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Autore: _Frame_    04/08/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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202. La fermata dell’autobus e Le guglie del Cremlino

 

 

Otnesi platok krovavyi

Miloi lyubushke moei.

Ty skazhi – ona svobodna,

Ya zhenilsya na drugoi.1

 

(Cherniy voro, Canzone popolare cosacca)

 

 

 

 

2 dicembre 1941

Khimki, Unione Sovietica

 

Dai comignoli innevati serpeggiava qualche nastro di fumo morente che si arricciava e si dissolveva non appena incontrava una piccola corrente d’aria soffiata dal gelo notturno che s’ingorgava fra le stradine di periferia. Dietro le finestrelle incrostate di ghiaccio, qualche lumino traballava, pallido e desolato, nell’immobile silenzio delle abitazioni imbiancate. Nevicava poco. Miti fiocchi di ghiaccio galleggiavano in quell’aria sospesa e stagnante, simile al contenuto di una boccia di neve finta. La neve si depositava sui tetti spioventi, ai lati delle stradine di terra e ciottoli, lungo le ringhiere delle staccionate che delimitavano le abitazioni, e sui cavi della luce, soffusi in mezzo alla nebbia, simili a sottili tratti di matita graffiati fra il biancore del nevischio e l’indaco dell’alba che stava sorgendo.

I passi di Germania furono i primi a schiacciare lo strato croccante di ghiaccio snodato fra i ciottoli della stradina e raggrumato sulle pozze di neve sciolta e ricompattata che ora formavano una serie di specchi d’argento in mezzo alla terra nera. Germania camminò davanti alle facciate delle isbe innevate, sfiorato dalle piccole luci che traballavano da dietro i vetri e che si rovesciavano sulla via di periferia. Trattenne il fiato. Tese l’orecchio su ogni scricchiolio ovattato, su ogni rombo soffiato dalla coda di motociclette che seguiva le sue impronte, su ogni squillo del ghiaccio che trillava sotto il fischiare del vento. L’occhio acuto a spostarsi su ogni ombra che attraversava quella foschia lattea trasudata dal respiro del villaggio stesso.

Germania raccolse un braccio a Ucraina che gli camminava affianco, si assicurò di tenerla stretta, attaccata a lui, e si girò a inviare un cenno di mano alla fila di mezzi con cui il battaglione era giunto fino a Khimki. “Alt!”

Alle sue spalle, la fila di motociclette rallentò fino a fermarsi, soffocata da una nube di gas di scarico. L’unico semicingolato accostò lungo la staccionata assieme ai quattro autocarri che però tennero il motore acceso per evitare che il carburante si ghiacciasse. Portelloni si aprirono, ombre familiari si radunarono e si mescolarono sulla strada, i primi passi dei soldati smontati dalle motociclette scricchiolarono sul ghiaccio e sulla neve indurita. I primi borbottii riempirono il silenzio assieme alle prime sfregate di mani inguantate e alle soffiate di vapore fiorite fra le bocche degli uomini. I loro occhi stanchi e carichi di nebbia vagarono fra i tetti bianchi e spioventi, si strinsero per sbirciare attraverso le finestre illuminate o al di là delle recinzioni di legno.

Germania allentò la presa sul braccio di Ucraina, fermò anche lui la camminata, e tornò a spostare l’attenzione sul paesaggio annebbiato dalla condensa del suo fiato. Provò un tiepido senso di leggerezza nell’aver raggiunto il paesino, unito a una strana inquietudine che gli formicolava nel petto dal momento in cui erano partiti. Il silenzio lo assordava. Sembra deserto, e non abbiamo incontrato né soldati né altre pattuglie venendo qui. Il suo sguardo scivolò dai comignoli fumanti, sui vetri irradiati dalle fiammelle di luce, e ricadde davanti ai suoi piedi. Impronte congelate nello sterrato, fra le pietre, proseguivano fin dove il suo occhio non arrivava, fino al punto dove la strada s’infittiva delle ombre degli alberi scheletrici e si perdeva contro l’orizzonte bluastro. Impronte che non potevano appartenere ai tedeschi appena arrivati. Ma non è decisamente il caso di abbassare la guardia.

Germania tornò a stringere il braccio di Ucraina, il suo peso molle e arrendevole, e questa volta chiamò anche Prussia, Romano e Spagna. “Venite, seguiamo le vie secondarie.” Scoccò un ultimo sguardo ai soldati – qualcuno che si scaldava dentro il fiotto dei gas di scarico, qualcun altro che sorseggiava dalle bottigliette di vodka rubate ai russi uccisi in battaglia –, si rimboccò la giacca e proseguì lungo il serpeggiare delle vie costeggiate dai pali dell’elettricità. “Andiamo in avanscoperta a piedi, così faremo prima.”

Anche Prussia distolse lo sguardo da quella desolazione, si diede una strofinata alle guance già arrossate dalla caduta della neve, e inviò a Spagna un cenno di mento. Spagna annuì, si diede a sua volta una spolverata a giacca e capelli per scrollare via i fiocchi di ghiaccio, e raccolse una manica di Romano per restare uniti.

Si allontanarono dal rombare basso dei mezzi ancora accesi, simile alle ronfanti fusa di un gatto, e si addentrarono dove l’eco dei loro passi scricchiolanti rimbalzava sulle mura delle isbe e si disperdeva nell’oscurità distante dai pochi lampioni accesi.

Spagna continuò a guardarsi attorno. Reclinò il capo all’indietro per raggiungere le cime dei comignoli attraverso cui si tendevano i filamenti d’argento dei cavi della luce, sbirciò alle sue spalle, spaesato, e si tenne stretto al fianco di Romano.  “E così è questa Khimki? Com’è...” Rabbrividì. “Tetra.”

Prussia sbuffò una ridacchiata aspra. “Ideale per venirci in vacanza.” Gesticolò facendo roteare il polso. “Ridente paesino poco fuori città, vista su bufera di neve, alloggio in catapecchie di legno assieme al pollame, vitto occasionale, e coprifuoco alle quattro di pomeriggio se non vuoi ritrovarti con il ghiaccio anche su per il...”

“E cosa stiamo cercando, di preciso?” Per una volta fu Romano a impedire che il discorso degenerasse.

“Le fermate dei mezzi pubblici,” rispose Germania.

“Le f...” Romano dovette torcere un angolo della bocca per non ridere come aveva fatto Prussia. S’immaginò i loro soldati tedeschi radunati davanti all’autobus fermo, i biglietti fra le dita inguantate e i fucili allacciati alla schiena, mentre aspettavano pazientemente in fila il loro turno, con i mezzi militari a seguito della corsa.  “Cos’è, vuoi arrivare a Mosca prendendo l’autobus?”

Germania corrugò un sopracciglio ma non distolse lo sguardo dalla strada davanti a sé. “Chiaramente no, ma da una fermata poi sarà più facile individuare e intraprendere la strada più breve e diretta che ci porterà fino alle porte di Mosca.” Mantenne la guardia alta. I nervi a fior di pelle, i muscoli tesi ma il respiro lento e il battito regolare, l’udito teso attraverso quel silenzio che li circondava, interrotto solo dal frantumarsi dei loro passi sulla superficie di neve ghiacciata. “Questa città è abitata soprattutto dagli operai che lavorano nei quartieri industriali di Mosca,” disse ancora. “Basterà seguire il tragitto che compiono ogni giorno andando al lavoro per inserirci sulla strada principale.”

“E se l’avessero già fatta saltare?” Romano non riuscì a placare il suo scetticismo.

“Be’...” Spagna si strinse nelle spalle. Il volto più disteso e anche la camminata più sicura e leggera. “A meno che non sia un tratto con un ponte che attraversa la Moscova, dubito che si possa distruggere una strada così facilmente. Forse abbiamo davvero qualche speranza.”

“Sì,” sbottò Romano di rimando. “Se intanto non rimarremo incastrati in questo dannato posto.” Anche lui continuò a guardarsi attorno, schiacciato dalle ombre dilatate sulla strada. Si diede una sfregata alle braccia per raschiare via i brividi d’inquietudine che lo avevano pizzicato. “Sembra deserto, dannazione. Ma dove diavolo è finita la gente?”

“Li avranno fatti evacuare?” azzardò Spagna.

“No.” Dal tono di Germania non trasparì alcuna incertezza. “Devono aver lasciato il villaggio non più di qualche ora fa. Guardate bene...” Sollevò una mano per indicare i profili delle isbe, i rigagnoli grigi che salivano dal tetto e che si univano alla nebbiolina di nevischio. “I camini stanno ancora fumando, e alcune luci sono ancora accese. È chiaro che devono essersi accorti per tempo del nostro arrivo e che si siano allontanati.”

“E se fossero corsi a chiedere aiuto?” disse Prussia. “A lanciare un allarme?” Sgattaiolò fin dietro la spalla di Germania tenendo il tono basso. “Forse Russia ci sta già aspettando.”

Romano sbuffò prima di dar occasione a Germania di rispondere e sventolò la mano. “Dopo la massacrata che gli abbiamo dato a Borodino, dubito che si sia già ripreso.” Zampettò fino alla staccionata di travi di legno che delineava la stradina e si mise sulle punte dei piedi per guardarvi oltre. “Sarà ancora rintanato nel suo cantuccio a leccarsi le ferite.”

“E se invece fosse sceso nel settore sud, a Tula?” Spagna si diede una strofinata alla nuca e alzò gli occhi al cielo, pensieroso. “Magari è per quello che là stanno facendo così tanta fatica ad avanzare. Magari è lui stesso a guidare la resistenza e la controffensiva.”

Germania scosse il capo. Rafforzò la presa attorno al braccio di Ucraina. “Non avrebbe mai abbandonato il settore centrale pur sapendo che Ucraina è qua con noi.”

“Cosa?” Spagna sgranò le palpebre, stordito, tanto da non accorgersi che Romano si era allontanato. “Russia sa che Ucraina è qui e non prigioniera a Berlino?”

“Sì,” confermò Germania. “Gliel’ho detto io stesso.”

“Ma allora...” L’occhio di Spagna cadde al suo fianco, sul vuoto – niente profilo di Romano, niente rumore di passi a frantumarsi seguendo la sua scia, niente nuvoletta di condensa nata dal suo fiato –, e attraversò la caduta della neve, andando alla sua ricerca. Lo trovò a vagare davanti all’imbocco di una piccola via secondaria, buia, rischiarita solo dalle prime luci dell’alba che filtravano attraverso le crepe fra le nubi. “Romano.” Lo chiamò con una sventolata di braccio. “Non allontanarti.”

Romano sollevò un sopracciglio senza però rivolgergli lo sguardo. “Dove cazzo vuoi che vada?” Andò a sbirciare sul retro di una delle isbe, dov’era accatastata una legnaia, sfilò la sua pistola dal fodero, reggendola con entrambe le mani, e si addentrò nella piccola via racchiusa fra due ali di neve spremute contro le recinzioni.

