il freddo sta bloccando tutto. Trasporti, rifornimenti, uomini e mezzi.”

Ungheria scivolò di un passo indietro e si lasciò cadere con la schiena contro il portellone aperto dell’autocarro, schiacciata da quella realizzazione. “Ma allora siamo daccapo,” piagnucolò. “Siamo bloccati proprio com’è successo con il fango.”

“Già.” Prussia s’infilò l’ultimo guanto, tirò bene il tessuto, sgranchì le dita come aveva fatto Austria, senza però percepire alcun dolore, e guardò a terra. Picchiò un piede sullo strato di neve gelata, spaccò una bianca bocca zannuta che parve solo in attesa di inghiottirli. “Ma almeno il fango non ci uccideva.”

I passi pesanti di Germania li raggiunsero, spaccarono quella neve senza averne paura, senza temere le zanne di ghiaccio. Lo circondava una nera nebbia di malumore che rendeva i suoi occhi scuri come quel cielo annuvolato. “La testa di ponte non è ancora pronta.”

Austria rivolse un ultimo sguardo alla formazione di uomini da cui si era staccato e mostrò un’espressione scettica. “Questo significa che dobbiamo interrompere l’avanzata?”

“Certo che dobbiamo interrompere l’avanzata,” rispose Germania. “Almeno momentaneamente. Non possiamo passare il fiume a nuoto.” Si guardò attorno con quegli occhi lividi, si soffermò su Romano e Spagna che si erano avvicinati all’autocarro – Romano a rabbrividire e a scaldarsi affianco al radiatore ancora fumante –, e cercò ancora.  “Dove sono Romania e Bulgaria?”

La voce di Bulgaria li raggiunse. “Stiamo arrivando.” Ma i passi erano lenti e trascinati, affondati in quella neve che li tratteneva come colla.

Romano badò bene di tenersi lontano dall’aura di malessere e nervosismo che scoppiettava attorno a Germania, ma non poté fare a meno di infilarsi nella discussione. “E se non riuscissimo ad attraversare il canale?”

Dobbiamo attraversare il canale,” rispose lui. “Dobbiamo prendere Rogacev, dobbiamo raggiungere Istria, dobbiamo accerchiare Mosca da nord e chiudere la tenaglia con il Gruppo Corazzato proveniente da sud.”

Austria inspirò a fondo stropicciando una ruga di disappunto attraverso la fronte, resistette alla fitta di gelo nei polmoni, e sistemò gli occhiali facendovi risplendere un lampo color ghiaccio. “Sempre se a sud riusciranno a passare Tula.”

“Com’è possibile che siamo passati in questa situazione di merda in così poco tempo?” Romano schiacciò i pugni sui fianchi, si allontanò dal tepore dell’autocarro, e calciò un blocco di neve lungo la pendenza che dava alla sponda del fiume. “Stavamo vincendo, cazzo. Sono pure arrivate le uniformi invernali, sembrava davvero che ci fossimo ripresi dopo il fango. Sul serio è bastato questo schifo di freddo per mandare tutto a puttane?”

“Ma questo non è un semplice freddo.” Ucraina se n’era stata tranquilla e in silenzio fino a quel momento. La sua voce s’intromise nel temporale di quella situazione, flebile come un alito di vento. “Vi avevo avvertiti che l’inverno non vi avrebbe risparmiati.” I suoi occhi azzurri erano della sincerità più limpida, della tristezza più pura, quasi covassero un senso di colpa. “E la situazione peggiorerà ogni giorno che passa, datemi retta.”

Germania scosse il capo, si allontanò da quella realtà da cui non voleva nemmeno venire sfiorato. “Non siamo ancora intrappolati. La nostra forza non è esaurita, il mio esercito non è ancora allo stremo, e io sono ancora in grado di distruggere l’Armata Rossa.”

Lo sguardo di Ucraina vacillò, si fece ancora più acquoso. “Germania.” Lei incalzò una piccola corsa e inseguì le sue impronte. “Ti scongiuro, ascoltami.”

Germania si strinse nella sua rabbia. La nebbia attorno a lui divenne ancora più nera, il sangue gli batté nelle tempie, le mani cominciarono a pesargli, a scottare come quel fuoco che stagnava nel suo stomaco.

