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Autore: Imperfectworld01    18/08/2019    0 recensioni
Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede.
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.
Megan Sinclair è la brava ragazza del quartiere, quella persona affidabile su cui si può sempre contare, con ottimi voti a scuola e con un brillante futuro che la attende.
E poi, all'improvviso, una sera cambia tutto. Una notte, un omicidio e un segreto. Un segreto che Megan, con l'aiuto di un improbabile alleato, cercherà di mantenere sepolto a tutti i costi.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sei pronta?


Sollevai lo sguardo e per poco non persi l'equilibrio.

Certo, forse non avrei dovuto sorprendermi più di tanto nel vedere David davanti a me, considerando che mi trovavo a pochi metri da casa sua.

Eppure il fatto che si fosse materializzato davanti a me proprio quando stavo pensando a quanto avessi bisogno di vederlo prima dell'udienza, mi fece illudere in qualche modo di aver ereditato qualche potere psichico di cui non sapevo nulla fino a quel momento.

"Vorrei avere un conto bancario da dieci milioni di dollari."

No, niente. Be', valeva almeno la pena provare.

«Ciao» risposi, portandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Stavi andando da mio padre?» domandò.

«No, in realtà ho appena finito.»

Annuì soltanto, senza dire nulla. Eppure una parte di me non poté a fare a meno di pensare che ci fosse dell'altro. Forse si trovava lì perché avrebbe voluto essere presente al mio ultimo giorno di preparazione prima dell'udienza. O magari era appena tornato da un'altra uscita con Olivia. O forse io avrei dovuto smetterla di fare congetture su congetture. Sì, avrei dovuto decisamente smetterla.

«Vuoi che ti accompagni a casa? Ho la macchina parcheggiata qui vicino.»

Scossi la testa. «No, non preoccuparti. Però grazie» risposi con un lieve sorriso.

Si morse il labbro inferiore, dando uno sguardo a casa sua. La mia risposta sembrò non essergli bastata, dal momento che si sentì in dovere di insistere: «È che si sta facendo buio, mio padre mi ucciderebbe se venisse a sapere che ti ho...»

«Siamo a Morgan City,» lo interruppi «vado in giro da sola anche alle undici di sera da quando ho dodici anni!» esclamai.

«Lo sai che questa è una delle tipiche frasi che dicono le persone nei film prima di venire uccise?»

Aggrottai le sopracciglia, prima di rilassare il viso e scoppiare in una genuina risata. «Per fortuna che non siamo in un film, allora.»

Quasi mi era sembrato di sentire qualcun altro ridere al posto mio. Non ridevo in quel modo veramente da troppo tempo, tanto da non ricordare nemmeno il suono della mia stessa risata.

David invece rimase impassibile. A quel punto lo fissai di sottecchi. «Non sarai mica preoccupato?» chiesi, con un ghigno simile a quelli che faceva lui di solito.

Scosse la testa. «Mmh, no, io non mi preoccupo. È inutile e...»

«... e fa sudare. E a te non piace sudare» completai la frase al posto suo. Mi fissò confuso. «Me l'avevi già detto, quando ci siamo parlati al Masquerade» aggiunsi, per chiarire le sue incomprensioni.

Annuì e basta. Così feci per voltarmi e continuare nella mia direzione, ma mi fermai prima di poter muovere il primo passo. Tornai a guardarlo, e finalmente ebbi il coraggio di porgli una domanda che mi frullava in testa già da qualche tempo: «Fai così anche con gli altri?» chiesi.

«Gli altri?»

«I clienti di tuo padre» precisai. «Sei così premuroso con tutti o solo con me?»

Mi sembrava davvero strano credere che avesse un rapporto di tipo confidenziale con ogni cliente di suo padre con cui lavorava.

Che avesse il numero di ognuno di loro, che gli offrisse passaggi, che avesse con loro conversazioni anche non riguardanti i loro casi.

Esitò un attimo, prima di rivelare l'ennesimo ghigno. «Be', in realtà è piuttosto raro che abbiano la tua età, di conseguenza non hanno bisogno che li riaccompagni a casa. La maggioranza ha l'età di mio padre, sarebbe piuttosto strano.»

