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Autore: koan_abyss    17/07/2019    2 recensioni
Tom Ludlow, investigatore privato, tende a gettarsi nei suoi casi con tutto se stesso, e quando Maria Butler lo assume per ritrovare il padre scomparso, si sente immediatamente legato alla vicenda. Ma sembra che ci siano anche altri interessi in gioco e Tom si ritrova presto avvolto in più trame e strattonato in più direzioni.
Genere: Angst, Azione, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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III Capitolo


Rimase lontano dall’ufficio appena per un’ora, che giudicò il tempo minimo per l’incontro di James. Una volta tornato si preparò ad aspettare la sua telefonata.
Il pomeriggio trascorse in un vortice di noia e routine.
Ricevette qualche telefonata, una da un’agenzia di recupero crediti che talvolta si avvaleva dei suoi servigi, una da un cliente che fissò un appuntamento per la settimana successiva e infine una per un sondaggio telefonico. Avrebbe anche potuto rispondere, ma l’argomento era davvero troppo cretino.
Alle tre e mezzo non aveva ancora ricevuto notizie da James e provò a telefonare al suo albergo, ma lo informarono che il Maggiore Biggs non era ancora rientrato. Gli chiesero se voleva lasciare un messaggio. Rifiutò.
Passò un amico a trovarlo in ufficio e lo invitò a bere qualcosa per quella sera. Si chiamava Stuart Weizman. Era un tipo sempre allegro, di quelli che possono raccontarti le loro peggiori disgrazie ridendoci su.
Tom non riusciva mai a capire se enfatizzasse i suoi problemi per rendere il racconto più interessante o possedesse davvero la capacità di assorbire tutti i colpi della vita con tale leggerezza e noncuranza.
“Bisogna coltivare il senso del ridicolo,” diceva talvolta Stuart, sollevando un angolo della bocca come se gli scappasse da ridere.
Tom faceva del suo meglio per provarci, ma quella sera non era il caso. Declinò l’offerta e Stuart non se la prese.
“Berrò con Winnie alla tua salute,” gli promise.
“Fa sempre piacere, qualcuno che pensa alla mia salute,” rispose Tom.

James lo chiamò alle cinque. “Sono appena arrivato in albergo.”
“Lo so, ho provato a chiamare, prima…dunque?”
A giudicare dal tono dell’altro non si aspettava grandi notizie.
“La situazione non è molto a mio favore,” rispose James con le mascelle contratte. Tom poteva avvertirlo dall’altro capo del telefono.
“Così nera, eh? È venuta fuori qualche altra novità?”
“Niente che non sapessi già o a cui non fossi arrivato da solo. Ho autorizzato la partenza del convoglio, quindi ne sono responsabile. Non ho ordinato che la scorta fosse più numerosa. La data del trasferimento era nota solo alla mia sezione: se c’è stata una fuga di notizie è partita da noi. Le misure che applichiamo per evitare queste evenienze sono quelle standard, e in un caso del genere avrei dovuto rendermi conto della loro inadeguatezza, tenuto conto dei fattori che conoscevo: il percorso poco sicuro, la scarsità di uomini, il valore del carico, il prestigio di tutta la base di Encino,” concluse il rapporto con voce amara.
“Ma ci sono anche molti fattori di cui non potevi essere a conoscenza, come il fatto che la scorta sarebbe stata composta solo da pivelli, invece che da veterani.”
“Sì, quello non dipendeva da me. Ma dubito che sarà sufficiente. Lo sarebbe forse se le indagini avessero portato a qualcosa…ma non abbiamo nulla.”
Ora il suo tono era di nuovo normale. Tom se ne rallegrò un poco.
“C’erano un paio di cose che ti volevo chiedere,” cominciò, “per esempio se avete ritrovato il camion.”
“Il camion? No. Lo hanno usato per portare via le armi, scaricarle sarebbe stato troppo lungo. Si parla di trecento pezzi tra armi di medio calibro, fucili d’assalto, qualche mitragliatore. Roba per un valore di cinquecentomila dollari.”
“Ma potrebbero averle caricate su un altro mezzo più tardi e aver abbandonato il mezzo militare da qualche parte. Di sicuro dava nell’occhio e voi avete tenuto sotto controllo le strade verso il confine.”
“Sì, si era parlato di un’ipotesi del genere, perché siamo certi che il mezzo non ha passato il confine. Ma non cambia molto.”
“Forse hai ragione. Un’altra cosa: hai detto che hanno sparato all’autista. Quindi qualcuno di loro si è messo alla guida. Quanti erano?”
“I testimoni non concordano, su questo…quattro li tenevano sotto tiro e forse tre uomini stavano vicino alla cabina di guida del camion. Ma potevano essere di più o di meno. Ma anche questo non ci aiuta. Un gruppo numeroso avrebbe dato nell’occhio, si saranno sicuramente divisi dopo il colpo.”
