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Autore: Parmandil    29/06/2019    0 recensioni
Per più di due secoli gli Archivi D’Arsay sono stati un mistero archeologico della Federazione. Antichi di ben 87 milioni di anni, celano una sorprendente tecnologia, capace di trasmutare la materia, unita però a una cultura simbolica e ritualistica di difficile interpretazione.
Quando la sonda-archivio minaccia di trasformare una colonia federale nella replica dell’antica D’Arsay, la Keter deve intervenire. Solo un viaggio nel remoto passato potrà svelare il mistero di quell’antica civiltà, col suo misto di raffinate tecnologie e di riti sanguinari. I nostri eroi dovranno affrontare Masaka, la crudele regina-dea, incarnazione del Sole. Risvegliatasi dal lungo sonno, Masaka intende riportare la sua civiltà agli antichi fasti. Forse solo il suo antico compagno Korgano, il dio-luna, potrà placarla, sempre che si riesca a evocarlo. Ma quando anche i Breen reclamano il possesso di quel mondo strategico, il Comandante Radek dovrà decidere quale fazione appoggiare. Sapendo che, chiunque vinca, l’Unione perderà.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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-Capitolo 4: Il mondo conteso

 

   La sonda-archivio attendeva nell’orbita di Ultima Thule, identica a come l’avevano lasciata. Dal suo punto di vista, e da quello dell’intero Universo, la Keter era sparita solo per dieci secondi. «Bene... ora possiamo affrontarla con più cognizione di causa. Chiedo il permesso di tornare a bordo per inserire questa» disse Juri, rigirandosi nervosamente l’unità di memoria tra le mani.

   «Credevo che non le piacessero le missioni sul campo» notò il Capitano.

   «No, infatti. Ma prima la sistemo, prima questa storia finirà... spero» disse lo storico.

   «Può andare, assieme al signor Dib. Noi però dovremo allontanarci per proteggere la Keter dalla trasmutazione» avvertì Hod. «Già che ci siete, vi chiedo anche di scaricare le opere letterarie contenute nell’Archivio. Così non andranno perdute, se saremo costretti a distruggerlo. Avvisateci quando avrete fatto, così verremo a riprendervi».

   «Intesi» disse Juri, andando a prepararsi.

   «Stavo pensando a una cosa» disse Vrel. «Sappiamo perché Masaka vuol tenersi Radek. Se adesso le diamo Korgano... non credete che il Comandante sarà a rischio?».

   «È un rischio che si è assunto stringendo quell’accordo» rispose il Capitano, ancora indispettita. «Comunque, appena avremo conferma del ritorno di Korgano, manderemo una squadra di salvataggio» promise.

 

   Dib e Juri si materializzarono nella sala cubica, a bordo della sonda-archivio. Lo storico indossava la tuta spaziale, mentre l’Ingegnere Capo aveva la solita tuta termica. I due si guardarono attorno. «Vedi una presa di memoria?» chiese Juri.

   «Potrebbe essere questa». Il Penumbrano indicava una fessura nel muro, posta al centro della parete. Era della misura giusta per inserirvi il dispositivo.

   «Sembra adatta» disse lo storico, osservandola da vicino. «Ma chissà se funziona, dopo tutto questo tempo. Il meccanismo sarà fragile... spero di non romperlo».

   «Mi faccia inserire l’unità mnemonica. La mia presa è più sensibile di quella umana» consigliò Dib. Ricevuta l’unità, la introdusse con estrema lentezza, stando attento a non provocare cedimenti nel congegno.

   «Bentornato a casa, Korgano» commentò Juri. Recatosi alla parete opposta, attivò l’interfaccia olografica e prese a scorrerne i glifi. «E dai, amico, non farti desiderare...» mormorò, con la tuta che doveva lavorare al massimo per asciugargli il sudore. Finalmente si arrestò davanti a un nuovo simbolo. Era il glifo argenteo di Korgano, ma stavolta era circondato da numerosi raggi, che gli davano un’aria più sfavillante. «Il marchio del Cacciatore!» si emozionò. «Con quei raggi attorno, ha la stessa dignità di Masaka».

   «Quel glifo non c’era, l’altra volta» notò l’Ingegnere Capo. «Questo sembra confermare che viene dall’unità di memoria».

   «Lo scopriremo presto» disse Juri, con un certo batticuore. «Forza, Cacciatore... è tempo di tornare in pista» aggiunse, premendo il simbolo. Stavolta non apparve alcuna maschera. Se Korgano si era manifestato, lo aveva fatto a terra, in mezzo agli altri D’Arsay. «Okay, scarichiamo la loro letteratura e battiamocela» disse lo storico. Lui e Dib armeggiarono per un pezzo tra i glifi olografici, cercando di riconoscere i documenti che contenevano i racconti mitici. Quando ritennero di aver fatto, Juri contattò la nave: «Smirnov a Keter, missione compiuta. Ora vorremmo tornare».

   Dall’astronave non giunse alcuna risposta. Juri attese dieci secondi, poi ripeté il messaggio. Ancora niente. «Ohi, ohi» si lamentò. «Speriamo di non aver combinato un pasticcio».

   «Keter a squadra, restate in attesa. Ci sono complicazioni» giunse la voce del Capitano.

   «Che tipo di complicazioni? Korgano c’è o no?» volle sapere lo storico.

   «Non lo sappiamo, ma al momento è irrilevante».

   «Come sarebbe, irrilevante?!» s’indignò l’Umano. «È per questo che abbiamo viaggiato nel...».

   «Silenzio, potrebbero intercettarci!» lo zittì Hod.

   «Chi potrebbe intercettarci?» chiese Juri, sempre più allarmato.

   «I Breen. Sono sbucati dal nulla e vi hanno circondati con una flotta».

 

   L’armata Breen si componeva di ben 24 navi da guerra, quasi tutte del modello più recente. Era una forza militare schiacciante. Il Capitano Hod capì subito che doveva evitare lo scontro. La Keter era tra le navi più potenti della Flotta, ma contro così tanti avversari le possibilità di vittoria erano pari a zero. «Possiamo teletrasportare i nostri?» chiese.

   «Per passare attraverso tutto quel fortanium, dovremmo avvicinarci tanto alla sonda da entrare nel raggio delle armi nemiche» rispose il tecnico.

   «La nave di testa ci chiama» avvertì Zafreen.

   «Sullo schermo» disse il Capitano, preparandosi al confronto.

   Un Breen le apparve davanti. Indossava la solita corazza con casco che nascondeva l’aspetto, ma i dettagli in oro lo indicavano come un militare di alto rango.

   «Sono Thot Vur e rappresento la Confederazione Breen» si presentò l’alieno, con la voce metallica del sintetizzatore vocale. «Sono qui per reclamare la proprietà di questo pianeta, che l’Unione ha abbandonato».

   «Lei è male informato. Non lo abbiamo abbandonato» ribatté il Capitano, mantenendo la calma.

   «L’ultima delle vostre navi trasporto è uscita dal sistema» disse il Breen, inflessibile. «Non ci sono più civili né personale federale a terra».

   «C’è il mio Primo Ufficiale» lo contraddisse Hod. «E in ogni caso, l’Unione non ha rinunciato alla proprietà di Ultima Thule. Abbiamo solo evacuato i coloni in misura cautelare, mentre ci occupiamo di una pericolosa sonda aliena. Vi consiglio di starle alla larga... potrebbe compromettere le vostre navi».

   «Allora la distruggeremo noi per primi» disse Thot Vur.

   «No! Ho due dei miei a bordo» lo fermò il Capitano.

   «Dunque la sonda non è così pericolosa» rispose prontamente il Breen. «Le propongo un accordo: vi permetteremo di riprendere i vostri ufficiali e distruggeremo quel manufatto alieno prima che faccia danni. Dopo di che, occuperemo la colonia abbandonata».

   «Questo è inaccettabile» disse Hod, conscia della posizione strategica del pianeta. «La vostra azione costituisce un attacco militare contro l’Unione».

   «Non desideriamo lo scontro» assicurò Thot Vur. «Ma per mostrarvi la serietà della nostra rivendicazione, porremo un blocco navale attorno al pianeta. E alla sonda».

   «Vi ho detto che ho due persone a bordo».

   «E la loro riserva d’aria si sta esaurendo» completò il Breen. «Questo vi servirà d’incentivo per accogliere la nostra richiesta».

   «Conferirò col Comando di Flotta... non aspettatevi che quest’aggressione vi dia qualche risultato» avvertì Hod. Al suo segnale, la comunicazione fu chiusa.