Tutto lì?

«Qual è il problema, Megan?» domandò, cogliendo la delusione nel mio sguardo.

Già, qual era il problema?

Il problema era che non ero rimasta per niente soddisfatta dalla sua risposta, perché speravo che ci fosse dell'altro. Ma in fondo era una cosa stupida. Non era il mio avvocato, quindi non era tenuto ad avere un atteggiamento professionale come quello del padre, poteva permettersi anche più libertà. Eppure una parte di me continuò a essere convinta che certe libertà se le prendesse solo con me.

«No, è che... niente» tagliai corto.

«No, adesso me lo dici» disse, avanzando di qualche passo verso di me e giungendo a una ventina di centimetri dal mio viso.

Cercai in tutti i modi di evitare di guardarlo negli occhi, per impedirgli di fare uno dei suoi giochetti psicologici per capire ogni cosa solamente guardandomi.

L'unico modo che mi venne in mente per poter deviare la sua domanda, era quello di cambiare discorso. Così feci un tentativo. «Sai, in realtà ho cambiato idea. Mi va bene se mi accompagni. Ma non in macchina, ho voglia di camminare. Ti va?»

Una parte di me sperava che avrebbe detto di no, così da potermi lasciare andare via da sola. All'altra in realtà non sarebbe dispiaciuta poi così tanto la sua compagnia.

Rimase a fissarmi in silenzio prima di rispondere, probabilmente era indeciso se continuare a insistere oppure se dimenticare tutto ed evitare di farmi l'interrogatorio.

Poi emise un lieve sorriso. «Certo. Andiamo.»

Davvero? Contando andata e ritorno avrebbe perso all'incirca mezz'ora per accompagnarmi e ritornare a casa. Non aveva niente di meglio da fare?

Sospirai di sollievo e cominciai a camminare con lui al mio fianco.

Per i primi minuti non dicemmo nulla, il che era strano, dal momento che mi sembrava uno che aveva sempre tanto da dire. Quasi come se mi avesse letto nel pensiero (ok, forse io non avevo nessun potere psichico, ma si poteva dire lo stesso di lui?), ecco che cominciò a parlare.

«Sei pronta per domani?» chiese.

«No» risposi, in tutta sincerità. «Ma tuo padre mi ha detto che non sarò chiamata a deporre.»

«Sì, be', probabilmente non solo domani.»

Mi voltai alla mia sinistra e gli rivolsi uno sguardo confuso. «Perché lo pensi?»

«Ecco, io ho saputo che hai detto ai tuoi di... quella cosa.»

Non ci fu bisogno di specificare, capii subito a cosa si riferiva. Improvvisamente sentii come se ci fosse un peso a comprimermi il torace, che mi impediva una corretta respirazione. Tentai di non pensare a ciò che avevo saputo su sua madre per evitare di sentirmi ancora più in colpa di quanto già non mi ci sentissi normalmente. «Sì, qual è il problema?» domandai.

«Il problema è che ora che i tuoi genitori e la tua psicologa lo sanno, allora in tribunale non è detto che ti lasceranno deporre.»

«Perché no?»

«Perché prima dovranno sottoporti a una perizia psichiatrica per valutare la tua salute mentale.»

Era serio? Quella proprio mi mancava. «Non ho disturbi mentali» dissi, stringendo i denti.

«Ah, no? Tentare il suicidio ti sembra una cosa che tutte le persone farebbero? La tua mente è instabile, non ragioni correttamente e di conseguenza la tua deposizione in tribunale sarà sicuramente considerata inattendibile.»

Non seppi dire nulla per ribattere. Era vero. Però detestavo la schiettezza con cui me lo disse. Anche se non potevo biasimarlo, forse era più forte di lui: il gesto che avevo tentato di fare era lo stesso che gli aveva portato via sua madre quando era appena nato, era più che normale che manifestasse apertamente, ancor più di altre persone, la sua disapprovazione nei confronti di tale atto.

«Una difesa basata solo sui testimoni non mi sembra tanto solida» dissi.

Come avrei potuto essere dichiarata innocente qualora l'udienza si fosse conclusa prima che riuscissi a deporre?