“Intendevo dire che uno di loro doveva essere in grado di guidare quel camion. E se tra di loro c’era un autista, l’omicidio del conducente era premeditato.”
“Beh, sì. Ma non credo che avessero intenzione di sequestrare il conducente, non sarebbe stato prudente. La situazione poteva farsi imprevedibile.”
“Hai ragione, ha senso. Ma continua a sembrarmi strano: portano via il camion, al confine nessuno lo vede, ma non viene ritrovato da nessuna parte.”
James rimase in silenzio.
“Se non fosse andato verso il confine? Se si fossero spostati a nord per far calmare le acque prima di provare ad attraversare? Le strade per il Messico sono tutt’ora sorvegliate, vero?”
“Sì, certo. Possiamo provare ad estendere le ricerche a nord…chissà che il camion non salti fuori. Una proposta del genere potrebbe farmi guadagnare un po’ di tempo con la commissione, ma non nega comunque la mia responsabilità per quello che è successo.”
“Un buon avvocato…” cominciò Tom, ma James lo interruppe.
“È la sanzione disciplinare che mi preoccupa. Potrebbe costarmi il congedo.” Tom udì l’amico schiarirsi la voce. “Senti, lasciamo perdere, per questa sera. Sono a pezzi e non ho più voglia di parlarne. Il tuo caso?”
“Senti, James, se vuoi che me ne occupi posso trovare un paio di colleghi che vengano con me a dare un’occhiata a sud. Male non può fare.”
“Non servirebbe a niente. Impossibile che scopriate qualcosa prima di venerdì. Lascia perdere.”
“D’accordo. Vuoi venire a bere qualcosa prima di cena? Dopo pensavo di fare un salto in un locale che sembra piacesse al mio cliente, mentre uno della commissione gioco d’azzardo avrebbe molto da ridire. Mi pare promettente.”
“Mi dispiace, ma non sarei molto di compagnia stasera. Ci vai da solo, in quel locale? È prudente?”
“Darò solo un’occhiata, sarò la discrezione fatta persona. Non prevedo guai.”
“Posso venire a guardarti le spalle,” si offrì James.
“No, non è il caso. Da solo mi mimetizzerò meglio con l’ambiente. Inoltre, solo il tuo taglio di capelli mi attirerebbe addosso tutti i gorilla del posto.”
James rise un poco: “Sta’ attento.”
“Tu resta ottimista, se ci riesci.” Tom strinse più forte la cornetta, sentendosi un poco in imbarazzo: “Possiamo vederci, domani?”
“Domattina starò smaltendo la sbornia che sto per prendermi. A cena?”
“A cena,” rispose Tom, con un sorriso. “Ti ubriachi in albergo? L’esercito non sarà soddisfatto della tua nota spese.”
“Hanno altre grane, per stare a discutere di quello che mi piace bere. A domani.”
“A domani.”
Riagganciarono.
Tom fissò dubbioso il ricevitore per qualche minuto. Non capiva perché James non volesse permettergli di indagare sulla faccenda.
Forse per la stessa ragione per cui a lui dava fastidio che James si impicciasse troppo della sua faida con Kuntz. Un misto di orgoglio, paura di uscirne sminuito agli occhi dell’altro, un po’ di consapevolezza di essere parzialmente in torto.
Non poteva certo costringere James ad accettare il suo aiuto.
Era parte del loro accordo: in quanto amici potevano sì appoggiarsi l’uno all’altro, ma non dipendevano l’uno dall’altro. C’era una sottile differenza, che in questo caso comportava che Tom rimanesse in disparte a guardare la caduta dell’amico.

Si preparò per andare a cena. Se c’era una cosa di cui sentiva la mancanza nella stanza sul retro era uno specchio vero e proprio, oltre a quello in cui si faceva la barba. Ci sarebbe voluto uno specchio a figura intera. Ma tanto sapeva già di essere fantastico, con quel vestito.
Infilò la rivoltella, una piccola calibro 35, nella tasca interna dalla sua giacca. Prese il solito soprabito e scese in strada.
Si incamminò verso il ristorante italiano all’angolo con la sedicesima.
Era il preferito di Butch Morrison. Quand’era vivo cenavano lì una sera sì e una no. Butch, e Tom con lui, era di casa. Anni prima aveva aiutato il proprietario con un brutto guaio e da allora i due erano diventati amici.
Entrare ‘Da Tony’ per Tom era piacevole e allo stesso tempo più doloroso di un pugno nello stomaco, da quando Butch era morto.
Tony Morello lo accolse come un nipote che non vedeva da troppo tempo.
“Sei elegante questa sera, Tom. Un incontro galante?” gli chiese, facendolo accomodare al tavolo che lui e Butch occupavano più spesso.
Tom sorrise: “Magari. Vado in un locale, dopo. Vedremo cosa mi riserverà la sorte.”
Tony gli scoccò un’occhiata severa: “È per lavoro?”
Era davvero incredibile come quell’uomo riuscisse da quasi dieci anni a farlo sentire come un monellaccio che ha appena risposto male.