 

   «In una parola, no» disse l’Ammiraglio Chase. Il Capitano stava comunicando con lui dall’ufficio, su un canale criptato. «Non possiamo assolutamente cedere Ultima Thule. Porterebbe i Breen troppo vicini ai mondi cardassiani, alzando ulteriormente la tensione. E ci farebbe apparire deboli. Per i Breen sarebbe un incentivo a osare ancora di più».

   «Ne sono consapevole» disse il Capitano. «Ho già detto a Thot Vur che non gli cederemo il pianeta. Ma ho due dei miei ancora sulla sonda e la loro autonomia è limitata. C’è anche Radek a terra. Il patto con Masaka dovrebbe proteggerlo... sempre che la regina rispetti gli accordi» disse con una certa frustrazione.

   «Anche di questo non possiamo essere sicuri» disse l’Ammiraglio. «Cerchi di recuperare i suoi con un’azione stealth, ma eviti lo scontro coi Breen. La Flotta sta attivando tutti i canali diplomatici per gestire questa crisi».

   «Qualche nave in più mi farebbe comodo» disse Hod, speranzosa.

   «Le manderò dei rinforzi» promise Chase. «I Breen vogliono saggiare la nostra determinazione. Se sperano di farci arretrare, si sbagliano. Siamo stati risoluti nelle ultime crisi e lo saremo in questa».

   «Che devo fare, se iniziano a sbarcare truppe?».

   «Quello che farebbe in caso di attacco a un nostro qualunque avamposto» rispose l’Ammiraglio. «Certo che sarebbe più facile se sapessimo com’è la situazione sul terreno. Che combinano le entità D’Arsay?».

   «Fanno come a casa loro» rispose il Capitano. «La trasformazione della città è quasi completa. Masaka si accinge a governare col terrore il suo popolo di ologrammi. Se Korgano tornasse, le cose potrebbero migliorare... forse».

   «Verifichi la situazione. Quegli esseri potrebbero rivelarsi l’ago della bilancia di questa crisi» avvertì l’Ammiraglio. «Per difficile che sia, cerchiamo di averli dalla nostra. Chase, chiudo».

 

   La palla dorata compì un perfetto volo ad arco, passando nell’anello di pietra agganciato verticalmente nel muro. Quando rimbalzò a terra, Radek la prese al volo. La folla D’Arsay proruppe in esclamazioni di giubilo. Grazie agli Emettitori da braccio, e ad altri moderni emettitori a irradiazione posizionati in giro per la città, i D’Arsay avevano ormai piede libero in tutto l’abitato.

   «Non sapevo che giocassi a pallavolo» commentò Radek, restituendo il pallone a Masaka. La luce dell’alba riverberava sui gioielli e sulla pelle spruzzata d’oro della proiezione isomorfa.

   «Credi che sia uno sport? Questo è un rito sacro» spiegò la regina, prendendo attentamente la mira. Lanciò il pallone, facendo ancora centro. La folla andò di nuovo in visibilio. «Il movimento della palla simboleggia quello del sole... cioè di me... nel cielo» disse Masaka con soddisfazione. «È un rituale che si eseguiva annualmente nell’antica D’Arsay. Questi canestri che faccio ora sono solo il preambolo. Fra poco ci sarà la partita vera e propria, fra due squadre. Quando sarà finita, i perdenti saranno sacrificato in mio onore».

   «Lasciali vivere» disse subito Radek.

   «Come vuoi... al loro posto sacrificherò i vincitori» decise la regina.

   «Non devi sacrificare proprio nessuno» insisté il Comandante.

   «Se non uccido qualcuno ogni tanto, il popolo scorderà chi sono» obiettò Masaka, con humour nero.

   «Tu vuoi essere temuta. Non sarebbe meglio essere amata?» le suggerì Radek, porgendole di nuovo la palla.

   «Se fossi entrambe le cose?» ribatté la sovrana, squadrandolo con sufficienza. «No, non darmela. Lancia tu!» lo esortò.

   «Va bene...» sospirò il Rigeliano. Aveva sperato di moderare i suoi eccessi, dandole i giusti input, ma la regina era difficile da ammansire. E finché controllava gli altri ologrammi, era lei ad avere l’ultima parola. Tra i piani di Radek c’era toglierle questo controllo, accedendo alla sua matrice olografica. Ma prima doveva guadagnarsi la sua fiducia, tanto da potersene andare in giro indisturbato.

   Il Comandante mirò attentamente al cerchio di pietra. Ai tempi dell’Accademia era bravo a pallacanestro, ma dover centrare un anello posto verticalmente lo disturbava un po’. Prese la mira con gran cura, non volendo sfigurare rispetto a Masaka. Stava per lanciare quando una freccia centrò il pallone, facendoglielo esplodere tra le mani, e si piantò nel muro retrostante. «Frell!» imprecò Radek, voltandosi verso l’aggressore.

   Era un D’Arsay alto e muscoloso, coi capelli tagliati alla moicana. Indossava un gonnellino argenteo e aveva persino la pelle cosparsa di polvere argentata. La maschera lo identificava inequivocabilmente come Korgano. E nel suo arco era già incoccata una nuova freccia, diretta al cuore di Radek. «Chi sei tu, che usurpi il mio ruolo?» chiese con voce stentorea.

   Un mormorio stupito corse tra la folla. Masaka fissò il nuovo arrivato, come fulminata. «Korgano!» esclamò, perdendo la sua calma regale.

   «Io e non altri» confermò il Cacciatore, facendosi avanti. La sua freccia era ancora puntata contro Radek. «Rispondi alla mia domanda, straniero» disse in tono perentorio.

   «Sono il Comandante Radek, della nave stellare Keter» rispose il Rigeliano, pressato contro il muro di pietra. Si era trovato molte volte in situazioni pericolose e in qualche modo ne era sempre uscito; ma stavolta non scommetteva un soldo bucato sulla sua sopravvivenza.

   «Nave stellare?» chiese Korgano, corrugando la fronte. «Conosco bene i sentieri del cielo. Non ricordo di aver mai incontrato questa tua nave».

   «Si trova sopra le nostre teste, in orbita» disse Radek, non sapendo come spiegarsi in modo comprensibile. Korgano ragionava ancora in termini mitici: non aveva accesso alla banca dati federale che permetteva a Masaka di agire con più cognizione di causa.

   «Se anche dicessi il vero, Comandante, questo non ti dà il diritto d’insidiare la mia sposa» disse Korgano con severità. «Dovrei ucciderti per questo. Oppure potremmo batterci in duello. Sì... una sfida mi sembra la soluzione più onorevole».

   «No, fermo!» disse Masaka, frapponendosi. «Tutto questo non è necessario».

   «Mi sorprendi, mia diletta» disse Korgano, abbassando l’arco. «Un tempo mi avresti incitata tu stessa a uccidere lo straniero. Ma sei cambiata... non hai nemmeno la maschera».

   «Non ne ho bisogno» rispose la regina. «Ho imparato molte cose nuove, dal mio ultimo risveglio. Le sto ancora... elaborando» disse, con uno sforzo che tradiva il continuo stress delle sue subroutine.

   «Di che novità parli?» chiese Korgano con vago interesse.

   «Siamo in un nuovo mondo» rispose Masaka, evasiva. «Questo è il primo giorno della nuova era. Dobbiamo istituire l’ordine delle cose, come facemmo all’alba dei tempi. Ricordi? Era questa la nostra missione».

   «Sì... creare una nuova D’Arsay» annuì il Cacciatore.

   «Ma tu ti sei scordato di me. Hai smesso d’inseguirmi» disse Masaka in tono accusatorio. Radek notò che parlava di nuovo in termini mitici e si chiese se lo facesse deliberatamente, per essere più comprensibile.

   «Ero stanco di questa caccia senza fine» disse Korgano. «Tu eri sorda alle mie parole. Così mi sono allontanato... è possibile che abbia commesso un errore».

   «Ma io ti voglio ancora al mio fianco!» assicurò Masaka, accostandosi. «Sono incompleta... lacerata, senza di te. Non posso ricostruire il mondo da sola. So che anche tu mi rivuoi... altrimenti non te la saresti presa con lo straniero».

   «Mi conosci bene» disse Korgano, abbozzando un sorriso. «Lo ammetto, sei riuscita a farmi ingelosire. Forse valeva la pena separarci così a lungo... perché la gioia della riconciliazione fosse più intensa». Gettò l’arco e si levò anche la maschera. Poi prese la compagna tra le braccia e la baciò a lungo, fra gli applausi del popolo.

   «Ricostruiamo questo mondo, assieme» disse Masaka quando le loro labbra si separarono.

