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Autore: Plando    26/06/2019    2 recensioni
Nick è in un momento difficile, riuscirà a venirne fuori con l'aiuto di una nuova conoscenza?
Genere: Dark, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Judy Hopps, Nick Wilde, Nuovo personaggio
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza
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24 anni prima, nei pressi di Bunnyburrow.





“Io non so veramente cosa dire, nessuno finora ci ha mai aiutato in alcun modo”.
Mentre pronunciava al montone queste parole la lepre quasi si mise a piangere, seguito dalla moglie alle sue spalle.

“Le ho solo dato del cibo, signor Schrader, se l’ho fatta entrare assieme alla sua famiglia è solo perché i suoi figli erano affamati, ma non ho intenzione di ospitare degli sconosciuti in casa per più tempo del dovuto, almeno finché non avrò la certezza delle vostre buone intenzioni, spero che capiate, non so nulla di voi”.

Girava già da un paio di giorni la voce che a Bunnyburrow era arrivata da chissà dove una famiglia di lepri, apparentemente nullatenenti, che passavano di casa in casa a chiedere ospitalità, o al massimo del cibo per sopravvivere, ne aveva sentito parlare al mercato, prima da Wilson, il muflone già reduce da diversi furti nella sua proprietà li aveva accolti con la doppietta, facendogli capire senza mezzi termini che dovevano alzare i tacchi alla svelta e possibilmente non farsi più rivedere, poi venne il turno dei Jackson, che almeno si limitarono ad ignorarli, facendo finta che non ci fosse nessuno in casa, così come fecero i Little, gli Hopps, i Rogers e la lista poteva proseguire ancora per molto.
Lui era stato uno dei pochi a degnarsi di mostrarsi alla porta senza cattive intenzioni, restando di sasso non appena vide chi aveva davanti, due lepri, probabilmente marito e moglie coi figli al seguito, ma quello che più lo sconvolse erano le condizioni in cui si trovavano, vestiti di stracci che a malapena riuscivano a coprirli adeguatamente, e considerando che erano alle porte di novembre la notte dovevano patire anche il freddo, ma soprattutto con livelli di denutrizione che non pensava avrebbe mai visto da quelle parti, i due adulti erano talmente magri che a momenti si riusciva a vedere le ossa sotto la pelle, i piccoli invece sembravano messi qualcosa meglio, probabilmente quel poco cibo che erano riusciti a mendicare lo avevano lasciato tutto a loro.

“Si...capisco...in questo caso...ce ne andiamo...la ringrazio di cuore per averci dato da mangiare”.

Stavano per arrivare alla porta quando vennero fermati dalla voce del montone, maledizione anche a lui e alla sua bontà d’animo.

“Aspettate, ho detto che non intendo ospitare degli sconosciuti, ma in fondo ci si può sempre conoscere meglio, ed io avrei bisogno di aiuto coi campi, se siete disposti a lavorare sodo potrei assumervi come miei dipendenti, solo voi due ovviamente, i bambini andranno a scuola”.

La lepre fece qualche passo indietro, osservando preoccupato per un attimo il suo benefattore.

“Di...dipendenti? Vuole dire che...che verremo pagati per quello che faremo?”.

“Ahahah, ovvio, non sono mica uno schiavista”.

Inizialmente quella domanda gli era parsa talmente strana da averla presa quasi come una burla, reagendo di conseguenza con una risata ed una battuta, sicuro che da li a poco lo avrebbero imitato anche le due lepri, si rese subito conto che non stavano scherzando ad esprimergli i loro dubbi non appena li vide, impassibili come un attimo prima, non avevano neppure accennato un sorriso.

“Aspettate, voi...voi dite sul serio?”.

Non arrivò risposta, ma lo sguardo parlava chiaro, non c’era speranza in quegli occhi, ne nei loro ne in quelli dei loro figli, ci poteva vedere solo rassegnazione, la cosa lo colpì al punto da fargli decidere di aiutarli senza pensarci troppo su, ne avevano bisogno e se c’era qualcuno a Bunnyburrow che poteva farlo, quello era lui.

“I vostri problemi sono finiti, se mi promettete che vi darete da fare, vi darò un lavoro, vitto e alloggio, almeno finché non sarete in grado di badare a voi per conto vostro”.