“Sì, in effetti sì.”
“Perché non ti trovi un socio, figliolo? Sono sicuro che sarebbe meno faticoso e soprattutto meno pericoloso.”
“Non vado a fare nulla di pericoloso. Lo giuro.”
Era già la seconda volta che lo diceva. Si stava tirando addosso una sfiga pazzesca, di sicuro.
Tony prese la sua ordinazione ˗spaghetti e pollo al forno˗ e lo lasciò solo.
Da quel tavolo Tom poteva contemplare una foto di Butch, scattata in quello stesso luogo circa tre anni prima.
Lui e il suo partner stavano festeggiando la risoluzione di un caso. Tony aveva offerto loro del vino e poi aveva tirato fuori la macchina fotografica che Butch gli aveva regalato quando ne avevano acquistata una più moderna per il lavoro. Tony si era appassionato di fotografia e ogni tanto la macchina saltava fuori. Tra le foto di quella sera due o tre erano finite nell’ufficio nell’attico e una era appesa al muro ‘Da Tony’. Il suo vecchio socio si stringeva nelle spalle sorridendo, con gli occhi che brillavano di divertimento e per il vino.
Era un’immagine che metteva allegria e Tom la adorava. Quasi gli sembrava di cenare di nuovo insieme a Butch.
Quando Tony venne a portargli il caffè in una piccola tazza di porcellana anche lui rimase qualche istante a fissare la foto.
“A volte proprio non ci si spiega perché si debbano perdere degli amici. È difficile digerire quello che ti dicono in chiesa, le menzogne che fanno da colonna sonora ai funerali. Ed è un tale dolore vederti seduto da solo a quel tavolo, ragazzo.”
“Me la cavo bene. Sono un uomo adulto,” gli ricordò Tom, bonariamente.
Bevve il suo espresso.
“Già,” concordò l’uomo, con tono poco convinto.
“Mi serve la macchina di Butch, stasera,” fece Tom, scrollando il vecchio dalla malinconia.
C’era un piccolo parcheggio dietro il ristorante. Il suo socio aveva affittato un posto anni prima e Tom continuava a pagare. Ogni tanto la macchina gli tornava utile. Dato che ufficialmente era intestata alla loro agenzia di investigazioni, alla morte di Butch era passata a Tom senza formalità.
“Ma sicuro. L’ho fatta lavare da poco da quel ragazzetto nuovo che ho assunto. A dir la verità, la uso come punizione: fila a lavare la macchina del signor Ludlow! E bada di fare un buon lavoro, o ti farà arrestare!” Rise di gusto.
Quanto a Tom, non era molto soddisfatto di essere usato come spauracchio. A Morrison riusciva sicuramente meglio, grande e grosso com’era.
“Cerca di venire più spesso” gli raccomandò Tony quando l’accompagnò all’uscita, riuscendo ancora di più a farlo sentire un moccioso.
Tom lo salutò con la mano, facendo tintinnare le chiavi della vecchia Oldsmobile di Butch.

Guidò fino a tre isolati dal Tahiti Bar, poi parcheggiò la macchina a un lato della strada e fermò un taxi per farsi portare fino al locale. Il tassista borbottò per la corsa breve, ma già mentre si fermava davanti alle luci al neon dell’insegna dell’edificio un uomo e una donna gli fecero un cenno. Corsero al taxi tenendosi per mano, senza quasi dare a Tom il tempo di scendere. Sembravano piuttosto brilli.
Tom studiò la facciata del locale. Un paio di vetturini si occupavano di tenere gli sportelli aperti alle signore e poi parcheggiavano le belle auto sportive su cui erano arrivate, sotto la luminescenza dell’insegna che annunciava il nome del locale, accompagnato da un fiore tropicale. Ai lati dell’ingresso palme nane facevano le veci di colonne in marmo bianco.
Tom passò con disinvoltura tra due corpulenti uomini che accoglievano i clienti dopo le palme. Uno gli augurò buona serata.
Una volta dentro, Tom si prese qualche secondo per darsi un’occhiata intorno.
Il Tahiti Bar aveva deciso di sfruttare al massimo il suo nome. Gli arredi non avrebbero sfigurato in un locale sulla spiaggia in Polinesia. Tavolini in legno esotico, piante dalle foglie grosse e lucide, porte seminascoste da cascate di rampicanti finti, in seta e stoffa. Il bancone dove si servivano gli alcolici sembrava intagliato nella roccia vulcanica. L’effetto era amplificato dalle luci aranciate sapientemente nascoste nelle corolle di grossi fiori dai colori accesi.
Sul palco un cantante italiano con una giacca sgargiante e la sua band suonavano un mambo. Qualche coppia ballava, costringendo le cameriere ad evitarli abilmente, mentre reggevano i vassoi con le ordinazioni. Tutte le ragazze che servivano ai tavoli avevano i capelli scuri e lisci e la carnagione abbronzata; portavano tra i capelli fiori come le donne dei dipinti di Gauguin, ma Tom dubitava che anche solo una di loro fosse polinesiana.