Prussia fece roteare lo sguardo e diede a Spagna una piccola spallata. Vagli dietro, va’.

Spagna annuì, recepì il messaggio, e rincorse le impronte di Romano. “Romano, aspettami.”

Ma Romano non lo aspettò. S’infilò nel piccolo orticello congelato di una delle isbe e risalì i gradini d’ingresso facendo scricchiolare il legno sotto gli stivali. Spinse la porta accompagnando il cigolio dei cardini, aprì una buia fessura sull’ingresso, e vi puntò dentro la mira della pistola. Silenzio. Aprì di più lo spazio, affacciandosi all’entrata deserta da cui proveniva un tiepido profumo di legna arsa, e ritirò il braccio con cui aveva allungato la mira della pistola. Non hanno nemmeno chiuso le porte. Ridiscese i gradini. Anche la piccola fontana era congelata, come il resto dell’orticello. Romano la toccò, percorse il becco del rubinetto, il tondeggiare della bocca da cui colava qualche piccolo ghiacciolo, raggiunse la manopola, fece forza e la svitò di un paio di giri. Si udì un sibilo soffocato e nient’altro, non zampillò neanche una goccia d’acqua. Era congelata pure quella.

Romano mollò la presa dal rubinetto, la stoffa del guanto si scollò con uno strappo dal ghiaccio secco, e proseguì la sua camminata. Il suono della sua marcia passò dallo scricchiolare scomposto delle suole sui ciottoli a quello più secco e acuto dei tacchi sull’asfalto rivestito da una lastra di ghiaccio. Calpestò qualcos’altro, uno stropiccio cartaceo. Romano arretrò e sollevò il piede. Aveva pestato un poster raggrinzito dal ghiaccio e consumato dall’umidità. Sollevò lo sguardo. Una fila di manifesti identici a quello caduto tappezzava la staccionata di legno che fiancheggiava la strada. Romano percorse quella scia di carta bianca e rossa, fino a raggiungere un tabellone inciso nell’alluminio. Si fermò, punto da una scossa di curiosità, e flesse il capo di lato per esaminare le scritte sconosciute. E questo?

“Romano?” I passi di Spagna lo raggiunsero davanti ai manifesti assieme al candore del suo fiato. “Cosa...” S’interruppe, anche lui risucchiato dalla solennità di quelle immagini.

Romano sfiorò uno dei manifesti, ne percorse la carta umidiccia e raggrinzita dai cristalli di ghiaccio. Ritraeva un soldato sovietico con gli stivali affondati nella neve, il pastrano al vento, il colbacco di pelliccia calato sulla fronte, un braccio impennato al cielo e la mano stretta al fucile che lui sbandierava come una spada. Sotto il disegno del soldato, una scritta a caratteri rossi, in cirillico, che Romano non seppe decifrare. Il tocco si spostò sulla piastra d’alluminio, grattò via i fiocchi di neve più freschi, e scoprì le incisioni nette e disposte in colonne fiancheggiate da numeri. “Questa...” Non ebbe bisogno di conoscere il russo per decifrarla. “È una tabella oraria.”

Spagna trasse un breve sospirò. “Ooh.” Capì anche lui. “V-vuoi dire che...”

“Sì.” Romano strinse le dita e schiacciò il pugno inguantato sulla piastra d’alluminio. “Forse ci siamo.” Rinfoderò la pistola, tornò indietro e corse da Germania. “Ohi, crucco.” Indicò alle sue spalle, senza perdere di vista la fermata dei mezzi pubblici dove era affisso l’orario. “Forse ho trovato qualcosa. Laggiù ho visto...” Sbatté la faccia sulla schiena di Germania, e quella soffocante botta al naso arrestò la corsa. “Uff – ehi!”

Romano rimbalzò di un passo all’indietro, si strofinò la faccia, indurì un broncio che gli annerì lo sguardo e fulminò Germania di traverso, ancora da dietro la sua schiena immobile. “Ma che ca... che diavolo ti è preso? Ti sei rincoglionito?” Gli corse di fianco ma Germania non lo guardava nemmeno. Guardava in alto, il naso fra le nuvole, il respiro immobile, e gli occhi in ombra, indecifrabili. Romano inacidì il tono. “Che merda ti è preso, eh? Perché ti sei fermato?”

Germania sollevò un braccio dal fianco – si udì il fruscio lento della manica che sfregava sulla stoffa della giacca – e rivolse l’indice al cielo annuvolato dal nevischio e attraversato dalle timide crepe dell’alba.

Romano percorse con lo sguardo il suo braccio sollevato, alzò anche lui la punta del naso al cielo, solleticato dal fioccare della neve, e posò gli occhi su quello che Germania gli stava indicando. Sbarrò le palpebre, le sue pupille ristrette vacillarono come davanti a un’allucinazione, il cuore picchiò un ultimo sordo tonfo contro le costole – tunf! – e sprofondò nello stomaco che si era stretto in un nodo di nausea. Romano arretrò, barcollò di un passo perché gli girava la testa, e sibilò un unico mormorio scivolato sulla lingua congelata. “Oh. Santo. Dio.”

Ucraina fu l’unica a premere lo sguardo a terra, a rimanere a capo basso e a labbra strette, raggomitolata nel dolore che le dava quella visione. Tutti gli altri tennero i nasi per aria.

“È...” Anche Spagna tornò a raggiungerli. Deglutì, bianco in viso più della neve che li circondava, e i suoi occhi vacillarono. “È quello che penso?”

Germania non mosse un muscolo. Trovò solo la forza di sussurrare: “Sì”.

Un alito di vento spazzò via l’ultimo strato di foschia bianca, dividendola come lo spacco di una tenda, e spalancò una visuale più nitida del cielo stagliato sopra i tetti delle isbe. Fra le nuvole basse e grigie, cariche della neve che non cessava di fioccare, in mezzo ai fumi neri sgorgati dai camini dei quartieri industriali, circondate da una nebbiolina che davano loro un aspetto sfocato ed evanescente, sbucavano le guglie del Cremlino.

L’incredulità sul volto di Germania si sciolse, riplasmandosi in una dura espressione di contemplazione e rispetto. “Le guglie del Cremlino.”

Un fischio di vento sibilò su di loro ma rimase inascoltato, ignorato come la caduta della neve che stava tornando a imbiancare i loro capelli e le loro spalle.

Ucraina batté le palpebre, asciugò i fiocchi che si erano sciolti fra le ciglia, trovò la forza di sollevare gli occhi, e le guglie del Cremlino, rivestite dal cappotto antiaereo, si specchiarono nelle sue iridi umide ma chiare e luminose. Lo sguardo malinconico di chi scorge il profilo della propria casa dopo un lungo viaggio. Russia. Si posò entrambe le mani sul cuore, dove la nostalgia le struggeva l’animo. Caro, caro Russia. Sono qui. Sto tornando a casa.

Spagna sollevò il braccio. “Sembrano così...” Strinse l’immagine di una delle guglie dentro il pugno, schiacciando fra le dita solo una manciata d’aria. “Vicine.” Così vicine da dar l’impressione di poterle afferrare.

Prussia annuì. “Come un miraggio.”

Romano gli fece da eco. “Come una presa per il culo.” Si passò una mano fra i capelli puntinati di neve, diede una nervosa strofinata alla nuca, e masticò un ringhio fra i denti. “Non è giusto. Non è giusto, dannazione, non posso neanche guardare. Siamo letteralmente a due passi da Mosca, e non c’è niente che possiamo fare per espugnarla. E quelle cazzo di cupole...” Diede le spalle al Cremlino, annodò le braccia al petto, non volle più vedere. “Mi fanno solo rabbia.”

Pizzicato dal nevischio, Germania si ridestò, infranse quella bolla di stordimento in cui il silenzio lo aveva intrappolato, e si rivolse a Ucraina. “Quanto ci vuole per raggiungere Mosca da qui?”

Anche Ucraina si riprese. Asciugò il luccichio degli occhi e rimase a viso alto. “In autobus o in tram, circa un quarto d’ora.” Si massaggiò la guancia su cui era ancora incerottato il bendaggio. Il gonfiore non era del tutto sbiadito. “Forse venti minuti o mezz’ora, perché adesso c’è la neve.”

“Bene.” Germania si voltò, tornò a calpestare le sue stesse impronte, a ripercorrere la strada attraverso cui si era addentrato nel paese. “Riuniamoci al battaglione, rimettiamoci in formazione, e proseguiamo assieme seguendo la via principale. Considerando che...”

I primi spari esplosero, secchi e cristallini, e spaccarono l’ambiente di ghiaccio e nebbia.

Prussia fu il primo a voltarsi di scatto, lasciando un solco di suole nella neve.

Romano compì un rimbalzo e il cuore gli schizzò in gola. “Che è stato?”

“Spari?” esclamò Spagna, anche lui con lo sguardo spaurito rivolto al di là delle casette. “Stanno sparando?” Echi di mitragliate gli risposero. Lui compì un passo all’indietro. “Ma perché stanno sparando? Cosa...”

“È un allarme,” rispose Ucraina. La voce mite e placida, come se non fosse accaduto nulla. “Vi hanno scoperti.”

Un’altra scossa d’allarme fulminò Spagna. “Aspetta. Vuoi dire che stanno arrivando ad attaccarci qui? Ma...” Lui gettò rapide occhiate attorno a sé. Solo neve e foschia. Niente soldati, niente mezzi militari, niente Russia. “Ma da dove?”

“Che arrivino.” Prussia si sfilò la mitragliatrice leggera dalla schiena, la tenne salda fra le mani, e i suoi occhi brillarono di ferocia. “Che arrivino e che ci vengano addosso, non aspetto altro.”

“No.” Germania si mantenne freddo come quell’aria che respirava e distese un braccio per bloccare ogni loro azione avventata. “Dobbiamo essere noi quelli a entrare a Mosca, e non loro quelli a venirci incontro. E non siamo sufficientemente equipaggiati per uno scontro diretto, dato che questa è solo una missione esplorativa.” Attorno a lui, lo strato di nebbia si addensò, tappò le luci dell’alba, nascose i tratti grigi dei cavi della luce, salì fino ai comignoli delle isbe, e abbracciò il gruppetto di nazioni, quasi a volerli ingoiare fra le sue fauci di neve e umidità. Germania guadagnò un respiro più breve che gli rimase incastrato in gola. Si sentì soffocare, intrappolato nel respiro di quella città che non aveva intenzione di lasciarlo uscire dalle sue viscere. “Dobbiamo uscire da Khimki.”

L’ululato del vento si placò. Una voce infranse la barriera cristallina che li separava e li chiamò dai bitorzoli di nebbia. “Voi non andrete da nessuna parte, invece.”

Quella voce si appese alle cinque nazioni come un artiglio e catturò su di sé i loro sguardi raggelati.

