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Autore: _Woodhouse_    27/06/2019    5 recensioni
❝Lo osservò dormire, sfiorando di tanto in tanto le linee insidiose delle sue costole, incastrata negli occhi di un altro, nel ricordo del suo respiro, affogata, vittima masochista del piacere che le procurava il ricordo della tensione che si librava fra i loro corpi e della complicità che aveva avvertito, mentendo insieme a lui, due volte e senza ragioni.❞
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 17.


So I run to the Lord
Please hide me, Lord
Don't you see me prayin'?
Don't you see me down here prayin'?
But the Lord said
Go to the Devil, the Lord said
Go to the Devil
He said go to the Devil
All on that day.
So I ran to the Devil
He was waitin', I ran to the Devil
He was waitin', ran to the Devil
He was waitin', all on that day.







Era stata una giornata da dimenticare quella, per James. Si era svegliato di soprassalto ancora prima del suono della sveglia e il resto della giornata lo aveva trascorso per gran parte con la testa china sulle scartoffie o di fronte al laptop. Nel giro di dieci ore aveva pensato di lincenziare Carol, la segretaria, all'incirca diciassette volte, esattamente ogni volta che aveva bussato, trafelata, per chiedergli l'ennesima conferma su quello o quell'altro. Ma ovviamente si era trattenuto dal farlo, nonostante  ne fosse fortemente tentato considerato che il compito di Carol avrebbe dovuto essere quello di facilitargli la vita, non di complicargliela. In più, non riusciva a concentrarsi, ma quello - certo - non dipendeva da lei.
Alle cinque del pomeriggio non aveva ancora nemmeno pranzato, ma non ne sentiva il bisogno da giorni, in realtà: mangiava per pura abitudine. Sentiva più che altro la necessità di bere, di rifugiarsi al club tutta la notte e godere dell'effimera perdizione che gli aveva sempre regalato.
Il club Limbo gli era sempre piaciuto, dalla prima volta che vi aveva messo piede con John, il suo amico più caro, ai tempi dell'università. In un modo paradossale e tutto suo, quel posto gli dava un senso di consolazione e libertà. E gli piaceva proprio per quell'atmosfera da speakeasy in grado di trasportarlo fuori dal tempo, in una dimensione che si intonava perfettamente a quella dei suoi sogni.
Quella sera vi si recò, senza nemmeno tornare a casa a cambiarsi. La camicia bordeaux leggermente sgualcita sul colletto gli liberava ormai del tutto la gola; in tasca un pacco di sigarette e sul volto l'immancabile sorriso obliquo.
Le luci soffuse, rosse, sinuose, lo avvolsero completamente, mentre si muoveva flemmatico tra i divanetti per raggiungere il grande bancone marmoreo. Il barman, vedendolo sopraggiungere e sedersi sullo sgabello di fronte a lui , lo accolse con un sorriso.
Arrivo, mimò con le labbra, mentre riempiva di cognac i bicchieri di due uomini in camicia e cravatta. Poliziotti, pensò James segretamente divertito. Avrebbe riconosciuto ovunque quella che lui definiva "la pacchiana eleganza maldestra degli agenti di polizia nelle notti di bisboccia".

– Chi si rivede! – fece il barman, rivolgendosi a James, il quale gli rispose con un'alzata di spalle e un sorriso accennato. – Il solito?
– Ci puoi scommettere.
James ruotò sullo sgabello, poggiando i gomiti sul bancone per godersi la vista dei tavolini illuminati da candele e lampade dal gusto retrò. La musica, intorno a lui, proveniva dall'elegante pianoforte al centro della sala, imponente ed illuminato da un'occhio di bue di calda luce gialla. Le note di Save my soul dei Big bad Voodoo Daddy, una di quelle musiche da speakeasy che lo facevano impazzire, s'infrangevano sulle pareti ricoperte di immagini di Humprey Bogart, vecchie copie di poster degli anni del proibizionismo e alcuni dipinti blasfemi rappresentanti passi biblici di discutibile interpretazione. James sollevò un angolo delle labbra, appagato, socchiudendo gli occhi  e inspirando l'aria, come se in qualche modo potesse respirare quell'atmosfera tanto perfetta al punto da renderlo - come ogni volta - schiavo e febriccitante.
– A te.
Il barman, Cole, attirò la sua attenzione e gli fece scivolare fino alle mani un bicchiere di bourbon finemente invecchiato – il suo preferito. Entrambi guardarono verso il pianoforte.
James si avvicinò il bicchiere alle labbra, senza smettere di fissare lo strumento nero al centro della sala.

