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Autore: Galatea delle Sfere    19/07/2019    2 recensioni
Questa fic partecipa alla challenge: "Verdadeiras Cores", indetta da carachiel, pacchetto giallo.
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Faker parte e Byron non è mai stato bravo con i saluti.
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[Post serie] [velato - neanche tanto - Shounen ai]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Byron Arclight/Tron, Dr Faker
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lo spazio di un addio



 
Il ragazzo vicino a Byron ha una singolare giacca di pelle arancione con annessa una coda di volpe e degli spessi occhiali a montatura rettangolare che non fanno altro che enfatizzare la forma a palloncino della sua testa.
Sbuffa ancora, si dondola sui talloni e si imprime sui timpani il vociare concitato della gente che affolla l'uscita dell'aeroporto di Heartland. Scorge due anziane signore ridacchiare fra loro, con dietro i rispettivi compagni che si fanno cavallerescamente carico dei bagagli, una tipetta dal valigione a fantasia floreale correre incontro ad un uomo appostato a qualche metro di distanza da lui, e una ragazza dal tailleur grigio perla dirigersi fuori a passo spedito, un'ondata di orgoglio enfatizzata dal trucco che solca i lineamenti acerbi da giovane donna in carriera.
Byron li osserva e non può fare a meno di invidiarli. A dire il vero, non può fare a meno di invidiare ognuno di loro, persino quel cosplayer con il volto a palloncino. Dio, non sta fermo un attimo, la felicità lo sta divorando vivo. Pare un girasole impazzito di luce, e Byron non sa perché gli sia venuto in mente proprio quel paragone; saranno stati i capelli biondo oro, da occidentale – forse ispanico, o italiano, chissà –, o il corpo che ancora trema dalla testa ai piedi per un'emozione che fatica a contenere. Lo urta una terza volta col trolley, scusandosi in un inglese stentato. Byron avverte l'impulso di mandarlo al diavolo, ma il suo sangue londinese lo trattiene, e allora trova la forza di stirare nella sua direzione soltanto un sorriso condiscendente. Un sorriso a metà, come lo definisce sempre lui, dal momento che la maschera si mangia sempre il lembo di labbra mancante.


«Perché?» chiede solamente. Deve ancora metabolizzare la notizia, è arrivata troppo all'improvviso e le proprie sinapsi si rifiutano di collaborare.
Faker si stringe nelle spalle.
«Così, da un giorno all'altro
»
«È da un po' che ci penso» rivela l'amico, colpevole.
«Ma per quale motivo? E dove?!»
Faker studia senza reale interesse le vie affollate di Heartland city, le mani rugose ora aggrappate alla superficie metallica del balcone. Ha i capelli più corti, sempre stopposi, ma ormai bianchi come la neve. È anche notevolmente più magro, adesso che ci fa caso – come diamine ha fatto a non accorgersene negli ultimi mesi?
Più incurvato, più gracile
Byron ha l'impressione che possa frantumarsi da un momento all'altro. Crollare.
È questo a cui pensa quando afferma che partire sarebbe una pessima idea.
«Per me o per te?» rilancia Faker, voltandosi a fronteggiarlo con due iridi che brillano di sfida.
Byron incassa senza fare una piega. Ha incasellato nell'anima il tipico aplomb inglese, quello di cui tutti i film parlano e che ognuno finge di ammirare. È lì, legato a doppio filo al suo DNA, eppure è incompleto. Deve essere la componente irlandese della madre. Sì, probabile. In questo, fortunatamente, la maschera l'aiuta, sopperendo a quella mancanza accusata dai propri geni.
«Per entrambi.»
Faker assottiglia le palpebre e torna a guardare in basso. Gli riesce piuttosto bene, ormai. «Ne dubito.»
Byron lo osserva ancora, e, malgrado gli stia a pochi centimetri, è certo di non aver mai sentito Faker così distante da lui come in quel frangente. Nemmeno quando ha urlato il suo nome in preda alla rabbia cieca, inghiottito dal buio e dal vuoto assieme a Kazuma, in quella che ormai gli pare un'altra vita.