Russia scivolò fuori dalla nebbia accompagnato da una calma disarmante. Gli occhi placidi e rasserenati che però racchiudevano al loro interno tutto il gelo che li circondava, il fine sorriso a sfiorare le pieghe della sciarpa, e i fiocchi di neve a danzargli attorno senza sfiorargli nemmeno le guance. “Proprio ora che stavo per accogliervi? Così mi offendo.”

L’atmosfera rimase sospesa, di nuovo ferma e silenziosa come all’interno di una boccia di cristallo.

Romano trasse un ansito scandalizzato che gli congelò le labbra in uno spacco socchiuso. “È ancora vivo?” Percorse più volte il suo profilo con lo sguardo. La postura eretta, la camminata salda e sicura, i tratti rilassati del volto, lo sguardo mite, e quell’aura di benessere a brillargli attorno, irradiata di vita nonostante l’ambiente fossilizzato dal gelo. “Com’è possibile?” Ripensò al loro scontro a Borodino, a quando si era ritrovato davanti al suo corpo gocciolante di sangue che lui stesso aveva contribuito a massacrare. E ora Russia era di nuovo di fronte a lui, senza nemmeno una cicatrice. Allora non esiste davvero niente in grado di sconfiggerlo?

Germania restrinse le palpebre, combatté il brivido gelato che gli era scivolato addosso incrociando lo sguardo penetrante di Russia. Lo percorse da capo a piedi, notando anche lui l’assenza di ferite, ma si soffermò su qualcos’altro. È disarmato? Una mano di Russia scivolò fra le pieghe della sciarpa, la rimboccò sopra le spalle, e si ricongiunse all’altra dietro la schiena, senza stringere nient’altro. Perché non ha armi con sé? continuò a domandarsi Germania. Come può essere così irresponsabile? Che abbia in mente qualcosa?

Sul triste volto di Ucraina ricomparve la stessa luce di nostalgia che l’aveva colta davanti alle guglie del Cremlino dissolte dalla foschia. Tutta la solennità che aveva indossato come una maschera, come una corazza, le si sciolse addosso, scoprendo quel cuore candido che non aveva mai smesso di sognare suo fratello. “Russia.” Compì un passo. “Russia,” ripeté. E ne compì un altro. “Russia, sono a...” La presa di Germania tornò a catturarla, dura e dolorosa, e la tirò indietro, di nuovo contro il suo fianco, dove nemmeno Russia poteva arrivare a portargliela via.

Russia posò con esitazione lo sguardo su Ucraina, solo sfiorandola, e un singolo tentennamento gli appannò gli occhi sfumati dalla neve che gli danzava attorno senza sfiorarlo. Riguadagnò il sorriso. Lo regalò solo a Germania. “Che gentile da parte tua riportarmi mia sorella, Germania. Ti sei scomodato tanto per arrivare fino alle porte di Mosca, poi. Mi hai risparmiato la fatica di venire a riprendermela di persona.”

Romano, nonostante la bolla di gelo, digrignò i denti, e bruciò fino alle punte delle orecchie. “Bastardo.” Scattò contro Russia solo per essere riacchiappato da Spagna e di nuovo tirato indietro, a scalciare fra le sue braccia, furioso ma al sicuro.

Russia rivolse gli occhi a quello spicchio di cielo, ora coperto, da dove prima erano risuonati gli spari. Sospirò. “Tutta questa strada con un solo battaglione,” commentò. “Si può sapere cosa credevate di fare? Non penserete davvero di prendere la mia capitale solo con un pugno di uomini? O forse...” Ammiccò con le sopracciglia, affilò un sorriso splendente di furbizia, e tese il braccio dietro di sé per raggiungere qualcosa rimasto nella foschia. “Speravate di riprendervi solo questo?” Trascinò qualcosa fuori dalla nebbia – un altro debole rumore di passi incrociati – e lo esibì davanti a tutti, senza mollare la presa.

Prussia fu il primo a cedere con un gemito d’incredulità. “Ma...” Rimase a bocca aperta, sbatacchiò più volte le palpebre. “Ma quello...”

Spagna trasse un sospiro che gli risucchiò ogni energia dai muscoli. “Non è possibile.”

Accasciato fra le braccia di Spagna che si erano fatte più molli, Romano guadagnò un filo di fiato che gli strinse il cuore e che non fece nemmeno condensa. “V...” Snudò la stessa espressione raggelata di sconcerto che aveva mostrato davanti alle guglie del Cremlino. Non riuscì a credere di poter di nuovo pronunciare quel nome. “Veneziano?”

Sentendosi chiamare, Italia sollevò per la prima volta lo sguardo, e le punte dei capelli scivolarono via dai suoi occhi cerchiati da pelle grigia e consumata che rendeva il suo viso ancora più pallido. Un’ombra nera a intrappolarlo, un velo impercettibile di fiato a galleggiargli attorno al viso, e due occhi di ghiaccio che nessuno riconobbe.

Germania si sottrasse con un breve movimento di spalle per allontanarsi da quell’aura ostile che lo aveva colpito come uno schiaffo. La bocca gli si seccò, il petto si fece pesante, il freddo insostenibile, e la visione di Italia fin troppo estranea per poterlo riconoscere. Italia. Per la prima volta in tutta la sua vita, per la prima volta da quando Italia era entrato a far parte della sua esistenza, stravolgendola, Germania ne ebbe paura.

 

♦♦♦

 

2 dicembre 1941

Pressi di Mosca, Unione Sovietica

 

Estonia si sfilò le cuffie dal capo, le riappoggiò davanti alla radio, fra i bollettini che aveva appena sfogliato fra le dita, si passò una mano fra i capelli spettinati, e si voltò in cerca dell’approvazione di Russia. “Sono a Khimki.” Sotto la tenda da campo – solo tre pareti di tela e una facciata completamente aperta sui lavori che proseguivano attorno a uno dei fossati anticarro – l’aria non era poi così fredda, nonostante le rigide temperature della notte. I loro respiri tiepidi galleggiavano squagliandosi sotto le luci delle lanterne e creando un sottile strato di umidità.

Russia distolse lo sguardo dagli operai e dai civili che continuavano a lavorare, a riempire carriole, a caricare travi sulle spalle, a scendere nella porzione di fossato già profondo e illuminato dalle lanterne. Si rivolse a Estonia e sollevò un sopracciglio. “A Khimki?” Rientrò sotto il riparo della tenda, posò una mano sui bollettini e stette chino vicino a Estonia che era seduto. “Com’è possibile?” I suoi occhi corsero fra le righe. “Li avevamo fermati a Krasnaya Polyana. E solo qualche giorno fa ci avevano segnalato che non stavano facendo progressi, che erano ancora bloccati a causa della neve e del freddo.”

“Infatti, signore,” specificò Estonia. “La divisione è ferma.”

Lettonia smise di fare su e giù rigirando fra le mani i bollettini nuovi che avevano appena decodificato, e porse a Russia uno dei documenti. “Sono avanzati con un solo battaglione.” La sua mano tremava. “Abbiamo ricevuto l’allarme dai contadini e dagli operai che se ne sono accorti in tempo, prima dell’entrata dei tedeschi.”

Seduto all’altro capo del tavolino che riusciva a malapena a fornire lo spazio per la radio, Lituania si massaggiò il collo ancora bendato, dopo le ferite di Borodino, e scosse il capo, continuando a non capire. “Non è possibile.” Anche le mani erano ancora fasciate. La voce rauca come se avesse avuto ancora il cappio di filo spinato attorcigliato al collo. “Cosa sperano di concludere con un solo battaglione?”

Bielorussia sventolò una ciocca di capelli dietro la spalla, sbuffò, e si mise a braccia conserte tenendo il mento alto e le palpebre socchiuse. “Missione suicida?” Si appoggiò con la schiena allo spigolo del tavolino dove s’intrecciavano i cavi della radio. “Magari hanno preso tanto di quel freddo che gli si è congelato il cervello.” Ridacchiò di perfidia. “Sfigati.”

“E la popolazione?” Russia abbassò il foglio che gli aveva passato Lettonia. “Gli abitanti sono in salvo?”

Estonia annuì. “A quanto pare i tedeschi non hanno intenzioni ostili, per ora. Non hanno sparato nemmeno un proiettile e non sembrano nemmeno in assetto da battaglia.” Si rialzò dalla postazione, premette le mani sulla schiena, facendo scricchiolare le vertebre, e si strinse nelle spalle. “Forse erano in avanscoperta e si sono semplicemente persi.”

Bielorussia fece roteare lo sguardo. “Sì, ovvio. Persi per andare chissà dove?”

“Puntano Mosca?” Lituania fece tamburellare una nocca fra le labbra. Lo sguardo assorto e pensieroso. “Khimki dopotutto è così vicina...”

Lettonia rabbrividì. “M-ma anche se la puntassero, non potrebbero comunque entrarvi. Ci sono troppi fossati anticarro. Non possono entrare, vero? Noi qui siamo al sicuro.”

“Be’, infatti,” precisò Estonia. “Non stanno viaggiando con i carri pesanti, ma solo con le motociclette.”

“Visto?” Fra le sottili labbra di Bielorussia comparve un mezzo sorriso di scherno e di sprezzo. “Problema risolto. Che razza di idioti...”

Russia tenne la fronte aggrottata in una ruga di dubbio. Non fu affatto risollevato da quella notizia. Un solo battaglione così vicino a Mosca. Che si siano davvero persi? No, non riesco a crederlo. Sarebbe troppo insolito da parte di Germania. Uscì dalla tenda spalancata, passeggiò sotto il fascio di una delle lanterne, e fronteggiò i lavori nel fossato, il picconare sulla terra ghiacciata, lo scrosciare delle zolle sulle carriole, e i passi di uomini e donne che incrociavano la marcia trasportando i carichi da rovesciare. È chiaro che hanno raggiunto il villaggio di proposito, continuò a ragionare Russia. Germania non si è perso, lo ha fatto apposta. Ma apposta per cosa?

In un cantuccio in disparte, rannicchiato con le gambe strette al petto e le braccia avvolte attorno alle ginocchia, anche Italia teneva lo sguardo rivolto ai lavori che proseguivano anche sotto la luce argentata, tagliente e gelida della luna che vegliava su di loro come un faro nella notte. I suoi occhi però non guardavano gli operai. Erano persi altrove, nebbiosi e solitari, confinati nel ghiaccio che gli aveva divorato il cuore.

Russia si chinò a carezzargli la testa con un gesto amorevole. “Sentito, Italia?” Gli sorrise. “Germania è più vicino che mai. È quasi a Mosca.” Socchiuse le palpebre. Continuando a sorridere, la sua voce mutò in un fine tono di sfida. “Non ti piacerebbe se gli andassimo incontro? Non ti piacerebbe rivederlo?”