«No, non lo è» mi diede ragione David. «Perciò devi metterci tutta la forza di volontà che possiedi per riuscire a passare la perizia.»

Forza di volontà. Fino a una settimana prima non sapevo nemmeno più cosa fosse, talmente mi sentivo vuota e persa.

•••

Dal momento che parlare dell'udienza mi metteva non poca angoscia, alla fine cambiammo discorso e parlammo di altri argomenti. A un certo punto, non so come, ma finimmo col parlare di Dylan. Gli raccontai di ciò che era successo in quei giorni e, mentre parlavo, la rabbia, mista al senso di colpa, mi fece andare a fuoco le guance. Poi passai in rassegna ogni singola cosa che non era andata bene fra di noi. Arrivai a un punto in cui non ero neanche più in grado di formulare un vero e proprio discorso, praticamente farneticavo e basta, così mi fermai e ripresi fiato. David mi ascoltava in silenzio, intervenendo di tanto in tanto esponendo il suo punto di vista che, forse per la prima volta, coincideva spesso con il mio.

Ricominciai alla carica poco dopo. «E poi è troppo geloso! Quando siamo andati in discoteca non voleva lasciarmi sola nemmeno per un secondo. Per lui la situazione ideale è quella in cui io non parlo con nessun che sia del genere maschile, non importa se sia Herman oppure il mio vicino di casa oppure il...» mi fermai, non appena mi ricordai che era stato geloso persino di David e che mi aveva chiesto di averci a che fare il meno possibile. E io avevo pure acconsentito. «Voglio dire, è normale che gli dia fastidio ed è bello che sia geloso perché vuol dire che gli importa, ma...»

Venni subito interrotta da David: «Normale? Magari se fossimo nel 1952 oppure se vivessimo in Giappone dove le donne camminano dietro passi dietro i loro mariti. Megan, la gelosia non va mai bene. E più si avvicina alla possessività, meno è bello, credimi. A nessuno piace avere una relazione malata, e in pochi se ne accorgono per tempo e riescono a uscirne».

Era quello il tipo di relazione che avevo Dylan? Una relazione tossica? Certo, c'erano molti aspetti da migliorare, ma non l'avevo mai intesa in quel modo...

«Be', in realtà credo di esserci riuscita, a uscirne. Sembra che sia finita fra noi, o così credo...»

«Mi sembri più arrabbiata che triste» constatò, fissandomi con le sopracciglia aggrottate.

«No, non è vero, io... io sono triste. Davvero. Dylan mi piace, altrimenti non avrei mai iniziato a frequentarlo, quindi ovvio che mi dispiace.»

«Ti dispiace ma non hai il cuore spezzato. Sentiamo, cos'è che ti piace di lui?» domandò, puntando lo sguardo sul mio. «Al di là dell'aspetto fisico.»

«È... è una domanda seria?» chiesi, corrugando la fronte.

«No, macché. È una domanda che fa spezzare in due dalle risate» rispose.

Touché.

Cominciai a pensare a una risposta, e mi resi conto che forse era la prima volta che ci riflettevo sul serio. Essendo una persona molto istintiva, non mi ero mai soffermata troppo a pensare a certe cose. Mi era sempre bastato sapere che con lui stavo bene, che con lui mi sentivo serena, protetta, amata.

Ma che cos'era realmente a piacermi di lui?

«Come pensavo.» David mi guardava con le sopracciglia inarcate, quasi come se se lo aspettasse. Io gli restituii uno sguardo confuso, e anche leggermente indispettito: «Cosa vorresti dire?».

«Non sai neanche cosa dire.»

«Io... ci sto pensando, non è così... così facile» cercai di difendermi.

Invece avrebbe dovuto esserlo. Avrei dovuto stilare una lista interminabile di motivi per cui ero interessata a Dylan, ma in quel momento non me ne veniva in mente neanche uno.

«Megan... non l'hai ancora capito? Non è lui a piacerti. A te piacciono le attenzioni che ti dedica, ti piace sentirti corteggiata, desiderata, ti piace l'idea di avere qualcuno a cui appoggiarti quando hai bisogno... non ti piace lui, ma quello che prova lui per te.»

