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Autore: Roberto Turati    18/08/2019    1 recensioni
Laura, Sam, Chloe e Jack sono quattro neo-laureati di Sidney che, dopo aver trovato un libro segreto firmato Charles Darwin che parla di ARK, un'isola preistorica abitata da creature ritenute estinte da milioni di anni, da un intrigante popolo, protetta da una barriera che altera lo spazio-tempo e che nasconde un "Tesoro" eccezionalmente importante, decidono di scoprire di più... andando su ARK. Ma le minacce sono tante, siccome l'arcipelago arkiano non è certo il più accogliente dei posti... però, per loro fortuna, non saranno soli nell'impresa. Fra creature preistoriche, mostri surreali, nemici che tenteranno di fermarli o di ucciderli per diversi motivi, rovine antiche, incontri da ogni luogo, da ogni epoca e da altri universi e gli indizi sul misterioso passato dimenticato di ARK, riusciranno a venire a capo di un luogo tanto surreale?
 
ATTENZIONE: oggi, il 30/06/2021, è iniziato un rifacimento radicale della storia usando l'esperienza che ho fatto con gli anni e la nuova mappa di ARK usata per l'isola del mio AU. Il contenuto della storia sta per cambiare in modo notevole.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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Dopo essersi persi e aver spopolato il Paradiso di Santi per quanti ne avevano scagliati a Vicky a suon di buone bestemmie, i documentaristi avevano cominciato un lungo viaggio alla cieca giù per la montagna, fino al bosco di querce e faggi che si trovava a valle. I tre cercavano disperatamente Mike o qualunque traccia di vita umana, alla ricerca di soccorsi. I dimorfodonti non si erano più fatti vedere, ma la foresta era comunque piena di vita: almeno due volte ogni ora, trovavano impronte, graffi su rocce e alberi, peli, piume, scaglie e altre tracce. E tutte le volte Vicky doveva giustamente fare un’accurata descrizione di cos’aveva lasciato la traccia, più tutti i modi in cui avrebbe potuto squartarli e dissanguarli, per la gioia di Phil e Allan. Come se non bastasse, non si passava un istante senza che qualcosa emettesse uno spaventoso richiamo in lontananza o fra i rami ci fosse un lugubre fruscio: la tensione era alle stelle. Arrivò la notte e, per orientarsi, Phil andò davanti e guidò i due compagni con la visione ad infrarossi. Per loro fortuna, trovarono un accampamento abbandonato in una zona piuttosto riparata: da un lato c’era un albero caduto e dagli altri qualche roccia a fare da barriera. Decisero di sostare lì. Montarono le tende e, per accendere il fuoco, riattizzarono le braci di chi era stato lì per primo. Per distrarsi dalla paura, decisero di raccontarsi barzellette… ma non funzionò perché facevano tutte schifo. Andò a finire che si addormentarono a forza, dopo aver ingollato le pillole soporifere che Allan prendeva ogni sera perché era insonne. La mattina dopo, quando Phil e Allan si svegliarono, il fuoco era spento da un pezzo e gli orologi segnavano le sei e mezza, ma il Sole si intravedeva già fra i rami degli alberi.

«Dormito bene?» chiese Phil, stirandosi il collo.

«No, da schifo – rispose Allan, massaggiandosi l’osso sacro – Devo essermi sdraiato per sbaglio su una pietra aguzza e ora non riesco più a sedermi…»

«Quella non è una pietra!» sobbalzò Phil, guardando dove gli era stato indicato.

Allan, stranito, si girò e scoprì che si trattava di un pezzo di metallo arrugginito.

«Oddio! Che schifo! Mi sono graffiato? Controllami la schiena! Non ho graffi, vero? Non ho mai fatto il richiamo dell’anti-tetanica… tutto, ma non il tetano!» farfugliò, nel panico.

«Calmati, non c’è niente sulla tua schiena! Sai, a parte foglie, fango e altre schifezze» lo rassicurò Phil.

«Ah, grazie a Dio… ma da dove viene?»

Alzarono lo sguardo sopra le loro teste e cacciarono un urlo di spavento quando videro, a due metri dalle loro facce, lo scheletro di un paracadutista ingarbugliato nell’imbracatura. Più in alto, incastrato fra i rami e ormai inghiottito dal verde, c’era il suo aereo. Dalla divisa dello scheletro e dal modello, intuirono che risaliva ai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

«Porca miseria… che morte di merda! Come abbiamo fatto a non vederlo prima?» chiese Phil.

«Ah, non so, eri tu quello con gli infrarossi. Ehi, quel disegno sulla sua giacca è una svastica? Era un nazista, il povero diavolo!»

