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Autore: K_MiCeTTa_K    09/08/2019    3 recensioni
Cosa sarebbe successo se John non avesse mai incrociato Stamford la mattina che questi gli ha presentato Sherlock Holmes?
John Watson deve affrontare le conseguenze derivate dal congedo militare. Mentre il consulente investigativo è alle prese con un caso di omicidi seriali.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Esisterà un Dio della Johnlock? E se sì con la faccia di chi si mostrerebbe?”
Questa è la domanda che qualche settimana fa ha posto Koa__ sul suo profilo Facebook, e alla quale più d’una persona, oltre lei stessa, ha risposto: Mike Stamford.
Mi sono lasciata ispirare da questa cosa, e mi sono chiesta: cosa sarebbe successo se John non avesse mai incrociato Stamford la mattina che questi gli ha presentato Sherlock Holmes?

 

 

Il caso dell’uomo che non ticchetta più

 

And if the night is burning, I will cover my eyes;
for if the dark returns then my brothers will die.
And as the sky's falling down, it crashed into this lonely town.
And with that shadow upon the ground, I hear my people screaming out.

Ed Sheeran _ I see fire  

 

Un unghia raschia la guancetta[1] della SIG.[2] La voglia di sentire tra le mani il peso dell’arma e la freddezza del metallo è tanta. Ma John la lascia lì, la pistola, nel cassetto della scrivania. Si costringe a farne a meno, e non sa neppure come ci riesce. L’ha tenuta per settimane carica, pronta all’uso, sotto al cuscino, mentre ha provato a riposare. Poi è riuscito a spostarla nel cassetto del comodino. Ora è in quello della scrivania, addirittura scarica.

Gliel’ha consigliato la dottoressa Thompson, la psicologa, gli ha detto che sarebbe stato un passo importante liberarsi della sua semiautomatica, e che avrebbe potuto aiutarlo a dormire in maniera più serena. L’ex soldato si è lasciato guidare dalla donna, come se gli stesse impartendo null’altro che ordini. E lui sa di essere veramente bravo ad eseguirli. Di fatti non vorrebbe niente di diverso dall’essere ancora lì, nel suo campo in Afghanistan a ricevere ordini.

Ella -come concede a John di farsi chiamare per andare incontro ai problemi di fiducia che ha riscontrato in lui-, gli ha chiesto come mai non riesca a separarsi da quell’arnese. L’uomo non le ha mentito, ma neppure si è lasciato andare del tutto a confessioni pericolose. Le ha detto che si sente più al sicuro, e che in fondo la si può considerare un abitudine presa al fronte. Certo, quando sei in guerra sei addestrato a scattare al minimo cenno di pericolo; non fa differenza che tu stia dormendo comodamente sulla branda, in un angolo riparato tra le macerie di un vecchio edificio abbandonato, o al freddo del deserto in un furgone dei vostri.

Ma a Londra, da quale minaccia si dovrebbe difendere Watson? Sicuramente dai propri fantasmi. Se avesse potuto far terminare immediatamente gli incubi che gli infestano il sonno, John avrebbe imbracciato pure un SA-80.[3] Non esiste notte durante la quale non affiorino istanti più o meno reali della guerra che ha vissuto. Rivede la disperazione negli occhi degli uomini e delle donne, soldati e civili. Il dolore intenso di quelli raggiunti da proiettili o colpi di mortaio o chissà quale diavoleria. Il peggio sicuramente è stato scorgere la rassegnazione sui visi dei più giovani, costretti a lasciare le proprie case con enormi pacchi in spalla, anziché giocare tranquilli a campana o a tirare calci ad un pallone.

Non è tutto lì, l’uomo in realtà da quando è tornato si sente diverso. Si guarda allo specchio la mattina e si vede diverso. Secondo Ella potrebbe trattarsi di depressione, ma lo ha rassicurato dicendogli che è presto per parlarne, che non ne è certa perché lui le dà segnali contraddittori. Ebbene questa cosa, una malattia senza nome, che sente John gravargli sul petto, è asfissiante. Lo sta corrodendo dall’interno. Questo mostro gli sta mangiando ogni energia, qualsiasi voglia. L’apatia e la frustrazione sono i sentimenti che la fanno da padrone nella quotidianità racchiusa da quelle quattro mura.

John ha preso un bilocale in affitto. È nei pressi di Saint Paul’s, proprio nel cuore della città, anche abbastanza vicino all’ospedale nel quale si incontra con la terapeuta. Per restare nel budget della pensione da reduce si è trovato costretto a prendere l’appartamento più brutto, stretto e puzzolente di tutta l’Inghilterra, o almeno è questo il pensiero dell’uomo. Di certo lui non ha fatto il minimo sforzo per rendere il posto più accogliente. Una mattina, una di quelle buone, è riuscito a far vagare il pensiero sulla carta da parati, almeno è stata una distrazione. Secondo la psicologa si sarebbe dovuto circondare di energia positiva, colori forti e vivaci; così si è chiesto come sarebbe risultata la camera da letto con una parete tinta di giallo canarino. Tutto ha funzionato fino a quando non si è fermato a riflettere sul fatto che alla sorella non piace il giallo.

«Perché non va a convivere con lei? Se non ha i soldi per mantenere un affitto e non le piace la sua attuale abitazione, perché non va da Harriet?» gli ha chiesto la dottoressa. È una buona domanda, ma allo stesso tempo non è una alla quale vuole rispondere John. Volontà, ecco che ci risiamo: a Watson manca. Non riesce, non ne ha la forza di scoperchiare un altro vaso di Pandora, gli basta analizzare i propri problemi, quelli che riguardano la guerra che gli si è appiccicata addosso e che si è portato dietro fino a Londra. Sbaglia però, anche Harry è un suo problema. Lo è talmente tanto che, quando si è fatto vivo e finalmente l’ha rivista, si è reso conto di quanto quella gli fosse mancata. L’ha allontanata prendendo la decisione di cambiare vita, partendo, e ha fatto altri passi per aumentare le distanze ogni volta che s’è negato a lei concentrandosi sulle proprie difficoltà. È stato un ottuso egoista e si è accorto tardi di quanto anch’ella stesse male. L’ha trovata ad annaspare nel dolore di una relazione troncata e in una solitudine peggiore della propria. La verità è che entrambi hanno bisogno di sostegno, e due persone malate non possono darselo a vicenda. Watson in maniera più o meno lucida ha capito che deve pensare a sé prima di poter offrire aiuto alla sorella.

Il problema principale in questo momento è uno solo. L’uomo è a Londra già da un paio di mesi e li ha superati solo grazie ai soldi messi da parte. Non sarebbe riuscito altrimenti a far quadrare i conti di affitto, bollette, generi di prima necessità e cure mediche. Non potrà andare avanti a lungo in questo modo. Questo l’ha portato a soppesare la praticità di farla finita. Se l’è raccontata John, che avrebbe usato la sua fedelissima SIG per non accampare debiti. Ha pensato che così gli ultimi risparmi sarebbero potuti andare proprio ad Harry, la quale, con un po’ di fortuna, non li avrebbe bruciati tutti in alcolici di sottomarca presi al supermarket dietro l’angolo. Certo che lo avrebbe fatto per tutto questo. Non c’entra nulla quel mostro che gli sussurra idee strampalate all’orecchio, lo stesso che se ne sta comodamente saldo attorno al suo collo, stringendolo.

La morte all’ex soldato non fa paura. Forse non gliel’ha mai fatta. Al tempo, i suoi compagni di corso al Bart’s, sono rimasti ammirati da quanto il giovane Watson non mostrasse di essere intimorito in alcun modo dalle salme sulle quali hanno dovuto studiare loro giovani medici in erba. Per John l’incontro col Tristo Mietitore è solo qualcosa di naturale. È stata proprio la scienza, quella quantità infinita di libri letti e nozioni imparate a memoria, ad avergli insegnato che non c’è assolutamente nulla da temere. Il fatto che lui abbia scelto di fare il medico è stato proprio per aiutare le persone in difficoltà a ripristinare l’ordine naturale degli eventi; Watson ha voluto trovare un modo semplice per far arrivare la gente alla fine dei propri giorni senza malattie né sofferenze. Arruolarsi ha avuto lo stesso scopo nella sua vita, ovvero quello di riportare una certa giustizia biologica in un luogo nel quale gli umani tentano di accorciarsi vicendevolmente i giorni di permanenza su questa terra.