In altre situazioni avrei ribattuto prontamente. Non mi conosceva così bene, né conosceva Dylan, perciò come poteva anche solo pensare o pretendere di sapere ciò che provavo per lui?

Eppure, nonostante ciò, sentendo le sue parole, non trovai nulla a cui appigliarmi per potermi opporre.

«Non ci si innamora di un paio di occhi, per quanto azzurri possano essere, né di un sorriso perfetto, né tantomeno di un addome scolpito. Quella è pure attrazione fisica. L'amore è un'altra cosa.
«Per quanto mi riguarda, è molto più semplice di così. È un insieme di piccole cose: può essere il modo di camminare, specialmente se goffo e scoordinato; la risata, anche se rumorosa e imbarazzante; il mangiarsi i capelli dal nervoso, per quanto sia disgustoso da guardare; o magari l'atteggiamento saccente di chi pensa di poter sapere tutto su tutto, soltanto facendo delle patetiche ricerche su Internet, nonostante sia incredibilmente fastidioso.»

Emisi un sorriso, prima di fargli una linguaccia. Poi mi schiarii la gola, pensando che avrei dovuto dire qualcosa, anche se non sapevo cosa. Fu lui a parlare di nuovo. «Ma questa è soltanto la mia opinione. Puoi anche dirmi se sbaglio.»

Distolsi lo sguardo. Fino all'ultimo non ebbi il coraggio di ammettere la verità, anche se ero sicura che il mio silenzio stesse dicendo già abbastanza. Ma lui non sarebbe stato contento finché non sarebbe riuscito a sentirselo dire, come dimostrato dal modo incalzante con cui mi fissava.

«Non sbagli...» ammisi con un tono sommesso e scoraggiato. «Be', ehm... Wow. Questo... immagino dica molto sul tipo di persona che sono.»

Superficiale sarebbe stato l'aggettivo più adatto. Più ci riflettevo, e più le parole di David sembravano avere senso. Più cercavo di negarlo a me stessa, dicendomi "no, non fa al caso mio", più mi rendevo conto di quanto quella sua visione rispecchiasse alla perfezione la mia situazione con Dylan. 
Giunsi persino alla conclusione che quest'ultimo aveva iniziato ad attrarmi soltanto nel momento in cui aveva iniziato a manifestarmi apertamente il suo interesse, a corteggiarmi, come aveva detto David.

«Solo che sei molto giovane» rispose, usando un tono più morbido. Lo apprezzai. L'aveva detto apposta per farmi capire che lui non mi giudicava, e che forse io avrei dovuto fare lo stesso: «Non devi prendertela con te stessa. Capita a un sacco di persone, specialmente a sedici anni. Alla tua età è molto facile confondere l'amore con una semplice infatuazione».

«Tu quanti anni avevi quando ti sei innamorato la prima volta?» chiesi. A quella domanda si scurì in volto e si ammutolì. Avrei dovuto prevederlo. «Giusto, come dimenticarlo: "Io non parlo di me"» citai le sue testuali parole.

Emise uno dei suoi soliti ghigni e continuò a rimanere in silenzio. Perché doveva sempre essere così imperscrutabile? Cosa c'era di male nel raccontarmi qualcosa in più?

Quasi come se fosse stato in grado di leggere la mia mente, risollevò lo sguardo e lo puntò sul mio, pronto a rispondere alla mia domanda. «Forse volevi dire la prima, e anche unica volta.»

Inarcai le sopracciglia. «Solo una?» chiesi incredula.

Annuì. «Avevo soltanto quattordici anni, era la mia prima storia seria, non pensavo nemmeno sarebbe durata, in fondo cose di questo tipo durano al massimo quattro mesi. Invece durò sette anni.»

Sgranai gli occhi. Sette anni?

«Lo so, non si direbbe guardandomi, eh?» mi sorrise amaramente.

«Perché è finita?» mi venne spontaneo chiedergli.

«Perché tutte le cose belle prima o poi giungono a una fine. Nulla è eterno. Anche la storia più bella con il tempo si consuma e anche l'amore più grande si esaurisce.»

Forse non si era esaurito da parte di entrambi, considerando il tono triste e l'espressione affranta con cui ne parlava.