«Ah, allora meno male che è crepato da stronzo. Ma, in tutto questo… dov’è Vicky?»

Allan si guardò intorno e si rese improvvisamente conto che erano soli.

«Oddio, è vero! Vicky? Vicky!»

«Sono qui dietro, venite!» rispose subito la sua voce, da oltre le rocce.

I due, straniti, obbedirono e trovarono Vicky che osservava con un ampio sorriso una mappa di ARK appoggiata su un masso alto come un tavolino. Loro due le chiesero perché non aveva avvisato che era lì e lei, facendo spallucce, disse che tanto era dietro l’angolo. Poi indicò con fierezza la mappa, dicendo che il problema con l’orientamento era risolto.

«Dove l’hai presa?» chiese Phil.

«Era già qui, io l’ho solo trovata» rispose lei.

«Ah…»

«Comunque, guardate qui: ci sono segnati tutti i punti di interesse per un nativo dell’isola! Noi siamo per forza qui, sotto la montagna più a Sud delle due in riva al mare a Est – spiegò, indicando le pendici del monte Allics – E qui, accanto a questo rivolo d’acqua, ci dovrebbe essere una… mah, sembra una specie di bus, solo che è un diplodoco. Prendiamo quello, ci facciamo portare in un villaggio e siamo salvi! Da lì, possiamo pure trovare terreno fertilissimo per delle succose interviste cariche di dettagli…»

«Meraviglioso!» esclamò Allan.

«Già, abbiamo solo un problema…» accennò Phil.

In quel momento, un fragoroso ruggito fece eco nella boscaglia, anche se era lontanissimo.

«Parli del diavolo… ecco, stavo per dire che è pieno di mostri sanguinari, qui. Come facciamo a superare solo un altro giorno fra loro? Con tutte quelle tracce, è impossibile non beccarne almeno uno!» si lamentò.

Ma Vicky ridacchiò:

«Ho già rimediato. Nel corso dei miei studi universitari, ho fatto svariate ricerche sull’ecologia di rettili e uccelli carnivori di cui i dinosauri fanno parte»

«E questo è opinabile» replicò Allan.

«Sta’ zitto. Dunque, anche se avrei preferito usarla per delle analisi dopo il ritorno a casa, credo sia saggio cospargerci di questa… - prese qualcosa da terra dietro il masso e lo sollevò per farlo vedere ai due colleghi – Urina di anchilosauro!»

In mano teneva un bottiglione in plastica mezzo pieno di liquido giallo scuro. Phil e Allan erano increduli:

«Cosa?!» chiesero.

«Urina di anchilosauro! Volevo portarmela a casa ed esaminarla, per poi scrivere una relazione sulle funzioni renali degli ornitischi, invece la useremo per nascondere il nostro odo…»

«Aspetta, aspetta, scusa se ti fermo – si intromise Allan – Quella è… pipì?»

«Certo. Perché?»

«Tu… sei andata in giro a prendere pipì di dinosauro? Come? Quando?»

«Mentre dormivate, ho dato un’occhiata nei dintorni e ho raccolto dei campioni per le mie ricerche genetiche. La applicheremo ai nostri vestiti e…»

«No, ora devo assolutamente saperlo… tu sei stata tutta la notte sotto il pisello di un dinosauro col bottiglione in mano?»

«Non pisello, patata: era una femmina. E se… se davvero vuoi essere tecnico e ridurre tutto al suo elemento di base… sì, ho fatto così»

«Come ti sei sentita?» chiese Allan, mentre Phil rideva a crepapelle.

«Me lo stai chiedendo sul serio?»

«Sì!»

«Be’… è rilassante. È come pescare: stai lì, immobile, paziente, sola, con la lenza in mano… poi, all’improvviso, zing! Ecco che arriva. Stavo dicendo, ci bagneremo con questa e saremo irrintracciabili per qualsasi forma di vita animale nel raggio di kilometri»

Uno strano richiamo cinguettante e acuto risuonò per la foresta, portandoli a guardarsi in giro nervosi. Pareva vicinissimo…

«Avrei dovuto pensarci molto prima» commentò Vicky.

Quindi, di fronte a dei disgustati Phil e Allan, alzò il bottiglione sopra la sua testa e si rovesciò parte del liquido giallastro in testa e sui vestiti. Si strizzò i capelli e strofinò gli occhi, quindi tentò un sorriso incoraggiante:

«È rinfrescante! E adesso ingeritene un po’, per farla entrare in circolo…»

Si portò il collo del recipiente alle labbra e ingollò un sorso di urina come se fosse acqua. Phil dovette sforzarsi per non vomitare, vedendoglielo fare. Com’era facile da prevedere, Vicky strabuzzò subito gli occhi, sbiancò e sputò tutta l’urina per terra.