«Perché?» incalza ancora, disorientato – ferito. «Perché, Faker? Perché vuoi andartene proprio adesso? E da solo, per giunta! Dico, hai idea di come la prenderà Hart?!»
«Hart non è più un poppante» ribatte tagliente Faker. «Sa badare a se stesso.»
«Mentre tu sai bene che mi stavo riferendo ad altro.»
Nessuna replica.
Byron fa un respiro profondo. «Ascolta, i-»
«No, tu ascoltami» scatta invece Faker, facendolo trasalire. Lo inchioda nuovamente con lo sguardo e stavolta non è in grado di sostenerlo. Vi è una strana aggressività, in quell’occhiata sorda a qualsiasi domanda, e una risolutezza talmente solida da ferire gli occhi. Stenta quasi a riconoscerlo.
«Voglio andarmene di qui, ok? L'aria di questa città mi sta ristagnando sulla carne, e, se non faccio qualcosa in fretta, mi ritroverò a marcire sopra una stupida poltrona di un'altrettanta stupida pensione per vecchiacci dove vengono abbandonati i parenti di chi non ha più la pazienza di averci a che fare.»
«Non succeder-»
«Voglio coltivare una passione che non ho più avuto modo di assecondare.» Le iridi violette di Faker si illuminano, pazze, brille di eccitazione, la voce che vibra come quella di un bambino che scorge i regali sotto l’albero di Natale.
E lui non può fare altro che rimanere a subire, rigido come un automa.
«Voglio viaggiare, Byron, tornare a vedere cosa c'è fuori di qui. Mi sono perso molto in questi anni e adesso ho intenzione di recuperare!»
Byron ha un moto di nostalgia. Perché non sta più parlando con lo stesso Faker, ora. Perché il Faker che adesso gli sosta davanti e che si esprime con entusiasmata foga è un Faker dai contorni sbiaditi dal tempo, un Faker con la testa piena di sogni e il riso in ogni suo movimento, un Faker dinamico, curioso, innamorato del mondo, un Faker con tanti progetti sulla scrivania e al fianco una moglie attiva e assetata di novità, un Faker che credeva non avrebbe mai più rivisto e che ha scelto il momento peggiore per tornare.
Vorrebbe dirgli – urlargli – una marea di cose, ma il nodo che nel frattempo gli è cresciuto all'altezza della gola gli toglie la voce, ed è costretto a sforzarsi più volte per ritrovarla, per mantenere il timbro fermo. «Fatti almeno accompagnare.»
«Non sarebbe la stessa cosa. I turisti vanno in compagnia, e io non voglio viaggiare da turista, bensì da uomo. Non riuscirò mai a cogliere la completa bellezza in ciò che vedrò se sarò ostacolato da qualcun altro.»
«Ma Hart
»
«Ci parlerò questa sera e sono sicuro che non avrà nulla da ridire. Lui vuole solo il mio bene.»
Byron si morde il labbro così da placarne il tremore. «Per quanto starai via?»
«Chi può dirlo. Finché ne avrò voglia.»
Il suo incompleto aplomb inglese lo aiuta a sopprimere le lacrime sempre più impellenti.
Byron sa che non è un addio, eppure da parecchio tempo non riesce più a sopportare neanche gli arrivederci. Da parecchio tempo ha preso ad odiare tutto ciò che separa, che sia una partenza, un saluto, un gesto, una frase, uno sguardo, un'imposizione. Una scelta, come quella presa da Faker.
«Sei ancora sicuro che farebbe male ad entrambi se io levassi le tende per un po'?»
Adesso lo sguardo dell’amico è più rilassato ma ugualmente provocatorio, astuto, di chi la sa lunga ma aspetta che sia comunque l’altro a svelarsi. Però Byron non è mai stato tipo da confidenze, nemmeno con i suoi genitori, nemmeno con se stesso.
Il cuore pulsa tanto da fargli male, tuttavia riesce a trovare il coraggio di inghiottire il nodo alla gola e dichiarare un ironico: «Tzè, ma fammi il favore! Scherzavo, prima, non credevo ci fosse bisogno di dirtelo. Insomma, ho finalmente la possibilità di liberarmi di te! Ti pare che sono così cretino da bruciarmela? Quando mi ricapiterà?»