– Non ci delizi stasera? – domandò Cole, indicando il pianoforte con un cenno del capo.
– Sono qui proprio per questo. – Il sorriso compiaciuto di James accese lo sguardo dell'altro, come se non aspettasse altro.

James abbandonò lo sgabello, come attratto da una forza invisibile, lasciando il bicchiere di bourbon dondolarsi tra le dita. Il suo sguardo incontrò quello liquido di Madison, la musicista, la quale sorrise e gli lasciò campo libero, sfilandogli accanto.

– Cerca di non esagerare o mi rovini la piazza.

Il respiro di liquirizia della donna lo inebriò, poi spalancò le braccia come a dire "rassegnati".
Posò il bicchiere sulla superfice liscia del piano, si accomodò sullo sgabello e lasciò che le dita accarezzassero i tasti, in un ritmo che si sarebbe potuto definire fin da subito dannato.
Dalla cassa armonica del grande strumento si propagò la malia scalpitante delle note di Sinnerman.
Perché era così che si sentiva: dannato, incastrato nel peccato, in fuga verso il fiume, verso il mare, verso Dio o chi per lui. Quello che James stava facendo non era semplicemente suonare ammutolendo chiunque intorno a lui, quello che stava facendo era pregare.
Era così che faceva, era così che si rivolgeva al suo aguzzino ogni volta che le sue certezze minacciavano di crollare. James non era un uomo religioso, la misericordia anelata dal resto della gente non gli importava. James aveva bisogno di credere nel suo personale dio spietato, per riversargli addosso il biasimo e la rabbia che altrimenti, se rivolta a se stesso, avrebbe rischiato di devastarlo. Era così che si sopportava. Da sempre.  E mai prima come di quel  momento della sua esistenza aveva avvertito tanto brutalmente il bisogno di sopportarsi. Di sopportare quei  pensieri sbagliati, che lo coglievano di sorpresa nei momenti più impensati, lasciandolo completamente stordito. Era sempre stato convinto che il peccato fosse molto più nitido, chiaro da individuare, rintracciabile nelle azioni, nelle parole pronunciate. Qualcuno una volta gli aveva detto "pensare non è peccato" ed era vero, o almeno lo era prima, prima di lei.

La musica si era conclusa.

Madison lo raggiunse con la sua camminata un po' scoordinata per via dei tacchi alti.
– Beviamo qualcosa insieme? – le propose.
– Perché no? – Si aggrappò al braccio che lui le porse e si diressero verso un piccolo divano di pelle scura. James lasciò che Madison si sedesse e fece cenno a Cole di servire ad entrambi il solito. In un attimo le fu accanto, passandole un braccio intorno alle spalle.

– Non ti fai vivo da due settimane. Cos'è, hai cambiato giro? – gli domandò Madison, scrutandolo in viso coi suoi occhi scuri dal taglio orientale.
– Per chi mi hai preso? - fece lui fingendosi offeso. – Non giro per locali come un adolescente o come quei due. – Le indicò i due in cravatta. I poliziotti.
– Che hanno che non va quei due? – chiese lei divertita.
James sollevò un sopracciglio, incredulo.
– Tutto?
– Sei tremendo, – fece lei, stringendo le labbra e  alzando gli occhi al cielo.
Lui sollevò le spalle come a discolparsi e le rivolse un sorrisetto maladrino.
– A proposito dell'essere tremendo, - proseguì, – Claire?
Nello sguardo di Madison emerse una punta di rimprovero. Nel frattempo arrivarono i drink, ma James preferì lasciare il suo sul tavolino e accendersi una sigaretta.
– Vuoi? – le chiese offrendole il pacchetto.
– Non fumo più, lo sai. Non cercare di fare il finto tonto, – lo rimbrottò.
– A proposito di cosa?  
– Uomo impossibile... – fece l'altra, rassegnata. – A proposito di Claire!
– Uhm. Come sta? – le domandò con aria innocente.

Claire. Era stato così preso dal lavoro, dai ripetuti spostamenti e dal recente odio smisurato verso la propria persona e verso quella di lei, che si era letteralmente dimenticato di richiamarla. Ricordava solo adesso di averglielo promesso e sapeva di essere nel torto, ma non poteva assumersi la colpa anche di questo. Era già scandalosamente e insopportabilmente pieno di colpe.