La voce di Ucraina lo seguiva, inesorabile. “Non sfidare queste terre.” I suoi passi gli scricchiolarono dietro. Ogni falcata dura e dolorosa come un graffio sull’orecchio. “Non sfidare questo inverno. Sei ancora in tempo, non spingerti verso il punto di non ritorno.”

Germania trattenne il respiro, strizzò più volte le mani formicolanti, ricacciò indietro quel bisogno, strinse gli occhi per non vedere rosso, chinò il viso contro la spalla e parlò a denti serrati. “Taci.”

“Pensa anche alla tua vita!” esclamò Ucraina. “Pensa ai tuoi alleati, pensa ai tuoi soldati.” Distese il braccio e gli raggiunse la spalla. Strinse la presa, calò l’affondo nel suo animo. “Pensa a Italia!”

Germania si rivoltò contro e le colpì il viso. “Taci!”

Ucraina gemette, “Ah!”, finì sbalzata indietro da quel bianco lampo di dolore, e batté la schiena sulla neve.

Un corale gemito d’orrore s’innalzò dalle altre nazioni che avevano catturato quell’istante a occhi sgranati, fulminati.

Ungheria si portò le mani alla bocca, risollevò gli occhi larghi e allucinati da Ucraina che era caduta a pochi passi dai loro piedi, e li posò su Germania, sulla sua mano ancora alta e tesa. Fu la prima a strillare, incredula e indignata. “Germania!”

Austria arretrò di un passo, il respiro traballante sospeso fra le labbra socchiuse, e riuscì persino a dimenticarsi del dolore alle mani. Romania strizzò la mano ancora appesa al braccio di Bulgaria e sentì una vampata di gelo risalire il viso, succhiare via tutto il bruciore della febbre. Bulgaria si tappò la bocca come aveva fatto Ungheria, anche se con una mano sola, e ingoiò un fremito di terrore. Nessuno fiatò.

Romano rimase pietrificato sul posto, il cuore caduto nello stomaco e la testa che gli ronzava. Davanti a lui, Ucraina si portò la mano alla guancia colpita, si girò sul fianco trascinando le ginocchia nella neve, inspirò forte tenendo gli occhi stretti ma non pianse. Romano guardò Spagna. Spagna andò in cerca degli occhi di Prussia, li trovò ancora più persi e lontani dei suoi, e si girò di nuovo, catturato dai tremori che ancora percorrevano il braccio di Germania. Si soffermò sulla mano che aveva colpito Ucraina, la stessa che aveva picchiato anche lui sbattendolo sulla banchina del Porto di Taranto.

Un violento bruciore gli batté sulla guancia, fece scattare la scintilla.

Spagna si separò dagli altri, mosse il primo passo, spaccò il silenzio con lo scricchiolio secco della neve sotto la sua suola, e andò a soccorrere Ucraina. La sorresse per una spalla, la aiutò a rimettersi seduta mentre le teneva ancora la mano sulla guancia, e le tenne il palmo aperto dietro la schiena. Non disse nulla. Le stette solo vicino con quello sguardo caldo come la sua terra, come il suo sole che sarebbe stato in grado di sciogliere la neve dell’intera Unione Sovietica.

Romano scosse il capo, si riprese, e li raggiunse. Premette anche lui le ginocchia nella neve, sostenne Ucraina sull’altra spalla, e mostrò uno sguardo sorprendentemente mite, vicino e confortante. Seguirono Ungheria, Austria, e anche Romania e Bulgaria. Tutti si fecero attorno a Ucraina, protetti da quel silenzioso ma tiepido sentimento di solidarietà.

Solo Prussia era rimasto separato, ancora fermo nel punto dove i suoi piedi si erano solidificati a terra, senza battere ciglio, senza cancellarsi dal viso quell’espressione stravolta e sbiancata di colpo. Sollevò lo sguardo e tornò a fissare Germania con quella faccia da cadavere, la faccia di qualcuno a cui hanno appena strappato l’anima dal cuore.