Una scossa di turbamento sprofondò nel cuore di Italia. I suoi occhi affogarono nel buio, si riempirono di paura, di un sentimento gelido che lo fece impallidire e tremare sotto la larga mano di Russia posata fra i suoi capelli. Italia chinò la fronte, spingendola sulle ginocchia, e scosse il capo tenendo il labbro inferiore stretto fra i denti.

Russia gli passò un’altra carezza fra le ciocche, un semplice e genuino gesto d’affetto. Il pensiero di Germania fisso nella sua testa come un chiodo. Sta venendo davvero per Italia? Germania non è un ingenuo, tantomeno quando si tratta di guerra. Sa che non potrebbe mai prendere Mosca in queste condizioni, eppure non si sta fermando. È il pensiero di Italia che continua a dargli forza? Un senso di amarezza gli toccò le labbra. Nonostante tutto quello che gli ho detto, nonostante tutto quello che ho fatto per tenerlo lontano da lui...

Riaffiorarono gli ultimi vivi ricordi di Germania che aveva impresso nella sua mente. Il desiderio che Russia aveva letto nel suo sguardo, quel bisogno di riunirsi a Italia, la rabbia e la furia cieca scaricate contro di lui che glielo aveva portato via.

La mano di Russia tremò, irrigidì sulla testolina di Italia. Perché sta ancora combattendo? Si riaccese una bruciante fiammella di frustrazione. Eppure ho fatto di tutto per convincerlo che sarebbe stata una causa persa. Perché non sono riuscito a spezzare quell’unico filo che lo teneva legato a Italia? Cosa potrei ancora fargli per distruggere la sua volontà? Russia sfilò le dita dalle ciocche di Italia, si rimboccò la sciarpa, e guadagnò un profondo respiro che raffreddò il pulsare del sangue. Poco male. Forse Germania non avrà ancora intenzione di cedere, ma Italia ormai è completamente perso e non ci sarà più nulla che lo spingerà a tornare con i suoi vecchi alleati. E potrei proprio sfruttare questo fatto a mio vantaggio.

Russia si rialzò e rivolse agli occhi al cielo, al sottilissimo filo d’alba che delineava l’orizzonte sormontato da una massa di nuvole color cenere. Avrebbe nevicato durante tutta la giornata. Ne sentiva l’odore.

Germania è ancora convinto di potersi riprendere Italia e di riportarlo a casa, di poter ristabilire un legame con lui, altrimenti non avrebbe mai tentato un azzardo del genere spingendosi così vicino a Mosca con un solo battaglione. C’è solo una cosa che può convincerlo una volta per tutte che fra lui e Italia è finita, ossia mettergli la prova concreta davanti, far uscire la sentenza direttamente dalla bocca di Italia. Potrebbe risultare rischioso.

Le sue labbra s’inarcarono in un sorriso che rimase nascosto sotto la sciarpa. Una spolverata di rosa gli colorò le guance.

Ma anche più divertente del previsto. Distruggerò Germania in tutto e per tutto, sia dentro che fuori. Dopodiché, con lui fuori gioco e Italia ancora fra le mie mani, non dovrò più temere nessuna lotta, nessuna battaglia e nessuna guerra. Potrò spingermi verso Ovest, grazie ai nuovi accordi con Inghilterra e America. Potrò riprendermi Ucraina fin da subito, potrò rimettere assieme la mia intera famiglia, e riconquisterò anche tutte le nazioni che ora sono sotto le catene di Germania. Così l’intera Europa sarà mia.

Alle sue spalle, da sotto la tenda, gli altri continuavano a discutere.

“... e forse potrebbe non essere nemmeno Germania a guidare il battaglione.” La voce di Lituania, sempre arrochita ma meno scossa rispetto a quando era arrivato il messaggio alla radio. “Forse stiamo davvero fraintendendo tutto.”

“Ma è comunque pericoloso lasciare che si avvicinino così tanto a Mosca, anche se non fossero armati.” Il tono di Estonia invece si caricò di un amaro pessimismo. “Potrebbero sempre mandare delle spie per scovare i nostri punti deboli e trovare un modo per sconfiggerci alla prossima offensiva.”

Lettonia tornò a rabbrividire e a farsi più piccolo nel suo gomitolo di paura. “Ma allora dobbiamo fermarli!”

“Io dico di andargli addosso e di farli fuori di persona,” brontolò Bielorussia, “prima che osino anche solo pensare di allungare la punta di un piede su Mosca.”

Russia scosse il capo prima che la discussione potesse degenerare. “Voi non potete abbandonare Mosca.” S’impose su di loro con occhi che non ammettevano repliche. “Potrebbe essere proprio quello che Germania si aspetta: attirarci fuori dalle mura per poter agire indisturbato e tentare un’invasione usando il battaglione a Khimki come semplice esca. E io mi sono già ripromesso di non far più correre alcun rischio né a voi né alla mia capitale.”

Estonia arricciò una smorfia dubbiosa e si diede un’altra strofinata alla nuca. “Ma la situazione a Khimki rimane comunque rischiosa, signore. Non possiamo ignorarla.”

“No, è vero,” lo assecondò Russia. “Per questo io andrò a Khimki e voi rimarrete qui.” Ma non sarò comunque da solo. “Tornerò, non temete.” Lo disse prima che qualche protesta potesse piovergli addosso – Bielorussia aveva già preso fiato per intromettersi. “E tornerò anche assieme a Ucraina, questa volta. Quindi aspettateci entrambi.” Spronò tutti con un sorriso incoraggiante. “D’accordo?”

Estonia si strinse nelle spalle, si strofinò il braccio, guardò in direzione di Lettonia e di Lituania in cerca di approvazione, e tutti e tre annuirono con un gesto lento e fiacco. “Sì.”

“Sissignore.”

Senza che Russia se ne potesse accorgere, anche un altro sguardo smosso da una punta di stupore si era posato su di lui. Lo sguardo di Italia che aveva sbirciato da sopra la spalla ancora ingobbita.

“Questa sarà la mia ultima fatica,” annunciò Russia. “La mia definitiva volontà di proteggervi. E poi non dovremo preoccuparci più di nulla, né di Germania né di altri tentativi d’invasione. Questa sarà...” Diede loro le spalle. Di nuovo si mostrò come la solida roccia su cui era fondata la loro alleanza, come il muro che li avrebbe sempre protetti. “Una piena affermazione dell’Unione Sovietica e di tutto ciò che la nostra alleanza rappresenta.” Tornò da Italia che non aveva mai smesso di scrutarlo con quegli occhi di nuovo scossi e intimoriti, dove il luccichio del ghiaccio traballava come una goccia d’acqua.

Italia aspettò che Russia gli fosse di nuovo vicino. “Vuoi tornare da Germania?” gli domandò con un filo di voce.

“Certo.” Russia si chinò di nuovo a posargli la mano sul capo. “E tu verrai con me.”

“Ma...” Lo sguardo spaesato di Italia tornò a perdersi. Lui batté le palpebre, rimise a fuoco il viso sorridente di Russia, e sollevò le sopracciglia in un’espressione interrogativa. “Perché?”

“Per fargli capire che anche tu fai sul serio.” La mano di Russia scese, gli carezzò il profilo smagrito della guancia. “E che tu questa volta hai davvero intenzione di separarti da lui, e che ogni suo altro tentativo di riportarti indietro sarebbe vano. Ma non temere.” Gli strofinò il pollice sul pallore di uno zigomo. “Non gli permetterò di farti alcun male. È una promessa. Però ricordati,” lo ammonì, “che qualunque cosa Germania ti dirà sarà una bugia. Quindi tu non credergli, non dargli nemmeno la possibilità di incantarti con le sue parole. Per tutto il resto...” Si posò la mano sul petto. La solenne promessa del cavaliere valoroso che si prostra davanti al trono reale. “Sarò io a proteggerti.”

Italia lasciò scivolare lo sguardo a terra. Annuì debolmente, in un gesto meccanico, e socchiuse le palpebre, abbandonandosi al tepore del guanto di Russia che gli aveva avvolto la guancia, sostenendo il peso del suo capo. Rivedrò Germania, realizzò. Rivedrò Germania dopo tutto questo tempo.

Per quanto si sforzasse, per quanto provasse a scavare nel suo cuore, in quella parte ancora molle e viva, non riuscì a percepire nemmeno un singhiozzo di gioia o di sollievo. Trovò solo una spessa e dura barriera di ghiaccio che non sapeva più come sciogliere o scalfire.

Italia tremò fin dentro le ossa, stritolato da quel tormento che non gli dava pace. Se quello che mi ha detto Russia è vero, allora io per Germania non sono stato altro che uno strumento per tutto questo tempo. Lo sono stato sia in quanto nazione sia in quanto persona. Non mi ha mai voluto realmente bene, anche se io sarei stato disposto anche a morire per lui. Non versò lacrime, non provò alcuna stretta di dolore, nessun singhiozzo di tristezza. C’era solo quel vuoto nel petto a cui non voleva affacciarsi. Io non ho più nessun motivo di stare con lui. E forse... Chiuse gli occhi e si abbandonò alla mano di Russia che gli sosteneva il viso. Forse devo solo accettarlo per potermi mettere il cuore in pace.

 

♦♦♦

 

Non tirava più neanche un sospiro di vento. La neve galleggiava davanti al viso di Italia, leggera e sospesa come fiocchi di cenere, depositandosi fra i suoi capelli e specchiandosi nei suoi occhi spenti, irriconoscibili. Il suo sguardo non sfiorò nemmeno Germania o Romano. Rimase fisso nel vuoto, bordato dall’ombra, come se non li avesse nemmeno riconosciuti. Tutto gli passava attraverso.

Un mormorio di Romano ruppe il silenzio. “Veneziano...” La neve continuava a cadere anche davanti a lui, ai suoi occhi increduli, a quella sua espressione pietrificata dalla paura e dalla confusione. Romano spostò un primo passo – crunch! – guidato dai piedi che si muovevano da soli. “Veneziano, sei...” Si lasciò trascinare dalla forza di quel legame che gli era così mancato, dalla metà del suo cuore che gli avevano strappato e che ora lo chiamava per riempire quel vuoto che pulsava nel suo petto. Il battito accelerò, salì a scaldargli le guance, ad alleggerire il respiro, a ridare vita ai suoi occhi. Compì un altro passo. “Sei tu...” Una mano di Spagna gli afferrò il braccio e lo trattenne.

Romano gemette, posò lo sguardo sulla mano inguantata che si era arpionata a lui poco più su del polso, e corrugò la fronte. “Ma che...” Schiacciò il pugno, diede uno strappo. Spagna lo trattenne e lo richiamò indietro. Romano digrignò i denti e gli spinse il pugno sul petto. “Si può sapere che merda t’è preso? Lasciami andare!”