   «Così sia» convenne Korgano, tenendola ancora fra le braccia. «E di lui che facciamo?» chiese, accennando a Radek.

   «Ehm... col vostro permesso... io toglierei il disturbo...» fece il Rigeliano, muovendosi come un granchio verso l’estremità del muro.

   «Altolà!» lo richiamò Masaka. «Permettendo ai coloni di andarsene, mi sono esposta a un rischio. La tua gente potrebbe contrattaccare, per riconquistare la città. La tua presenza ci offre qualche garanzia».

   «Vuoi trattenermi comunque?» chiese il Comandante, sconfortato.

   «Devo farlo» disse la regina. Al suo cenno, i guerrieri circondarono Radek. «Scortatelo in cella. Fate che abbia cibo e acqua... ma badate che non scappi».

   Radek fece per protestare, ma le parole gli morirono in gola. Per gli standard di Masaka, quello era già uno sfoggio di benevolenza. Né poteva sperare nella compassione di Korgano. Per quanto sembrasse più moderato, il Cacciatore lo aveva sorpreso in una situazione troppo compromettente. Il Rigeliano lasciò quindi che le guardie lo scortassero verso la piramide, dov’erano le prigioni. Strada facendo, pensò che probabilmente erano stati i suoi colleghi a far manifestare Korgano, nella speranza che esercitasse un influsso positivo su Masaka. «Peccato che l’abbiano fatto mentre io sono qui».

   Intanto, nello stadio, i sovrani stavano salendo sulla tribuna d’onore quando Masaka si bloccò. «Che ti succede?» chiese Korgano, preoccupato dalla sua espressione.

   «I sensori rilevano una nuova flotta in orbita» mormorò la regina. «Questi non sono federali... sono Breen!». Nemmeno la rabbia riusciva a nascondere il timore che si era impadronito di lei.

   «Di chi parli?» si stupì Korgano.

   «Sono avversari che potrebbero distruggere tutto ciò che stiamo costruendo. Questa città era un avamposto contro di loro... ma non può difendersi da una flotta così grande» spiegò Masaka. Attinse alle conoscenze di Thule, che aveva integrato nelle proprie, per elaborare una contromossa. «Attivo lo Scudo Cittadino. Ci proteggerà almeno per un po’» disse. Nel trasformare la città, era stata attenta a non privarla delle difese. La rete energetica era ancora operativa e così i generatori degli scudi. Quando inviò l’ordine, lo scudo a cupola si attivò prontamente, avvolgendo l’abitato. Da terra parve che il cielo fosse divenuto perlaceo, a causa delle turbolenze atmosferiche che rendevano visibile lo scudo. I D’Arsay alzarono gli occhi a quel prodigio, con un misto di stupore e timore.

   «Devi darmi molte spiegazioni» disse Korgano, fronteggiando la sposa.

   «Sì, te le devo» ammise Masaka, preoccupata. Più scenari tattici elaborava, più si accorgeva d’essere in guai grossi. «Vieni alla piramide, presto. Lì sarà più facile mostrarti. Quanto a voi» si rivolse ai sudditi D’Arsay «tornate alle vostre case e restateci! Presto si combatterà una battaglia».

 

   Nello spazio, la flotta Breen circondava la sonda-archivio, che per il momento aveva smesso di trasmutare la materia. La Keter vigilava appena oltre il raggio delle armi e del teletrasporto. A bordo dell’Archivio, Juri sedeva con le spalle al muro, cercando di risparmiare ossigeno. Dib stava in piedi a poca distanza, perfettamente immobile.

   «Perché mi fissi?» chiese l’Umano, di malumore.

   «Non sto fissando lei in particolare» rispose il Penumbrano. «Ma siamo in un piccolo vano cubico ed è difficile escluderla dal mio campo visivo. Se le fa piacere, comunque...». L’Ingegnere Capo si girò in modo da fissare il muro, trenta centimetri davanti a lui. Stette di nuovo immobile.

   «No, torna com’eri prima!» disse Juri, trovando quella posa ancora più disturbante.

   «Lei è irrequieto» diagnosticò Dib.

   «Certo che lo sono!» sbottò Juri. «Siamo su una sonda-archivio che potrebbe pietrificarci. La sonda stessa può essere distrutta dai Breen in qualunque momento. E se non succede nessuna delle due cose, finirò comunque l’ossigeno entro un paio d’ore».

   «Una sintesi efficace della sua situazione».

   «Grazie tante! E che mi dici di te? Quanto tempo ti resta?».

   «Io non ho bisogno d’ossigeno. La mia tuta manterrà valori adeguati di temperatura e pressione ancora per quarantadue ore».

   «Fantastico, allora te ne starai lì a fissare la mia carcassa!» esclamò lo storico.

   «È possibile».

   «Grazie per l’incoraggiamento».

   «Non cercavo d’incoraggiarla. Dicevo solo...».

   «... la verità, sì. Tu dici sempre e solo la verità» sospirò Juri, maledicendo di dover morire proprio accanto a lui. «Beh, se questa dev’essere la nostra ultima discussione, voglio saperlo. Secondo te chi è peggio, fra la teocrazia D’Arsay e il regime Breen?».

   «Non conosco l’esatta quantità di morti provocati dall’una e dall’altro, né posso stimare in modo attendibile le vittime che in futuro...».

   «Alt, stop! La mia era una domanda concettuale».

   «Mi chiede un confronto tra le due forme di governo? In questo caso trovo che la teocrazia sia la peggiore, dato che si basa sui dogmi. E i dogmi, già di per sé, rappresentano una forma di violenza intellettuale, dato che proibiscono il dibattito e la ricerca empirica».

   «E non accade lo stesso con le ideologie politiche? Anche quelle si basano su assiomi che vengono presentati come verità indiscusse» sottolineò Juri. «In nome del “bene superiore” e del “progresso” si commettono le peggiori atrocità. I Breen hanno campi di lavoro forzato in cui gli schiavi lavorano fino alla morte. I Borg hanno distrutto un’infinità di popoli nella loro “ricerca della perfezione”. I Na’kuhl credono nel darwinismo sociale e quindi nella sopraffazione del più debole. E non è che l’Unione sia sempre innocente» aggiunse, con sguardo cupo.

   «Lei sostiene che l’eccesso di razionalità sia nocivo tanto quanto la sua assenza?» chiese Dib con scetticismo.

   «Dico che il dogmatismo si estende ben al di fuori dell’ambito religioso. L’eccessiva fede nello Stato, o in un leader, o persino nella scienza disgiunta dall’etica, porta a orrori per nulla inferiori a quelli che abbiamo visto su D’Arsay» corresse Juri. «Il problema di fondo è l’incapacità di fare autocritica. Se si pensa di aver capito tutto e di aver sempre ragione, se ne deduce che chiunque la pensi diversamente è malvagio e va distrutto senza pietà. Insomma, non importa tanto in cosa credi... ma come credi».

   «Lei crede che si salverà da questa situazione?» chiese ancora Dib.

   Juri sospirò nell’aria viziata del casco. «Sai com’è... la speranza è l’ultima a morire».

 

   Chiuso nei sotterranei, Radek poteva solo aspettare, nella speranza che i suoi colleghi venissero a liberarlo. Ma la comparsa dello Scudo Cittadino, che aveva notato mentre le guardie lo scortavano lì, non gli faceva presagire nulla di buono. Per colmo di sfortuna, anche le prigioni si erano trasformate assieme al resto della base. In luogo delle celle federali modello standard c’erano dei pozzi. Il Comandante era stato calato in uno di essi e ora giaceva su uno scomodo pagliericcio. Era immerso in pensieri deprimenti quando sentì il cigolio del verricello e vide la fune abbassarsi.

   «Pssst! Ehi, Coma’ante!» disse una voce nasale dall’alto.

   «Non è possibile...». Radek guardò verso l’alto, si stropicciò gli occhi e guardò di nuovo. Ihat era lì, con la penna in testa, e agitava le mani per attirare la sua attenzione.

   «Si sbrighi, Coma’ante! Possono sorprenderci da un momento all’altro!».

   «Vecchia canaglia... non mi aspettavo di rivederti» ammise Radek. Si afferrò alla fune e prese a risalire il pozzo. Fortunatamente era ben allenato e ci riuscì senza difficoltà. Quando fu vicino all’orlo, Ihat gli diede la mano per aiutarlo nell’ultimo tratto. «Le guardie?» chiese il Comandante, mettendo piede a terra.

   «Non ci daranno problemi» disse Ihat, accennando a due guerrieri-giaguaro narcotizzati dai dardi di cerbottana.

   «Perché mi aiuti?» chiese Radek.