“Knyvea, signor Bellwether”.

La lepre venne colta alla sprovvista da quella frase del montone, non rendendosi nemmeno conto di avergli risposto nella sua lingua nativa, se ne accorse osservando lo sguardo perplesso del padrone di casa.

“Come?”.

“Mi...mi spiace, mi è uscito in...volevo solo dire, grazie...”.

“Non siete di queste parti è?”.

La lepre sembrò inizialmente turbato dalla domanda in questione, facendo scena muta per un po' prima di rispondere.

“No, noi...noi veniamo da...”.

Non riuscì a terminare la frase che sentì la porta d’ingresso aprirsi, qualche stanza più in là, udendo poi una voce chiamare il montone.

“Papà, siamo tornate”.

L’ovino sorrise, per poi chiamare le figlie.

“Venite qua, ci sono delle persone che voglio presentarvi”.

La pecorella si avviò in fretta e furia verso il soggiorno della loro casa, da dove aveva sentito la voce del padre, non appena vi arrivò vide che assieme a lui ci stavano molte lepri in stanza, probabilmente una famiglia al completo, dato che c’erano due adulti ed altri tre più giovani.

“Chi è tutta questa gente papà?”.

“Con calma, adesso facciamo le presentazioni, dov’è tua sorella?”.

“Era dietro di me, Harry l’ha ancora...”.

Neanche il tempo di finire la frase che una seconda pecora, di poco più giovane della prima, si fiondò nella stanza correndo ed urlando a squarciagola.

“AAAAAHH PAPÀÀÀÀ, HARRY LO HA FATTO DI NUO...”.

Anche quest’ultima s’interruppe prima di poter finire la frase, fermandosi all’improvviso non appena vide il gran numero di persone che occupavano la stanza in quel momento, il montone la fissò per un attimo allibito, per poi negare col capo.

“Chi sono loro?”.

Le avrebbe volentieri fatto la ramanzina sul fatto che in casa non si correva ne tantomeno urlava, ma tanto lo sapeva che erano parole al vento, per cui decise di passare direttamente alle presentazioni.

“Bambine, loro sono la famiglia Schrader, alloggeranno nella dépendance dietro casa finché non riusciranno a sistemarsi adeguatamente, fate le brave e siate gentili con loro...”.

Detto questo le avvicinò a sé per poi presentarle agli ospiti, cominciando dalla prima che era entrata.

“Lei si chiama Dawn, ha dieci anni, mentre la casinista qui presente è Elly, lei ne ha otto”.

Le due sorelle accennarono un sorriso per poi rivolgere un saluto con la zampa quasi in contemporanea, una delle due lepri si fece leggermente avanti, un maschio che a vista aveva più o meno l’età del montone.

“Le sue figlie sono adorabili, signor Bellwether”.

“Niente signore, chiamami Charles e basta”.

La lepre rimase per qualche secondo senza parole di fronte a tanta gentilezza, il loro arrivo a Bunnyburrow era stato a dir poco tragico, venendo rifiutati da tutti, cominciando a pensare che forse non era poi così diverso dall’inferno che si erano, miracolosamente e con tanta fatica, lasciati alle spalle, ma ora finalmente le cose sembravano aver preso una giusta piega, forse c’era ancora speranza.

“Ok...io...il mio nome è Mattia, e lei è mia moglie Cristina” Le pecore voltarono lo sguardo verso l’esemplare femmina di lepre appena presentata, al contrario del marito, che aveva il manto completamente marrone e occhi castani, lei era di un grigio chiaro con macchie bianche qua e là ed occhi viola, anche i tre figli condividevano lo stesso motivo della madre, con l’unica differenza che le macchie erano del colore del padre.
“Mentre loro sono i nostri figli, Enzo, Carla e Moira, hanno quindici anni...”.

“Che nomi strani...da dove venite?”.

“Con calma Dawn, prima perché non gli lasci presentare la famiglia al completo?”.

Finita la frase il montone indicò Cristina, le due pecore si voltarono ad osservarla per poi notare che dietro di lei si nascondeva un’altra lepre, più piccola degli altri, fece capolino da dietro la gonna sgualcita della madre quel tanto che bastava per osservare la situazione, prima che quest’ultima richiamasse la sua attenzione.