Il corpo di Spagna però non sentiva i pugni di Romano, i suoi occhi non lo guardavano. Guardavano Italia. Ita. È davvero... Una breve carezza di sollievo gli fece dimenticare della neve in cui erano affondati i suoi piedi, del gelo che gli mordeva il viso e le orecchie, e degli spari che erano appena esplosi al di là della nebbia, nei budelli del villaggio. È davvero lui? Ma... Un brivido lo fece esitare, lo spinse a tenere stretto il braccio di Romano, a impedirgli di avvicinarsi a suo fratello, a quell’ombra nera e ostile gettata dai suoi piedi, a quegli occhi grigi che non erano più i suoi, a quello sguardo che non trasmetteva più né affetto né vivacità. Cosa gli è successo? Il cuore di Spagna pianse nel vederlo ridotto in quella maniera. Cosa gli hanno fatto? Quello non è Italia.

Un calcio sulla caviglia da parte di Romano lo riportò in sé.

“E mollami,” gridò lui. “Lasciami andare!” Tornò a spingere le spalle in avanti, a tendere il braccio. “Voglio andare da lui!”

“No.” Spagna lo strinse, arretrò di un passo e se lo portò dietro, avvolgendolo anche con l’altro braccio. “No, non ti avvicinare, resta qua al sicuro.”

“Ma...” Il corpo di Romano s’irrigidì nell’abbraccio di Spagna, i gomiti si allargarono, le spalle indurite fecero resistenza, un altro suo passo strusciò sul suolo innevato, e il suo cuore batté sempre più forte, bruciando in fondo al petto. “Ma è lì davanti. Veneziano è lì davanti a me dopo tutto questo tempo!” Un altro strattone di spalle. “Come merda faccio a starmene impalato qui?”

“Quello non è tuo fratello.”

“Cos...” Romano si fece rigido, e lo trapassò con un’occhiataccia. Non si arrese a quell’ipotesi. “Cosa merda dici?” Ma anche lui stava cercando di ingannarsi. “È lui, è lì davanti a me e...” Non provò alcuna emozione nell’incrociare gli occhi di Italia. Erano gelidi, come se ogni traccia di vita fosse stata succhiata via. Romano si sentì perdere in quel freddo. Cosa gli hanno fatto quei bastardi?

Spagna non lo lasciò andare, gli impedì di crollare. Si girò in cerca dello sguardo di Prussia, di un appiglio per non affogare anche lui in quella situazione assurda che gli faceva tremare le ginocchia.

Prussia incrociò di sbieco quello sguardo, ricevette quella dura botta di paura nella pancia, e anche lui si girò in cerca di un sostegno più solido. “West...”

Germania non lo udì nemmeno. Stava ancora guardando Italia, isolato da tutto ciò che lo circondava e schiacciato da tutta la negatività che trasudava dai suoi occhi, da quella distanza incolmabile, com’era successo a Creta la primavera precedente, quando Italia aveva aggredito Inghilterra, quando stava per commettere l’irreparabile, e Germania si era gettato a salvare entrambi. Ma questa volta era diverso. L’odio di Italia non crepitava contro un nemico, ma contro Germania stesso.

Italia. Quel nome nacque e morì dentro di lui come un suo stesso respiro. Italia è vicinissimo. Eppure... Eppure Germania non riusciva a sollevare nemmeno un passo, a trovare nulla che lo spingesse ad avanzare verso quella presenza estranea, infettata dal ghiaccio di Russia. Non l’ho mai sentito lontano come adesso.

“Russia...”

Il sussurro di Ucraina lo fece voltare verso di lei.

Le prime lacrime perlacee fiorirono dagli occhi di Ucraina, gocciolarono dalle ciglia socchiuse, rotolarono lungo le gote e bagnarono la garza incerottata sulla guancia. “Russia.” Ucraina svelò un sorriso disperato. Mosse un passo traballante e allungò un braccio verso di lui. “Russia, sono a casa...”

Germania le riacciuffò una spalla, trattenendola come Spagna aveva fatto con Romano, e la tirò indietro. La sua presa però era più salda, la sua mano più dura. Gli occhi azzurri di nuovo freddi e micidiali rivolti a Russia, guardandolo come un nemico. Russia non è venuto qui per uno scambio, si disse. Russia è venuto qui per una lotta. Ed è quello che avrà da me. Forse starà pensando di utilizzare Italia come un’arma... Spremette la presa sulla spalla di Ucraina. Ma anch’io stringo fra le mani il suo punto debole.

Gli occhi di Russia s’inchiodarono a Ucraina, vacillarono per la prima volta. Anche attraverso il suo sguardo sfilò la consapevolezza di quanto lei fosse vicina, di quanto sarebbe stato semplice compiere qualche passo, allungare il braccio, stringere la mano di sua sorella come quando erano piccoli, e riaccompagnarla a casa. Russia si tolse dalla mente quel pensiero – Non ancora, non ancora, devo resistere, pazientare, e mostrarmi più forte di Germania, non devo dargli occasione di vedermi cedere – e rinnovò il sorriso. “E così avete davvero portato anche mia sorella.” Ridacchiò. “Allora era vero quello che mi hai detto a Borodino, Germania, e che sei ancora aperto a uno scambio. Che pensiero gentile.” Si strinse nelle spalle, gli inviò un innocente sguardo da furbo. “Ma chi ti dice che per me vada ancora bene?” Avvolse un braccio attorno alle spalle di Italia, lo attirò a sé, e gli passò una prima carezza fra i capelli. “Chi ti assicura che io adesso sarei disposto a lasciare andare Italia?”

Quel suo gesto, quel raccoglierlo sotto il braccio, quel modo di carezzargli i capelli, e – Dio Santo – quel modo di toccarlo, accesero un fuoco dentro Romano che avrebbe potuto liquefare la neve dell’intera Siberia. “Bastardo,” gli sbraitò contro, gli occhi carichi di un odio incandescente. “Lascialo!” Tornò a dare uno strattone fra le braccia di Spagna. “Lascialo andare subito!”

Russia fece spallucce. “Come vuoi tu.” Sfilò la mano dalla testolina di Italia, gli lasciò le spalle, e compì un passo in disparte. Lo lasciò per davvero. “Sei libero, Italia. Coraggio, torna pure dai tuoi alleati.”

Germania schiacciò la presa sul braccio di Ucraina, quasi a impedire che le loro traiettorie potessero incrociarsi.

Italia non mosse nemmeno un passo. Lasciò che un’altra carezza di vento gli passasse attraverso, che la neve rotolasse fra i suoi piedi, e rimase immobile.

Russia sorrise come se sapesse già che sarebbe successo. “Non vuoi andare con loro?”

Italia chinò il capo, lasciò che l’ombra dei capelli gli cadesse davanti alla fronte, che gli nascondesse lo sguardo, e fece di no. Compì un passo indietro.

Una vampata di gelo cadde sulle altre nazioni, l’aria si congelò e la neve rimase sospesa assieme ai loro respiri.

La faccia di Prussia divenne di sale. “Ma che diavolo...”

Sul viso di Romano si dipinse una buia espressione di dolore, un vuoto che gli diede l’impressione di venire risucchiato dalla neve e dall’oscurità del gelo che li sovrastava. “Veneziano.” Romano tentò un altro passo in avanti, un altro solco nella neve, ma Spagna tirò di nuovo indietro il suo peso molle e arrendevole. Strinse gli occhi, prese un lungo respiro, e lanciò un grido verso il fratello. “Veneziano, svegliati, siamo noi! Che merda ti prende? Torna a casa! Siamo venuti a salvarti, sbrigati e scappa! Vieni via di lì!”

Italia tenne gli occhi bassi, nascose un sussulto di spavento, e scivolò dietro il fianco di Russia, protetto dalla sua spalla.

Una stilettata di rabbia questa volta sfrecciò anche attraverso il cuore di Spagna, lo spinse a ringhiare contro Russia. “Cosa gli hai fatto?”

“Io?” Russia li affrontò con una buia ma bambinesca espressione da offeso. Scosse il capo. “Io non gli ho fatto proprio nulla.” Riprese a carezzare la testa di Italia. La mano inguantata a scorrere fra i capelli castani, il dorso a massaggiare il profilo del viso, la curva della guancia asciutta, a tenere la pelle riparata dai fiocchi di neve. “Siete voi quelli che hanno acconsentito a ridurlo così, ed è solo grazie a voi se Italia ha finalmente capito qual è la via più saggia da prendere per sopravvivere a questa guerra. Se ha capito che con me può essere al sicuro, al contrario di voi che avete permesso che gli accadesse tutto questo.” Sollevò un sorriso crudele. “Ma questo Germania lo sa già, non è vero?”

Tutti gli occhi volarono su Germania, solo per trovarlo racchiuso nell’oscurità che stava contagiando pure lui.

L’espressione di Russia s’incattivì, divenne più dura, quasi lo stesse rimproverando. “Ora finalmente ti convinci di quello che ti ho già detto, Germania?” Attorno a lui si condensò la solita fuligginosa aura nera che non presagiva altro che guai. “Io non racconto bugie, ormai dovresti averlo capito.”

Romano ringhiò uno sbuffo prima di dargli occasione di rispondere. Si divincolò, si sganciò dalla stretta di Spagna, e andò ad aggrapparsi al petto di Germania. “Dai, reagisci, maledizione,” sibilò a denti stretti. “Ci hai portati fino a qui per combattere, per riprenderti mio fratello, e me l’avevi promesso. Fa’ qualcosa!”

Ma anche Germania finì intrappolato in quello sguardo, nella freddezza degli occhi di Italia che non riuscivano a trasmettergli nulla se non quel triste senso di vuoto che non riusciva a raggiungere. E tutto per colpa sua. Se solo non avessi mai permesso che Russia lo rapisse...

“West.” Prussia gli diede una scossa alla spalla, assecondando Romano. “West, di’ qualcosa.” In lui corse un brivido di sospetto, la sensazione che vi fosse qualcosa che non andava.

Germania voltò il capo e nascose quella sfumatura smarrita che gli aveva ingrigito il volto, simile all’espressione che aveva mostrato Italia quando si era rintanato contro il fianco di Russia. Anche una piccola parte di lui avrebbe voluto sentirsi libera di compiere un passo indietro e di non dover affrontare quel dolore.

“No?” gli disse Russia. La voce dolce, nonostante le sue labbra avessero smesso di sorridere. “Non lo vuoi più, Germania? Peccato.” Tornò a lasciare Italia, lisciò un lembo della sciarpa lungo il fianco, e gli camminò davanti, infrangendo il silenzio con il crunch!crunch! della neve che si spaccava sotto i suoi passi. “Ma questo non significa che io abbia rinunciato a riprendermi mia sorella.” Il vento s’innalzò dalla sua camminata, le prime zanne d’aria e di ghiaccio gli saettarono attorno componendo un maglio di luce sempre più fitto. Lame bianche e brillanti attraverso cui sfrigolavano scintille dello stesso colore degli occhi di Russia, ora di nuovo colmi di tenebra. “E soprattutto a eliminarti una volta per tutte e a rispedirti da dove sei venuto.”