Si avviò al bancone del bar, ancora poco affollato a quell’ora e chiese il drink della casa.
“Prima volta a Tahiti?” domandò il barista, giovale.
Tom ammise di sì.
Gli venne servito una complicata bevanda alla frutta, con delle decorazioni di scorza di limone e ananas fresco.
“Ma è delizioso…” gli scappò di bocca prima che potesse trattenersi.
“Assaggiatelo. È più forte di quello che sembra,” lo incoraggiò il barista.
Era vero: il cocktail era sia dolce che aspro, ma l’alcol si faceva sentire comunque. Non era affatto male.
“Fa per me,” stabilì Tom sorridendo.
Continuò a bere, studiando gli altri avventori del Tahiti Bar.
Sui tavoli i drink colorati si affollavano. L’ambiente era decisamente rumoroso e movimentato. Gli avventori continuavano ad alzarsi e a raggiungere altri gruppi ai tavoli più grandi o si dirigeva verso la pista, dove ora la band aveva attaccato uno swing.
Il bar si fecce affollato in un attimo, non appena la musica fece una pausa. Accanto a Tom si lasciò cadere seduta una biondina con un vestito che pareva acqua in un ruscello, con la scollatura ricoperta di brillanti. Appariva molto accaldata.
“Qualcosa da bere, Marv, prima che muoia soffocata!” gridò con gioia.
Buttò giù quello che le venne servito come fosse stata davvero acqua. Quando si fu ristorata Tom fu rapido ad accenderle una sigaretta.
“Grazie. Mamma mia quanto ho ballato! Non credo che potrò farvi compagnia sulla pista per ringraziarvi, signor?”
Tom si presentò, stringendole poi la mano.
“Nessun problema, signorina. Potete farmi compagnia per un drink e riposare i piedi.”
Lei rise: “Sono Annette Baker, signor Ludlow e credo che berrò un Martini.”
Tom ne ordinò due.
“Voi non eravate mai venuto qui prima, non è vero? Io conosco tutti qui dentro,” fece lei, scrutando il suo viso come per un riconoscimento alla stazione di polizia.
A Tom venne spontaneo farle vedere anche l’altro suo profilo e lei rise di nuovo.
“In effetti è la prima volta che vengo qui, signorina Baker. Sembra un posto gradevole per un ballo, a patto che si trovi una ragazza meno stanca di voi.”
“Oh, è un posto gradevole per molte cose,” rispose lei sorseggiando il suo martini. “Per le ragazze vestite come nei quadri di quel pittore, ad esempio. Moltissimi uomini qui dentro ne vanno pazzi. Danno quel tocco esotico in più, ma sono finte come quelle statue di idoli pagani in cartongesso. Nessuna di loro è hawaiana.”
“Credo che le donne di quel pittore fossero polinesiane,” corresse Tom.
“Che importa?”
“Niente, in effetti. Perché vi dà tanto fastidio? Il vostro fidanzato le guarda troppo?”
La ragazza fece spallucce: “Lui apprezza altre cose di questo posto. Come sa che sono con il mio fidanzato?”
“Una ragazza così carina deve avere un fidanzato. Non era con voi sulla pista da ballo?”
Lei scosse la testa: “Il mio fidanzato è sparito dietro una tenda non appena siamo arrivati. Ma faccia pure, mi divertirò con i miei amici e quando tornerà scornato lo pianterò in asso come ha fatto lui con me.”
“Sparito dietro una tenda? Ci sono altre sale?” chiese Tom, con studiata noncuranza.
“Allora è davvero la prima volta che venite qui!”
Annette si sporse verso di lui con aria cospiratrice.
“Vedete quella porta?” gli chiese, indicando con il mento un passaggio dietro una delle cascate di rampicanti che Tom aveva notato entrando.
Lui annuì.
“Beh, lì si gioca d’azzardo. Il mio fidanzato lo fa ogni volta che veniamo qui. Perde un sacco di soldi e poi è così intrattabile! Mi fa venire voglia di piantarlo qui e andarmene con un altro,” asserì Annette, senza scostarsi dal braccio di Tom.
Lo fissò intensamente, per quanto riuscisse con gli occhi un po’ annebbiati dalla leggera sbronza.
“Non merita una seconda occasione, il vostro fidanzato?” le chiese Tom, invece di baciarla.
Lei fece una smorfia.
“Ha avuto dozzine di seconde occasioni. Oh, no! I miei amici! Mi ritrascineranno a ballare. Dovete aiutarmi!” gli disse ridendo, mentre l’orda di amici e amiche la sollevava quasi e la trasportava di nuovo sotto il palco.
Tom le rivolse un cenno di solidarietà, prima di tornare a girarsi verso il bancone.
“Siete un tipo fascinoso. Non ci avete messo niente a trovare compagnia. Perché ve la siete lasciata sfuggire?” gli domandò il barista, con vago tono di rimprovero.