Per la terapista, tra le tante malattie che potrebbero affliggere John, c’è la seria probabilità che soffra di disturbo post traumatico da stress. Ma l’ex soldato lo sa che non è così, ne è certo. Lui avverte la mancanza del suo reggimento. Il trauma è trovarsi a Londra invece che su suolo afgano, non il contrario. Lo shock è aver riaperto gli occhi dopo un operazione alla spalla ed essersi sentito dire che lo avrebbero congedato. L’orrore per John è non avere più i suoi fratelli d’arme accanto, non avere più nessun comando da eseguire, non essere più in grado di esercitare alcuna giustizia sotto il sole cocente e con la sabbia infilata fin sotto la lingua.

Watson non ha più uno scopo. È vero, chiudendo gli occhi rivede ogni atrocità. Sangue e ferite appesantiscono il suo sonno, ma allo stesso tempo, John, a modo suo, ha fatto la differenza salvando un numero considerevole di vite. Non può vantarsi di non aver perso nessuno sul proprio tavolo operatorio, ma può dichiarare a gran voce di aver dato tutto sé stesso affinché potesse salvarle. Quando si è trovato ad avere la vita di qualcuno tra le mani ha sentito il sangue ribollirgli nelle vene e i battiti aumentare d’intensità, ed in contemporanea acquisire la più assoluta calma e concentrazione. Lui ama pensare che quello che ha fatto più e più volte sia stato danzare con la Morte sulle note acute delle pulsazioni dei suoi pazienti. Lui che di ballo non s’è mai importato, tant’è non è capace a muovere un passo senza sembrare un ciocco di legno, ha intrattenuto giri di valzer con la Nera Mietitrice.

Di quella persona cos’è rimasto? John non si riconosce nell’individuo che ha le sue stesse fattezze e si aggira nei suoi ricordi. Si sente divergente, un involucro vuoto, uno scarto. Inabile a svolgere il proprio lavoro. Inabile, è la parola che qualche altro medico militare, come lo è stato lui fino a qualche attimo prima, ha decretato e sottoscritto sul fascicolo che lo riguarda. E lui si sente davvero così, perché sa di non essere più in grado di condurre un’operazione chirurgica. Forse con la pratica potrebbe riuscire ad allenare la mano non dominante a rispondere con precisione millimetrica agli impulsi del proprio cervello. Ma alla fine non rischierebbe mai di mettere testardamente in pericolo qualcuno solo perché ha un braccio fuori uso -condizione valida indifferentemente dal suolo che calca-. D’altra parte quali potrebbero essere le sue aspettative ora che è in patria? Watson dà per scontato che non si ridurrà a prescrivere aspirine, non potrebbe sopportarlo. Non che questo non abbia uguale valore, ma non riuscirebbe ad assaporare quell’elettricità che lo pervade. John non ha avuto il coraggio di confessare alla Thompson neppure questo. È completamente assuefatto da quella sensazione, dall’adrenalina che gli ha incendiato le sinapsi; notte o giorno che sia stato ha dovuto lavorare a ritmi serrati, spinto dalla gravità delle lesioni da curare; è riuscito a concentrarsi, quando chiunque sarebbe stato assalito dall’ansia ogni volta che sopra la testa si è avvertito rumore di aeroplani, oppure gli strumenti hanno preso a tintinnare, scossi dalle bombe esplose a distanza estremamente ravvicinata. John ha vissuto quasi dieci anni in questo modo ed è pazzo, sa che non può essere sano di mente a desiderare di trascorrerne altri dieci o trenta o fino ad invecchiare.

Ha soppesato seriamente l’idea di far finire tutti questi tormenti, di azzittire ogni voce e di chiudere gli occhi riuscendo a riposare in maniera tranquilla, per sempre. Ma John non ci è riuscito. Non si è tolto la vita. Non ha ancora smesso di pensarci, ma allo stesso tempo si è sempre ripetuto che quella sarebbe stata una decisione sbagliata. Forse è per la sua rigida morale, o perché compiere un gesto del genere andrebbe a togliere valore a tutto ciò che ha fatto ed è stato fino a questo momento. Lui è la stessa persona che ha dato forza ai compagni quando questi si sono riscoperti diversi nella carne in maniera fin troppo evidente; eppure quegli stessi discorsi di coraggio che ha propinato agli altri, non sembrano valere anche per sé stesso. Ha tanti motivi per dire di no alla sua misera esistenza e pochi per dirle di si, eppure è come bloccato. Mancanza di coraggio? Non lo sa. Anche ora che descrive con un dito il profilo della sua pistola, dal carrello fin giù al calcio, non la impugnerà, ma con coscienza sa di non avere delle reali prospettive per il futuro. Tornare indietro nel tempo non è possibile, andare avanti si, solo se si decide a farlo. Per il momento gli sembra sufficiente il fatto di starsi lasciando guidare da Ella. Sta arrancando, perché questa è una guerra a lui sconosciuta, una di quelle personali nella quale il vero nemico è sé stesso, e fa davvero fatica a racimolare la forza necessaria per andare avanti.

 

*

Life it seems to fade away.
Drifting further everyday, getting lost within myself.
Nothing matters no one else.
I have lost the will to live, simply nothing more to give.
There is nothing more for me, need the end to set me free.

Metallica _ Fade to black  

*

 

Il borsone, addirittura più leggero di quando è arrivato, in una mano, e l’altra tesa sopra la testa per cercare di fermare l’ennesimo taxi che lo ignora. Tiene il bastone in bilico lungo il fianco e spera che non rotoli in mezzo alla strada. Alla fine ha dovuto rifare le valigie, impossibilitato a sostentarsi in una metropoli come quella, costretto a trovare una nuova piccola casa in periferia, per usare un eufemismo sulle distanze. Ha persino scritto un paio di righi d’addio a Londra sul suo blog. Ancora crede sia una grandissima stupidaggine quella di tenere un pagina pubblica sulla quale scrivere di sé. È stata un’altra idea suggerita da Ella, non l’ha messa in pratica per settimane, poi un giorno si è concesso di tentare.

Ricorda ancora il primo post, riguarda il vento freddo di gennaio. Si è trovato ad attraversare Smithfield Rotunda Garden dopo una visita al Bart’s e una folata di vento, molto forte ed improvvisa, lo ha colpito in pieno. Si è dovuto schermare dalla corrente. Tutti nel parco hanno cominciato a tirarsi su i baveri dei cappotti e a zigzagare rapidi, con la testa bassa, verso uffici e abitazioni.[4] È stato così che ha inaugurato il blog e d’allora ha comunque finito per scriverci pochissime frasi. Si è giusto presentato, John Watson, ha accennato alla terapia e ad una telefonata fatta ad Harry per sapere come stesse.

I cancelli del parco li si possono vedere da vicino l’ospedale, dove si trova. Ha terminato da poco una seduta e non sa se col trasferimento ne farà altre, non con la dottoressa Thompson almeno, la quale gli ha comunque fornito dei validi contatti per proseguire le cure. Watson ancora deve riprendere confidenza con il clima inglese, figurarsi approcciarsi a persone nuove.

Eccone un altro di taxi, se riuscisse a salirci eviterebbe di finire bagnato sotto la pioggerella che sta cominciando a scendere lieve. John per un attimo immagina di poter usare il bastone come un arpione, ma si rende conto che il gesto risulterebbe esagerato. Opta per sporgersi dal marciapiede sperando che questo possa bastare a fermare l’automobilista. Non è di fretta, ma neppure ha intenzione di trascorrere tutta la giornata per strada, inoltre non ha con sé alcun ombrello. La vettura nera lo oltrepassa, poi però accosta un poco più avanti, contro ogni pronostico dell’ex soldato. Tutto trafelato Watson la raggiunge, batte un colpo sul portabagagli per farselo aprire. Posato il borsone e la stampella va svelto in macchina. Si accomoda meglio sul sediolino posteriore, allunga la gamba per quanto possibile e spazzola via con la mano qualche goccia d’acqua che gli si è poggiata tra i capelli.