I vortici di gelo si condensarono, strisciarono fra le gambe di Russia, s’innalzarono attorno ai suoi fianchi seguendo un turbinio sempre più rapido e rumoroso, e si stagliarono contro il cielo, gonfiando l’alba di nevischio. La nebbia elettrica avvolse l’immagine del Cremlino, rese le sue guglie ancora più soffuse e lontane, staccate dal corpo delle torri. Ancora più irraggiungibili.

Russia rivolse il braccio dietro di sé, l’indice al cielo. “Guarda il mio Cremlino, Germania.” Avanzò ancora, questa volta senza rompere il ghiaccio. Fu il ghiaccio a separarsi e ad accogliere il suo cammino. “Guardalo per un’ultima volta da qui, perché ti assicuro che non lo vedrai mai più, né da lontano né da vicino, né da vivo né da prigioniero. Imprimi bene nella tua mente quell’immagine e goditi i tuoi ultimi respiri riflettendo su quello che avresti potuto conquistare se solo ti fossi dimostrato un po’ più furbo.” Ritirò la mano, se la posò sul petto, e gli regalò un ultimo sorriso di compassione. “Se solo fossi riuscito a sconfiggere me.”

Enormi braccia di neve e vento si spalancarono sopra di Russia. Mani fantasma divaricarono le dita, raccolsero i turbinii di ghiaccio azzurrino che risalirono lungo le spalle della sagoma fino a delinearne il volto dai tratti duri e consumati, e gli occhi di luce violacea che scaricarono una tempesta plumbea su tutto il paese, isolandolo nella sua morsa. Il Generale Inverno schiuse la bocca tagliata dal ghiaccio delle sue stesse raffiche, respirò attraverso la condensa cristallina, si chinò lasciando sventolare il pastrano sotto i turbinii dell’aria, affondò le mani sulle cime delle isbe, ne stritolò i tetti sotto le dita, e rigettò una crosta di ghiaccio che scese fino al suolo. Un suo aspro ruggito scosse la terra, disegnò un mulinare di vento e ghiaccio che avvolse le nazioni, e sollevò la bufera di neve che investì persino Ucraina sotto la sua furia. Ormai nemmeno lei poteva più nulla contro la sua furia.

Germania alzò un braccio per respingere il morso di vento che gli aveva azzannato il viso, piantò le suole a terra per non lasciarsi spingere indietro dalla violenza dell’aria e della neve, e richiamò tutti a sé. “Statemi vicini, non allontanatevi per nessun motivo!”

Tutti e quattro si strinsero. Spagna gli s’incollò al fianco, raccolse Romano fra le braccia, riparandogli la testa dalle raffiche così letali da dar l’impressione di poter affettare le orecchie e le guance. Prussia si piantò davanti a Germania, schiacciando la schiena contro il suo torso, e divaricò le braccia per proteggerli tutti. Strinse i denti per contenere un gemito dolorante, stritolato dalla morsa bianca, e socchiuse gli occhi già cristallizzati dal ghiaccio. Si ritrovarono isolati in un vortice che gridava loro nelle orecchie, continuando a sputare neve come grandine. Neve fra le ciglia, neve fra i capelli, gli abiti già duri e congelati, e la sensazione che gli arti già insensibili potessero staccarsi dal corpo.

Romano fu il primo a battere i denti. “C-che f-f-freddo f-f-fot-t-tuto.” Spagna lo strinse più forte e gli diede una strofinata alla testa per impedire che la neve si solidificasse.

Germania tenne il braccio fermo contro la fronte e sollevò lo sguardo. Due occhi, infinitamente più grandi e spaventosi di quelli di Russia, due lampi viola fra le bianche spire di neve, lo stavano osservando. Gli occhi del Generale. Calò il braccio e scostò la stoffa del guanto. Il ghiaccio si arrampicò attraverso la sua pelle, all’altezza del polso, e seguì il profilo delle vene fin sotto la manica della giacca. Bruciava. Germania si toccò il viso, senza sentire nulla, e batté di nuovo le palpebre imbiancate dalla neve. Una fitta di dolore attraversò gli occhi, rese la vista ancora più appannata, gonfia di quelle scintille bianche che lo stavano estraniando come in un sogno. Doveva sbrigarsi. “Non possiamo stare qui.”

Romano sbucò da sotto il braccio di Spagna. “C-che cosa?”

Germania aspettò che un fischio di vento si ritirasse dalle sue orecchie. “Che non possiamo stare qui a lungo,” ripeté con voce più alta. “Il freddo ci ucciderà, dobbiamo salvare Italia e andarcene. Un solo minuto di più potrebbe essere fatale persino per noi.”

“M-ma allora come facciamo?” balbettò Spagna, spezzettando le parole fra il battere dei denti. “C-come si fa a t-t-tornare indietro con una bufera del genere?”

“Più che altro,” intervenne di nuovo Romano, “come facciamo a portarci via Veneziano?” Sgusciò da sotto il gomito di Spagna e si appese al braccio di Prussia per tenersi al riparo e non essere costretto a inginocchiarsi davanti alle raffiche. “Il bastardo l’ha ipnotizzato o che cazzo ne so. L’unica soluzione è portarglielo via di peso.”

Germania annuì. “Ed è quello che faremo.”

Cheee?” Romano strabuzzò gli occhi e lo linciò di sbieco. “E come...”

“Ora ascoltatemi.” La voce di Germania trasmise di nuovo a tutti un forte senso di sicurezza. “Dobbiamo dividerci. Due di noi dovranno tenere Russia occupato e impedirgli di intervenire mentre gli altri due raggiungeranno Italia e lo porteranno via. Sono entrambi disarmati, non potranno fare nulla per difendersi.”

Spagna si diede una strofinata alle spalle, si spremette fra il fianco di Romano e il braccio di Prussia, e aguzzò la vista per inquadrare la scura sagoma di Russia da dietro il vortice di neve. “Ita forse no, ma Russia ha tutto quel gelo che gli vola attorno...”

Prussia diede una spallata a Spagna, “Allora io e te teniamo occupato Russia”, e inviò un’occhiata d’intesa a Germania. “Mentre voi due vi occupate di Ita e di farlo tornare in sé.”

“Che cooosa?” Spagna sbiancò di colpo. “A-anch’io contro Russia? Ma...”

“Rilassati,” gli fece Prussia. “Andrà tutto bene.” Diede un colpetto con la mano alla sua mitragliatrice, per scaramanzia, e s’illuminò in viso grazie a un suo sorriso da pallone gonfiato. Fu incredibilmente confortante. “C’è il Magnifico a proteggerti. Poi noi siamo armati e lui no, ricordi? Ne usciremo più candidi di un fringuello in primavera.”

“Che razza di similitudine è?”

“Non lo so, mi piaceva e l’ho inventata sul momento.”

Spagna scosse il capo per nascondere un sorrisetto. In una situazione normale si sarebbe messo a ridere e lo avrebbe anche assecondato. “Proprio non riesci a rimanere...”

“Un momento,” li bloccò Romano. “Un momento e fermi tutti. E di Ucraina cosa ne facciamo?”

La povera Ucraina infatti si era accasciata lontana dal gruppo, le ginocchia a terra, le braccia strette al petto e il capo basso per proteggere il viso dalle sferzate di quella neve che era come una tempesta di rasoi. Avanzò di una ginocchiata, smuovendo la neve appena depositata sotto il peso della sua gamba, premette il piede al suolo per darsi lo slancio, sollevò le braccia in avanti come se si fosse trattato di spingere un’enorme porta d’aria e di ghiaccio, e ricadde sotto una folata di vento che le era sbattuta contro la schiena.

Non si sarebbe mossa di molto. Germania non se ne preoccupò. “Se voi vi occuperete di Russia, Ucraina allora non potrà nemmeno avvicinarsi a lui. Se dovesse comunque mettersi di mezzo, non esitate a spararle. Non esitate su nulla.” Rivolse a tutti e tre una severa occhiata di monito. “Ricordatevi il peso della posta in gioco.”

Nonostante il disagio sui loro volti, soprattutto nell’espressione grigia e avvilita di Spagna, nessuno di loro controbatté. Sapevano che aveva ragione.

Attorno a loro l’intensità del vento crebbe. Il ghiaccio sfregiò loro le guance, stridette sulle orecchie e fra le labbra. La nebbia si gonfiò e divenne ancora più alta, coprendo le guglie del Cremlino fino alle punte, fino a che non si formò una densa cappa di foschia attraversata dalle sfrecciate di ghiaccio e irradiata solo dagli occhi violacei del Generale Inverno che vegliava sul suo protetto.

Germania premette un palmo sulla schiena di Romano e lo guidò dove le spire di neve erano più diradate e l’ombra di Italia emergeva oscillando nel bianco. “Correte!” Tutti e quattro si divisero, Germania e Romano da una parte, Prussia e Spagna dall’altra, ma gli occhi di Germania scivolarono per un’ultima volta sulla figura di Ucraina rimasta sola in mezzo alla bufera, caduta anche lei sotto la prepotenza del Generale che le era passato attraverso. La neve si stava già depositando sulla sua figura rannicchiata, sulla sua schiena curva e tremante che non era in grado di raddrizzarsi.

Nemmeno lei potrà più fare nulla, pensò Germania. Né contro di me né contro suo fratello. Accelerò per stare al passo con Romano, e un’altra zaffata di vento innalzò una bianca ala di neve che li separò da Prussia e Spagna. Le loro strade si divisero. Ma ce ne andremo assieme, si ripromise Germania. Ce ne andremo assieme. E Italia verrà con noi, non importa quanto sacrificio mi costerà, non importa quale sarà il prezzo. Io combatterò fino a che non lo riavrò al mio fianco.

 

.

 

Prussia sfilò dalla spalla la sua mitragliatrice leggera, spinse un palmo sotto il caricatore per assicurarsi che fosse ben agganciato, preparò l’indice all’interno dell’anello del grilletto, e buttò un ultimo sguardo verso Germania e Romano che erano corsi nella direzione opposta. Le loro ombre svanirono nella foschia, in un turbine di spirali ghiacciate che con i loro fischi tagliavano persino lo scricchiolio dei passi in corsa.

Spagna gli corse affianco, anche lui con la mitragliatrice a pesare fra le mani già congelate nonostante i guanti. “Come facciamo a sapere che Russia non stia tramando qualcosa?” Gli sbuffi del suo fiato si squagliarono contro la spalla. “Non ti pare un po’ strano? Così disarmato...” I suoi occhi arrossati dalle raffiche di vento scivolarono sull’ombra di Russia circondata dall’ululato della neve. “Forse ha in mente qualcosa?”