“Preferisco quando non ci sono fidanzati di mezzo, ecco tutto,” gli rispose Tom, finendo il drink e lasciando la mancia.
Si alzò e si avvicinò ai tavolini. Ne scelse uno un po’ in disparte, alle spalle di un gruppo numeroso e si mise ad osservare le porte dietro le tende di rampicanti.
Ogni tanto qualche avventore vi scompariva attraverso e le ragazze in costume polinesiano ne emergevano con vassoi di bicchieri vuoti. Tom aspettò che la musica finisse e, nella ressa di corpi che si affannavano per raggiungere il bar o le toilette e di ballerini che riguadagnavano i loro tavoli, si affrettò a farsi inghiottire dalla penombra del corridoio dietro i fiori finti.
Non incontrò nessuno nel corridoio, né dovette appiattirsi contro il muro per far passare una cameriera carica di bicchieri e insofferenza per i clienti ubriachi e invadenti.
Già dopo pochi passi i rumori provenienti dalla sala principale parvero venire risucchiati dalla penombra e quando il corridoio curvò a destra sparirono del tutto. Persino le percussioni che provenivano dal palco erano poco più di un brusio.
In compenso, davanti a lui sentiva del movimento e voci contenute: dietro una pesante tenda di velluto rosso trovò la sala da gioco segreta del Tahiti Bar.
La stanza era più grande di quanto si sarebbe aspettato e non era niente di così volgare come una bisca clandestina (cosa che nominalmente era). I tavoli da poker erano immersi in quel silenzio spettrale che tipicamente si instaura tra uomini cui le convenzioni non impongono la conversazione. Avvolti nelle loro nubi di fumo brumoso, gli occupanti dei vari tavoli seguitarono a giocare, ignorando Tom che era appena entrato e chiunque fosse intorno a loro, quasi che non si trovassero in realtà in un locale chiassoso e affollato, a pochi passi da dove molti ballavano e si godevano la serata.
Tom si chiese quale fosse il fidanzato di Annette, in ostaggio dei suoi amici sulla pista da ballo, nel suo splendido abito da sera che tanto invogliava a lasciarle scivolare gli occhi addosso. Forse il tipo era uno dei giocatori di poker o magari si trovava al tavolo del back jack, in fronte a uno dei croupier in gilet e farfallino.
Le donne erano molto poche, due o tre che sembravano lì per la stessa ragione degli altri e un’oca bionda che un tipo usava da portafortuna, chiedendole di compiere piccoli riti scaramantici. Sembrava che lei non potesse farlo senza ridacchiare ogni volta. Il suo compagno non sembrava altrettanto divertito.
Molti degli uomini presenti sembravano perfettamente padroni di sé, ma al tavolo dei dadi un tizio faceva un casino d’inferno invocando la fortuna e maledicendo i lanci degli altri, segno che oltre ai suoi soldi stava perdendo il controllo.
Qualcuno aveva negli occhi quella luce febbrile che viene spesso associata alle dipendenze.
Può sembrare un cliché, ma è la verità: ci sono pensieri che bruciano e devono venir fuori, manifestarsi in qualche modo, in mani che tremano, lingue asciutte, gioia incontrollata o occhi lucidi. Non siamo fatti per nascondere niente. Non abbiamo un quadro magico che invecchia per noi e ci protegge dai segni degli eccessi della vita.
Tom si avviò al bar. Il bancone non era a forma di vulcano, qui. Era molto sobrio, elegante e lussuoso, certo, ma in linea con il resto della sala. Niente allestimenti tropicali, niente costumi e scherzi: lì si faceva sul serio.
Ordinò un whisky, tenendo gli occhi incollati ai giocatori. Andy Butler non era tra loro, a sperperare qualche vincita passata o a far fuori gli ultimi spiccioli del suo stipendio.
Col suo drink in mano, Tom si avvicinò al tavolo del black jack. Non giocare avrebbe dato nell’occhio. Il croupier lo salutò in francese, perché tale è la lingua di quel popolo dalle dita incredibilmente agili e dagli occhi astuti e indifferenti.
“Siete nuovo, monsieur,” aggiunse dopo una breve pausa.
Certo al Tahiti tutti i dipendenti conoscevano per bene la loro clientela.
Tom annuì: “È stato un amico a parlarmi di questo posto. Ho aspettato un po’, ma alla fine mi sono deciso a farci un salto.”
Allungò venti dollari all’uomo, che glieli cambiò in fiches.
Tom si chiese dove avrebbe riconvertito le fiches in denaro. Probabilmente parlando con un paio di bestioni grossi e duri come muri di mattoni.
Quasi evocati dal suo pensiero, due uomini corpulenti si avvicinarono al tipo che faceva casino giocando a dadi e lo convinsero senza clamore a seguirli in un’altra stanza. Il tizio pareva sgonfiato, tutto il suo vociare evaporato in un attimo.