«No, non ingeritela! Sa di acqua di mare mista a vomito alla verdura! Che schifo… allora, chi è il prossimo?» chiese, porgendo il bottiglione.

«Io no!»

«Neanch’io!»

«Oh, andiamo! Non è così male…»

In quel momento, iniziò a strizzare continuamente gli occhi, che si stavano arrossando tutti, e a rigirarli su, giù, qua e là.

«Mi sbagliavo: iniziano a bruciarmi gli occhi, non era previsto… ah! Ora mi è entrata nel naso e non è affatto piacevole… forse una seconda doccia ridurrà gli effetti»

Se ne rovesciò altra dritta in faccia e iniziò subito a stringersi le narici con due dita:

«Li peggiora subito! Ah… uno di voi ha un asciugamano? Bah, non importa. Quindi, in teoria dovremo ripetere il processo ogni sei o sette ore per… ah, che male! Si capisce che è quella della mattina: è forte! Avrei dovuto usare degli escrementi. Errore mio, ragazzi, scusate»

«Scusa? E di cosa? È uno spasso vedere come ti torturi da sola col piscio!» scherzò Phil.

«Peccato che non abbiamo registrato questa parte: avremmo avuto uno sproposito di visualizzazioni per questa! Non che i dinosauri in carne ed ossa siano da meno, eh?» aggiunse Allan.

«Sapete cosa? Lasciamo perdere e andiamo, succederà quel che deve succedere» sbuffò Vicky, umiliata.

I tre quindi presero la mappa e, riaccesa la telecamera, ricominciarono il tragitto. Vicky fece un monologo per riassumere la situazione al pubblico:

«Signore e signori, questa notte è stata molto lunga e decisamente poco riposante per la sottoscritta, siccome l’ho trascorsa setacciando questa suggestiva foresta di latifoglie alla ricerca di campioni di acido urico deposto da un gruppo familiare di Ankylosaurus crassacutis al fine di…»

«Perché fai tanto la complessa? Dì che volevi farti una doccia di pipì e ammetti la tua idiozia!» protestò Phil, mentre aggiustava la messa a fuoco dell’obiettivo.

«Non è professionale. E non mi interessa se metteremo il documentario su YouTube, preferisco fare come se fossimo in onda! E ricorda di tagliare eventuali frasi poco ortodosse, in fase di montaggio»

«Certo, certo…»

«Stavo dicendo, gente, al momento ci stiamo orientando con questa accuratissima cartina dell’isola che io e la troupe abbiamo trovato in un accampamento vuoto. Non abbiamo più notizie della nostra guida Mike e della sua bombetta tecnologica dallo scorso episodio…»

«Grazie a te» la interruppe Allan, tirando indietro il microfono a ponte per un secondo.

«...dopo la fuga dalla colonia di dimorfodonti. Dunque, come vedete qui a schermo – si voltò verso l’obiettivo e piazzò la mappa davanti ad esso tenendola come se fosse una bandiera, lasciando che Phil adattasse da sé l’ingrandimento – Più ad Ovest c’è un punto in cui gli indigeni usano dei diplodochi addestrati come mezzo di trasporto pubblico. Con un po’ di fortuna, ce ne serviremo anche noi per raggiungere un posto più sicuro. Mi raccomando, supportateci con un bel pollice in su da casa vostra, condividete le nostre riprese per mostrare al mondo che esiste questo posto incredibile e… augurateci buona fortuna! Puoi spegnere, Phil»

«Non hai detto a quanti “mi piace” vogliamo arrivare» le fece notare lui, spegendo la telecamera.

«Mi sono resa conto che non ha senso, visto che loro non ci vedranno ad episodi ma in un unico lungometraggio montato» rispose lei.

«In effetti…» bofonchiò Allan.