Faker sorride con malizia. «Quindi non ti mancherò.»
«Neanche un briciolo.»
«Per me è lo stesso.»
Byron abbozza un sorrisino sornione e si lascia superare, tornando investito da un silenzio spoglio che diventa via via sempre più consapevole.


La sua prima tappa è stata la Corea del Sud, rammenta. Faker era su di giri, gli inviava foto su foto e scriveva in continuazione quanto fosse figo questo o quell’altro edificio. Il come molte zone assomigliassero di brutto, ma proprio di brutto, a quelle di Heartland, solo che più trash!
Byron, suo malgrado, era rimasto divertito dal suo entusiasmo e aveva finito per essere contagiato dal tutto quel buon umore. D’altronde, ai tempi era solo una settimana che stava via e, se la decisione dell’altro fosse servita alla fine per farlo riprendere dalla montagna di apatia che gli era piovuta addosso nell’ultimo periodo, beh, allora tutto sommato sarebbe stato disposto ad accettarlo, convinto del fatto che l’altro sarebbe certamente tornato per le vacanze universitarie di Hart.
Era seguita l’Australia, e Faker non si era fatto scrupoli a piantarsi per una decina di giorni al Nullarbor Plain, facendogli prendere non pochi spaventi.
«Faker, per Dio, hai settant’anni! Datti una calmata!» era esploso un giorno al telefono, avendone fin sopra i capelli. Lo graffiava il terrore feroce che una di quelle mattine l’altro potesse stramazzare al suolo brullo, annientato dalla fatica e dal caldo cocente, lì, in mezzo al nulla, senza niente, senza nessuno. Lo sognò in quelle condizioni anche diverse notti, svegliandosi ogni volta con l’urlo aggrappato alla gola e il sudore ad imperlargli la fronte. Lo minacciò anche, in più occasioni, di venire a riprenderlo così da riportarlo di peso alla sua abitazione, strappandogli sempre colorite imprecazioni in risposta.
«Parli come se fossi già con un piede nella fossa! Fammi godere il tempo che mi rimane senza stare a rompermi i-»
«Non capisci che il tuo corpo non è lo stesso di prima, maledizione?! Non potrai reggere tutto questo ancora a lungo!»
«Lo dici tu!» aveva sbraitato Faker, testardo come un mulo.
E Byron l’aveva odiato, in quel momento, era tornato ad odiarlo dopo numerosi anni in cui si era quasi chiesto come diamine avesse fatto a covare tutto quel rancore, tutto quel risentimento che invece ci aveva messo così poco, in fin dei conti, a ripresentarsi, ribollendogli nelle vene. «Sei uno sconsiderato,» aveva decretato, velenoso, «uno stupido sconsiderato che non sa a cosa va incontro.»
«Forse quello sei tu, Byron.»
«Come?»
«Forse ora che mi sono tolto dai piedi avrai finalmente modo di capire quale parte di te non è rimasta infettata dal mio passaggio. Mi hai messo al centro di tutto per una vita, e non hai smesso neanche dopo aver perdonato le mie colpe. Pensare a me ti ha fatto scordare di te, di ciò che eri prima di incontrarmi.»
«Ma che cosa stai dicendo?»
«Che devi iniziare un po’ a riscoprirti, esattamente come io sto facendo con me stesso.»
Byron era sconcertato. «Dico, ma hai cominciato a drogarti?»
Quelle parole, quel discorso… non erano da Faker. Non poteva essere Faker quello dall’altra parte della cornetta. Si era rifiutato di crederlo.
«Ora devo andare, ci sentiamo. Però tu riflettici, d’accordo? Ti farà bene.»
Erano passate altre settimane, durante le quali Faker si era curato di fargli sapere che non sarebbe passato per l’inverno e nemmeno per la primavera successiva. Un senso di affanno aveva così preso ad affacciarsi sul suo petto, prontamente sedato dal più giovane dei Tenjo, il quale, da quando il padre aveva iniziato a girellare per le Nazioni, aveva deciso di aumentare le sue soste in casa Arclight.