Tom ripuntò lo sguardo sul croupier e chiese una carta. Perse. Giocò ancora, ma al terzo tentativo, il croupier rifiutò di dargli carta. Abbassò le braccia e si scostò dal tavolo.
“A voi non importa di giocare, monsieur,” disse, con voce inespressiva e Tom sentì quasi immediatamente qualcuno che si avvicinava alle sue spalle.
Si voltò e si ritrovò a fissare un’orribile faccia piatta.
“Sareste tanto cortese da venire con me, signore?” gli domandò il tizio, calandogli una mano sulla spalla con gentilezza, all’apparenza, ma cominciando subito a stritolargli le ossa.
Non c’era niente di più ripugnante di un uomo violento che finge di essere compito, a parere di Tom. Era una tale stonatura di menzogna sulla realtà.
Scrollò via la mano del bestione con forza mentre rispondeva con tono tranquillo: “Non vedo perché. Sto giocando.”
“No, che non state giocando. Vedete? Il banco è chiuso,” fece quello, senza spostarsi di un millimetro.
Il croupier si era allontanato silenzioso come un indiano.
Tom si alzò e il bestione fece un passo indietro, come a cedergli il passo, poi lo affiancò per scortarlo verso la stessa porta da dove era scomparso il tizio dei dadi. Nessuno degli avventori della sala segreta ebbe qualcosa da ridire. Molti non voltarono nemmeno la testa.
I due uomini percorsero un altro breve corridoio, anch’esso poco illuminato.
“Chi vi ha parlato di questo posto, amico?” lo interrogò il bestione dalla faccia piatta, abbandonata ogni illusione di cortesia ora che non erano più in mezzo ai gentiluomini.
Sembrava molto più a suo agio nel ritornare al linguaggio che gli era abituale.
“Un tale. È un po’ che non lo vedo. Si chiama Andy Butler. Diceva sempre di essere di casa qui.”
“Certo, come no. E voi siete venuto giusto per fare una puntatina.”
“Credevo che fosse quello che offrite.”
Entrarono in una stanzetta spoglia dall’aria minacciosa. Ma che offriva a Tom una maggiore libertà di manovra rispetto al budello che avevano appena attraversato.
Il bestione lo fronteggiò, adesso, tirando fuori dalla giacca un piccolo randello di cuoio.
“Tu credevi di poterci fregare, furbone. Ma le cose non stanno così. Sei un poliziotto? Ti conviene dirmelo: non uccidiamo i poliziotti, ci limitiamo ad assicurarci che abbiamo compreso la lezione.”
“Non sono un poliziotto.”
Quello scrollò le spalle.
“Tanto peggio per te,” disse prima di caricare con il braccio armato alzato.
Tom fece mezzo passo indietro e bloccò il braccio che impugnava il manganello mentre calava su di lui. Poi lo fece ruotare verso l’interno e il bestione, costretto dal suo stesso impeto ad assecondare il movimento, si ritrovò inginocchiato a terra, con Tom alle sue spalle. Se avesse avuto entrambi i pedi ben piantati a terra, il suo braccio si sarebbe spezzato e basta.
Tom glielo disse.
“Ma non è troppo tardi, sai?” fece, torcendoglielo e assestandogli un calcio nelle reni.
“Fermo così, adesso, da bravo,” intervenne una voce sconosciuta.
Tom alzò lo sguardo e incontrò il luccichio ammiccante di una rivoltella.
‘Sono un dannato idiota’ si disse, immobilizzandosi.
“Ora vedi di stare calmo, amico, e non succederà niente di niente.”
L’uomo che impugnava la rivoltella con aria tranquilla era uno spettacolo. Era alto e sottile, con un sorriso tutto appuntito.
Indossava un abito viola, con una camicia bianca e una cravatta a fantasia nera e bianca. Anche le scarpe erano viola, di pelle verniciata, così lucide da sembrare nere, se non fosse stato per i riflessi di colore. Ma la vera chicca era il cappello dell’uomo, con tanto di piuma sul lato.
Tom rifletté che l’uomo non sarebbe sembrato fuori posto in un solo luogo: la strip di Las Vegas, possibilmente con una bella macchina, un sigaro, dei tirapiedi e bellezze in abiti di strass.
Finalmente Tom gli rispose: “Non sono io che ho una pistola. Non penso che mi muoverò.”
Era vero, non sarebbe mai riuscito a estrarre la sua arma dalla tasca interna della giacca prima che l’uomo in viola gli rovinasse il suo sobrio abito da sera nero.
“Ti prego di non rompere un braccio a Nick. Se lo meriterebbe certamente, visto che ti ha minacciato e aggradito sotto il nostro tetto, ma sarebbe così volgare vedere il responsabile della sicurezza della sala con un gesso.”
“Se lo meriterebbe perché mi ha aggredito sotto il vostro tetto? Avrebbe dovuto portarmi nel vicolo dietro il locale?”