   «Sono il Fuggiasco... non mi piace vedere la gente in gabbia» rispose Ihat. «E poi tu e i tuoi simili mi state simpatici, Coma’ante. Avete creato un bel po’ di confusione... io adoro la confusione».

   «Sei un vero trickster, come diceva Juri» riconobbe il Rigeliano. I due sgattaiolarono silenziosamente per sale e corridoi, nascondendosi dagli altri D’Arsay. «Ora mi servirebbe una navetta, o almeno un comunicatore per avvertire la Keter. Ma tu non sai di cosa parlo» disse Radek.

   «Se ti riferisci ai vostri talismani metallici, ce ne sono ancora in circolazione» rivelò Ihat. Con aria teatrale, ne estrasse uno che teneva in un sacchetto appeso in cintura.

   «Dammelo, presto!» disse il Rigeliano, cercando d’afferrarlo, ma Ihat se lo nascose dietro la schiena.

   «Al tempo, Coma’ante! Anche se ti ho aiutato, sono stanco di sfuggire a Masaka e non voglio più dovermi nascondere. Se te ne vai per nave, voglio venire con te» disse il Fuggiasco.

   «Non posso accontentarti. Le nostre direttive ci impediscono d’imbarcare i nativi» disse subito Radek.

   «Allora potrei tenere questo gingillo per me...» minacciò Ihat, mentre ci giocherellava e lo lucidava col palmo.

   Il Comandante pensò in fretta. La sua situazione con la Flotta era già a rischio; non voleva comprometterla ulteriormente, portandosi dietro quel mascalzone. Ma osservando il modello d’Emettitore Autonomo di Ihat, un po’ sorpassato, gli venne un’idea. «D’accordo, amico... farò il possibile. Prima però dobbiamo uscire da qui» disse.

   «Seguimi, socio!» gongolò Ihat. Con le sue astuzie, i due riuscirono a nascondersi alle guardie che pattugliavano le varie zone della base. Infine uscirono da un ingresso secondario. Il corpo di Ihat sfarfallò appena, mentre passava dalla sala munita d’olo-emettitori all’aria aperta, dove solo l’Emettitore Autonomo gli permetteva di circolare.

   «Siamo fuori, come ti avevo promesso» disse Ihat. «Ora chiama la tua nave!».

   «Dammi il comunicatore e lo farò» disse Radek.

   Il D’Arsay esitò un attimo, temendo un imbroglio, ma poi glielo cedette.

   «Grazie, amico» disse il Comandante, dandogli una pacca sulla spalla. «Ti devo la vita». Ciò detto, gli disattivò a tradimento l’Emettitore Autonomo. Ihat non fece nemmeno in tempo a lamentarsi, ma il suo volto sorpreso e tradito disse tutto, prima che si dissolvesse. L’Emettitore spento cadde a terra.

   «Scusa» mormorò Radek. Da quando era sceso su quel pianeta, si vedeva costretto a prendere decisioni moralmente discutibili. Si augurò che quella fosse l’ultima. Corse a nascondersi dietro un muretto, evitando le guardie di ronda attorno alla piramide, e premette il comunicatore. «Base Thule a USS Keter, mi ricevete? Rispondete, Keter. Qui è Radek».

 

   «Ci chiamano da Base Thule» avvertì Zafreen. «È il Comandante».

   «Apra un canale» ordinò il Capitano. «Allora, come vanno le cose, Comandante? Sempre che non voglia un titolo più altisonante. Che so... Re del Mondo».

   «Touché, Capitano» ammise Radek. «Ma il mio “regno” è durato poco... Korgano è qui e il mio accordo con Masaka è già stracciato. Siete stati voi a mandar giù il Cacciatore, vero? Bella mossa... ma ora vorrei che mi riprendeste».

   «Resti in attesa... la situazione quassù si è complicata» disse Hod. «C’è un’intera flotta Breen che reclama il pianeta».

   «Breen?» trasecolò Radek. «Che ci fanno qui?».

   «Hanno interpretato l’evacuazione dei civili come un abbandono del pianeta e ora lo reclamano».

   «Capitano, so cosa pensa, ma la situazione quaggiù era pericolosa. Dovevamo mettere in salvo i coloni» si giustificò il Comandante.

   «È vero, ma non spettava a lei accordarsi privatamente con Masaka» obiettò Hod, severa. «La trattativa era compito mio».

   «La regina controlla tutto, qui. Il teletrasporto, le comunicazioni, il processo di trasmutazione della materia. Non potevo seguire le normali procedure» si giustificò Radek.

   «Ne riparleremo, ora dobbiamo affrontare la situazione» disse il Capitano. «Juri e Dib sono rimasti bloccati sulla sonda-archivio. Dobbiamo tirarli fuori alla svelta, o Juri finirà l’ossigeno. Lei come sta, può resistere?».

   «Sì, salvate gli altri» disse il Comandante. Finché lo Scudo Cittadino era attivo, la Keter non poteva teletrasportarlo né inviare squadre di salvataggio. «Ci terremo in contatto. Radek, chiudo».

   Il Capitano girò la poltroncina verso la postazione sensori. «I rinforzi?» chiese.

   «Undici navi sui sensori a lungo raggio, saranno qui fra un’ora» riferì Zafreen, visualizzando i dati sulla flottiglia. «Ma a Juri restano venti minuti d’ossigeno».

   «Allora ce la sbrigheremo da soli» decise Hod. «Capitano a navetta 2, via col salvataggio» ordinò.

   «Ricevuto» disse Vrel, già pronto ai comandi. Il mezzo Xindi occultò la navetta e lasciò l’hangar della Keter, dirigendosi verso la sonda-archivio. Vedendo le navi Breen assiepate tutt’intorno, si chiese perché non risentivano dei suoi effetti. Forse una volta completata la trasmutazione di Base Thule gli Archivi si erano disattivati. Con un occhio al timone e uno ai comandi del teletrasporto, Vrel continuò ad avvicinarsi. Appena fu a distanza utile agganciò Juri e Dib, trasferendoli in cabina. «Ora!» disse al comunicatore, correndo loro appresso. Tutti e tre furono immediatamente trasferiti sulla Keter, che rialzò gli scudi appena li ebbe a bordo.

   Nel frattempo i Breen avevano rilevato il segnale del teletrasporto, trovando le coordinate della navetta occultata. La nave da guerra più vicina aprì il fuoco. I primi due colpi passarono a pochi metri dalla navicella invisibile, mentre il terzo la prese in pieno, distruggendola. Ma a quel punto gli occupanti erano già in salvo sulla Keter. La tecnica della staffetta aveva funzionato.

   «Ottimo lavoro, Vrel» si complimentò il Capitano, vedendoli tutti e tre sulla pedana di plancia. «Voi state bene?» chiese agli altri.

   Juri si levò immediatamente il casco della tuta; il suo volto era cianotico. «Sì... tempismo favoloso» boccheggiò. «Però mi faccia un favore: la prossima volta mandi qualcun altro, in missione sul campo». Così dicendo tese la mano a Dib, che lo aiutò a rialzarsi.

   «Devo lavorare con le risorse che ho» disse il Capitano, senza sbilanciarsi. «Zafreen, che fanno i Breen?».

   «Mantengono la posizione. Nessun inseguimento» riferì l’Orioniana.

   «Siete fortunati. I Breen non tenevano particolarmente a voi, altrimenti vi avrebbero sequestrati» commentò Hod. «Tuttavia la distruzione della navetta indica che li abbiamo fatti arrabbiare. Dib, torni in sala macchine e si accerti che tutto sia pronto alla battaglia. Juri... le consiglio un salto in infermeria».

   «Non occorre... sto bene» disse lo storico, che era avverso alle visite mediche.

   «Beh, non va poi così male» commentò Norrin. «I Breen non hanno più ostaggi e i rinforzi sono in arrivo».

   «Tempo?» chiese il Capitano.

   «Quaranta minuti... no, un momento!» si meravigliò Zafreen. I colleghi la videro controllare più volte i sensori, come se non credesse ai suoi occhi.

   «Che succede?» chiese Hod, con un nodo allo stomaco.

   «Tutte le navi federali hanno invertito la rotta» disse l’Orioniana. Lo sconcerto s’impadronì degli ufficiali.

   «Non può essere una manovra d’aggiramento?» suggerì il Capitano, cercando di razionalizzare.

   «Nossignora... hanno fatto un’inversione completa e si allontanano. Tutte quante».

 

   Al Capitano servì qualche secondo per riprendersi dallo shock. «Zafreen, contatti il Comando di Flotta» ordinò. «Ci servono spiegazioni».