A Germania venne la nausea, il cuore galoppò, una scossa di bruciore gli trafisse la mano con cui aveva colpito Ucraina, la vista tornò ad annebbiarsi di rosso, e la neve sotto i suoi piedi si fece più molle e cedevole, in grado di risucchiarlo nel suo gelo.

Germania guardò la mano che aveva colpito Ucraina come un corpo estraneo, come se non fosse più stata parte del suo braccio. La tornò a serrare a pugno. Mi sto perdendo. Gettò via il braccio dalla sua vista, diede le spalle a tutti e tornò ad allontanarsi racchiuso nel suo guscio di oscurità. Si strinse la faccia. Alla fine sta succedendo davvero. Senza Italia a tenermi a galla nella luce, non c’è altro destino per me se non quello di annegare nell’oscurità. Tornò la nausea, tornarono le vertigini, tornò il senso di vuoto. E io mi ritengo anche capace di liberare Italia dalla prigione del mio nemico? Come posso essere in grado di salvarlo... Sfilò la mano sul viso e se la posò sul petto, dove giaceva la sua croce di ferro. Non percepì alcun battito. Solo il freddo ferro inanimato. Se non sono in grado di salvare nemmeno me stesso?

 

♦♦♦

 

30 novembre 1941

Krasnaya Polyana, Unione Sovietica

 

Austria tirò un dito del guanto alla volta, resistendo al doloroso attrito del tessuto che sfregava sulla mano tremante, e deglutì per ricacciare indietro il battito del cuore salito a pulsargli in gola, terrorizzato da quello che avrebbe trovato una volta sfilato per intero. Snudò la mano rivestita di bende consumate. Srotolò un primo lembo di garza umida e lasciò cadere il nastro di cotone fra le gambe che teneva piegate sul pavimento di una delle isbe conquistate nel villaggio.

Cadde anche l’ultimo tratto di stoffa. Austria sbiancò. “Oh, no.” Gonfi geloni rubicondi piagavano la pelle della mano tremante. Le punte delle dita erano viola, prive di ogni sensibilità, e le unghie erano nere.

Anche Ungheria strabuzzò lo sguardo, pallida e sfiancata tanto quanto lui. “Geloni.” Gli raccolse la mano consumata, gliela massaggiò senza fare troppa frizione. “Ma com’è possibile? Hai sempre tenuto le mani coperte, hai sempre fatto attenzione anche quando ti toglievi i guanti e ti cambiavi le bende.”

Austria scosse lentamente il capo. La paura sorse, gli rese le guance fredde, il cuore pesante. “N-non lo so.” La visione della mano divorata dai geloni si sdoppiò, le pareti buie e basse dell’isba in cui erano riparati gli vorticarono attorno, lo colse una botta di smarrimento e disperazione. “Io...”

Si aprì la porta che dava sull’anticamera, sbucò il profilo di Prussia stretto nell’uniforme invernale, il suo sguardo corrugato rivolto al pavimento dove sedevano Austria e Ungheria. “Cosa state combinando?”

Austria si strinse le mani al petto e nascose il viso contro la spalla, celò il tremore di quella debolezza che lo aveva spezzato come cristallo.

Ungheria lo protesse. “Ha i geloni,” si giustificò per lui. “Non può più combattere, non riesce nemmeno a muovere le mani, dovete rimandarlo nelle retrovie, deve curarsi prima che peggiori ulteriormente, prima che perda per sempre...”

“Mandarlo indietro?” Prussia sventolò via quell’ipotesi. “Sei pazza? In che maniera dovremmo rimandarlo indietro? Facendolo scivolare sul ghiaccio? Non possiamo tornare indietro, non c’è modo di tornare indietro.”

Austria sollevò gli occhi ancora umidi di sconcerto. Lo attraversò un’altra stilettata di terrore. “Siamo bloccati?”

“No. Cioè...” Prussia strinse nelle spalle. “Circa. Oh, dannazione!” Si diede una strofinata alla nuca. “Se solo...”

“Prussia.” Bulgaria si affacciò all’entrata dell’isba come aveva fatto lui pochi istanti prima. Lanciò una rapida occhiata disinteressata al suo interno, tornò su Prussia, e indicò l’esterno. “Germania ti cerca. Mi ha mandato a chiamarti.”