«Non ti facevo così poetico» dissi per sdrammatizzare.

Per fortuna la prese bene e sorrise. «Ho un carattere molto versatile. Mi adatto a ogni situazione.»

Sorrisi anch'io. «Qualcuno la tua versatilità potrebbe definirla disturbo della personalità multipla.»

Scoppiò in una risata fragorosa. «Questa come ti è uscita?» chiese, fra una risata e l'altra. «Giuro, è la prima volta che me lo dicono!».

Scrollai le spalle. «Non lo so ma, voglio dire, puoi darmi torto? Tu sei... ecco, non lo so neanch'io come sei, perché cambi continuamente modo di fare. Ogni volta che parliamo, scopro qualcosa su di te e sul tuo carattere che non mi sarei mai immaginata, e... sì, insomma, sono così tante che mi sembra impossibile pensare che ci sia soltanto una persona ad albergare nella tua testa.»

Dicendo quelle cose ad alta voce, non potei che rendermi conto di quanto suonassero ridicole. Immediatamente mi sentii in imbarazzo per essermi esibita in quel teatrino idiota. Davanti a lui. Se ci fosse stato chiunque altro al suo posto, mi sarei vergognata, ma neanche tanto, ma con lui... lui mi faceva sentire ridicola di continuo, qualsiasi cosa dicessi. O forse ero proprio io che non riuscivo a fare a meno di mettermi in ridicolo davanti a lui.

«Non... oddio, dimentica tutto, ok?» gli chiesi, quasi implorandolo. Fece cenno di no con la testa, con un ghigno divertito. Non era di certo nei miei piani renderlo così euforico e dargli un altro motivo per prendersi gioco di me.

«Su, togliti quel broncio dalla faccia» disse, prima di lasciare spazio a un'altra risata.

Rimasi in silenzio e gli rivolsi uno sguardo fulmineo. «Dai, Megan... Guarda che non stavo ridendo di te, ok? Stavo ridendo di me stesso, dico sul serio. E ti conviene ridere con me finché ne hai la possibilità, altrimenti Rob potrebbe prendere il sopravvento e potrei trasformarmi in un serial killer. Ah, cazzo, non dovevo dirtelo. Non lo dirai alla polizia, vero?» chiese allarmato, portandosi una mano sulla bocca.

Lo fissai con la fronte corrucciata ancora per qualche istante, prima di rilassare il viso e ridere, seguita a ruota da lui.

«Rob?» domandai, inarcando un sopracciglio.

«Rob il serial killer non ti piace? In alternativa ho anche Philip l'atleta e Donald il poeta.»

Risi ancora. «E David Finnston che cos'è? L'aspirante avvocato o il comico mancato?».

«Nessuna delle due: David Finnston è l'eroe ribelle» disse tirandosela come suo solito, passandosi una mano sui capelli.

«Ah sì? Pensavo il narcisista montato. L'unica cosa che hai di ribelle è quel ciuffo che ti ricade sempre sulla fronte» gli feci notare, indicando il solito ricciolo corvino.

Aprì la bocca per ribattere, ma fu interrotto dal mio cellulare che cominciò a squillare. Lo tirai fuori dalla tasca dei jeans e sbuffai non appena lessi il mittente della chiamata.
Lo lasciai suonare qualche secondo e David si insospettì, così si avvicinò per vedere chi fosse. «Perché non gli rispondi?».

«No, è che...»

Mi interruppe prima che potessi inventarmi una giustificazione che avesse senso. «Tanto praticamente siamo arrivati. Me ne vado, così potete parlare e chiarire le vostre... cose. A domani, Megan.»

Avrei voluto inventarmi una scusa per farlo rimanere, ma sembrava quasi non vedesse l'ora di dileguarsi, così mi ritrovai a dire: «Ciao, a domani» e a guardarlo mentre si allontanava.

Il cellulare stava ancora squillando e io fissai il display finché non scomparve l'avviso di chiamate.

Io e Dylan non avevamo più niente da dirci.

•••

«Come sto?» chiese Emily per la milionesima volta, non appena fummo davanti alla porta della casa di Dylan.

«Esattamente come stavi dieci minuti fa» rispose Tracey, roteando gli occhi.