   «C’è già una chiamata in arrivo, priorità 1» disse l’Orioniana. «Ma non è del Comando. Viene dagli uffici presidenziali».

   «Rangda» mormorò Hod. «La prendo nel mio ufficio. Norrin, a lei la plancia». Recatasi alla sua scrivania, l’Elaysiana attivò l’oloschermo e compose il suo codice di sicurezza.

   «Capitano Hod... finalmente ci vediamo» esordì la Presidente. Diversamente da molti suoi simili, che tendevano a mettere su peso, la Zakdorn era segaligna. Aveva però le tipiche guance cascanti della sua specie, sommate a fitte zampe di gallina intorno agli occhi. Invece dell’abito presidenziale indossava una sorta di abito da sera con strascico, troppo giovanile per lei.

   «Le circostanze non sono delle migliori, signora Presidente» disse il Capitano. «I Breen assediano la nostra colonia, ancora in mano ai D’Arsay. E i rinforzi che mi erano stati promessi hanno fatto inversione di rotta».

   «Lo so; glielo ho ordinato io» sorrise Rangda, soddisfatta.

   «Lei?!» impallidì Hod. «Il Comando di Flotta ne è informato?».

   «Il Comando è stato sollevato da questa responsabilità» spiegò la Zakdorn. «Fino al termine della crisi, lei risponderà direttamente a me».

   «Ma... signora Presidente... questo è legale?» mormorò il Capitano.

   «Tutto ciò che faccio è legale» rispose Rangda col suo sorriso lezioso. «Non avrei voluto intervenire, mi creda, ma sono stata costretta. La sua gestione incompetente della crisi ha fatto sì che la colonia cadesse sotto il controllo di una forza ostile. E la reazione sproporzionata dell’Ammiraglio Chase rischiava di portare a uno scontro armato coi Breen. Capisce che dovevo risolvere la faccenda».

   «E l’ha risolta?» chiese Hod. «Si è accordata coi Breen?».

   «Certamente» disse Rangda, indispettita dalla mancanza di fiducia. «In queste ore ho condotto trattative diplomatiche di alto livello con le loro autorità. Sono lieta d’informarla che la crisi è risolta».

   «Questa è... un’ottima notizia» disse l’Elaysiana, anche se i suoi timori continuavano a crescere. «Però i Breen sono ancora qui. Quali sono i termini dell’accordo?».

   «Data l’impossibilità a difenderla, Ultima Thule passerà sotto il controllo della Confederazione» annunciò tranquillamente la Zakdorn. «In cambio, i Breen normalizzeranno le relazioni diplomatiche e ripristineranno gli accordi commerciali con noi. La Guerra Fredda che ci ha afflitto per tre anni sta per diventare un ricordo».

   «Gli ha venduto il pianeta?!» inorridì il Capitano. «È un avamposto strategico... ci permette di tenere i Breen alla larga da mondi popolosi e di controllare i loro movimenti lungo il confine. L’Ammiraglio Chase mi aveva raccomandato di non cedere alle loro pretese».

   «Come le ho detto, lei risponde a me, non all’Ammiraglio».

   «Rispondo al Comando di Flotta... che lei ha scavalcato, con questo provvedimento».

   «È stato necessario per evitare una pericolosa escalation. Spero le sia chiaro, ora, che la politica dell’Unione non è più ostaggio delle decisioni della Flotta Stellare» disse Rangda, fissandola con occhi gelidi.

   Il Capitano rinunciò a contestare la legittimità del provvedimento. Sapeva che la Zakdorn non l’avrebbe mai ascoltata, su questo punto. L’unica speranza era appellarsi al suo pragmatismo politico. «Signora Presidente, i Breen non rispettano questo tipo di accordi. Se noi arretriamo alla loro prima mossa, lo interpreteranno come un segno di debolezza. Si sentiranno incoraggiati a estorcerci sempre di più».

   «Non cerchi d’insegnarmi il mio mestiere» la gelò Rangda. «Tratto coi Breen da quarant’anni, so come accordarmi con loro. Questo accordo ci porterà molti vantaggi. Ad esempio potremo organizzare missioni congiunte per risolvere, una volta per tutte, il problema della pirateria lungo i confini. I criminali come lo Spettro hanno i giorni contati» disse con soddisfazione.

   Il Capitano intuì che Rangda aveva l’accordo già pronto da tempo. Aspettava solo l’occasione giusta per sottoporlo ai Breen. «Sono lieta che lei abbia ottenuto condizioni così vantaggiose» disse, imponendosi l’autocontrollo. «Ma per i Breen sarà facile stracciare l’accordo alla prossima disputa. Per noi, invece, sarà molto difficile riconquistare Ultima Thule».

   La Zakdorn si alzò, incollerita. «Non lascerò che sotto la mia presidenza l’Unione attui politiche imperialiste. Le fanno gli Umani, queste porcherie. Noi siamo meglio. Quindi lasci agire i Breen e non interferisca per nessun motivo. Altrimenti le passo sopra come uno schiacciasassi, a lei e a tutti i suoi ufficiali. Mi sono spiegata?!».

   «Perfettamente» rispose Hod a denti stretti. «Ma il mio Primo Ufficiale è ancora a terra. Se i Breen bombardano la base, lo uccideranno».

   «I Breen intendono occupare l’avamposto, non distruggerlo» rivelò la Presidente. «Come parte dell’accordo, risparmieranno i federali ancora sul campo. Vede che ho pensato a tutto?».

   «Uhm... e coi D’Arsay come devo comportarmi?».

   «Ci penseranno i Breen a fare pulizia. Lei si assicuri solo che la sonda sia distrutta. La sua tecnologia è troppo pericolosa per lasciarla a chiunque, amico o nemico» ordinò Rangda.

   «È tutto chiaro, signora Presidente» disse l’Elaysiana in tono funereo. «Le invierò il rapporto a missione conclusa».

   «Ci conto. Buona giornata, Capitano Hod» disse la Zakdorn, di nuovo sorridente, e chiuse la comunicazione.

 

   «Perché mi hai portato in questo luogo?» chiese Korgano, osservando la sala del processore. Sebbene lo stile si fosse adeguato a quello della peculiare tecnologia D’Arsay, gli equipaggiamenti informatici c’erano ancora tutti.

   «C’è una cosa che devi sapere» disse Masaka, recandosi a una consolle. «Riguarda me, te... tutti noi. La nostra intera missione».

   «È questo che ti ha cambiata?» domandò il Cacciatore.

   «Sì... e cambierà anche te» ammonì la regina, mentre accedeva al database federale. «Devo avvertirti che sarà doloroso».

   «Tu hai sofferto?».

   «Più di quanto mi sia mai capitato» confessò Masaka, corrugando la fronte. «Però credo che mi abbia resa più forte... più capace di affrontare le sfide che ci aspettano».

   «Allora dimmi tutto» disse Korgano con decisione. «Non devono esserci segreti fra noi. E chissà che, condividendo il tuo dolore, non possa alleviarlo in qualche misura».

   «Vorrei che fosse così» disse Masaka, guardandolo con affetto. Poi tornò a concentrarsi sul lavoro. Selezionò molte informazioni sull’Unione e i Breen, oltre che sugli Archivi D’Arsay. Compattò i file e si preparò a inserirli nel programma di Korgano. All’ultimo momento si fermò, chiedendosi se la sua matrice avrebbe retto a tutti quei dati. Il Cacciatore era il suo unico, vero affetto: perderlo sarebbe stato devastante. Provò l’impulso egoistico di lasciare le cose come stavano.

   «Fa’ ciò che devi. Non temere per me» le disse però Korgano. «Non ti ho ritrovata, dopo tutto questo tempo, per perderti di nuovo».

   «Come vuoi» disse Masaka, con un groppo in gola. Premette il comando di trasferimento.

   La proiezione isomorfa del Cacciatore iniziò a sfrigolare. Lui rimase immobile, con gli occhi sbarrati. Poi cadde in ginocchio, coprendosi il volto con le mani.

   «Korgano! Parlami, ti prego!» gridò Masaka, terrorizzata. S’inginocchiò accanto a lui e gli prese le mani, scoprendogli il viso.

   «Ahi, ahi!» fece il Cacciatore. «Questa rivelazione mi ha quasi distrutto. Immagino che abbia fatto lo stesso con te».

   «Sì, ma... il nostro obiettivo non cambia» disse la regina, per confortarlo. «Siamo ancora i sovrani D’Arsay. Dobbiamo ricostruire il nostro regno, qui dove la sonda ci ha portati. E dobbiamo difenderlo da chiunque osi minacciarlo!».