I tre proseguirono fino ad un lago con un fiume che entrava e un altro che usciva, le sponde erano poco vaste e ghiaiose. Era come una chiazza turchese in mezzo al verde delle querce e dei faggi. Vicky disse che da lì dovevano andare a destra e seguire il fiume emissario, e il gioco era fatto. Incoraggiati da queste istruzioni a dir poco facili, accelerarono il passo. Andarono avanti dieci minuti senza problemi, quando d’un tratto accadde la cosa più inaspettata e stupefacente che potesse capitare: un incontro ravvicinato con Kong. Tutto cominciò quando videro gli alberi alla loro detra scuotersi e scricchiolare, poi la terra iniziò a vibrare. Allan stava già per girare i tacchi e correre via veloce come il vento strillando “al tirannosauro” come una donnicciola. Invece, dal bosco, non emerse nessun dinosauro: apparve un imponente gorilla di quindici metri, segnato da numerose cicatrici e dallo sguardo assorto. I tre si congelarono sul posto ad occhi sgranati, quasi facendo cadere gli zaini e l’attrezzatura. Kong camminava lentamente, trascinando dietro di sé un tronco tutto marcio tenendolo per le radici: era così putrefatto che si sfrugugliava ogni secondo di più. Non accorgendosi di loro, che erano a venti metri da lui, il Megapiteco si sedette a zampe posteriori incrociate davanti al lago e appoggiò il tronco di fronte a sé. Con una smorfia che somigliava al sorriso di un affamato che sta per ingozzarsi, infilò le dita nel legno e lo aprì in due, come se fosse un baule. Dentro l’albero morto, in migliaia di buchi e cavità, si agitavano larve e crisalidi di specie assortite di insetti arkiani: larve di scarabeo skua, una colonia di titanomirme, piccole acatine e altro. Kong iniziò ad afferrarne grosse manciate e a gettarsele in bocca, masticando con foga. Gocce di fluidi corporei delle larve colavano dalle sue labbra mentre se le rigirava sulla lingua.

«Oh… mio… Dio!» sussurrò Vicky, così piano che nemmeno lei si sentì.

«Io suggerisco di filarcela lo stesso» subilò Allan.

«No! Assolutamente no! Dobbiamo immortalarlo!» protestò Vicky, non accorgendosi di aver alzato un poco la voce.

«Sei scema? Io non mi metto a fare un video di quel bestione, ci vedrà!» disse Phil.

«Allora facciamogli delle foto!»

«Fagliele tu! Tieni» e Phil le passò la fotocamera che aveva appesa al collo.

Fatto questo, i due corsero all’albero più vicino e vi si nascosero dietro. Vicky rimase confusa e indecisa sul da farsi per un attimo, poi si ricompose e si rigirò la fotocamera tra le mani. La accese e si accertò che Kong fosse ancora impegnato a mangiare. Quindi, volendo a tutti i costi inquadrare bene il suo muso, provò a girare intorno a lui passando inosservata, cioè gattonando come un moccioso sul terreno; raggiunta l’acqua, riuscì a fare una foto mentre il gorilla, guardando in alto, succhiava un’acatina fuori dal guscio tenendolo fra due dita. Allora, eccitata come mai prima di allora, Vicky tornò di corsa dai suoi colleghi, non accorgendosi di star facendo un gran fracasso e che Kong si era voltato di scatto verso di lei, sorpreso. Quando arrivò all’albero, però, Vicky non trovò Phil e Allan: li vide correre di nuovo nella foresta, a perdifiato. Subito, iniziò a seguirli, ritrovandosi in mezzo al verde come poco prima. Li chiamava a gran voce, ma loro non si fermavano. Così, tutto quello che le rimaneva da fare era correre dietro di loro, sperando di non perderli. I due, finalmente, si fermarono quando arrivarono ad un’altra uscita della foresta che dava sul fiume che usciva dal lago: per fortuna, invece di perdersi erano andati avanti per una scorciatoia.

«Ehi, ma che vi prende? Mi stavate abbandonando!»

«Sei tu che hai rovinato tutto!»

«Cosa? Al contrario! Guardate che scatto fantastico…»

Accese il rullino della fotocamera e, mettendosi davanti ai due colleghi, iniziò a descrivere nei minimi dettagli la foto di Kong. Ma, quando sollevò lo sguardo dallo schermo, vide che i due non stavano guardando lei, ma un punto in alto dietro di lei, pallidi e a bocca spalancata. Vicky sentì dei pesanti passi e un respiro profondo dietro di sé.

«Oh… ci ha visti e seguiti, vero?» chiese, rassegnata.

I due annuirono, senza muoversi né spostare lo sguardo. Vicky guardò con terrore sopra di sé e vide il muso a testa in giù dello scimmione, che la fissava con aria interrogativa. Le gambe le tremarono e sentì che le stava venendo un mancamento. Prima di svenire, emise un verso ridicolo che sembrava un misto fra una risatina e il miagolio di un gatto. Kong, sentendo quel rumore, fece un passettino all’indietro dalla sopresa, con una faccia stralunata. Ad Allan scappò da ridere in automatico, ma Phil lo fece smettere con una gomitata e i due tornarono immobili come statue. Kong allora guardò anche loro e si avvicinò. Ora fece una sorta di “sorriso” abbastanza ampio: sembrava parecchio divertito da quei tre umani. Superò Vicky e si fermò a pochi passi da loro, fissandoli dall’alto dei suoi quindici metri. Si abbassò piegando le braccia per guardarli più da vicino: non capiva perché stavano così fermi, la cosa sembrava molto divertente per lui. Sbuffò con le narici e Phil inizò a sudare freddo. Kong si concentrò su Allan e, per vedere se a stuzzicarlo si smuoveva, lo spinse con l’indice. Il fonico, perdendo il fiato e rovesciandosi pancia all’aria, si coprì la faccia e si rannicchiò in posizione fetale, mugugnando. 