«Em, non devi farti così tante paranoie solo per un ragazzo. L'importante è che tu stia bene con te stessa» dissi, posandole una mano sulla spalla.

E cosa potevo mai saperne io di stare bene con me stessa, se per tutta la vita ogni mia azione era stata condizionata da quello che diceva e pensava mia madre?

Mi veniva fin troppo facile dare lezioni di quel tipo agli altri, eppure io ero la prima a farmi paranoie su paranoie.

Se non altro, incoraggiare Emily mi aiutava a sentirmi meno una merda, dopo quello che era successo la settimana prima con Dylan.

Anche se forse stavo facendo la cosa sbagliata, dal momento che sapevo a chi era davvero interessato lui, e spronarla inutilmente non sarebbe servito a nulla.

Così, una volta dentro, non appena Emily propose di passare accanto a Dylan e urtarlo con la spalla per farsi notare, tentai di dissuaderla. «No, non farlo.»

Dovevo essere apparsa più rude e allarmata di quanto sperassi, dal momento che mi fissava con un'espressione alquanto confusa. «Guarda, si sta strusciando contro quella tipa. Non ne vale la pena» aggiunsi a quel punto.

Che cosa diavolo passava per la testa di quel ragazzo?

«Ti farò pentire di non avermi voluto.»

Quelle erano state le ultime parole che mi aveva rivolto la settimana scorsa, dopo che gli avevo ripetuto ancora una volta che fra noi non sarebbe mai successo nulla. Non potevo fare una cosa del genere a Emily.

A quanto pare, quello era il suo modo per farmi pentire: tentare di ingelosirmi. E, per quanto mi risultasse assurdo crederlo, ci stava riuscendo. A fatica riuscivo a staccare gli occhi da lui, aggrovigliato a quella ragazza, con le mani strette addosso alle sue chiappe.

«Che porco» commentò Trace e non potei che darle ragione.

Non che io fossi da meno, dal momento che mi ero rivelata una vera stronza, dopo ciò che avevo fatto la settimana prima. Avrei dovuto trattenermi e impedire che accadesse, ma non ne ero stata capace: mi era bastato guardarlo negli occhi per non capire più niente.

Basta, Megan, smettila di pensarci e guarda altrove, mi dissi. Così tentai di concentrarmi per capire di cosa stavano parlando le mie amiche. A quanto pare di Herman che stava per arrivare con la sua auto.

«Ha passato l'esame?» domandai sorpresa. Quella per lui era la terza volta che lo sosteneva.

Tracey annuì. «Ormai manchi solo tu, Meg!».

«Lo so, ma non sono ancora sicura. Voglio fare ancora altre guide. Prometto che entro fine ottobre avrò anch'io la patente!» esclamai, tentando di ignorare le occhiate insistenti che mi stava lanciando Dylan.

Non appena l'avevo visto in compagnia di quella ragazza, avevo sperato che avesse finalmente capito che con me non ci sarebbe stato nulla e che avesse trovato qualcun altro che gli piaceva, invece sembrava proprio che lo stesse facendo per farmi ingelosire.

La sola idea mi dava la nausea (o forse era qualcos'altro a procurarmi tutto quel subbuglio a livello dello stomaco): un conto era cercare di attirare la mia attenzione lanciandomi occhiatine in mensa, fare in modo che ci sedessimo vicini in classe, oppure passarmi davanti innumerevoli volte in corridoio, ma ora stava esagerando. Stava usando una ragazza che non c'entrava niente, solo per colpire me.

Ancora non capivo cosa fosse ad attrarmi così tanto in lui se, evidentemente, era come tutti gli altri. Non che avessi avuto tanti altri ragazzi con cui paragonarlo, a dire il vero.
Il mio primo e ultimo fidanzato risaliva alla seconda media. Ci eravamo baciati solo una volta, ed era stato a dir poco traumatizzante.

Assolutamente niente a che vedere con... No, basta.

Nel frattempo Herman era arrivato e Tracey si era allontanata insieme a lui dopo avermi fatto un cenno a cui risposi con un sorriso.