   «Sì» convenne Korgano, rialzandosi con una nuova determinazione. «Insieme, lo difenderemo da qualunque minaccia venga dalle stelle».

 

   «La flotta Breen si sta dispiegando» avvertì Zafreen. «Credo che si preparino a colpire la sonda-archivio».

   Il Capitano restò in silenzio. Aveva già spiegato la situazione agli ufficiali, suscitando un coro di prevedibili proteste, e ora si sentiva svuotata.

   «Quindi è finita? Tutta la nostra missione non è servita a niente?» chiese Vrel, arrabbiato e incredulo.

   «Abbiamo salvato i coloni» disse stancamente il Capitano. «Ma per il pianeta non c’è niente da fare. Rangda lo ha venduto ai Breen, scavalcando sia il Senato che il Comando di Flotta».

   «Capitano... Masaka e i suoi accoliti potranno anche starci antipatici, ma sono tutto ciò che resta di un’antichissima civiltà. I Breen li spazzeranno via, se non facciamo qualcosa» disse Juri.

   «Lei crede?» chiese Norrin. «La regina mi sembra capace di difendersi».

   «I suoi poteri vengono tutti dalla sonda-archivio. Noi abbiamo avuto scrupoli a colpirla, ma i Breen...». Lo storico tacque, vedendo che le navi da guerra avevano aperto il fuoco. Una raffica di siluri guizzò verso gli Archivi, impattando contro lo scafo in fortanium. Non ci furono esplosioni. La sonda rossiccia galleggiava ancora nell’orbita del pianeta, illesa.

   «I D’Arsay devono aver trasformato i siluri, rendendoli innocui» comprese Norrin. «Ma i Breen non si arrenderanno facilmente».

   «Magia contro tecnologia... questa voglio proprio vederla» disse il Capitano, cinica.

   «E non farà niente?» chiese Juri.

   «Ho le mani legate. E poi, chiunque vinca, noi perdiamo» rispose Hod.

   Ai federali non restò che osservare l’evolversi dello scontro. Fallito il lancio di siluri, le navi Breen attaccarono con i disgregatori. I raggi energetici colpirono la sonda da tutte le direzioni. Lo scafo in fortanium era resistente, ma non tanto da sopportare un attacco concentrato. Ben presto cominciò a spaccarsi. Gli squarci si allargarono, mentre esplosioni sempre più grandi punteggiavano la sonda. A quel punto i Breen lanciarono altri siluri. Stavolta le testate esplosero all’impatto, segno che il congegno trasmutante era fuori uso e non poteva più renderle innocue. Un’immane esplosione obliterò gli Archivi, con la loro fantastica tecnologia. Frammenti dello scafo si dispersero tutt’intorno, rimbalzando sugli scudi delle navi Breen senza danneggiarle. Quando il lampo si estinse, degli Archivi D’Arsay non restava altro che la nuvola di detriti in dispersione.

   «Ottantasette milioni di anni d’attesa... per questo» disse Juri, e lasciò la plancia. Gli ufficiali rimasero in silenzio.

   «Ora che fanno i Breen?» chiese il Capitano dopo un po’.

   «Colpiscono la base coi dissipatori energetici» disse Zafreen, inquadrando le navi che sparavano impulsi bluastri contro l’avamposto. Sfoggiati per la prima volta nella Guerra del Dominio, i dissipatori erano una delle armi Breen più temute. Potevano azzerare il potenziale energetico di un’astronave o di una città, rendendola vulnerabile ai successivi attacchi con armi convenzionali. La Flotta aveva adattato i propri scudi, per renderli più resistenti, ma in questo caso le navi Breen erano troppe. Il loro attacco concentrato avrebbe esaurito rapidamente lo Scudo Cittadino, lasciando l’avamposto alla mercé delle truppe di terra.

 

   Nascosto dietro un muretto, Radek osservava l’ingresso dell’hangar cittadino. C’era ancora una navetta al suo interno, probabilmente l’unica rimasta sul pianeta. L’edificio si era adeguato allo stile D’Arsay, ma la navetta – una vecchia classe Dragonfly – era inalterata, segno che poteva ancora volare. E a lui serviva una via di fuga. Peccato che la Dragonfly fosse vigilata da due guardie armate. Il Rigeliano stava pensando a come distrarle, quando lo Scudo Cittadino fu bombardato.

   Questo allarmò i D’Arsay. I pochi che circolavano ancora per le strade corsero verso la piramide, in cerca di protezione. I due guardiani della navetta, però, rimasero al loro posto. Anche Radek non si mosse. Sapeva che un attacco con armi ad alta energia avrebbe sbriciolato qualunque edificio, rendendo inutile mettersi al riparo. Ma conoscendo i Breen, sperava che avrebbero scelto un altro approccio. E da un esame visivo, i lampi azzurri che avvolgevano la cupola dello scudo indicavano che gli alieni stavano usando i dissipatori energetici.

   «Se è così, sono l’unico a non correre rischi» pensò il Comandante. Ebbe solo  la precauzione di gettar via il comunicatore, per evitare che gli trasmettesse la scossa. Di lì a poco lo Scudo cedette. Gli impulsi dei dissipatori colpirono in più punti la città, gettandola nel black-out. Tutti gli strumenti tecnologici furono avvolti da scariche statiche azzurre, mentre la loro energia si disperdeva. Anche il comunicatore, di cui Radek si era prudentemente disfatto, iniziò a crepitare. E lo stesso accadde agli Emettitori Autonomi dei D’Arsay. Uno dopo l’altro, i congegni si disattivarono e caddero a terra, non più sostenuti dai proprietari. Anche i sorveglianti della navetta svanirono.

   Radek uscì dal nascondiglio e corse in avanti. Sapeva che i D’Arsay non erano cancellati: erano solo privi d’energia. Ricaricando gli Emettitori, sarebbero tornati. Ma per il momento lui era l’unico ad aggirarsi per la base. «Non per molto» rifletté, osservando il cielo con preoccupazione. I Breen non avevano certo fatto un favore all’Unione. Se avevano disattivato i D’Arsay, era perché volevano impadronirsi loro del pianeta. Il Comandante guardò la vicina piramide di Masaka con un pizzico di malinconia. La regina si credeva invincibile, ma a quel punto doveva essersi disattivata con tutti gli altri. Chissà che aveva pensato negli ultimi momenti, quando si era resa conto che i suoi poteri non bastavano a difenderla.

   Riscuotendosi da questi pensieri, Radek raggiunse la navetta. Anche quella era senza energia, ma contava di restituirgliela con la procedura di riavvio manuale del nucleo. Il Rigeliano entrò in cabina e aprì un pannello, iniziando a trafficarvi con gli strumenti presi dal kit di bordo. Uno dopo l’altro, i sistemi si riavviarono.

   «Non farlo, ti prego». La voce veniva dall’altoparlante. Era una voce che Radek, ormai, conosceva bene: quella di Masaka.

   «Pensavo che fossi disattivata» disse il Comandante, continuando a lavorare.

   «Lo sono quasi» ammise la regina, in tono sofferente. «Quasi tutti i sistemi della base sono senza energia. Korgano e gli altri sono disattivati. Io funziono al minimo, grazie all’energia ausiliaria predisposta per sostentare Thule in caso di attacco. Ma ho perso la mia proiezione isomorfa e non riesco a riattivarla. In queste condizioni non posso difendere la città».

   «Dev’essere molto imbarazzante, per te» infierì Radek. «Un minuto fa eri onnipotente e ora non puoi neanche premere un bottone. Ma tutto questo non sarebbe successo, se avessi accettato di condividere il pianeta con noi. Se ora sei nel dren, sbrigatela da sola; io me ne vado». Le consolle della navetta si accesero, segno che l’energia principale era tornata.

   «Aspetta!» implorò Masaka. «Devi tornare alla base. Vai nella sala del reattore ed esegui il riavvio manuale del nucleo. Lo farei io stessa, se avessi ancora un corpo. Ma al momento sei la mia unica speranza».

   «Ah, questa è buona!» fece Radek, sprezzante. «Dopo tutto quel che hai fatto, speri che venga a salvarti? Scordatelo. Chiedi pietà ai Breen, quando arriveranno» disse, sedendo ai comandi.

   «Tu mi fraintendi» disse Masaka, addolorata. «Non ti chiedo pietà per me stessa. Se volessi salvarmi, mi basterebbe trasferire il mio programma nel computer della tua navetta. Il problema è che non c’è abbastanza memoria per salvare il resto del mio popolo. È per loro, non per me, che imploro il tuo aiuto».