“Vunwy Jessica, acle viune, huh ma jiue luhuclana?”.

La piccola leprotta osservò per qualche secondo sua mamma, per poi scuotere la testolina e tornare a nascondersi dietro di lei.

“Scusatela, è un po'...come si dice? Timida, si ecco...” A parlare stavolta fu Mattia, facendo arrivare la famiglia di pecore alla conclusione che la moglie non conoscesse il zootopiano “Comunque lei si chiama Jessica, ha dieci anni, proprio come te...”.

Un sorriso si stampò sul muso di Dawn, che più di ogni altra cosa voleva subito fare amicizia con la sua coetanea, inoltre quando Charles aveva portato da mangiare alla povera famiglia si era accorto subito delle pessime condizioni dei loro abiti, e quelli della più piccola erano messi peggio di tutti, la coprivano a stento e ci mancava poco che andasse in giro mezza nuda.

“Dawn, che ne dici di portare Jessica in camera tua e darle qualche vestito nuovo? Se a voi sta bene ovviamente”.

Mattia annui semplicemente, senza dire nulla, Dawn si diresse quindi verso Jessica, che stava saldamente ancorata alla gonna di sua madre, quasi fosse l’ultimo appiglio prima di cadere in un baratro senza fine.
La pecora le tese una zampina.

“Possiamo essere amiche?”

Jessica la osservò silenziosa per diversi secondi, prima di annuire ed allungare a sua volta la zampa in direzione di quella della pecora, quando fu ad un soffio dal sfiorarla tuttavia sua madre gliela afferrò, mormorandole con voce preoccupata.

“Ycbaddy”.

La piccola alzò lo sguardo verso di lei, preoccupata a sua volta, non le capitava spesso di vedere sua madre così, Mattia in parte capiva le sue paure, tuttavia si rendeva conto che non c’era più alcun pericolo.

“Dacunu, mycleymy yhtyna, huh l'è ymlih banelumu xie”.

A seguito di questa frase detta dal marito, di cui la famiglia di pecore ignorava il significato ma che comunque aveva un che di rassicurante, lasciò la presa sulla zampina della figlia, permettendole di avvicinarsi a Dawn, tuttavia la seguì con lo sguardo fisso lungo tutto il tragitto, finché non sparì al piano di sopra.

Charles aveva osservato la piccola lepre mentre seguiva sua figlia, da una parte ci vedeva un po' di curiosità, probabilmente nello scoprire che abiti avrebbe ricevuto dalla coetanea, ma per lo più la sensazione maggiore era che avesse timore, se di sua figlia o di che altro era impossibile da capire, voleva andare in fondo a questa storia e magari così facendo avrebbe anche saputo qualcosa di più su questa famiglia, tuttavia si rese conto che la storia sarebbe stata tutt’altro che bella, decidendo di mandare l’altra sua figlia a dare una mano a sua sorella, non appena la pecora sparì a sua volta su dalle scale si rivolse a Mattia.

“Posso parlarvi? In privato”.

La lepre osservò prima sua moglie e poi i figli quindicenni, dopo qualche secondo diede risposta al montone.

“Non ce ne sarà bisogno, non abbiamo segreti per i nostri figli, cosa vuole sapere?”.

“Ok, bè mi pare di capire che non siete di queste parti, da dove venite?”.

“Non proprio da qua vicino, Farthingwood”.

Non appena sentì quel nome una smorfia di disgusto si dipinse sul muso della femmina di lepre, che dopo qualche secondo bisbigliò alcune parole tra se e se.

“Suneccanu didde xiakme clrevuce pycdynte, bnatydune te santy”.

Charles, che non aveva capito una parola si volse nuovamente verso Mattia, per chiedere spiegazioni, per poi vedere che lui stesso osservava sua moglie con gli occhi spalancati e la bocca semi aperta.

“Que...questo non credo che glie lo tradurrò, no, non lo farò...”.