«È occupato.» una voce calda arriva alle orecchie di John che alza gli occhi nell’abitacolo. Non è solo. Accanto a lui è seduto un uomo, è chino col naso sul proprio cellulare, mentre il tassista si protende da davanti e lo guarda stranito.

«In realtà sono stato io ad avergli fatto cenno di fermarsi.» risponde a quello che ancora non lo degna della propria considerazione, indicando il tassista, il quale intanto si ricompone; di certo quest’ultimo non metterà becco fra i due per tirare Watson fuori dall’impaccio, ed è lì, immobile, in attesa di ricevere direttive.

Da dove spunta fuori quell’individuo, si chiede John. È rimasto ad aspettare tanto a lungo e ora il primo arrivato gli vuole soffiare da sotto al naso la sua conquista. Che impertinente, deve essere salito a bordo quando la visuale gli è stata schermata dal portabagagli alzato. Trascorre qualche secondo di assoluto silenzio. L’ex soldato, sconfitto, sta già prendendo in considerazione l’idea di scendere e spera che non debba trascorrere troppo tempo sotto l’acqua, che purtroppo per lui sta cominciando a cadere in maniera più regolare. Si sporge un po’ da dietro al finestrino per cercare di individuare qualche tettoia strategica.

«Possiamo dividerlo.» di nuovo quella voce ad attirare a sé l’attenzione. John si volta e incrocia lo sguardo con quello dell’altro. Non c’è differenza tra la pioggia dolce che batte sui vetri e le iridi dello sconosciuto. Condividere la corsa, soppesa la prospettiva, non ci ha minimamente pensato.

«Certo.» risponde infine e l’angolo delle sue labbra copia a specchio quello dell’altro, sale su, in un movimento del tutto autonomo.

Watson osserva l’uomo fare un cenno al tassista che ingrana la marcia e parte. Vanno, ma dove? Forse l’altro ha avuto modo di specificare l’indirizzo prima che salisse in auto. Comunque gli pare inutile comunicare immediatamente la propria meta, d’altronde lui deve arrivare veramente sull’orlo esterno della città. Magari aspetterà che sia sceso quell’inatteso passeggero prima di chiedere di essere accompagnato alla casa nuova.

Approfitta della distrazione fornita dall’apparecchio telefonico, quello che il vicino tiene ancora ad un palmo dal volto, per osservare meglio la persona che ha accanto. La luce fredda, azzurra e in altri istanti più giallognola, sbatte su quell’ovale, impattando contro la morbidezza della mandibola, in netto contrasto con gli zigomi che paiono quasi taglienti. Il tutto è incorniciato da un casco bruno di ricci soffici, John non li ha di certo toccati, ma il suo occhio clinico gli suggerisce che lo siano. Di sicuro sono dispettosi, qualcuno difatti ricade fin avanti agli occhi dell’uomo e le ciglia folte a tratti vi si impigliano. È solo per un’estrema compostezza e ritrosia verso gli estranei che Watson si astiene dall’allungare una mano per ricacciare indietro quei capelli. L’espressione assorta, con quelle labbra carnose leggermente dischiuse, quasi ad indicare sorpresa, e la fronte ampia, non fanno che concludere il ritratto del viso di un giovane ragazzo, dalla voce fin troppo adulta.

John vorrebbe trovare il modo per sentire di nuovo quel timbro così particolare. No, si convince che si tratta di semplice compagnia, che è buona norma fare conversazione. Altrimenti a che pro aver accettato di percorrere assieme il tratto di strada. Nessun argomento valido però gli viene in mente. D’improvviso lo schermo del cellulare si spegne. Attraverso la luce grigia che giunge dall’esterno si può notare il cambiamento repentino di quella bocca piena che Watson sta fissando, la quale si trasforma in una linea stirata che esprime disapprovazione.

«Mi presta il suo cellulare? Il mio è morto» si guardano, di nuovo. John non cerca neppure di dissimulare l’attenzione probabilmente eccessiva che sta prestando alla sua figura. Tentenna. Offrire il proprio telefono non è un problema, ma così il giovane si richiuderebbe ancora nel suo mondo. Diamine, sono mesi che evita in maniera volontaria qualsiasi contatto umano e oggi ricerca la compagnia di questo estraneo.

«Ecco, tenga.» pronuncia senza nascondere una punta d’amarezza. Caccia di tasca il telefono e fa per passarlo all’altro. Lo sconosciuto, prima di afferrarlo, si sfila i guanti e lo ringrazia. Guanti, John non li ha proprio notati. Sembrano in pelle, sono neri. Sono stati riposti nella tasca del lungo cappotto. Scuro. L’uomo è vestito tutto di nero, il pantalone stretto su quelle cosce accavallate pure è nero. L’unica nota vaga di colore è la sciarpa che gli cinge il collo, non che sia chiara. Ma la sua pelle si, lo è, è chiarissima, forse l’ex soldato non ha mai incontrato qualcuno così particolare nell’aspetto.

«Afghanistan o Iraq?».

«Come, scusi?» Watson sussulta.

«Dov'è successo, in Afghanistan o in Iraq?» ripete quello lanciando un’occhiata fugace alla gamba ritta fin dove il sedile anteriore concede di poterla tenere stesa.

«In Afghanistan, ma come faceva a saperlo?» la voce gli esce quasi strozzata. Ha desiderato intavolare un dialogo ma neppure nei suoi peggiori incubi si sarebbe augurato di parlare ancora della guerra e della ferita alla spalla. Crede di averne discusso già abbastanza con Ella, che ad onore del vero si è reso conto essere l’unica persona alla quale ha rivolto la parola da almeno due settimane a questa parte. Non ha avuto la forza neppure di rispondere al cortese saluto della cassiera del negozio vicino la propria quasi-ex-abitazione.

La conversazione comunque sembra essersi conclusa. John in ogni caso avrebbe eretto una barriera, ha deciso di non voler più avere a che fare con quello strano tipo. Continueranno il viaggio e quando sarà di nuovo solo si farà portare lontano. Osserva il fiume snodarsi dietro alcuni edifici, l’auto se ne distanzia. Peccato, chissà quando avrà l’opportunità di passeggiare un’altra volta lungo il Tamigi. Ma bisogna essere realisti, tutto questo sentimentalismo quando non si avvicina al corso da prima di partire per l’Afghanistan. Watson finisce a pensare a quel luogo anche quando non vorrebbe. Possibile che quella vita continui a definirlo? Ce l’ha scritto addosso che è un sodato? È stato, un soldato.

«Sono un consulente investigativo. L'unico al mondo, ho inventato io la carica.» lo sconosciuto gli porge il cellulare indietro.

«Che significa?» John ricaccia l’aggeggio elettronico in tasca e non gli è chiaro se deve considerare quella come una spiegazione valida alla domanda precedente o può essere una presentazione un poco bislacca. In ogni caso non ha la più pallida idea di cosa sia un “consulente investigativo”.

«Significa che quando la polizia si trova impreparata, cioè sempre, mi consulta.». Il moro comincia a far scorrere il proprio sguardo sul corpo di Watson. Sembra curioso e quell’interesse ne accende uno reciproco in John.

«La polizia non consulta i dilettanti.» gli sfugge così, quasi una provocazione. Una scintilla attraversa gli occhi dell’investigatore. Watson non vuole offenderlo, né vuole che smetta di sentirselo addosso, quindi si affretta d aggiungere: «Di cosa si sta occupando in questo momento. Se è dato saperlo, ovviamente.» ha fatto la sua mossa, ora attende.

Lo sconosciuto si gira in avanti. Raddrizza le spalle ampie e rilassa le braccia congiungendo le mani sul grembo. «Tre uomini e due donne sono morti. Hanno assunto del veleno, lo stesso. Suicidi seriali.».

«Esiste una cosa del genere?» domanda scettico Watson.

«Ovviamente no. Questa è solo la definizione della polizia. Si tratta di omicidi, omicidi seriali.» si pavoneggia un poco quello.

A John sfugge un piccolo sbuffo, è l’accenno di un sorriso. Cristo, sorridere alla notizia della morte di cinque persone, cosa penserà di lui l’estraneo? Non può leggergli nella mente e capire che in realtà ha sorriso del suo modo impettito di ostentare un’ipotetica superiorità intellettiva. Forse lo è davvero intelligente, ma i modi ricordano tanto quelli di un bambino.