   Radek aveva già il dito sul tasto d’accensione, ma a queste parole si bloccò. «Non pensavo t’importasse della tua gente» disse. «Di Korgano forse sì... ma tutti gli altri li consideri sacrificabili».

   «La mia missione è ricostruire la civiltà D’Arsay. Se fallissi in questo, non avrei più motivo di esistere» disse Masaka con voce rotta. «Ora che i Breen hanno distrutto i nostri Archivi, esistiamo solo nei computer di questa base. Potrei trasferirmi nei sistemi della tua navetta e andarmene via... ma non voglio farlo. Condividerò la sorte della mia gente».

   «Supponi che io vada a riavviare il nucleo» disse lentamente Radek. «Per farlo, dovrai darmi pieno accesso al computer. A quel punto avrò mano libera. Potrei isolare il tuo programma e disattivarlo, o persino cancellarlo del tutto. A guidare il tuo popolo lascerei Korgano, visto che è il più ragionevole tra voi due».

   «Se lo facessi, non ti biasimerei» ammise Masaka.

   «E anche se vi riattivassi entrambi, ci sono ancora i Breen da affrontare. Non è detto che vincerete» le ricordò Radek.

   «Conosco tutti i rischi e sono disposta a correrli».

   «Perché?».

   Il viso di Masaka apparve sulla consolle. Era affranta, ma al tempo stesso solenne. «Ho sempre chiesto grandi sacrifici ai miei sudditi» riconobbe. «Ora che il nemico è alle porte, devo essere pronta a farli io. Cancellami dal computer, se credi. Ma salva il mio popolo, ti supplico». Ciò detto, la regina svanì.

   Radek si prese la testa fra le mani, riflettendo furiosamente. Se i Breen stavano sbarcando le loro truppe, gli restava poco tempo. Non poteva mettersi a soppesare i pro e i contro, doveva agire subito. E non sapendo esattamente quale fosse la situazione tra i Breen e l’Unione, non poteva nemmeno appellarsi al regolamento. Non gli restava che seguire la coscienza.

   Capito questo, il Rigeliano lasciò i comandi e si precipitò fuori dalla navetta. Corse a perdifiato verso la piramide, mentre i primi caccia Breen sfrecciavano già nell’atmosfera. Superò l’ingresso monumentale, attraversò la hall e percorse un corridoio dopo l’altro, sperando di non sbagliare strada. Sapeva che, se avesse riattivato l’energia mentre i Breen erano in città, le navi non avrebbero potuto usare ancora i dissipatori, per non colpire le proprie truppe. Ma sarebbe toccato ai D’Arsay vincere la battaglia. Radek non sapeva proprio come avrebbero fatto.

   «Vai a destra» gli disse Masaka da un altoparlante, aprendo la porta giusta in una fila d’ingressi tutti uguali.

   Radek sorrise fra sé, nell’udire quell’insolito navigatore, e infilò la porta. Seguì le indicazioni della regina finché sbucò nella sala del reattore. Alcune pareti si erano pietrificate, ma nel complesso l’ambiente non aveva risentito quanto gli altri della metamorfosi. Le consolle erano ancora al loro posto, anche se erano invase dai glifi D’Arsay. Il nucleo energetico pulsava al minimo, alimentato solo dai sistemi d’emergenza.

   «Le truppe Breen stanno entrando in città, fra mezz’ora saranno qui» lo avvertì la voce di Masaka. «Ti spiegherò come eseguire il riavvio».

   «Conosco la procedura» disse Radek. «Dammi l’accesso al computer».

   «Fatto».

   I glifi colorati lasciarono il posto alle tradizionali interfacce LCARS della Flotta Stellare. Al Comandante bastò un’occhiata per constatare che la regina gli aveva dato pieno accesso ai sistemi. I file con le personalità D’Arsay erano tutti lì. Poteva salvarli dall’imminente frammentazione, ma poteva anche eliminare le personalità sgradite. Stava a lui decidere.

   «Ebbene, mi cancellerai?» chiese Masaka, con voce un po’ tremante.

   «Francamente non l’ho ancora deciso» rispose Radek.

 

   «Capitano, sta succedendo qualcosa» avvertì Zafreen. «I livelli energetici della città tornano a salire. Qualcuno ha riavviato il nucleo con la procedura manuale».

   «Radek» comprese il Capitano. «Cos’ha in mente?».

   «Non saprei, ma ora che c’è di nuovo energia i D’Arsay stanno tornando» disse l’Orioniana.

   «Forse il Comandante ha voluto riequilibrare le forze» ipotizzò Vrel.

   «Ora che la sonda-archivio è distrutta, i D’Arsay non possono più trasmutare gli oggetti» obiettò Norrin. «Non vedo come possano opporsi a un agguerrito esercito Breen».

   «Lo vedremo fra poco» disse il Capitano, gli occhi fissi allo schermo. I battaglioni Breen marciavano per le strade, senza incontrare resistenza. Stavano convergendo sulla piramide.

 

   Il sole splendeva alto sulla Città di Masaka. Un vento caldo spirava tra gli edifici e i monumenti in pietra, così come sulla giungla circostante. Qua e là si udiva il gorgheggiare degli uccelli. La trasformazione poteva dirsi completa, ma le strade erano deserte. Anche dopo essersi riattivati, i D’Arsay restavano nascosti nelle case o nella piramide centrale. Questa era circondata da un perimetro di guerrieri, con le armi in pugno.

   L’esercito Breen avanzò in ranghi serrati. Per primi c’erano i carri armati, che levitavano a un metro da terra. Nel loro avanzare sbriciolarono muretti e abbatterono alberi. Poi venivano i soldati, indistinguibili per via delle armature termiche. I loro passi cadenzati facevano tremare le finestre. Raggiunta la piramide, l’armata la circondò, tenendola sotto il tiro dei disgregatori. Il sole riverberava sulle corazze levigate dei carri armati. In mezzo ai veicoli e dietro di essi c’erano i soldati Breen, perfettamente allineati.

   I due schieramenti si fronteggiarono sotto il sole a picco. Il contrasto fra l’esercito ultratecnologico dei Breen e quello apparentemente primitivo dei D’Arsay era stridente. I Breen stavano zitti e immobili, in attesa di ordini, mentre i D’Arsay si agitavano e lanciavano urla di guerra.

   D’un tratto il carro armato Breen posizionato davanti all’ingresso della piramide avanzò di qualche metro. Era equipaggiato con un proiettore olografico, che materializzò l’immagine di Thot Vur, così ingigantita da torreggiare su entrambe le armate. Il leader Breen, che in quel momento si trovava sulla sua nave ammiraglia, osservò brevemente i difensori. Poi parlò loro con il consueto timbro metallico: «Sono Thot Vur, comandante della Quinta Flotta della Confederazione Breen. Esigo di parlare immediatamente con il vostro leader».

   A queste parole ci fu movimento fra i ranghi D’Arsay. I guerrieri si aprirono in due ali, permettendo a Korgano e Masaka di avanzare, mano nella mano. Molto più in alto, Radek li osservò dalla terrazza della piramide, augurandosi di aver fatto la cosa giusta. Non se l’era sentita di cancellare Masaka, dopo aver constatato che era disposta a sacrificarsi per la sua gente, anziché fuggire. Ma non sapeva ancora come lei e Korgano avrebbero affrontato gli invasori.

   «Due sono gli astri del popolo D’Arsay» disse il Cacciatore. «Io sono Korgano e questa è la mia sposa Masaka. Sappiamo chi siete e siamo consapevoli di ciò che avete fatto. Esponete le vostre richieste».

   «Molto bene» disse Thot Vur. «V’informo che, in virtù dell’accordo con l’Unione Galattica, prendo formalmente possesso di questo pianeta. D’ora in poi Ultima Thule sarà proprietà inalienabile della Confederazione Breen».

   «L’Unione non può cedere la proprietà di ciò che ha già perduto» obiettò Korgano. «Questa è Nuova D’Arsay e appartiene a noi».

   «Voi siete giunti da invasori, alterando il pianeta con le vostre tecnologie» ribatté il Breen. «Ma anche se siete riusciti a riattivarvi, non costituite più una minaccia, ora che la vostra sonda è distrutta. E siccome siete ologrammi, anziché persone, non avete alcun diritto. Starà al nostro giudizio cancellare i programmi inutili e riconvertire gli altri a scopi produttivi per la Confederazione. Se opporrete resistenza, questa città sarà rasa al suolo. Tutti i vostri hardware e olo-proiettori verranno distrutti».

   «Massacrereste la nostra gente?» chiese Korgano, in tono dolente.