– Sta bene, ma lo sapresti anche tu se l'avessi richiamata.
James inspirò una boccata di fumo, per poi lasciarla defluire lentamente dalle labbra.
– Ero obbligato a farlo?
– No, certo che no. Ma sarebbe stato carino. Credevo ti piacesse, insomma, vi siete visti per quanto, due mesi?
– E con questo?
James sollevò un sopracciglio.
– Niente. Dico solo che avresti potuto farti vivo.
– Se è per questo anche lei, – fece lui, asciutto.
– E' diverso, James.
Lo guardò di traverso.
– Diverso? – sbuffò derisorio. – Se voleva vedermi avrebbe potuto chiamarmi. Ma voi donne siete così: blaterate tanto sulla parità dei sessi e poi rimanete ad aspettare la chiamata del principe come delle comuni provincialotte del tardo rinascimento.
– Sul serio? – gli domandò, incredula di fronte ad una simile faccia tosta. – Lasciamo perdere. Ho capito: non mi immischio.
– Ecco, questo lo trovo sensato, – disse lui, sarcastico.

Bevvero un sorso insieme e alla fine Madison accettò una boccata di sigaretta, ma solo una.
Conversarono del più e del meno, ridendo dei tempi in cui John ci provava spudoratamente con lei, ancora ignaro di non essere esattamente il suo genere.

– E in ogni caso avrei sicuramente scelto te. – Rise. – Non ne ho dubbi.
– Nemmeno io. Non capisco sinceramente perché tu abbia sentito il bisogno di specificare una cosa tanto ovvia, – disse lui.
– Be', in effetti, perché darti un altro motivo per autocompiacerti? – Scuoté la testa divertita. – Facciamo che con la tua perfomance di stasera te lo sei guadagnato.
– Mi sono particolarmente divertito, in effetti, – disse sovrappensiero, fissando un'abat-jour in lontanza.
– Divertito non lo sembravi, però. – Madison si morse un labbro, un po' incerta. – Eri strano.
– Spiegati.
– Sicuro che vada tutto bene? – Fece una pausa, scrutandolo come se avesse paura di una sua reazione. James non era esattamente il tipo da confidenze. – Sembri... stressato. Problemi a lavoro?


Sul volto di James si dipinse un'espressione imprecisa, in bilico tra l'ironia e l'amarezza.

– No, stiamo solo cercando di allargarci e questo comporta il triplo del lavoro. Sono semplicemente stanco, – precisò.

Ed era vero. Era molto stanco, stanco di detestarsi tanto. Stanco di non dormire per paura di sognare, stanco di aspettare un cenno, senza sapere nemmeno quale. E a che scopo, poi?

– Tanto stanco che è meglio che vada a casa o tra un po' non riuscirò nemmeno a guidare.
– Prometti di non sparire più per così tanto, però. Non trattare questo posto come se fosse una provincialotta del tardo medioevo.
– Rinascimento, – la corresse lui, sogghignando con impertinenza.
– Oh, quello che è! – Avrebbe voluto strozzarlo, ma invece gli lasciò un bacio sulla guancia, prima di abbandonare il suo posto accanto a lui.
– Buonanotte, Draper.
Le sorrise, sincero, spegnendo la sigaretta all'interno di un posacenere.
– Buonanotte, Madison.

Aveva sbagliato tutto, lo sapeva. Cosa gli era saltato in mente rivelandole di averle infilato il libro in borsa? Cosa aveva sperato di ottenere? Era in auto, con gli occhi che minacciavano di chiudersi. Da quando non dormiva decentemente? Una settimana? Era inutile fingere di non saperlo, di non tenere il conto dei giorni - cinque - trascorsi da quella sera. Eppure sembrava trascorso nient'altro che un soffio e questo per colpa degli incubi che lo assillavano tutte le notti, mostrandogli come un in loop psichedelico quel bagno dalla luce mozza e il riflesso dei suoi occhi nerissimi farsi sempre più scuri fino a risucchiarlo in una bolla di fumo. Poi, si ritrovava puntualmente al buio, ansante, incapace di scorgere uno scorcio di luce, fino a che un Robb tredicenne semplicemente non apriva la porta, sorridendogli: Jamie!