L’auto comincia a rallentare. Watson cerca di comprendere cosa stia accadendo in strada. Non può sapere se siano o meno giunti a destinazione. È certo però che comincia ad essere intrigato dalla sua nuova conoscenza, lo renderebbe ancora più triste di quanto già non sia, doversi congedare. Forse non sono arrivati proprio da nessuna parte, la circolazione è intasata per una manifestazione. Nel silenzio in cui stanno John può sentire le grida non troppo lontane ai megafoni e la folla di fondo. La gente deve essere matta a sfilare con questa pioggia battente, ma questo è il clima tipico di un fine marzo londinese, o probabilmente di qualsiasi stagione in questa città. Sono arrivati ad un bivio: un vigile fa segno di proseguire obbligatoriamente a destra o a sinistra, delle transenne impediscono il passaggio in ulteriori direzioni.

«Vada a sinistra!» suggerisce il moro al tassista. Sembra eccitato, come qualcuno che ha appena partorito un’idea brillante.

«Ma signore, se svolto di là allungheremo. In più dovrebbe esserci un incidente che rallent…».

«Ha sentito? Vada a sinistra, paghiamo noi la corsa.» John interrompe in maniera fin troppo brusca il conducente. Ma la prospettiva di dilatare quel poco tempo rimastogli da vivere in compagnia del passeggero che ha accanto, l’ha fatto reagire d’impeto. L’autista, visibile dallo specchietto retrovisore, strizza gli occhi probabilmente in segno di dissenso, ma non dice nulla e imbocca la via indicata, lasciando John a porsi delle questioni. Possibile che l’occupante del posto vicino possa aver avanzato una tale proposta conscio di aver scelto un percorso più lungo? Watson lo spera e quasi si convince di si nel momento in cui aggancia i propri occhi con quelli dell’altro. Un’espressione sul volto impassibile, indecifrabile. Ma non può schermare anche quello che comunica il suo sguardo, o quello che scioccamente vorrebbe leggervi il biondo.

«Mi sono trasferito da poco.» comincia l’estraneo. John corruga la fronte, impensierito che possa trattarsi di uno scherzo: sta parlando di lui? Ogni tre frasi dice delle cose che lo spiazzano e lo lasciano senza parole. «È un bel posticino nel centro di Londra.» quello prosegue e John si rilassa, non si riferisce per niente a lui. «Nelle vicinanze di Regent’s Park, ha presente?».

«Beh, è un posto di prim'ordine. Deve essere costoso.» risponde ammirato. L’uomo che guarda non gli pare uno di quelli che ostentano le proprie ricchezze, magari girando con un rolex al polso. Ma ha comunque l’aria curata, e il cappotto che indossa potrebbe valere più di due mesi della sua ridicola pensione dell’esercito. Pensione, che non lo avrebbe sostenuto neppure se si fosse ridotto a mangiare cibo in scatola e a fare la doccia unicamente una volta ogni due settimane. E con un brivido di disgusto John pensa che è quasi arrivato ad un tale livello, prima di prendere la decisione finale di andare via come sta facendo.

«La signora Hudson, la padrona, mi riserva un trattamento speciale.» spiega meglio quello accanto. «Mi deve un favore. Anni addietro, suo marito fu condannato a morte in Florida. Le ho dato una mano.».

«Cosa, è riuscito a impedire la condanna a morte del marito?».

«Oh, no, l'ho garantita.» fa un ampio cenno della mano del quale John non coglie il senso. «Nonostante questo devo ammettere che l’affitto risulta un po’ alto da pagare, da solo.» detto ciò si ammutolisce e rivolge lo sguardo altrove, come se avesse detto una cosa della quale vergognarsi.

«Che coincidenza! Sto trasferendomi in questo momento, proprio per questo motivo: costi elevati.» Watson cerca di offrire la propria solidarietà al vicino.

«Coincidenza…» ripete il termine, è sul punto di dire qualcosa a riguardo ma si blocca. «Mi era chiaro.».

«Non capisco…» cosa intende il tipo? Come può aver intuito la ragione per la quale John è in quel taxi? E se l’ha fatto allora perché è sembrato imbarazzato prima? Le domande riguardo all’uomo, nella mente del reduce, vanno aumentando di numero man mano che passa il tempo.

«Posso leggere la sua carriera militare sulla sua faccia e sulla sua gamba.» risponde il moro con un’aria di sfida.

«Come?» domanda Watson. E questa volta non lascerà cadere il discorso, è veramente interessato. Gli pare di star giocando una partita a scacchi.

«Quando ho detto Afghanistan o Iraq, sembrava sorpreso.» lo straniero si prepara, come poco prima, a snocciolare la sua analisi in maniera fiera. La differenza è che questa volta guarda il proprio interlocutore studiandolo.

«Sì, come faceva a saperlo?» quasi sussurra John, che si sente nudo sotto lo sguardo penetrante dello sconosciuto.

«Non lo sapevo, l'ho visto. La valigia, ero qualche passo dietro di lei, cosa recitavano le insegne “Quinto Reggimento Fucilieri Northumberland”? Poteva non appartenerle, ma il taglio di capelli, il modo di comportarsi, sanno di militare. Il viso è abbronzato, non troppo, ma niente abbronzatura sopra ai polsi. È stato all'estero, ma non per abbronzarsi. È tornato già da qualche mese.» preso il via comincia a parlare rapidamente, senza dare neppure il tempo a John di far sedimentare quelle informazioni sul fondo della mente. «La zoppia si vedeva mentre era in attesa del taxi e muoveva qualche passo, eppure quando è arrivata l’auto ha quasi corso, come se si fosse scordato del problema, quindi, almeno in parte, è psicosomatica. Vuol dire che le circostanze originali dell'infortunio sono traumatiche, quindi una ferita in combattimento.» riprende fiato. «Valigia, ferita in combattimento, abbronzatura... Afghanistan o Iraq.» conta compiaciuto sulla punta delle dita.

John spera di non aver assunto un’espressione da pesce lesso nel frattempo, perché è davvero sbalordito. Ragiona e ripensa a “zoppia psicosomatica”, diavolo, ad Ella questo giovane andrebbe sicuramente a genio, gli ha praticamente prodotto la stessa anamnesi della sua terapeuta. Dei lampeggianti lo distraggono. Si trovano all’altezza dell’incidente al quale ha fatto riferimento il tassista poco prima. Ci sono un paio di auto ferme più quella della polizia, ma occupano solo un lato della carreggiata, quindi non c’è nessun ingorgo. Il traffico procede a ritmi normali e Watson capisce che non ci saranno altre deviazioni o incidenti a farli rallentare. Ogni cosa così come ha un principio ha anche una fine e quest’incontro sta per volgere al termine, ma John ha intenzione di godersi fino all’ultimo istante. È animato dall’inspiegabile desiderio di parlare e di conoscere quel tipo così fuori dall’ordinario. Eppure lo straniero è tornato a dagli le spalle, leggermente ricurvo guarda fuori, verso il fiume che hanno ripreso a costeggiare. L’ex soldato non riesce ad immaginare cosa stia pensando, passa dallo sciorinare deduzioni dettagliate sulla sua vita, mostrandosi quasi arrogante, convinto d’aver detto il giusto, a non parlare per minuti interi. E gli presta interesse guardandolo con quegli occhi, dio hanno una luce così intensa, a dargli le spalle. John vorrebbe essere capace di fare anche lui quella… “cosa” della quale è in grado l’altro, non per sapere chi è, sarebbe un’informazione superflua, vorrebbe capire cosa prova, sembra triste. Watson di sicuro lo è e per una volta non è colpa dei problemi che ha sulle spalle. «C’è qualcosa che non va?» si azzarda a chiedere, con un coraggio che ha creduto potesse non appartenergli più.

Altro silenzio, ma l’uomo torna a mettersi composto. Scavalla le gambe, si rigira le mani, un pungo chiuso dentro l’altro. «Ha una dipendenza da alcool?».