Fu in quel momento che arrivò la fatidica domanda da parte di Emily. «Ehi, dite che mi sta guardando?» domandò, prima di accorgersi che c'ero solo io con lei.

Mi morsi il labbro inferiore. Cosa avrei dovuto dirle? Mentirle ancora oppure risponderle con sincerità? In entrambi i casi, non sarebbe finita bene.

«Forse... sì, sì ti sta guardando!» mentii, sperando che non facesse caso alla poca convinzione con cui lo dissi.

«Quindi che faccio?» domandò agitata, prima di aggiungere: «Andiamo a ballare vicino a lui!».

Era davvero una pessima idea, ma prima che potessi dire qualsiasi cosa, Emily si era già impossessata del mio braccio e mi aveva trascinata di fianco a lui. Cominciò a ballare con scioltezza, mentre io rimasi piuttosto rigida. Quasi mi mancava il respiro. Con la coda dell'occhio vedevo che mi fissava ancora, mentre continuava a ballare con quella ragazza, e io avrei soltanto voluto saltargli in braccio e riempirlo di baci.

"I miei complimenti, sei un'ottima amica" mi dissi da sola.

Ma del resto, cosa potevo farci? Piaceva a entrambe e, sì, Emily era arrivata prima, ma che importanza aveva, se comunque ero io a piacergli?

"È solo un ragazzo, ce ne sono a migliaia. Ma non riavrai indietro alla tua amica se fai cazzate.»

Ripresi a respirare non appena vidi che si era allontanato. Era andato a prendersi un bicchiere e, per mia fortuna, si era fermato a bere di fianco alla cucina, appoggiato alla parete, distante da me.

Emily però era di tutt'altro avviso, e mi propose di andare a bere, così da passargli di fianco.

«Em, lo sai che non bevo» risposi. E soprattutto non avevo alcuna intenzione di riavvicinarmi a lui.

«Allora fai finta» mi prese per mano per portarmi in direzione della cucina, ma io protestai: «No dai, non ho voglia. Preferisco rimanere a ballare. Facciamo che ti aspetto qui fuori» dissi, cercando comunque di rimanere a debita distanza da Dylan che, guarda caso, aveva lo sguardo puntato su di me.

«D'accordo» scrollò le spalle, prima di sparire dentro la cucina.

Incrociai le braccia al petto, sperando con tutto il cuore che Emily si muovesse.

«Sei bellissima, stasera.» La voce di Dylan era vicinissima. Era alle mie spalle, e mi aveva scostato una ciocca di capelli dietro le spalle, lasciandomi il collo scoperto.

Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo. «Anche la tua amica» risposi acida, riaprendoli e voltandomi nella sua direzione.

Dio, quegli occhi...

Mi pentii subito di avergli risposto in quel modo, dal momento che era come se gli avessi appena dimostrato che mi importava. Ma del resto io ero fatta così: reagivo lasciandomi guidare dai sentimenti e, tentare di reprimerli, non era altro che un tentativo inutile.

Ma mi andava lo stesso di provare. «E comunque adesso non mi va di parlare con te, quindi se me lo concedi...»

«No, non è vero» mi interruppe. «Sei venuta alla mia festa, a casa mia, non dirmi che non avevi tenuto in conto che ci saremmo parlati. Non aspettavi altro che questo momento.»

Qualcosa mi suggeriva che l'alcol in circolo nel suo corpo aveva iniziato a fare effetto, come testimoniato dal suo sguardo vacuo e perso.

«Senti, io... non possiamo parlarci qui, Emily è lì dentro e potrebbe tornare in un...»

Mi interruppe di nuovo: «E a me che importa?».

Alzai gli occhi al cielo. «Quand'è che capirai che fra noi non potrà mai succedere niente? Lasciami in pace e basta.»

«Ti devo ricordare quello che è successo settimana scorsa dopo che mi avevi detto queste stesse parole? Perché io me lo ricordo benissimo, ci penso ogni momento.»

Già, anche io.

«E l'iniziativa è partita da te, non sono stato io a incominciare.»

«Senti, basta, davvero! Va bene, parliamo. Ma non qui» mi rassegnai.

Sorrise soddisfatto. «Perfetto, seguimi.»

 

   
 
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