«Come fa a starti bene questa situazione? Ti sembra normale che, alla sua età, questo prenda e parta come se nulla fosse?»
«Mentirei se ti dicessi che non sono preoccupato» aveva bisbigliato Hart. «Però, sai, prima ho parlato con lui al cellulare e… cavolo, era da molto che non sentivo la voce di papà così accesa. Da quando se n’è andato è più sereno, gioioso.»
Non c’è spazio per noi nella sua felicità, era stato il pensiero che gli era saettato nella mente con una velocità tale da artigliargli il cuore.
«Non sarebbe giusto rovinargli tutto solo per un nostro desiderio egoistico, non trovi? Voglio che papà stia bene, anche se questo dovesse comportare non averlo accanto a me.»
«Hai ragione» aveva balbettato commosso. Sopraffatto.
Perché, no, non era giusto, ma non era nemmeno giusto distruggere la sua routine in quella maniera. Franare le sue certezze. Di nuovo.
«Ehi», aveva cambiato argomento l’altro, con una nuova vivacità negli occhi brillanti, «Sbaglio, o ti sei alzato dall'ultima volta che ti ho visto?»
«Può essere.»
Adesso Byron sfiora di nuovo il metro e ottanta e probabilmente il viso riflette anche la giovinezza di un tempo. Non lo sa. Ha smesso di guardarsi allo specchio da molti anni.
Non sa nemmeno quanti mesi siano trascorsi dall’ultima volta che lui e Faker si sono contattati. Forse dodici o tredici, forse il doppio. Non sa nemmeno dire come entrambi abbiano smesso di sentirsi, sa solo che è stato un percorso lento, graduale, che ambedue hanno superato senza nemmeno avvedersi di essere arrivati al suo culmine. Come se l’uno non fosse mai esistito per l’altro. Sa solo che ad un certo punto qualcosa è scattato dentro di lui e ne ha avuto piene le tasche di quella storia, di quella distanza che Faker ha scelto e che ora lui ha deciso di troncare. Non vuole obbligarlo a rimanere per sempre, è consapevole di non averne più il diritto, però gli piacerebbe se si fermasse almeno per qualche giorno. Perché non è giusto, ma lui ne ha bisogno. E poi vuole dirgli che si è sbagliato, che non è vero che ha completamente smesso di pensare a sé, che al contrario si può pensare alla propria persona e trovare lo stesso il tempo di pensare agli altri. Così ha sempre fatto e continuerà a fare.
Oggi Faker torna da Enschede e Byron ha intenzione di bloccarlo prima che riparta.
Lo intravede in lontananza farsi strada fra due coniugi di mezza età, provati ma contenti. E ha un mancamento. Una scarica di emozione lo investe come un treno in piena corsa ed è obbligato ad appoggiarsi al manico del trolley rattoppato del cosplayer pur di non cadere a causa delle ginocchia molli.
Non riesce a schiodargli gli occhi di dosso, a smettere di studiarne i capelli meno stopposi, la sua postura eretta e il piglio sicuro dei movimenti, la polo che fascia il petto più ampio e robusto, il volto ancora rugoso ma abbronzato, privo di occhiaie. Privo di ombre.
Del Faker che è partito la mattina nuvolosa di uno o due anni fa non è rimasto più nulla. E Byron tenta di ricacciare indentro una bruciante consapevolezza che aveva già iniziato a serpeggiargli nella schiena nel medesimo istante in cui le loro strade si erano divise.
Quando infine incrocia il suo sguardo, nota come l’altro sia sorpreso di trovarlo lì. Probabilmente crede sia un abbaglio. Andiamo, Byron Arclight che lo viene a prendere senza preavviso all’aeroporto dopo mesi che neanche si sentono?
Eppure Faker accelera il passo, deciso, come se fosse in effetti smanioso di accertarsi che lui sia lì in carne ed ossa. Che non sia un sogno, quello.
E il nodo alla gola torna, più solido di prima. Perché Faker gli è di fronte, ora, come un tempo, agitato, colpito, i bagagli già a terra e sulla bocca un reggimento di domande che Byron non si cura neanche di ascoltare.
«Oh, allora?!»