«No!» John è sconcertato, si chiede se è il pensiero di condividere lo spazio con un alcolista ad aver turbato lo straniero. «Cosa glielo fa credere?» lo sprona a chiarirsi.

«Il cellulare.» comincia, sembra vagamente in difficoltà, ma Watson non ne è sicuro, forse è solo l’argomento a disturbarlo. «È un'ipotesi azzardata. Ma comunque valida. Connettore di ricarica... minuscoli graffi tutti attorno ad esso. Ogni sera lo mette in ricarica e le sue mani tremano. Non vedrà mai quei segni sul cellulare di un astemio, e non mancheranno mai su quello di un ubriaco.» l’uomo mantiene un tono asettico. Poi ruota di poco il busto, John lo vede registrare la propria espressione crucciata. «Non è lei Harry Watson.» una constatazione più che una domanda.

«In effetti no. Sono John Watson.» il biondo vede l’altro rilassare i muscoli tesi e smettere di torturarsi le mani. «Ha notato l’incisione?» nuovamente meravigliato dalle capacità dello sconosciuto che ha tenuto per pochissimo il suo cellulare e ne ha intravisto la scritta sul retro.

«Non sapevo il suo nome.» cerca di giustificarsi e porta le dita di una mano a districare dei ricci in un movimento stizzoso. Forse è così che fa quando è nervoso si ritrova a pensare John. «In effetti è logico: il telefono è costoso, può mandare email, ha il lettore MP3,» si, Watson lo sa, gli viene in mente qualche canzone salvata in memoria, ma il discorso del consulente investigativo procede e non gli permette di perdersi nei ricordi. «lei si sta trasferendo per ristrettezze economiche, non avrebbe sprecato soldi, quindi è un regalo di suo fratello.» termina la spiegazione.

«Come fa…» l’ex soldato scuote la testa. Le parole gli si accartocciano una dietro l’altra sulla lingua, fanno a gara per uscire: “come fa a sapere tutte queste cose?”, “come fa a notare tutti quei dettagli?”, “come fa a sopportare la mia espressione stralunata senza darmi del cretino, perché io non so fare quello che fa lui, non sono così rapido, così intelligente, così originale, così diverso da me, così…”. «A sapere che è mio fratello?».

«Non è stato suo padre, questo è un aggeggio da giovani. Potrebbe essere stato un cugino, ma lei è un eroe di guerra che non trova un posto in cui vivere: improbabile con una famiglia grande, ma non con un solo parente. Quindi è suo fratello.». Ha decisamente ripreso quel pizzico d’euforia che gli è sparito dal viso nel momento in cui ha dato a John dell’alcolista. Di nuovo torna a fissare il reduce, mento alto e un mezzo sorriso. «Ora, chi è Clara? Tre baci dicono che è un rapporto romantico. Il costo del cellulare dice che è una moglie non una fidanzata. Deve averglielo regalato di recente, ha solo otto mesi. Matrimonio in crisi, quindi: dopo otto mesi lui lo regala.». Watson non lo interrompe ma si ferma a riflettere sul fatto che lui è in possesso del telefono da quattro mesi: quel matrimonio oramai è naufragato da un po’. «Se l'avesse lasciato lei, lui l'avrebbe tenuto: sentimentalismo. No, voleva liberarsene. L'ha lasciata lui. Le ha dato quel cellulare in modo che rimanesse in contatto con lui.». Ancora, sbagliato ed esatto, in questo ordine: Clara è andata via perché non è riuscita a gestire una persona con una dipendenza così grave. Chissà forse Harry s’è sbarazzata del cellulare proprio per non avere sotto gli occhi i propri errori tutti i giorni, fatto sta che è vero, l’ha dato a John proprio per cercare di aggrapparsi all’unica persona che gli è rimasta. Tutti questi pensieri sarebbero dolorosi da rinvangare, ma in questo momento John è solamente preso dall’uomo che gli parla. «Ecco tutto.» dice infine.

«Quello... è stato incredibile.» esplode Watson in un sorriso sincero. Secondo lui quello “incredibile” è proprio il moro, ma non può dirglielo.

«Pensa?». È quasi completamente buio a causa della pioggia, per strada si sono accesi anche i lampioni, ma è distinguibile il lieve rossore che sale ad imporporare le gote del giovane. Delizioso.

«Certo. Straordinario. Decisamente straordinario.» afferma con enfasi.

«Non è quello che la gente dice di solito.» gli rivela con un sopracciglio alzato.

«E cosa mai dice di solito la gente?».

«Vaffanculo!».

Assurdo. Che idioti. Possibile? John si sente ridere. Quell’uomo è fantastico. Caspita, sta ridendo davvero? L’ex soldato è confuso da sé stesso e allo stesso modo non ci fa caso godendosi quel momento particolare.

«Ho sbagliato qualcosa?» di nuovo quella voce profonda dal tono arrogante.

Watson riprende lentamente il controllo dopo la risata breve ma destabilizzante al tempo stesso. Non è più abituato a farlo, tanto che ora gli dolgono le guance. È indeciso su cosa dire. «Clara ed Harry si sono lasciati... cinque mesi fa e hanno chiesto il divorzio. Ed Harry ha il vizio del bere.» John lo accontenta. Riprendono il loro gioco fatto anche di sguardi.

«Ho fatto centro. Non mi aspettavo di avere ragione su tutto.» e questa volta gli regala un sorriso pieno.

Quell’aria da sbruffoncello stuzzica Watson. Non resiste e gli svela un errore solo per poter leggere quale reazione riuscirà a suscitare. «Harry è il diminutivo di Harriet.».

«Harry è sua sorella.» le sopracciglia convergono verso l’alto in un moto di stupore.

Il biondo può ritenersi soddisfatto, non insisterà con altri dettagli inutili. «Già» conferma canzonandolo appena.

«Sorella!» schiocca la lingua con disappunto, ma continua a sorridere.

Watson è a dir poco esterrefatto. Deve essere qualcuno di veramente speciale. Certo la sua particolarissima abilità non lo identifica immediatamente come una brava persona e forse in questo momento lo sta idealizzando un pizzico, meravigliato dal suo modo di fare e da quello di apparire. Vorrebbe poter dire anche lui di valere altrettanto. Vorrebbe trovare un modo per presentare anch’egli qualcosa di positivo di sé. Ma John s’è perso, non vale a niente, non è nulla. Eppure sente di voler dire qualcosa per farsi apprezzare, una qualsiasi, andrebbe bene anche dichiarare di aver imparato ad andare in bicicletta senza alcun ausilio a soli quattro anni e mezzo. «Ero un medico.» gli sfugge così dalle labbra, tra le tante idee. «S-sono un medico.» si corregge.

L’investigatore annuisce appena. Forse già sa. E, nuovamente, tacciono.

 

Help, I have done it again. I have been here many times before.
Hurt myself again today, and the worst part is there's no one else to blame.
Be my friend, hold me. Wrap me up, unfold me.
I am small, I'm needy. Warm me up and breathe me.

Sia _ Breathe me  

 

La fauna sul lato del fiume è variegata. Ci sono signori in giacca e cravatta che, gambe in spalla a causa della pioggia, concluse le ore di lavoro, stanno cercando di tornare il più rapidamente possibile dalle proprie famiglie. Alcuni però sono troppo giovani per avere qualcuno ad aspettarli, se non le madri già ai fornelli a preparare un ottimo spezzatino. Al solo pensiero della pietanza lo stomaco del dottore prende a stringersi. In realtà lui è più un tipo da un bel piatto di spaghetti al pomodoro con le polpette. Si, detta così fa molto ristorante italiano, e quelli si sa, sono costosi. Ma doversi adattare al cibo dell’esercito non è stato facile, con scatolette e preparati simili a quelli che rifilano agli astronauti. Fortunatamente ad un certo punto è stato assegnato ad un campo base dotato di un cuoco decente. Nulla di eccezionale comunque, tanto che ha dovuto ammettere che tornare gli ha dato perlomeno l’opportunità togliersi qualche sfizio a livello di palato. Anche se a dire il vero il pensiero di casa sua, con quei due fuochi piccini e incrostati, e la pasta di sottomarca in confezione blu e rossa, chiaramente un’imitazione di quella italiana, che messa in acqua diventa collosa e molle nel giro di due minuti, fa dolere lo stomaco dell’ex soldato in un altro senso più simile al disgusto.