Prussia strinse la mano fra i capelli, soffiò uno sbuffo stanco e trascinato. “Arrivo.” Mosse un primo passo.

“Fermo.” Austria si rialzò dal pavimento, lo inseguì all’esterno dell’isba, e si gettò a stringergli il polso nonostante il dolore alla mano. I suoi occhi celati dalle lenti sporche di ghiaccio trasudarono rabbia e dolore. “Avresti dovuto fermarlo.”

Prussia inarcò un sopracciglio. Lo guardò con durezza, indurì il braccio sotto la sua presa. “Cosa stai dicendo?”

“Germania,” precisò Austria. “Tu...” Chinò il capo fra le spalle e rabbrividì attraverso la schiena ricurva. “La responsabilità di quello che sta succedendo è anche tua. Tu hai più esperienza, avresti dovuto comprendere la gravità della situazione, avresti dovuto farlo ragionare, avresti dovuto impedirgli di cominciare una nuova offensiva. Non con l’inverno alle porte.”

Prussia strinse i denti in un ringhio che gli accese gli occhi di rosso. Strappò via il polso dalla sua presa. “Non dirmi quello che avrei dovuto fare!”

Bulgaria zampettò in disparte, si rimise affianco a Romania che lo aveva aspettato fuori, chino e pallido ancora di più rispetto a quando erano arrivati. Azzardò un tentativo di sedare la lite. “Ehm, sapete, io non credo sia il caso che anche noi ci mettiamo a...”

“Arrenditi all’evidenza!” La voce di Austria suonò ancora più disperata del sussulto che era vibrato attraverso la sua gola quando aveva scoperto la mano piagata dai geloni. “Ormai la battaglia è persa, non c’è modo che i soldati riescano a trovare le forze per un attacco definitivo.”

Ungheria s’infilò fra i due. “Smettetela!” Spinse una mano sulla spalla di entrambi, li tenne distanti. “Litigare non serve a niente, rischiamo solo...”

In disparte, racchiuso nel suo guscio di dolore, Romania infilò una mano tremante fra i capelli e si resse la fronte bollente per non sentire la testa girare. Le voci degli altri divennero un brusio incomprensibile, le loro immagini sfumarono come tempere annacquate, quel malessere che lo divorava da dentro divenne insostenibile. Romania picchiettò sulla spalla di Bulgaria, parlò con labbra bianche e secche come carta. “Vado a stendermi.”

Bulgaria sbuffò un grugnito ironico. “Se questi due non si stendono per primi.” Si girò. “Sono...” Incontrò finalmente la sua faccia, si rimangiò la mezza risata, si sentì impallidire quasi quanto lui. “Stai male?” Sollevò il braccio, fece per sfiorargli la fronte. “Ti è salita la febbre?”

Romania scivolò via dal suo tocco, scosse il capo tenendo le labbra strette, come in preda ai conati di nausea, e si girò. “Ho solo...” Zoppicò, barcollò di lato, si appoggiò alla parete dell’isba, spostò ancora il piede in avanti. “Mi serve solo...” Si accasciò e incontrò lo schiaffo di neve sul viso prima ancora di rendersi conto di essere crollato.

“Rom!” Bulgaria gli cadde vicino, lo girò in posizione supina, gli fece raddrizzare il capo ciondolato di lato, contro la spalla, e gli schiaffeggiò la guancia. “Rom, apri gli occhi, dai, tirati su.”

Prussia e Austria smisero di litigare. Prussia scoccò un’occhiata allarmata da sopra la spalla, si avvicinò di un passo. “Che gli è preso?”

Bulgaria aprì una mano sulla fronte di Romania. Si morse il labbro. “La febbre.” Bruciava ancora più intensamente rispetto a quando lo aveva tastato nel bagno del Quartier Generale a Orsha. “Gli è salita la febbre, ecco che gli è preso.”

“Salita?” Anche Ungheria andò a mettersi in ginocchio, gli fece sollevare la nuca da terra in modo che i capelli non s’infradiciassero di neve. “Vuol dire che ce l’aveva già? Sapevi che aveva la febbre e non ci hai detto nulla?”