«Faker…»
«Dio mio, Byron, ho rischiato l’infarto! E avvisami, accidenti!»
Un’ondata di stizza gli morde lo stomaco. «Avresti potuto farlo tu, dicendomi che saresti tornato. L’ho saputo da Hart.»
Faker sgrana appena le palpebre. «Oh… credevo non…» farfuglia, imbarazzato, e Byron non si è mai sentito così vicino a lui come in quell’istante. Fa quasi male, appurarlo. Pizzica gli occhi.
«Cioè, insomma, ero certo di… È che non ti sei più fatto sentire, e quindi…»
«Credevi non mi importasse più niente di te.»
«… Già.»
Scuote la testa. Vorrebbe ridere. E piangere. Allo stesso tempo. Perché il tutto ha un che di ridicolo, ma anche di amaro, quell’amaro che ti resta in bocca dopo aver assaporato il gusto intenso del caffè, quell’amaro che non c’è verso di togliere subito. Stona, eppure al contempo ci sta dannatamente bene.
«Sei un idiota.» E lo sta dicendo a entrambi.
«Lo so.»
«Ti sono mancato?»
Faker storce le labbra in un sorriso di sfida. «Neanche un briciolo. Ne dubitavi?»
«No.»
«E io, invece?»
«Sì.»
Faker sobbalza, spiazzato.
«Sì,» ribadisce – ammette, finalmente –, «esatto, mi sei mancato, e mi mancherai ancora se te ne andrai.»
Byron lotta con il groppo alla gola e neanche si sforza più di nascondere il timbro malfermo della voce. «Mi mancherai da far male, te lo giuro.»
Faker rimane in silenzio. Resta a fissarlo con un’espressione indecifrabile in viso – o forse è solo quello che pare a Byron, perché in fondo lui non è mai stato in grado di leggere gli altri come invece legge i suoi libri. I libri non hanno maschere.
«Resta, per favore, resta…» lo implora. «Anche solo per qualche giorno, una manciata di ore! Ti scongiuro! Se non vuoi farlo per me fallo almeno per Hart, lui ha bisogno di te e io… e io…»
Ormai ha il capo reclinato in avanti e le membra scosse dagli spasmi, ma non gli interessa. Non gliene importa più un accidente di ciò che Faker potrebbe pensare di lui in quel momento, che lo trovi pietoso o imbarazzante. Non riesce – non vuole – più neanche a tenere a freno le lacrime. Ha il dannato bisogno di svuotarsi un po’, una volta per tutte.
«Non posso…» mormora Faker in un filo di voce. Ed è sincero, di quella sincerità che ti annienta. Perché non hai armi per fronteggiarla, puoi solo subirla. «Se mi fermassi non sarei più in grado di ripartire, e tornare alla vita di prima mi ucciderebbe.»
«Ma perché?» urla roco Byron. «Perché, maledizione, perché? Ti fa schifo un po’ di affetto? L’appoggio dei tuoi cari, eh?!»
Faker tace. E fa più male di ogni sua replica.
«Scommetto che non sei neanche passato a trovare Kite!» incalza, rabbioso. «Eppure sono certo che tu sappia che si trova a Enschede per quel maledettissimo Master in Ingegneria robotica!»
«Ha un esame a breve,» si giustifica l’altro, «non posso distrarlo. Sai, sono fiscali, lì.»
«E secondo te trascorrere un po' di tempo con suo padre equivale a rovinargli un esame?»
L’amico sospira. «Conosco Kite. Lui è una persona molto emotiva, anche se non lo dà a vedere. Non sarebbe più stato in grado di studiare ciò che gli rimaneva, con conseguente ripercussione sulla propria verifica e sulla sua carriera scolastica. L’ultima cosa che voglio è rovinargliela.»
«Invece il piano affettivo è sacrificabile, vedo.»
«Ci saranno altre occasioni…»
«Come no,» attacca Byron, «facciamo un saltino in Madagascar e poi forse torniamo in mezzo ai tulipani olandesi! Tanto i propri figli non sono affatto una priorità per questo brillante uomo di mondo! Le persone che ama no-»
«Byron» lo interrompe Faker, perentorio.