Watson torna a concentrarsi sulla strada. Un ragazzetto gioca a dondolarsi vicino ad una palina per gli autobus, tenendo l’ombrello a fiori pericolosamente in bilico tra braccio e collo, ma con l’auto lo superano prima che possa cogliere altri dettagli. Poco più avanti per poco non gli prende un infarto: qualcuno sbuca di fianco la sua portiera per poi balzare sul marciapiede. È un uomo che dalla tenuta fluorescente, con calzoncini e scarpe ginniche, sta chiaramente facendo footing. Gli pare avanti con gli anni, ma in discreta forma. Un po’ lo invidia, pure lui vorrebbe invecchiare così bene, ma di correre con la gamba che si ritrova proprio non se ne parla. Già si immagina, solo, in una casa più grigia del cielo, in pantofole, magari stravaccato su un divano a guardare tv spazzatura e senza la forza necessaria per alzarsi e preparare un piatto dei suoi adorati spaghetti. Per non avvilirsi scaccia il pensiero.

Passanti, gli uni diversi dagli altri. L’unica costante che li contraddistingue è la mancanza di luce. Si, a John sembrano tutti tristi, senza sorrisi o vitalità. Probabilmente sta solo trasferendo il proprio malumore sulla gente, se Ella fosse lì forse saprebbe dare un nome a quello strano fenomeno. Fatto sta che il sole sembra sparito del tutto, complici la nebbia dei gas di scarico, la cenere dei comignoli e quei nuvoloni minacciosi così bassi ad avvolgere Londra. È talmente ambiguo il panorama che si presenta fuori dal finestrino del taxi che il biondo non saprebbe neppure stabilire con precisione che ore siano. La posizione che ha assunto è molto comoda e quasi si dispiace a perderla per controllare cosa dice il proprio orologio da polso. Tira un po’ più su la manica del giubbino e con indice e pollice afferra il cinturino marrone da sotto il maglione caldo e scova l’orologio. Sbircia sul quadrante e non capisce. Strizza gli occhi, osserva meglio. Le lancette sono immobili. Quella delle ore è fissa su mezzogiorno in punto, ma non è possibile perché, a meno di aver perso completamente la testa, sa di aver lasciato il Bart’s a pomeriggio inoltrato. Quella dei minuti è ferma tra il numero sei e il sette. Watson si curva per avvicinarsi di più al polso e si rende conto che la lancetta in realtà è a cavallo tra il minuto trentatré e trentaquattro, non ne segna neppure uno con precisione, quasi a volersi fare beffe di lui. Proprio così, John ci ha ragionato anche altre volte, ha problemi con lo scorrere del tempo. È bloccato identicamente a quell’affare. Prova a girare la corona, anche se non è un orologio che funziona a carica, spera comunque di essere in grado di farlo ripartire. Sembra non sortire alcun effetto neppure picchiettare insistentemente sul vetro del quadrante. È rotto come il padrone, perso, immobile.

«Sono quasi arrivato.» è un sussurro, ma abbastanza potente nel silenzio da far scattare il biondo. John cullato dall’andatura modulata dell’auto, il tepore acquisito nella posizione statuaria, e abituato com’è a stare solo, ha quasi dimenticato di essere in compagnia di qualcuno.

Il tipo in questione fa con la testa destra e sinistra da sopra il poggiatesta dell’autista. Il dottore capisce che ha giusto un paio di minuti se non meno per dire addio allo straniero. Si chiede se esistano modi di dire corretti. “È stato un piacere” oppure un semplice “salve” sarebbero adeguati al contesto e alla persona? Ma l’addio non è davvero quello che vuole comunicare. Non si spiega neppure cosa renda lo straniero così speciale da non disdegnare la sua compagnia. Quando è successo che ha cominciato a coltivare la speranza di continuare a parlargli e conoscerlo? Prova a darsi una risposta logica, ma per quanto si stia sforzando l’unica cosa sensata che gli viene in mente è che lo vogliono entrambi, non separarsi. Questa è più una speranza che una certezza; anche perché per quanto ne sappia, il moro potrebbe essere naturalmente espansivo pur senza averlo dato a vedere in maniera esplicita. Ma Watson propende per la prima ipotesi, poiché lo sente come uno spirito affine, e lui non avrebbe sprecato fiato per chiunque. Inoltre se non fossero tutti e due soli e un pizzico depressi, probabilmente non avrebbero ricercato la vicinanza di un perfetto estraneo. Il tempo scorre rapido e John che ne è fuori e dentro contemporaneamente ha paura. Potrebbe perdere un’occasione, una del tutto nuova. Non sa che fare, come comportarsi. Chiude gli occhi, prova a ragionare.

Tutto questo finirà, il quando è stabilito: molto presto. Sul come si può ancora lavorare. Magari John può riuscire a farsi lasciare un recapito telefonico. Potrebbero rivedersi per un caffè. In realtà lo sconosciuto ha più l’aria da bevitore di tè, come lui, ma non sarebbe una deduzione accurata come quelle che gli ha fornito l’altro, è molto più una sensazione a pelle. Cavolo, ha diviso il taxi con un consulente investigativo. L’unica cosa che riempie la sua mente per qualche prolungato istante è “che figata pazzesca”. Il caso dei suicidi che in realtà sono degli omicidi deve essere pericoloso. Sono morte ben cinque persone e neppure quella testa di ricci tanto brillante sembra essere ancora arrivata alla soluzione. Forse non è poi così bravo come crede, forse si è solo illuso di avere accanto qualcuno di speciale. «Non saprò come si concluderà la faccenda degli omicidi seriali.».

«Le basterà comprare il quotidiano in questi giorni, leggerà la notizia in prima pagina: “Arrestato serial killer”.» lo straniero mima con le mani un arco immaginario nell’aria. Le braccia però gli ricadono pesanti sulle cosce, come se avesse perso ogni entusiasmo. «Io» apre la bocca e fa una evidente fatica a proseguire «Io capirò presto chi è.» sembra volersi autoconvincere.

«Sono già morte cinque persone.» Watson lo dice e spera che nella sua voce non ci sia traccia di accusa, perché quello che prova è più simile alla pietà e al dispiacere. Però vorrebbe chiedergli seriamente come sia possibile. E se dovesse fallire? Quanti altri perderebbero la vita?

«Ho commesso un errore.» ammette in una smorfia il vicino di posto. Quasi certamente non avrebbe voluto dare voce a quel pensiero, perché John si trova ad essere fissato da due cristalli purissimi che esprimono il timore di aver deluso l’interlocutore. Come se mostrarsi fallace possa minare la stima che ha nei suoi confronti. «È tutta colpa di quell’incompetente di Anderson. Ho avuto accesso al caso solo quando la polizia non sapeva più dove sbattere la testa. Mi sono recato sulla scena del crimine della quarta vittima ma ho avuto delle lievi incomprensioni con quel tale. Lestrade è intervenuto in mio favore per placare l’idiota che voleva persino fare a botte. Inutile dire che avrei previsto in anticipo ogni sua mossa e avrebbe fatto solo una grandissima figuraccia avanti alla Donovan, senza contare lo spreco di energie.» lo sconosciuto ha ripreso a parlare a macchinetta. John suppone che anche i suoi pensieri devono andare a quella velocità, se non ancora più rapidi. Fatica a tenere il filo, e tutti quei nomi di persone che non conosce teme che finiranno solo per confonderlo ulteriormente. Dalla descrizione che ne sta facendo l’investigatore questo Anderson non sembra un tipo simpatico. Ci possono essere mille motivi alla base delle “lievi incomprensioni”, che tanto lievi non devono essere state se un agente ha quasi alzato le mani sul moro. «Comunque l’ispettore non ha potuto fare molto, sono dovuto andare via senza analizzare il luogo del delitto.» sbatte teatralmente un pugno sul palmo dell'altra mano.