Non volle nemmeno immaginare a quale blasfemia la sua ospite si fosse lasciata andare, una cosa era certa, tutta quella famiglia non aveva alcuna voglia di ricordare il suo passato, e lui non voleva certo ficcare il naso, quando sarebbero stati pronti era certo che loro stessi gli avrebbero raccontato tutto.

“Non fa nulla, benvenuti a Bunnyburrow”.











Sarebbe bastato solo un attimo, aveva visto lo sguardo assetato di sangue che quella iena teneva sul muso così come aveva sentito la punta della lama avanzare verso il suo collo, poi un bruciore su quest’ultimo, per quanto intenso non era certo come se lo aspettava, pensava che un affondo mortale di katana facesse molto più male, ricordò perfettamente quando lo fece lei tredici anni prima, con un semplice coltello, la sua prima missione per il NID, una vera e propria strage di un’intera famiglia che, probabilmente, aveva messo i piedi in testa alle persone sbagliate e per questo ne subirono le conseguenze.
Volse lo guardo verso sinistra, distogliendolo da quello del suo aguzzino per osservare la lunga lama, non l’aveva trafitta, l’aveva appena sfiorata, procurandole non un’orrenda ferita mortale, ma poco più che un misero taglietto sul lato del collo da cui usciva pochissimo sangue, era talmente leggero che non sarebbe neppure rimasta la cicatrice.
La iena allontanò la spada da lei per poi riporla nel suo fodero che portava sulla schiena, la osservò serio per qualche secondo prima di prorompere in una fragorosa quanto fastidiosa risata.

“IHIHIHIHIH, la piccola Jess ha paura di me?”.

Con la stessa velocità con cui l’aveva colta di sorpresa, l’intruso allungò la zampa verso di lei, afferrandola per il collo e sollevandola da terra, tuttavia non stringendo la presa.

“La resa dei conti...”

Jessica, che era sempre più terrorizzata da quello che sarebbe potuto accadere da li a poco, decise che era arrivato il momento di tentare il tutto per tutto, strinse il pugno, aspettando solo il momento giusto per colpire il suo aguzzino, la iena avvicinò ulteriormente il muso al suo, ancora pochi centimetri e glie lo avrebbe fracassato a suon di pugni, un’istante prima di colpirlo il suo aggressore gli copri il viso con la zampa, su cui teneva un pezzo di carta.

“Debito saldato”.

Sentì la presa lasciarla andare, atterrando sul pavimento della cucina sulle sue zampe, per poi togliersi dal muso quel pezzo di carta, che vide poi essere una banconota da cento.

“Ma...cos...che cazz...”.

“Come? Non ricordi? Me li prestati quindici anni fa, te lo dicevo che...ahahah...prima o poi sarei tornato...ihihih...a...saldare il ...contooooo”.

Proruppe in un’altra risata, ancora più forte di quella prima, Jessica dalla sua sentiva l’infarto sopraggiungere, le serviva uno sfogo e all’istante, per cui, senza pensarci troppo, sferrò un violento calcio nelle palle al suo vecchio mentore, così forte che ebbe l’impressione di avergliele spedite in gola a fare salotto con le tonsille, ora dalla bocca del predatore non usciva più una risata lacerante per i timpani, ma niente più che un debole singulto appena udibile, mentre si accasciava al suolo.







Note

Eccomi qua, ce l’ho fatta alla fine, questo capitolo è stata un’agonia, non tanto per il capitolo in se ma più che altro che il tempo per scrivere è sempre meno...
Comunque, come dicevo a Redferne, qua c’è una piccola chicca, sto parlando della lingua nativa della famiglia Schrader, in primis devo dire che è un lascito di una mia storia interrotta che dubito vedrà mai una fine, War never change, doveva essere il linguaggio utilizzato dai velkani, ora verrà utilizzato qui, assieme ad altre idee che avevo per quella storia, in secundis questa lingua non è una semplice accozzaglia di lettere buttate a caso, sta qui la chicca che dovete trovare, capire da dove l’ho presa, vi do un aiuto, è un linguaggio fittizio di un popolo rinnegato che vive su di un’isola deserta.

Ringrazio Redferne per la recensione al precedente capitolo ed EnZo89 per quelle ai capitoli flashback.

Alla prossima
Davide

2340 parole
   
 
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