“Mi...” Bulgaria scosse più volte il capo, si strofinò nervose manate fra i capelli, in balia della confusione. “Mi aveva detto che era normale, che gli sarebbe passata, che non era niente di grave. Gli ho creduto. Cosa potevo fare?”

“Ma perché gli è salita la febbre?” insistette Ungheria. “Non è che...” Corrugò un sopracciglio. Sperò di non avere ragione. “Che ha un’infezione?”

“Una...” Bulgaria sgranò le palpebre, esplose il lampo del ricordo, l’immagine della baionetta di Russia che affondava nel suo fianco, inchiodandolo a terra. “La ferita.” Sbottonò la giacca pesante di Romania, gli sfilò le maglie di cotone dall’orlo dei pantaloni.

Romania si riprese con un ansito che gli fece vibrare la gola. “N-no.” Gli batté un colpo sul braccio, si arrotolò sul fianco, premette le mani sulla stoffa per tenerla abbassata. “Non ho niente.” Strinse gli occhi. “Non ho niente.”

“E sta’ un po’ fermo.” Bulgaria gli scoprì il fianco. Le bende si erano consumate, divorate dal sangue infetto che emanò un odore fetido e purulento. La pelle tutt’attorno al rossore stava andando in cancrena, grigia, gonfia, e attraversata da venature bluastre come una gettata d’inchiostro sul marmo.

Bulgaria si sentì mancare. “Si è aggravata. La ferita e l’infezione si sono aggravate, ecco perché stai bollendo di febbre.” Ribollì di rabbia, tremò di paura, si sentì fumare fino alle punte delle orecchie. “Si può sapere perché non mi hai detto nulla?”

Romania lasciò cadere la guancia contro la spalla, respirò ad affanni contro la neve, nonostante le mani di Ungheria a sorreggergli il capo. “N-non è...” Ansimò. “Così grave. Non volevo farti preoccupare, abbiamo...” Rattrappì le gambe per resistere a una fitta di dolore, stridette un gemito, e schiuse gli occhi luccicanti di sofferenza. “Abbiamo altri problemi.”

“Dio, quanto sei stupido.” Bulgaria cadde a sedere, si resse la faccia, mantenne integra quell’espressione dove le cicatrici biancheggiavano, così tirate da dar l’impressione di stare per riaprirsi. “Ora sì che abbiamo un problema.”

 

.

 

“Abbiamo un problema, a quanto pare.”

Prussia smise di marciare avanti e indietro, sollevò due dita verso Germania e lo corresse. “Due problemi, contando le mani di Austria.”

Spagna ne sollevò tre di rimando. “Tre problemi, contando il freddo alle stelle, la resistenza sovietica su Tula che impedisce alle truppe di passare la città, poi la nostra ritirata da Rostov, senza contare che...”

“Oh, fanculo,” esclamò Romano. “Che senso ha starcene qui a contare le disgrazie? Ammettiamolo.” Pestò un ultimo passo al centro della stanzina che avevano occupato all’interno di una delle isbe abbandonate dove erano presenti solo loro quattro. Schiacciò i pugni ai fianchi. Una scossa di tensione risalì la schiena. “Siamo nella merda, vero? Ormai...” Respirò a fatica, tenne la fronte corrugata, gli occhi brucianti di stanchezza e di risentimento. “Ormai è andata. È finita.”

Germania tenne il braccio piegato contro il muro, il pugno stretto, il viso affacciato alla finestrella dell’isba, gli occhi persi sul panorama del villaggio dove traballava solo qualche luce accesa dai soldati. Il cielo si era annerito. Il ghiaccio incrostato al vetro e inspessito dalla neve che aveva ricominciato a cadere distorse la sua vista già scossa da quella paura che non gli dava tregua. “No.” Scosse il capo, premette la fronte sul braccio. “No, no, mi rifiuto di arrendermi. Non può non esserci alcuna soluzione per...”

“Arrendersi?” Spagna usò un tono incredulo. “Ma ormai non si tratta più solo di arrendersi. Si tratta di essere ragionevoli. Germania...”