Watson non sa cosa pensare, di certo se un giovane come quello che ha di fronte fosse comparso nella propria sala operatoria affermando di saper fare di meglio, lui di certo gli avrebbe riso in faccia. Sarebbe stata una reazione del tutto naturale, non piace a nessuno sentirsi scavalcati o peggio, inferiori. Però se avesse avuto la certezza della veridicità di quelle parole allora si sarebbe fatto da parte, offrendosi al massimo come supporto. Una vita vale più dell’orgoglio ferito. Il medico non ha dubbi sulle doti dello straniero, ha sbagliato a farsi prendere dai timori poco prima. Per afferrare qualcos’altro su quei delitti chiede altre spiegazioni. «Come mai era tanto importante visitare gli ambienti di quel crimine?».

«Beh, perché l’assassino ha commesso un grave errore, del quale io mi sono potuto accorgere solo due giorni dopo quando mi hanno mostrato il fascicolo con tutti i dettagli e le foto.». Fa un respiro profondo «Ma era già troppo tardi.», rilascia l’aria afflosciandosi compostamente nelle spalle.

«Quale errore?».

«Scusate signori. Saremmo arrivati.» Sulle parole del medico si accavalla la voce del tassista.

Entrambi gli uomini seduti sul sedile posteriore lo fulminano con lo sguardo. Non si sono minimamente accorti della macchina che ha rallentato ed ha accostato lateralmente. Balbettano senza emettere realmente nessun suono, senza sapere cosa fare. John oltre ad inveire mentalmente contro il malcapitato autista, decide di correre un piccolo rischio: «Può fare il giro dell’isolato per piacere?» domanda più allo sconosciuto che al conducente. E spera di non essere stato maleducato o semplicemente troppo avventato.

«Vada, vada.» il moro acconsente, gli si potrebbe quasi leggere l’accenno di un minuscolo sorriso sulle labbra, e con la mano affusolata schiaffeggia l’aria. Poi si gira ancora più di sbieco, portando di nuovo una gamba sull’altra, pronto a riprendere il discorso dove l’hanno interrotto. «Dagli scatti che ho potuto visionare è ovvio che la defunta abbia viaggiato. Con sé avrebbe dovuto avere un trolley, ma la polizia non ha ritrovato alcun tipo di bagaglio sul luogo del crimine.» John annuisce per segnalare che è ben attento. «Secondo la mia ricostruzione lei e il killer sono arrivati lì con l’auto e lui deve aver dimenticato la valigia nel portabagagli o sui sedili di dietro.».

«Scusi, scoprire queste cose un paio di giorni dopo cosa ha comportato?» l’ex soldato senza vergogna ammette di non aver capito il ragionamento che sta alla base della spiegazione.

Il consulente investigativo borbotta un “è ovvio” o qualcosa che suona più o meno così, ma senza risultare troppo spazientito prova a chiarire il concetto. «Sicuramente l’assassino deve essersi sbarazzato di un trolley rosa, non lo avrebbe esibito in giro. Se fossi venuto a conoscenza di queste cose la sera stessa probabilmente sarei stato in grado di recuperare la valigia e il cellulare della vittima, e mi sarei messo sulle tracce dell’assassino. Invece sono spariti chissà in quale discarica, la polizia li sta ancora cercando.».

«Cos… rosa?» John frena quello sproloquio «E cosa c’entra il cellulare?».

«Non mi stava sentendo? Mancavano il bagaglio e il cellulare dalla scena del crimine.».

No, il biondo è quasi sicuro che di telefoni non se ne sia parlato fino a quel momento, ma non è quello il punto. «Perché il cellular».

«Ma è ovvio!» questa volta lo sconosciuto non si esime dallo sbottare. «All’interno di quell’affare elettronico poteva esserci la risposta a tutto l’enigma. Avrei potuto trovare finalmente il collegamento tra le vittime, o meglio ancora avrei potuto scoprire dai messaggi se la donna si fosse dovuta incontrare proprio con l’uomo del mistero. E tutto questo non è stato possibile per colpa di Anderson che mi ha fatto perdere la valigia.» incrocia le braccia e mette su un delizioso broncio.

Il dottore nota che l’investigatore l’ha rifatto di nuovo, ha associato il telefono al bagaglio. Prova a farglielo notare. «Quello che volevo dire prima, è “perché il cellulare si sarebbe dovuto trovare col trolley?” Vede, il mio è qui,» batte sulla tasca «e il borsone è dietro.» e col pollice indica il portabagagli.

Gli occhi dello sconosciuto seguono quei gesti e solo alla fine si accendono di una luce nuova. Che sia consapevolezza? Si passa più volte una mano tra i capelli, poi si avvicina ancora di più a Watson che non ha smesso di fissare per un solo secondo. «Se il killer si è sbarazzato del trolley non è detto che si sia disfatto anche del telefono. Addirittura potrebbe essere ancora sull’auto, forse lei l’ha lasciato lì di proposito, oppure se l’è dimenticato quando ha dimenticato la valigia.»

«Magari gliel’ha preso lui per qualche motivo.» prova a proporre John.

«In ogni caso, sulla base di una ragionevole probabilità, l'assassino ha il suo telefono.» Ora sorridono entrambi, come se avessero in tasca ogni risposta e il pazzo omicida fosse a portata di mano. «Il cellulare oramai sarà scarico, ma basterà che io faccia controllare a quali celle si è agganciato l’ultima volta il segnale e la traccia ci condurrà dritti a lui.».

Anche se in realtà il moro deve aver fatto riferimento a sé stesso e alla polizia, con l’uso del plurale, John si sente coinvolto in prima persona. Per la prima volta dopo tanto ha l’impressione di essere parte di qualcosa. È possibile che abbia davvero aiutato a fare una cosa del genere? «Fantastico.» asserisce. E il cuore ora gli batte forte.

«Si, devo solo fare una telefonata. Parlare con Lestrade.» l’investigatore è agitato, non sta più fermo sul posto.

«Signori, ci siamo. Un’altra volta.» Il tassista li avvisa.

Watson guarda fuori dalla sua parte, sono fermi sotto l’edificio di New Scotland Yard. E dove altro sarebbe potuto essere diretto quell’uomo dal cappotto elegante e la mente brillante se non alla Met.[5] Torna a rivolgere lo sguardo al moro.

«Beh, io devo proprio andare. Il caso…» lo sconosciuto atono allunga dei soldi, quelli che indica il tassametro, al conducente.

«Oh. Certo, certo.» è una manciata di secondi in rapida successione, John ancora non realizza chiaramente quello che sta accadendo. Il vicino di posto ha già la mano sulla maniglia. «Salve.» dice, e non potrebbe suonare più ridicolo. Stringe gli occhi per la stanchezza e la frustrazione.

«Grazie.» risponde l’altro. L’ex soldato non si domanda di cosa lo stia ringraziando, di aver diviso la corsa o magari di aver aiutato nel ragionamento riguardo gli omicidi. Lo immagina già lontano. Il tempo assieme si è trasformato in un ricordo talmente entusiasmante, da dover essere immediatamente rimosso. Perché incontrare quella persona, vivere una mezza avventura e poi dover fare a meno di tutto ciò? John sta per iniziare un’appassionata invettiva contro la propria triste sorte quando riaprendo gli occhi si accorge che quell’individuo è ancora lì. E allora s’accende daccapo una speranza.

«Scusi, potrebbe farmi scendere?» gli chiede lo straniero, indica fuori. È ancora agitato, evidentemente di fretta. Il biondo si rende conto che alla fiancata del taxi si è accostato un camion, bloccando di fatto l’uscita sul lato strada. Ecco la spiegazione logica alla sua permanenza in auto.

«Subito.» svelto Watson lascia il proprio posto. La pioggia lo accoglie allo scoperto.

Il moro esce a sua volta. «Arrivederla» pronuncia senza neppure voltarsi e a passi rapidi si allontana.

John resta imbambolato. Segue la fuga e cerca di imprimere nella mente qualche dettaglio, ma è solo una macchia scura fatta di ricci e un cappotto svolazzante. «È stato un piacere.» dice alle spalle di quel giovane oramai già lontano. Ritorna dentro l’auto, al riparo. Solo. Infreddolito e bagnato. Ma chi ci pensa all’acqua, lui di certo non ci fa caso alle gocce che dai capelli scendono fin dietro la nuca. Non a quelle che disegnano un percorso di curve spezzate e che finiscono sotto il girocollo del maglione, né a quelle che dal ciuffo corto si staccano e gli inzuppano gli occhi. Potrebbero sembrare lacrime, ma non lo sono. Non avrebbe senso piangere per qualcosa di così sciocco, per un affare di poco conto. No, non lo sono, si ripete.