 
***


 
Aveva appena consegnato la sua relazione su Anne Brontë al professore di Letteratura inglese e già pensava a come passare il tempo libero che le era stato restituito. Si stava incamminando verso l'uscita, quando per i corridoi della facoltà, d'improvviso, avvistò Rebecca, un'ex compagna di liceo che seguiva dei corsi lì nonostante fosse iscritta ad un' altra facoltà. Si nascose dentro la prima aula aperta che le capitò a tiro e si schiacciò contro il muro, stringendo le gambe. Detestava incontrare i suoi compagni di liceo perché le ricordavano un tempo di cui lei voleva perdere ogni ricordo. Erano tutti uno spettro della vita che cercava di dimenticare, fatta di incomprensione e pettegolezzi. A quel tempo ognuno di loro aveva creduto di conscerla, sbagliando, mancando il punto. Josephine era sempre stata una ragazza schiva: non aveva mai preteso di essere accerchiata da decine di persone pronte ad adularla. No. Aveva sempre e solo preteso di non essere giudicata, perché nessuno di loro aveva gli strumenti necessari per farlo. Nessuno di loro sapeva.
Adesso, nella sua nuova vita fatta di compromessi con se stessa, Jo si sentiva lontana da loro e da quello che non sapevano e che lei si impegnava a non ricordare. Come poteva permettere allo sguardo di uno di loro di riportarla così indietro nel passato? Preferiva nascondersi come una codarda. Preferiva nascondersi, quando poteva. Tuttavia, avrebbe voluto potersi nascondere anche dai suoi pensieri, da quel filo invisibile che le si allacciava alle dita per trascinarla a quella sera, ripetutamente. Quella sera, lui e quel filo non erano altro che una versione tutta nuova di ciò che erano stati i suoi compagni di liceo: il promemoria che in lei ci fosse qualcosa di guasto.

Quando fu sicura di aver scampato il pericolo, Jo sgusciò via dall'aula, sapendo esattamente dove andare.


– Che ci fai qui? – Robb l'accolse tra le braccia, incredulo. Lei vi si accocolò brevemente, scansandosi subito dopo aver intercettato, dietro le spalle di Robb, lo sguardo curioso di Francis.
– Hey Jo! – fece questo sventolando tra le mani una lunga sequenza di negativi. Jo gli sorrise e prese per mano Robb, che confuso si lasciò trascinare fino alla camera oscura. Quando furono dentro, Jo chiuse la porta con uno scatto.

– Sono qui per questo.

Gli intrecciò le braccia intorno al collo e lo baciò, facendo aderire la schiena di lui alla porta chiusa. Si sollevò sulle punte per poter intensificare il bacio, mossa che  fece gemere Robb sulle sue labbra. In un attimo le loro posizioni si ribaltarono. Robb la sollevò per le cosce, facendole risalire sui fianchi la gonna e cominciò a baciarle le orecchie, la mandibola, la scollatura. Jo lo lasciò fare, abbandonando la testa all'indietro, sorridendo appagata.

– Credevo che non sarebbe successo mai più, – mormorò Robb tra un bacio e l'altro.
– Non stiamo per farlo, Robb, – disse lei sulla sua bocca. – Non con Francis dietro la porta.
– Ma tu non sei rumorosa, possiamo fare tutto quello che... - Le labbra di Jo lo catturarano di nuovo.
– Ma tu lo sei, – replicò lei, passandogli le unghie sotto la maglietta, sulla schiena.
– Tu mi vuoi morto, – sospirò, poggiando la fronte sul seno di lei, per poi abbandonare la presa sui suoi glutei e rimetterla giù. Jo si sistemò le pieghe della gonna con un gesto rapido.

– Stasera, – gli sussurrò all'orecchio.

Lui la guardò con aria incerta, un po' scettico.

– Non mi fido di te, mia cara.
– Sei un uomo senza fede, – fece lei mettendosi braccia conserte, teatralmente offesa.
– Ho avuto fede per quanto? Una settimana? Finisci puntualmente addormentata con quello stramaledetto libro in mano!

Non una settimana.
Cinque giorni.


– Non c'entra niente quel l-libro. – Deglutì. – Ero stanca, mi sono ridotta all'ultimo con quella relazione e ho dovuto fare le capriole per poterla consegnare oggi. – Gli occhi le saettarono da un punto all'altro della stanza, cercando appiglio. Non voleva pensare a  quella storia. Non con il respiro affannato di Robb ancora addosso.

– Sarà. Staremo a vedere.

Lo sguardo di Robb era ammiccante, mentre quello di Jo era invece già irrimediabilmente smarrito al pensiero di dover rinunciare ad una notte intera di poesia.
   
 
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