Prussia diede un’ultima spinta alla mitragliatrice, contrasse la fronte, assottigliò le palpebre imbiancate dal ghiaccio, e squadrò la preda attraverso la foschia del suo stesso respiro. “Direi che non ci resta altro che scoprirlo.” Sollevò la sua arma, socchiuse un occhio, puntò la mira, e attese che il vento trascinasse via la nebbia.

La coltre bianca si diradò. Ne emerse il profilo alto e minaccioso di Russia, i suoi occhi fini e attenti, magnetici e misteriosi come quelli che vegliavano sulla battaglia dall’alto della tempesta.

Prussia flesse l’indice congelato e schiacciò tutto il peso sul grilletto. “Fuoco!”

Due raffiche di lampi scoppiarono dalle due mitragliatrici, la grandinata di proiettili perforò la nebbia e si rovesciò su Russia.

Lui non mosse un muscolo. Il gelo lo abbracciò, l’aria di ghiaccio s’inspessì, tornando bianca e lucida come l’interno di una conchiglia, e incassò la pioggia di piombo. I proiettili rimbalzarono sulla barriera di ghiaccio, spruzzando una cascata di scintille che finì spazzata via dal vento, e caddero in mezzo alla neve che si accumulò fino a seppellirli, inghiottendoli nel bianco.

Prussia arrestò il fuoco e abbassò la sua mitragliatrice. Lui e Spagna si guardarono. Un’espressione di stordimento e perplessità stropicciata sui volti di entrambi, graffiati dal vento, e lo stesso pensiero a correre nelle loro teste. Uhm, d’accordo, questo non era previsto. Prussia tornò in cerca di Germania e pregò Fritz che almeno lui avesse un’idea migliore per fare fuori il mostro.

 

.

 

Mentre stava ancora correndo, Germania ricevette l’occhiata di suo fratello, quel lampo di panico imprevisto, e rivisse il momento in cui gli spari si erano schiantati contro la barriera innalzata a proteggere Russia. Il gelo respinge gli spari? Com’è possibile?

“Fai ancora fuoco!” gridò Prussia. “Stiamogli addosso!” Altri spari lampeggiarono dalla sua mitragliatrice e da quella di Spagna.

I proiettili esplosero nuovamente contro le spirali di ghiaccio. L’ululato del vento crebbe, trascinò attorno a Russia ancora più neve, altre scintille stridenti scoppiettarono sulla barriera, e i riflessi azzurrini si specchiarono sul suo viso latteo che non aveva nemmeno battuto ciglio.

Il ghiaccio, pensò Germania. Il ghiaccio protegge Russia, ma non quello che gli sta attorno. Dentro l’ombra di Russia, spaurito ma protetto dalla sua stazza, anche Italia se ne stava immobile e rannicchiato, tremante sotto il vento che gli scuoteva i capelli davanti agli occhi senza però scalfirlo neanche con un graffio. Quindi c’è sempre la possibilità di sottrargli quello che custodisce senza venirne bloccati.

“Romano.” Germania gli si accostò rallentando la corsa, resistendo alla fatica di allungare le falcate nella neve fresca che gli schizzava fra le ginocchia. “Quando te lo dico io, tu scatta. Corri più veloce che puoi, non badare a Russia, e tuffati a prendere Italia.”

Romano strabuzzò le palpebre cristallizzate dal ghiaccio e lo guardò come se si fosse ammattito. “Prenderlo io di peso? E tu invece cosa fai?”

“Io ti copro le spalle e mi assicuro che Russia non ti attacchi,” replicò Germania. “Fa’ come ti dico e fidati di me.”

“Io...” È una follia. È una follia e moriremo tutti. Ci trasformeremo in ghiaccioli viventi e rimarremo imprigionati qua per l’eternità. “D’accordo.”

Germania annuì di rimando e rivolse anche un ultimo cenno di mano a Prussia per farli proseguire.

Prussia levò il mento con uno scatto – Ricevuto –, corse lasciandosi trascinare dalla spinta del vento, sganciò il serbatoio vuoto della mitragliatrice, lo sostituì con uno nuovo che teneva nella giacca, e lanciò un messaggio a Spagna. “Ancora!” Tornò a mirare contro Russia. “Fuoco!”

Di nuovo la raffica grandinò su di Russia, e di nuovo l’abbraccio del Generale scese a inspessire il ghiaccio e a proteggerlo, facendo rimbalzare sulla neve i lampi dei proiettili, ma coprendo solo il suo profilo frontale. Il vento alitò attorno a Russia, gonfiandosi attorno alla forma tonda del turbinio di spire ghiacciate, e investì Italia che dovette chinare il capo dietro le braccia per non finire accecato dalla neve.

Germania diede una spinta a Romano, “Vai, corri!”, lo spedì contro la breccia.

Romano scattò sentendosi il fuoco sotto i piedi. Divorò la neve fresca in un paio di falcate, attraversò le grida del vento e i graffi della neve, sfiorò la presenza di Russia che fu come il tocco di una lama attraverso la guancia e l’orecchio e raggiunse Italia. Incrociò i suoi occhi che si sollevarono a guardarlo, a sigillare quel fugace battito di ciglia. Romano lo raccolse fra le braccia, lo strattonò via, rotolò di un paio di passi, e cadde assieme a lui sulla neve dura, picchiando il gomito e la tempia.

Russia intercettò quello scatto di fuga alle sue spalle. Il gelo nei suoi occhi si sciolse e le sue labbra si schiusero in un sussulto d’esitazione. “Italia?” Un’altra raffica di mitragliate esplose. Un proiettile trapassò la crosta di ghiaccio indebolito e sfrecciò contro la guancia.

Russia premette la mano sullo sfregio, impietrì stringendo un sibilo fra i denti, e solo un singolo brivido gli scosse i tratti del volto.

Da dietro la nebbia, Prussia abbassò la mitragliatrice, aguzzò un sorriso e ridacchiò. “Presa, fatina delle nevi.” Il colpo era stato suo.

Russia strinse un’ultima smorfia e si tolse la mano dal viso. Una chiazza scura aveva macchiato il guanto. Una riga di sangue discese dalla guancia, dalla bruciatura che lo aveva ferito, e gocciolò aprendo un singolo e minuscolo punto rosso in mezzo alla neve, davanti al suo piede. 

Attorno a Russia s’infiammò un freddo e bianco fuoco di rabbia che ingrossò la risacca del vento e che spazzò una violenta frustata di neve sull’ambiente circostante.

Germania incassò quella spinta di gelo, dura come uno schiaffo di cemento, e finì sbattuto a terra, cadendo di fianco su mani e ginocchia. Un’altra spirale gli si congelò attorno e lo soffocò in un nodo di ghiaccio che si cristallizzò sul suo viso, fra i suoi capelli, fra le labbra che cominciavano a sapere di ferro, e anche sotto i vestiti, indurendoli come una corazza. Mi sto congelando. Inviò un impulso di energia lungo le braccia, fino alle mani, ma non riuscì a muovere le dita. Non mi sento più le mani, fra poco non sarò nemmeno in grado di muoverle, o di alzarmi da terra.

Germania trascinò un ginocchio, premette un passo al suolo, si rialzò con le spalle, ma un calcio di vento tornò a scaraventarlo fra la neve. Strinse i denti, ingoiò quell’amaro senso di sconfitta che lo stava corrodendo dal momento in cui si era ritrovato davanti agli occhi di Italia. Non posso farmi bloccare in questo modo. Voltò lo sguardo, andò alla sua ricerca, sperando solo di trovarlo al sicuro fra le braccia di Romano, e si costrinse a raccogliere le forze, a combattere la morsa di freddo, e a rialzarsi da terra. Devo aiutare Romano.

 

.

 

Il colpo alla testa, dopo aver picchiato la tempia sullo strato di neve più dura, lo aveva stordito, risucchiandolo per un battito di ciglia in un ambiente buio e silenzioso. Romano riaprì gli occhi su tutto quel bianco di cui ormai era ubriaco, strinse le braccia per assicurarsi che fossero ancora ancorate al corpo di Italia, e riprese a respirare quel fiato bianco e bruciante che si mescolò alla nebbia che li isolava dagli altri. “Veneziano...”

Italia fu scosso da un tremore. Si rigirò sul fianco, sfregandosi fra le braccia di Romano, e piegò i gomiti fra la neve, senza sollevare lo sguardo. Respirò a fatica ma non rispose. Il candore della condensa a spezzettarsi fra le labbra bluastre di freddo.

Romano lo strinse più forte. “Veneziano.” In quel momento di confusione e stordimento, schiacciati contro il suolo che tremava per i ruggiti dell’inverno, intrappolati in una guaina di spirali di vento e isolati nella nebbia di neve, l’unica cosa a cui riuscì a pensare fu l’abbraccio in cui era di nuovo riuscito a chiudere suo fratello.

Romano affondò il viso contro il suo petto, sospirò come se si fosse liberato di un peso, e vi si abbandonò. Dopo tutto quel tempo, dopo tutte quelle settimane trascorse solo pensando a lui, dopo tutte le notti insonni, dopo tutti i pianti trattenuti che gli avevano consumato il cuore di tristezza, dopo tutta la speranza che aveva mantenuto accesa solo per poter arrivare a quel momento... “Veneziano.” Continuò a ripeterlo come una cantilena, assaporando la dolcezza di quel nome che usciva sempre e solo dalla sua bocca. “Stai bene. Sei...” Lo spinse a sedersi, gli tastò i fianchi, le spalle. “Sei ferito? Ti hanno fatto del male?” Le mani risalirono fino ad avvolgere le guance pallide e smagrite. Ancora Italia non lo guardava. “Cosa...”

Altre mitragliate si consumarono al di là delle raffiche di ghiaccio che li circondavano. Quella tensione elettrica sfrigolò attraverso l’aria e strinse il respiro di Romano, soffocandolo col suo stesso palpito. Stanno ancora combattendo. Ma se Veneziano ormai è con me allora significa che... “Sbrigati!” Gli strinse la mano, lo sorresse per i fianchi, lo fece rialzare di peso, e allungò una prima falcata di corsa. “Dobbiamo andare via da qui!”

Italia piantò i piedi nella neve, diede uno strattone col braccio, liberandosi, e strinse il polso al petto. “No!” Tornarono quegli occhi estranei, quello sguardo di ghiaccio che non poteva essere il suo, ma questa volta il viso era contratto in una profonda e viva espressione di rabbia. “Io non voglio venire con voi, io non voglio tornare a casa, io...” Italia arretrò calpestando un mulinello di vento e neve. “Io voglio restare qui.”