   «Non potete morire, perché non siete vivi» fu la pronta risposta. «Siete solo delle macchine. Se non accetterete di servirci, sarete disattivati».

   «Buffo» commentò Masaka. «L’Unione accusa me d’essere crudele, ma poi si accorda con voi. Eppure io ho permesso ai federali di andarsene incolumi, mentre voi volete sterminarci».

   «Il pianeta è quasi completamente disabitato; noi abbiamo quest’unica città» disse però Korgano, allargando le braccia. «Non possiamo accordarci per un’equa spartizione del territorio? Costruite pure i vostri insediamenti sugli altri continenti e lasciate a noi questo».

   «È inaccettabile che voi continuiate ad autogovernarvi su un mondo della Confederazione» rispose Thot Vur.

   «Perché?».

   «Questa non è una trattativa per una spartizione territoriale. Tutto il pianeta appartiene a noi» insisté il Breen. «Inoltre la vostra pseudo-cultura costituisce un focolaio di superstizioni primitive che deve essere estinto».

   «Può darsi che abbiamo i nostri... difettucci» ammise Masaka, con un sorriso sardonico. «Ma da quel che vedo, neanche voi andate per il sottile. Il mio sposo vi ha fatto un’offerta generosa e voi l’avete spregiata. Non sarete voi, gli ostinati che rifiutano di scendere a patti?».

   «Noi agiamo nel rispetto del diritto interstellare. Voi non sapete neanche che cosa sia» ribatté Thot Vur. «Questo è l’ultimo avvertimento. Arrendetevi o sarete distrutti» minacciò.

   «Non abbiamo vagato per 87 milioni di anni nella solitudine dello spazio, solo per divenire vostri schiavi» rispose Korgano. Lui e Masaka dettero le spalle ai Breen e rientrarono in fretta nella piramide. I ranghi dei guerrieri D’Arsay si richiusero dietro di loro, ricostituendo lo schieramento.

   «Gli ologrammi hanno fatto la loro scelta» disse Thot Vur, rivolto alle sue truppe. «Eliminateli tutti. Verificate che nell’installazione non sia rimasta qualche tecnologia rilevante. Quando avrete finito, ritiratevi. Tutta l’area cittadina sarà bombardata dall’orbita, così che della superstizione D’Arsay non resti nemmeno il ricordo».

   «Ricevuto» confermò il comandante di battaglione. I carri armati e i soldati Breen presero di mira i guerrieri D’Arsay. Questi, che erano muniti solo di armi primitive, restarono immobili. Pur essendo ologrammi erano comunque vulnerabili, se gli emettitori da braccio e quelli a irradiazione disseminati per le strade fossero stati distrutti.

   «Fuoco» ordinò il comandante Breen. Decine di carri armati e migliaia di soldati eseguirono l’ordine. Non accadde assolutamente nulla. Nessuna delle armi aveva funzionato. Con stupore, i Breen si accorsero invece che le loro armature e i caschi cominciavano a dissolversi in sabbia. Questo mise a nudo i loro corpi fatti d’ammoniaca e idrocarburi, tenuti in uno stato gelatinoso dalla bassa temperatura. Senza le tute refrigeranti che li mantenevano a 120°C sottozero, si trovarono esposti al caldo afoso della giungla. Il sole era a picco, in quel momento, e i termometri segnavano 35°C sopra lo zero. Troppi per i Breen, che iniziarono a sciogliersi fra atroci tormenti. Le sacche di gelatina che componevano i loro corpi si squagliavano a vista d’occhio, mettendo a nudo lo scheletro. I soldati si accasciarono, dibattendosi disperatamente, mentre intorno a loro si allargavano le pozzanghere. Quelli che erano dentro i carri armati sopravvissero solo pochi secondi in più, perché anche i veicoli si polverizzarono. Alcuni caccia, che pattugliavano il cielo, andarono incontro alla stessa sorte. Precipitarono dissolvendosi in sabbia, provocando danni minimi alla città.

   Dentro la piramide, Korgano e Masaka udirono i lamenti strazianti dei Breen. «Forse abbiamo esagerato» disse il Cacciatore, triste in volto.

   «No, per niente» ribatté Masaka, implacabile. «Devono imparare la lezione... e non è ancora finita!».

 

   Sulla plancia della sua ammiraglia, Thot Vur perse improvvisamente il collegamento con le olocamere a terra. «Che succede? Ripristinate subito il segnale» ordinò.

   «Non è un problema di segnale» riferì un addetto alle comunicazioni. «Le olocamere sono tutte fuori uso».

   «Signore, stiamo perdendo i segni vitali delle nostre truppe. Di tutte quante» avvertì un altro ufficiale.

   «Anche i caccia e i veicoli di terra sono fuori uso» disse un terzo.

   «Non è possibile» disse Thot Vur. «Mostratemi ciò che accade laggiù».

   Lo schermo fornì subito una ripresa aerea del centro cittadino. I guerrieri D’Arsay erano ancora al loro posto, a difesa della piramide. Intorno a loro, però, i ranghi ordinatissimi dei Breen lasciavano posto a pozzanghere sempre più ampie, in cui i soldati agonizzanti si dibattevano tra gli scheletri dei commilitoni già morti.

   «A tutta la flotta: voglio un bombardamento completo dell’area urbana» ordinò Thot Vur. Gli artiglieri azionarono immediatamente i disgregatori e i tubi lanciasiluri. Ancora una volta non accadde nulla. Nessuna delle ventiquattro astronavi sparò un solo colpo.

   «Perché non facciamo fuoco?» chiese Thot Vur.

   «È assurdo, signore, ma... sembra che i cavi di alimentazione dei disgregatori si siano trasformati in liane. E i siluri si sono pietrificati. Persino le cariche di antimateria sono state neutralizzate» rispose l’Ufficiale Tattico.

   «Sintesi di Particelle» realizzò Thot Vur. «Hanno replicato la loro tecnologia sul pianeta. A tutte le navi, ritirata immediata».

   Le astronavi iniziarono a manovrare per uscire dall’orbita, ma i loro movimenti erano impacciati. «Signore, anche i motori stanno andando fuori uso» avvertì l’Ingegnere Capo dalla sala macchine. Davanti a lui, il nucleo di curvatura si disfaceva in una cascata di sabbia. «Stiamo perdendo il contenimento dell’antimateria».

   «Abbandonare la nave!» ordinò Thot Vur, precipitandosi fuori dalla plancia, seguito dai suoi ufficiali. Correvano verso la vicina capsula di salvataggio. Il leader Breen aveva appena sfiorato il comando d’apertura quando il contenimento dell’antimateria cedette del tutto. Materia e antimateria si annichilirono, provocando la rottura del nucleo. La potente nave da guerra fu vaporizzata con tutti i suoi occupanti. Il resto della flotta subì la stessa sorte. Lo spazio si riempì dei bagliori delle esplosioni e dei frammenti incandescenti degli scafi. Poi le luci si estinsero e i detriti si dispersero nell’orbita.

 

   In quel momento, Masaka e Korgano uscirono in cima alla piramide e osservarono la desolazione che li circondava. L’armata Breen si era praticamente dissolta. Al posto dei soldati c’erano pozze d’ammoniaca e idrocarburi, che evaporavano sotto il solleone; gli spessi vapori offuscavano l’aria. Dei carri armati restavano solo mucchi di sabbia, che il vento avrebbe presto disperso. Il cielo era rigato dai frammenti della flotta che bruciavano nell’atmosfera.

   «È questo il nostro regno... un regno di cadaveri» disse Korgano, contemplando quella devastazione.

   «C’è anche la vita» ribatté Masaka, accennando alle case da cui facevano capolino i D’Arsay. «Il nostro popolo ha un futuro».

   «Spero che non dovremo mai più fare una cosa simile» affermò il Cacciatore, fronteggiandola.

   «Dipende da chi verrà a minacciarci» rispose la regina, sostenendo lo sguardo.

   «Ma noi non andremo all’attacco di altri mondi» dichiarò Korgano. «Abbiamo già immolato abbastanza vittime per la nuova D’Arsay».

   «Degli altri mondi non mi curo; basta che ci lascino in pace» disse Masaka. Quando le navi Breen erano apparse in orbita, aveva capito subito che la sonda era a rischio. Così aveva trascorso le ore successive a replicare i congegni per la Sintesi di Particelle nel sottosuolo del pianeta. Al tempo stesso aveva sondato la flotta Breen, scoprendo dove colpire per distruggerla rapidamente. La strategia aveva funzionato, impartendo ai Breen – ma anche all’Unione – una lezione che non avrebbero dimenticato tanto presto.

 

   
 
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