«Dove la porto?» l’ex soldato registra un suono ma non ne è certo. «Signore?» è sempre quel dannato tassista. Lo strappa da quello stato catatonico.

«Io… io devo andare a casa.» non riesce ad articolare il pensiero. È come spento.

«Va bene, mi dica l’indirizzo.» sicuramente ne vede ogni giorno di tutti i colori quel tizio alla guida. Chissà però se ha mai visto accadere quella magia. La stessa che è sicuro aver vissuto Watson.

Sente battere sul vetro. John strabuzza gli occhi quando si rende conto che è il consulente investigativo che bussa. È proprio lì fuori con una mano in orizzontale a metà tra fronte e ricci schiacciato contro il finestrino per vedere all’interno. Non ci sono dubbi che sia lui. Gli apre immediatamente. Questi resta in piedi sul marciapiede ed entra con mezzo busto nell’abitacolo, l’altro seduto è costretto ad indietreggiare un po’ per poterlo vedere in faccia. La sciarpa blu è penzoloni fuori dal bavero del cappotto e oscilla ad imitazione di un pendolo, rilasciando una scia bagnata anche sulla tappezzeria. È alto, mentre lo ha avuto accanto il biondo non se ne è reso veramente conto. Ora invece che lo vede sporgersi in macchina, può ammirare la lunghezza delle gambe e quella delle braccia arpionate ai sedili che lo aiutano a tenere il corpo in equilibrio.

«Lei è un medico.» spezza il silenzio lo sconosciuto. Si guardano.

«Un medico militare, in realtà.» specifica inutilmente l’altro dal basso. Non immagina cosa possa volere. Dovrebbe chiederglielo? Lo fa con gli occhi.

«Sì. Ed è bravo?».

Perché è tornato indietro? Cosa significano quelle domande? Watson è sicuro che avrà prestissimo un mal di testa coi fiocchi per quanto ha sforzato le meningi per tutta la sera. Eppure non baratterebbe neppure un secondo di quell’incontro. «Molto bravo.» afferma deciso. Non lo dice sovrappensiero, ne è proprio convinto questa volta.

«Quindi ha visto un sacco di feriti. Di morti violente.» elenca quello da sopra che conta con le dita affusolate. Ad una mano ha infilato un guanto. Per fare quei gesti punta un gomito sul poggiatesta.

«Beh, sì.» e per la prima volta l’ex soldato non sente salirgli alla gola la nausea nel rievocare delle spiacevoli immagini.

«Scommetto anche un po' di guai.»

«Sì, certo. Abbastanza per tutta una vita, e molto di più.»

«Ne vuole vedere ancora?». A questo punto il biondo si convince di vedere nelle iridi dell’estraneo la sua stessa speranza.

Si. Vorrebbe dirgli immediatamente di si. Eppure trattiene la sillaba dietro le labbra serrate. John valuta cosa gli abbia chiesto sul serio. Intende che lo vuole a lavorare con lui nel campo dell’investigazione? E in tal caso come potrebbe conciliare il fatto di abitare lontano. «Io mi sto trasferendo fuori Londra.» Non sa se seguirlo potrebbe essere la cosa giusta da fare. Lo desidera e ne ha timore al tempo stesso. Può farcela davvero? E che futuro gli si prospetterebbe avanti se seguisse l’istinto, se andasse con una persona del tutto estranea? «Non so neppure il suo nome.». Pazzesco, si rende conto che l’altro praticamente è a conoscenza di tutte le cose più importanti che lo riguardano e lui al contrario non sa assolutamente nulla.

«Le dà fastidio il violino?» il moro sembra mortalmente serio. Watson spalanca la bocca senza sapere che rispondere. «Quando rifletto, suono il violino e, a volte, non parlo per giorni. Le darebbe fastidio?». Il biondo fa di no con il capo. «I possibili coinquilini dovrebbero conoscere i loro difetti. Il posto in cui vivo le ho detto che per me è troppo dispendioso, ma assieme, dovremmo essere in grado di potercelo permettere.».

Il dottore, se non fosse seduto, cadrebbe. Lo sconosciuto oltre al taxi vuole dividere la casa. È completamente impazzito, non c’è spiegazione. Cosa diavolo ha trovato in lui da tornare indietro e stare fermo a quel modo sotto lo scrosciare continuo dell’acqua? È proprio matto, esattamente come lui. Dovrebbero andare anche dalla dottoressa Thompson insieme.

«John. Mi chiamo Sherlock Holmes. Vieni con me?».

«Oddio, sì.». La risposta è spontanea, già assicurata da prima che gli sia posta la questione. In un attimo è fuori dall’auto. Il borsone. Lo tirano fuori dal bagagliaio afferrando una manica ciascuno con una certa foga. E La pioggia continua a cadere, ma non corrono a causa d’essa. Lo fanno perché sono emozionati. John Watson lo è di certo. La felicità che gli scorre liquida nelle vene e le pulsazioni del cuore sono abbastanza alte da farlo sentire ancora più sicuro della decisione presa. Il bastone dimenticato nel taxi. Probabilmente non ci farà caso molto presto, troppo preso a sorridere. A respirare a pieni polmoni. A continuare a vivere. E a meravigliarsi di tutto questo.

 

Blackbird, singing in the dead of night,
take these broken wings and learn to fly.
All your life.
You were only waiting for this moment to arise.

The Beatles _ Blackbird  

 

 

 

 

[1] La guancetta è la parte di rivestimento dell’impugnatura di una pistola. Fonte.
[2] La pistola di John è la SIG-Sauer P226R. Fonte.
[3] L’SA-80 è un fucile d’assalto britannico. Fonte. Si tratta della “famiglia” di cui fanno parte gli L-85 visti nel telefilm. Fonte.
[4] Questo è l’istante in cui Watson e Stamford non si incrociano.
[5] La Met è come viene definito nel linguaggio comune il Metropolitan Police Service, una forza di Polizia del Regno Unito, che ha sede a New Scotland Yard. Fonte.
* Tutti i luoghi citati esistono davvero e nel brano si trovano dove realmente sono.
** Il tragitto in taxi dall’ospedale a Scotland Yard, secondo Google Maps, con i rallentamenti vari descritti, potrebbe durare circa venticinque minuti. Mi sembra un tempo ragionevole per far accadere tutte le cose scritte qui sopra.

 

Disclaimer
I personaggi di cui sopra non mi appartengono; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

Note
Questa volta non posso proprio dire che il racconto “si è scritto da solo”, ci ho impiegato un tempo infinito fatto di numerosi imprevisti e qualche dubbio. È nato come una cosa semplice, sarebbe dovuto essere un’altra flashfic della raccolta che sto tenendo “Watson in pillole”; invece mi sono resa conto che avevo dell’altro da esprimere oltre l’incontro vero e proprio tra Sherlock e John, e da massimo cinquecento parole siamo arrivati a quasi diecimila. Ci tengo veramente tanto a questa storia, spero vi sia piaciuta!

Avete notato tutte le differenze causate dal non incontrare Stamford? Ho ripreso e leggermente alterato alcuni dei dialoghi della prima puntata della serie, immergendoli in un nuovo contesto. È stato divertente.

Alcuni elementi, in particolare quelli che riguardano Harriet, li ho ripresi proprio da qualche capitolo della raccolta citata. Se vi va di approfondire il rapporto che lega John con la sorella vi invito a leggere i capitoli 12 e 13 “Amore e odio sotto le armi” rispettivamente prima e seconda parte, e il capitolo 1 “Ritorno a casa”; ve li ho segnati in maniera cronologica.

Voglio ringraziare Koa, che si ritrova a dispensare prompt anche in maniera inconscia. Così come SusyCherry ed L. che mi hanno dato supporto morale e consigli per il brano.

Grazie a tutti voi lettori che siete giunti fino a qui, a quelli che spenderanno qualche altro minuto per lasciare una recensione (sempre graditissime!), e chi inserirà la storia in una delle categorie.

Alla prossima,
K.

   
 
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