“Avrebbe potuto limitarsi a buttarti fuori, nel vicolo dietro il locale,” rispose l’altro con voce gelida, fissando il povero Nick, ancora costretto sulle ginocchia.
Nick grugnì qualcosa, a metà tra una giustificazione e un lamento.
“Da bravo, amico, lascialo,” continuò l’uomo in viola, mentre un altro bestione entrava alle sue spalle.
Era un gigantesco uomo di colore, che si limitò a passare lo sguardo su tutti gli occupanti della stanza e rimase immobile.
Tom lasciò andare Nick, pensando incoerentemente tra sé ‘e così ti piacciono grandi e grossi, eh?’
“Ecco, vedi? Non c’è ragione per non andare d’accordo. Come hai saputo di questa sala?” chiese l’uomo, abbassando la rivoltella e mettendosi a sedere dietro una scrivania sgangherata.
“So di un tizio che ci veniva a giocare. Lo sto cercando. Si chiama Andy Butler.”
L’uomo in viola ebbe un lampo di riconoscimento negli occhi, ma non disse nulla. Disse invece: “Credo che dovremmo presentarci. Io sono Randall Flagg e tu sei a casa mai. Vedi di non dimenticarlo. Perché cerchi quel tipo?”
Tom si presentò: “Sono un investigatore privato. L’uomo è scomparso e sua figlia mi ha assunto. Una cara ragazza cui hanno inculcato il mito dell’amore filiale.”
Nick, che si era trascinato un po’ rigidamente dietro Flagg, lanciò un’occhiata imbronciata a Tom: “Bastava chiedere. Andy non si fa più vedere qui da un po’. Sarà occupato.”
“Ne dubito. Anche al lavoro non lo vedono da un po’,” rispose Tom. “O Butler si è dato ad occupazioni più redditizie che guidare i camion?” chiese, guardando i tre malviventi.
Flagg fece spallucce: “Penso che si possa dire che abbiamo in un certo senso traviato quel pover’uomo. Non fraintendermi, Andy è un bastardo fatto e finito, ma non aveva mai infranto più di tanto la legge. Giocava spesso qui e aveva accumulato qualche debito, tempo fa. Così, dato che ho il cuore tenero, e tu puoi testimoniarlo...”
“Finora,” intervenne Tom.
“…invece di minacciarlo o altro gli ho offerto un lavoro. Saltuario e non dissimile da quello che lui sa fare meglio. Guidare.”
“Andy Butler è un autista del crimine organizzato?” chiese Tom.
“Altolà, senza correre. I fatti risalgono a circa tre anni fa. Io gli ho offerto un lavoretto e poi un altro, ma Andy non aveva grossi conti in sospeso. Non era un forte giocatore. La nostra collaborazione è stata breve.”
“Se Andy non aveva debiti perché ha preso il largo, allora? E ha davvero preso il largo, o è in qualche fosso fuori città?”
Chissà, magari Nick si era fatto trasportare.
“Ti ho detto che la nostra collaborazione è stata breve. Io sono un uomo d’affari e il mio campo è il gioco d’azzardo, ma ci talmente tante attività remunerative, in una città come questa…” fece Flagg, facendo un gesto grazioso con la mano che ancora impugnava la rivoltella.
“Diciamo che forse non siamo i soli uomini poco rispettabili con cui è venuto a contatto,” spiegò il nero.
Aveva una voce piacevole, da tenore. Denti bianchi balenarono in un sorriso fuggevole.
Tom soppesò l’informazione.
Per saldare i debiti con Flagg, Andy Butler aveva lavorato per lui come autista, si presupponeva non per consegnare fiori. Ma in un ambiente del genere le voci corrono e gli uomini in gamba e discreti non si lasciano scappare. Qualcun altro poteva essersi avvalso della sua abilità. Andy integrava lo stipendio lavorando per la malavita? Questo avrebbe spiegato come riusciva a saldare i debiti e a ben vedere anche perché cambiasse casa così spesso: forse gli indirizzi che gli aveva fornito Maria non erano che la metà dei rifugi che si era trovato in quegli ultimi anni. Chiunque avrebbe avuto difficoltà a trovare casa sua, ma Andy si premurava di far sapere che amava posti come il Tahiti Bar. Ed ecco il modo di contattarlo: cercarlo nei club in cui si giocava. Tranne per il fatto che ora anche nei club in cui andava per essere trovato non c’era traccia di lui.
Rimaneva comunque un dubbio.
“Perché mi avete dato queste informazioni così spontaneamente?” chiese a Flagg.
“Non sono informazioni che mi danneggiano,” rispose quello. “Andy non ha più niente a che fare con me da quel punto di vista. Ogni tanto viene al locale, ma nulla più. Se tu fossi un poliziotto, ti avrei comprato perché chiudessi un occhio sulla nostra saletta riservata. Ma tu sei un investigatore e non ti conosco. Non so cosa cerchi. Hai chiesto informazioni e bene, le hai avute. Se tu uscissi da qui, sulle tue gambe e tutto intero, e tenessi il becco chiuso potremmo entrambi ritenerci soddisfatti dallo scambio, o manca qualcosa?”