Ma Germania non rispose, rimase in silenzio, catturato dal maltempo che si stava consumando fuori dalla finestra, nell’oscurità della notte senza stelle e senza luna. Quel crudo maltempo che nemmeno lui era riuscito a domare.

Spagna si voltò in cerca di Prussia, abbassò la voce. “Ti prego, diglielo.” Mostrò lo stesso sguardo amareggiato che gli aveva rivolto quando Germania aveva colpito Ucraina e lui non aveva fatto nulla. “Fallo ragionare, o per noi sarà davvero la fine.”

Prussia allontanò gli occhi, ma anche il suo sguardo vacillò, assalito dagli stessi sensi di colpa che anche Austria gli aveva scaricato addosso. “Forse...” Deglutì. La gola rimase secca, la bocca amara. “Forse, a questo punto dovremmo prendere in considerazione l’idea di arretrare.”

Germania indurì le spalle, picchiò il pugno sul muro. “Io non lascerò l’Unione Sovietica senza prima aver preso Mosca.” Si voltò finalmente a fronteggiare gli altri tre. “Possiamo ancora farcela, la battaglia non è persa, io...”

Prussia si aggrappò a una sua spalla, si sentì spezzare per la prima volta. “Non possiamo più prendere Mosca!” Il riecheggiare della sua voce vibrò attraverso le pareti di cemento dell’isba, seguì il fischiare del vento, il picchiettare più forte della neve contro la finestra, e di nuovo il silenzio.

Prussia strinse la mano sulla spalla di Germania, bruciò di frustrazione fino a sentirsi l’animo consumato, e scaricò quei brividi sul corpo di suo fratello che invece avrebbe dovuto solo sostenere. “È finita,” disse con voce arrochita. “E la colpa è anche mia. Avrei dovuto fermarti prima.” Gli fece scivolare la mano dalla spalla, strinse il pugno sul fianco. “Non possiamo più avanzare, ogni attacco ci viene rispedito indietro, non abbiamo più energie per proseguire, e il freddo ci ha bloccati. È finita.” Inspirò a lungo prima di dover pronunciare quell’ultima frase. Era sempre doloroso far scivolare quelle parole sulla lingua. Lo stomaco gli si annodò in un conato di nausea. “La battaglia è persa.”

Romano trasse un respiro tremolante. Gli si annacquarono gli occhi, il cuore perse un battito, tutta la neve che avevano attraversato a piedi parve rovesciarsi addosso a lui in una valanga di gelo. “No.” Cadde a terra, schiacciato da quel peso, e si prese la testa fra le mani. “Abbiamo perso?” gemette. “Abbiamo perso, davvero?”

Spagna s’inginocchiò ad abbracciarlo, lasciò che Romano sprofondasse contro il suo petto, che gli singhiozzasse addosso tutto il suo dolore. Gli massaggiò i capelli, rimase integro per tutti e due.

Prussia tenne il viso basso, distante e arrendevole. “Ormai è andata.” Solo un breve e triste sguardo di striscio su Germania. “E tu lo sai.”

Germania soffocò sotto quella frase. Fu un pugno allo stomaco, un nodo nella pancia, uno spazio nero spalancato nella sua testa. Abbiamo perso?

Romano singhiozzò ancora tenendosi nascosto fra le braccia di Spagna. Spagna lo cullò avanti e indietro, gli fece correre una serie di carezze lungo la schiena, e anche lui ricadde con il viso in avanti, la fronte premuta sulla sua spalla e i capelli a celare il suo sguardo ingrigito.

Anche Germania provò il desiderio di gettarsi con le ginocchia sul pavimento e di lasciarsi inghiottire in quella bolla di disperazione. Ho perso la battaglia, ho perso l’unica occasione di poter prendere Mosca, di poter conquistare l’Unione Sovietica, di battere Russia. La realizzazione più pesante fu tanto secca e sconvolgente quanto il colpo con cui aveva ribaltato la faccia a Ucraina. Ho perso Italia.

Fuori dalle mura dell’isba, il cielo continuava a rigurgitare neve, il vento soffiava aspro e letale, addensava un ghiaccio sempre più spesso e infrangibile.

Il Generale Inverno aveva vinto.

   
 
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