Sussulta stupito ma si zittisce.
L’uomo distoglie lo sguardo, una mano in tasca e l’altra dietro il collo, l’espressione quasi brusca. Ma poi la sua voce è piena di calore. «Non credevo ci fosse bisogno di dirtelo, ma scherzavo, prima.»
Le dita di Byron tremano senza ritegno e lui non ci prova neanche più a riottenere un minimo di autocontrollo.
«Mi sei mancato anche tu.»
Fiato mozzato. Il volto dell’altro ora è inciso da un debole sorriso malinconico che minaccia di far vacillare nuovamente le sue gambe. «E allora per quale motivo devi ripartire…?» piagnucola piano. Non comprende, Byron, non ci è mai riuscito e non ci riesce neanche adesso, e la cosa lo logora. Sa che quello che gli sfugge è il solo motivo che lo divide da Faker, ma più si protende per afferrarlo e più quest’ultimo gli scivola via dalle dita. Non ne trova il senso. Credeva che fosse ormai guarito, a guardarlo, che stesse meglio – non sta meglio, adesso? «Cosa c'è nel resto del mondo che qui non possiamo darti? Che io non posso darti? Perché devi ripartire a tutti i costi? Perché non me lo spieghi una volta per tutte anzic-»
«Stabilità.»
Byron trasalisce e si arresta di scatto.
«È l'unica cosa che non potete darmi, oltre che l’unica di cui al momento sento la necessità.»
Resta a fissarlo, sconcertato ed incapace di articolare una parola.
Faker si stringe nelle spalle. «So che è paradossale ma così stanno le cose. Mi dispiace, Byron, ma ne ho bisogno come l’ossigeno, in questo periodo più che mai.»
Non c’è spazio per noi nella tua felicità. Byron stringe con forza i denti e nuove lacrime gli imbrattano la palpebra ora chiusa.
«A breve ho un volo per Siviglia. Ti ringrazio per essere venuto a salutarmi.»
Vorrebbe urlare. Vorrebbe saltargli al collo e gridargli contro quanto lo stia facendo soffrire, quanto sia lui adesso ad avere bisogno dell’altro come l’ossigeno, quanto gli faccia dannatamente male non poter evitare certe cose e quanto trovi insensate la sue ragioni. Vorrebbe prenderlo a pugni, fargli avvertire almeno un briciolo di quanto sta sopportando lui in questo momento, affinché lo capisca, affinché non parta. Affinché non lo abbandoni, non di nuovo.
Ma prima ancora che le sue labbra possano schiudersi Faker lo attira a sé con un coraggio ed una fermezza che non gli aveva mai visto addosso. Lo stringe forte e lascia che a parlare, finalmente, sia la propria pelle, che spiega meglio di quanto lui avrebbe mai potuto fare.
Infatti Byron non ha più domande quando si separano, solo una supplica inascoltata che gli gela il cuore, e il livore è sostituito del tutto da un'opprimente angoscia che gli sta ancora schiacciando lo sterno, togliendogli il respiro. Soffoca un singhiozzo dietro il suo incompleto aplomb inglese e sostiene il suo sguardo con una dignità ferita. Byron sa che è un addio, ma non sa se è pronto. Forse in effetti lo è, forse non lo sarà mai. Forse lo accuserà per sempre, cementandolo nelle ossa esattamente come l'altro ha cucito sul volto raggrinzito la medesima sicurezza che gli ha evitato di frantumarsi e che non lo farà crollare. Non più.
Faker abbozza un sorriso amaro e lo supera, e Byron torna ad essere investito dal via vai di voci, di gente che esce ed entra, di colori, di luci, di storie che resteranno impigliate lì dentro il tempo di un abbraccio, per poi cedere il posto alle altre.
 

 


 

Note

Come un girasole impazzito di luce”: è la frase appartenente al pacchetto giallo e, fra le direttive di quest’ultimo, figurava l’obbligo di utilizzarla in un contesto sarcastico anziché romantico. Ho scordato il “come” ma sono certa che moglie carachiel mi perdonerà! D’altronde, il paragone c’è! uwu
   
 
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