Romano provò di nuovo quella botta di ghiaccio allo stomaco, la stessa che era affondata nella sua pancia quando aveva visto Italia arretrare la prima volta nonostante il loro richiamo. “Ma che cosa merda stai dicendo?” Strinse i pugni inguantati ai fianchi e lasciò che il fuoco bruciatogli dentro sciogliesse il freddo che gli intorpidiva la lingua. “Torna in te, Veneziano! Non vedi che siamo venuti a salvarti? Che cazzo vuol dire che non vuoi tornare a casa? Siamo noi la tua casa, non questo bastardo!”

Italia scosse il capo, strinse gli occhi e si portò le mani alle orecchie, facendosi piccolo. “Non ti voglio sentire!” Compì un altro passo indietro, accolto dal vento di nevischio che lo risucchiò a sé. “Mi stai mentendo. Stai solo dicendo delle bugie per ingannarmi. Mi avete ingannato tutti fino a ora. Voi...” Schiuse le ciglia e gli occhi traballarono, acquosi e lucidi, carichi di un dolore viscerale, quasi come se il ghiaccio stesse lottando per sciogliersi. “Voi mi avete abbandonato. Non avete fatto niente per salvarmi quando Russia mi ha portato via.”

“Ma...” Quelle parole trascinarono Romano in un vortice di confusione. “Ma cosa stai dicendo? È stato...” Un guizzo di rabbia tornò a percorrergli la schiena. Capì tutto. “È stato Russia a dirtelo? È lui che ti ha messo in testa queste stronzate?”

“L-lui...” Italia gettò lo sguardo in disparte, di nuovo tremante e insicuro. Una sottile crepa nel ghiaccio. “Lui me le ha fatte capire.”

“E allora sarà meglio che te le torni a levare dalla testa!” Romano affondò un piede nella neve per darsi lo slancio e tornò a gettarsi addosso a Italia per prenderlo e portarlo davvero via di peso come aveva detto Germania.

Italia incrociò le braccia per resistergli, venne spinto all’indietro da quel colpo, ma anche lui irrigidì i muscoli, si lasciò pervadere dalla forza che gli trasmetteva il freddo risalito dalle gambe, e schiacciò tutto il peso contro Romano, facendo cadere di nuovo entrambi a terra.

Romano precipitò di schiena, picchiò la nuca e per poco non si morse la lingua, e il peso di Italia gli atterrò sullo stomaco, facendogli ingoiare un gemito soffocato. Qualcosa gli cadde dal fianco – crack! –, si ribaltò un paio di volte fra la neve indurita e giacque immobile.

Romano scosse la testa per riprendersi dalla botta, e sia lui che Italia puntarono gli sguardi verso la scintilla grigia che brillava in mezzo al bianco. La sua pistola.

Entrambi trattennero il fiato, Romano strinse i pugni a terra, il corpo di Italia s’indurì contro il suo torso, e si guardarono di striscio. Li fulminò lo stesso lampo di realizzazione.

Italia si tuffò per primo contro la pistola. Romano gli afferrò una caviglia, lo trattenne, lo fece cadere di pancia, ma Italia allungò le braccia, scagliò le mani sull’arma, la strinse fra i palmi, ruotò il torso con uno scatto e puntò la mira su Romano. Le braccia tremavano quasi quanto il suo respiro.

Romano singhiozzò di paura nel ritrovarsi davanti all’occhio nero della pistola spalancato contro di lui, come a volerlo risucchiare. Lasciò la caviglia di Italia e arretrò scivolando sulle gambe piegate. Anche lui boccheggiò. Il sangue a pulsare contro le tempie, l’anello di terrore e confusione a stridergli attorno alla testa, lo stomaco di nuovo ribaltato dalla nausea, e i muscoli molli. Deglutì, rallentò il respiro, socchiuse gli occhi. La mente di nuovo lucida e fredda come il ghiaccio che gli aveva trapassato l’anima. “Allora è così...” Fischi di vento più deboli lo circondarono, bruciando all’altezza delle palpebre congelate. “È così che vuoi farla finire, eh? Dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo tutto quello che ci siamo ripromessi...” Il suo sospiro tremolò. “Ti sta bene farla finire in questo modo?”

Italia serrò le mani sull’impugnatura della pistola, incapace di placare il tremolio delle braccia. Strinse gli occhi, gettò lo sguardo a terra, e rabbrividì ancora, facendo oscillare la mira. “Io...” Si morse il labbro inferiore. “Io non...”

Un’ombra sbucò dalla foschia, si materializzò dietro di lui, due braccia lo strinsero prima che potesse premere il grilletto, e lo spinsero di nuovo a cadere. Il colpo fece schizzare via la pistola dalle mani di Italia, la fece rotolare poco distante, e una spazzata di neve ne seppellì il calcio e parte della canna.

Proprio com’era capitato a Romano, Germania si ritrovò per la prima volta a poter racchiudere il suo abbraccio attorno a Italia, a stringerlo e a proteggerlo contro di sé come avrebbe voluto fare a Kiev, durante il rapimento, quando lo aveva visto intrappolato nella morsa di Russia. “Italia.” Gli strinse le spalle, lo risollevò per guardarlo veramente negli occhi per la prima volta da quando si erano rincontrati, per raggiungerlo in quel luogo oscuro dove si era nascosto. “Italia, torna in te. Siamo venuti a salvarti, non ci riconosci? Ti vogliamo riportare a casa.”

Italia scosse più volte il capo, si dimenò premendogli le mani sul petto e allontanando le spalle, dando piccoli strattoni per scollarsi da lui. “P-perché...” Si liberò con una spinta più forte, ricadde all’indietro, strusciò con le suole sul ghiaccio, allontanandosi, e trapassò Germania con occhi accusatori che erano ancora più dolorosi da sopportare rispetto alle lame di ghiaccio intagliate dal vento. “Perché dovrei seguirti? Perché dovrei tornare a essere un tuo alleato? Tu... tu mi hai sempre usato.”

Quelle parole d’accusa sprofondarono nel cuore di Germania come una serie di coltellate, gli fecero ingoiare l’aspro sapore del sangue. “No, Italia.”

“Invece è vero,” esclamò Italia. “Non mi hai mai voluto bene, anche se io sarei stato disposto a tutto pur di farti felice, mentre tu pensavi solo alla tua nazione e mai alla mia. E l’ho capito... l’ho capito proprio stando lontano da te. Tu hai permesso che mi portassero via.” Un nuovo cedimento gli annacquò lo sguardo. Di nuovo quella disperata scintilla che cercava di liberarsi dal ghiaccio. “Tu stai usando il mio paese solo per vincere la guerra.” Il freddo s’inspessì attorno a lui. Scricchiolii crepitanti attraversarono il suolo, e la nebbia si gonfiò, congelando quell’istante.

Poco distante da loro, ancora scosso dal fiatone, Romano s’infilò nel loro silenzio. “Ma che cazzo stai dicendo?” Che cazzo sto dicendo io? Da quando mi sono messo a difendere il crucco? Ma non voglio che Veneziano diventi qualcuno che non è, non voglio che cambi per colpa di un bastardo che lo sta spingendo solo a provare odio. “Veneziano, svegliati, brutto idiota che non sei altro! Smettila di fare il coglione e torna in te!” Si strinse la spalla che aveva sbattuto cadendo a terra per raggiungere la pistola, combatté contro la corrente d’aria che gli premeva sul petto e sul viso, ma avanzò comunque di una ginocchiata strisciante per fronteggiare Italia a viso alto. “Hai la minima idea di tutto quello che abbiamo passato solo per venire a salvarti? Persino io mi sono ritrovato a prendere le parti del bastardo pur di aiutarlo a vincere contro Russia, mi sono dovuto fidare di lui perché altrimenti non avrei saputo che cazzo fare per poterti rivedere.” Corrugò la fronte e alzò la voce. “E ora tu vorresti mandare tutto a puttane? Fai quello che ti pare con Germania, che tu lo torni a seguire o meno non m’interessa, ma non ti sognare di rimanere qua con Russia. Perché...” Una scossa di disperazione gli spezzò il battito del cuore, gli diede di nuovo l’impressione di poter crollare e sprofondare nella neve in cui tutti loro erano immersi. “Tutte le promesse che mi hai fatto e che hai fatto anche alla nostra nazione non valgono più niente?”

Italia schiuse le labbra, soppresse una sillaba, e si pietrificò – lo sguardo scosso come se Romano lo avesse schiaffeggiato. Il vento rispose per lui.

Un altro scoppio di mitragliate esplose fuori dal bianco turbine di neve. Gli spari cessarono, l’alito del Generale Inverno trascinò via il loro eco a cui si sostituì un ovattato grido di Prussia. “West, scappa!”

Alle spalle di Germania, la nebbia di gelo e neve si divise, si schiuse come un guscio, e dal suo interno ne emerse un’ombra che si spalancò come una mano artigliata.

Germania si voltò e Russia gli era davanti. Lo sfregio rosso dello sparo sulla guancia, un lieve fiatone a biancheggiare fra le labbra socchiuse, i lembi della sciarpa sporca di neve a scuotersi contro il suo fianco, gli stessi tetri occhi carichi di tempesta che infuriavano anche dal cielo, e una mano inguantata stretta a uno dei tubi per le fontane che avevano visto entrando nel paese. La testa ricurva del rubinetto accasciata fra la neve, accanto al suo piede, e copiosi rivoli di sangue e a scorrere lungo la superficie del ferro incrostato di ghiaccio. Una scia rossa seguiva le sue impronte.

Russia innalzò il tubo e lo slanciò contro Germania, disegnando un arco d’argento nell’aria.

Germania schivò il colpo, batté la spalla a terra, e la parte ricurva del manico si schiantò accanto al suo orecchio, schizzandogli neve ghiacciata sulla guancia.

Si aggiunse un’altra voce, più acuta e straziata, “Russia, non farlo!”, quella di Ucraina.

Russia risollevò il manico ricurvo solcando una strusciata sul ghiaccio. Innalzò il braccio facendo scintillare il ferro ghiacciato da cui colò un altro rivolo di sangue e neve sciolta, e sferrò un calcio sul petto di Germania, scagliandolo con la schiena a terra. Gli cadde addosso. Girò il tubo sguainando l’estremità opposta, quella appuntita a cui era ancora incollata qualche briciola di cemento della base da cui l’aveva staccata, e la affondò nello stomaco di Germania. Il sangue schizzò a fiotti, macchiò il suolo bianco, sciolse la neve sollevando un leggero vapore che odorava di ferro, e consumò la sua vendetta.

Il cerchio d’odio si chiuse.

 


N.d.A.

Vi lascio qui la traduzione della strofa che ho inserito come citazione a inizio capitolo. Purtroppo non conosco il russo, quindi mi sono arrangiata traducendo dall’inglese all’italiano. Potrebbero esserci delle imprecisioni, quindi non esitate a correggermi nel caso foste più esperti di me. :)

 

1“Prendi la mia sciarpa, ora chiazzata di sangue,

e portala alla mia amata.

Dille che adesso è libera,

che io sono legato a un’altra.”

   
 
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