“Credevo avessi detto che hai il cuore tenero. Ora mi minacci anche tu sotto il tuo tetto?”
“Ho detto la verità: l’omicidio non è la prima risposta a tutto, ma rimane comunque un’eventualità.”
“Non voglio soldi. Alcuni investigatori sono tali e quali ai poliziotti, ma la maggior parte sono come quei poliziotti che non puoi comprare. Non perché hanno gli stessi ideali di giustizia, ma semplicemente perché l’unica cosa che gli importa è arrivare in fondo a una faccenda, rivoltarla per bene e trovare la spiegazione di tutto.”
“Devono essere perennemente insoddisfatti,” commentò il nero.
“Il più delle volte, certo,” concordò Tom.
Flagg ripose la pistola e allargò le braccia, come a dire: ‘bene, abbiamo finito?’
“Arrivederci, signor Ludlow. Chissà che non mi possa servire il tuo aiuto, una volta o l’altra.”
Si alzò e si lisciò la cravatta bianca e nera.
“Potete trovare di meglio, con tutti i soldi che guadagnate in questo posto.”
“Nick, puoi accompagnare fuori il nostro nuovo amico?” fece Flagg, dando poi le spalle a Nick e Tom e uscendo accompagnato dal nero.
Nick lo accompagnò nel vicolo posteriore, sbirciandolo di sottecchi, quasi si aspettasse che Tom lo colpisse. Fece quasi un balzo quando Tom si infilò una mano nella giacca per prendere le sigarette.
Tom lo salutò cordialmente: “Senza rancore, eh, Nick?”
Si avviò verso la sua macchina, parcheggiata a tre isolati di distanza.

Erano quasi le due quando entrò nel suo ufficio e si lasciò cadere dietro alla scrivania. Rinunciò al caffè e si versò da bere.
La prossima mossa sarebbe stata cercare di scoprire se Andy aveva dei precedenti, e se gli agenti assegnati al caso li avevano controllati. Probabilmente sì, ma poteva anche darsi che su Andy non risultasse nulla direttamente. Forse però era segnalato come frequentatore di altri soggetti con precedenti segnalati.
Sua figlia certamente non ne sapeva nulla, o gliene avrebbe parlato: anche se avesse saputo del secondo lavoro di suo padre, avrebbe forse taciuto con la polizia, ma non c’era ragione per non rivelare a lui un particolare tanto importante.
Tom decise che la mattina successiva avrebbe contattato un collega che gli doveva un favore. Lui non poteva dire di avere amici, al dipartimento di polizia, quindi controllare eventuali precedenti o le frequentazioni abituali di Andy negli ambienti del crimine poteva risultare complicato. Per fortuna poteva contare su un po’ di solidarietà tra appartenenti alla stessa categoria.
E dopo? Non gli era chiaro che cosa avrebbe fatto dopo. Se anche avesse accertato che Andy Butler se la faceva con dei delinquenti di professione, non era pensabile l’idea di andare a pescarli uno per uno per fare domande. Si sarebbe ritrovato con un buco nella schiena prima di mettere il punto interrogativo al fondo di una frase. Non poteva contare di trovare molti soggetti come Randall Flagg, per il quale l’omicidio non era la prima reazione. Per molti delinquenti di L. A. commettere un omicidio era un po’ come per un uomo educato togliersi il cappello per salutare una signora.
Ci avrebbe pensato. Forse, una volta raccolti sufficienti elementi la cosa migliore da fare sarebbe stata passarli al sergente Bayles. Ma Maria non sarebbe certo stata molto soddisfatta, se ritrovare suo padre avesse significato farlo arrestare per contrabbando. Perché di contrabbando doveva trattarsi. Andy guidava mezzi pesanti e a pensarci bene, le sue normali consegne avrebbero fornito una copertura perfetta: la Quicktrans effettuava consegne fuori città e verso sud con regolarità. Andy ne aveva effettuata una a cavallo della fine del mese scorso, ad esempio.
Tom sperò di riuscire a trovare qualcosa di utile nell’appartamento dell’uomo, il giorno dopo.
Sarebbe andato a prendere Maria in macchina al suo ufficio. Se fosse stato possibile avrebbe tenuto per sé quanto aveva scoperto quella notte, ma poteva rivelarsi necessario interpellare Maria sulla possibilità di fornire quegli elementi agli agenti.
Tom se ne andò a dormire, esausto, nella stanza sul retro, dopo aver risposto con cura l’abito da sera.
Si chiese fuggevolmente se Annette fosse tornata a casa con il suo fidanzato.
Pensò molto più a lungo a James, che si ubriacava nella sua stanza d’albergo.

Note:
Questo è forse il capitolo che deve di più a 'Il lungo addio'
Tom mi sta un po' sulle balle, qui, troppo furbo e fortunato. Ah, rimedieremo, prima della fine!XD
   
 
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