«Phil? Sei ancora con me, amico? Sono morto?»

«No… forse!»

A quel punto, Kong scoppiò letteralmente a ridere. La sua era una risata scimmiesca, cioè parecchio grave e gutturale, ma si capiva cos’era dal sorrisone a trentadue denti che si era dipinto sulla sua faccia: faceva paura e ridere nello stesso momento.

HO-HO-HO-HO-HO-HO-HAAA-HAAA-HAAA-HAAA!!! HA-HA… HOHO!!!

Intanto, iniziò a saltellare sul posto e pestare le mani per terra. I due non avrebbero mai pensato che una simile creatura potesse essere così facile da “intrattenere”. Quello che non sapevano, infatti, era che Kong era sì, un bestione letale e combattente, dall’aggressione facile, ma solo se si invadeva il monte Opmilo o lo si provocava. Se decideva che un umano o qualunque altra cosa era interessante o insolito, bastava pochissimo a divertirlo come un cucciolo di scimpanzè. Vicky, in quel momento, si svegliò e si mise seduta. Ma, vedendo Kong che le dava le spalle e dava spettacolo, svenne di nuovo. Kong stava per fare lo scherzo della spinta anche a Phil, ma fu interrotto di colpo da un ruggito che rimbombò dal profondo della foresta. Si bloccò e girò verso il rumore, poi rivolse ai tre uno sguardo dispiaciuto, come per dire “scusate, ci stavamo divertendo, ma devo scappare”, e si buttò a capofitto nella foresta per indagare. Rimasti soli, Phil e Allan si scambiarono un’occhiata confusa, quindi svennero a loro volta.

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CINQUE MINUTI DOPO…

Mike Yagoobian, che finalmente aveva sia Doris che Doris-B nuovamente in funzione, atterrò accanto a loro con Girodue: li aveva finalmente ritrovati con la scansione termica della bombetta, dopo che lei aveva finito l’auto-riparazione.

«Oh, eccoci qui, Doris! I nostri preziosi alleati nella raccolta di prove sono vivi e illesi… meno male! E per fortuna ho notato quel maledetto gorilla prima di scendere a terra, se no sarebbero stati guai. Mi fa ancora pensare al nostro povero girocottero… riposa in rottami, intramontabile compagno di viaggi e di fughe da paesi in cui sono ricercato! Forza, portiamoli in un posto sicuro e rivediamo il piano, dobbiamo vendicarci di Laura Hamilton!»

Ma Doris la pensava diversamente:

«Mike, ho fatto un’analisi della situazione. Lo sospettavo dall’inizio, ma ora ho confermato in via definitiva che non è la decisione migliore interrompere le ricerche sui Pre-Arkiani dei nostri concorrenti»

«Perché? Così arrivano per primi al Teso… oooooh! Ma certo! Doris, sei geniale!»

«Sono semplicemente logica»

«Se lasciamo che risolvano gli enigmi rischiando la vita al posto nostro finché arrivano alla fine, possiamo molto astutamente sgusciare davanti a loro e fregare il Tesoro prima di loro senza che nemmeno se ne accorgano! Muhuhuhaha! Allora sai cosa faremo intanto?»

«Cosa?»

«Ci faremo aiutare da questi tre esimi signori a mettere in piedi il più grandioso e memorabile documentario su dinosauri e indigeni poliglotti della Storia! E sarà reso tutto più magico dalla performance unica del sottoscritto! Sì, vedo già le cifre a nove zeri che guadagneremo al botteghino! Con questo, il Tesoro ci farà ricavare ancora di più e nessuno potrà mai smentirci! – Poi, pensando ad un buon titolo, balzò su una roccia e iniziò a guardare in alto con aria fiera e coi pugni ai fianchi, come Indiana Jones su una locandina – Il mitico viaggio di Mike Yagoobian e DOR-15 sull’isola preistorica… mi piace!»

«Trovo che sia la decisione più saggia e vantaggiosa che abbia preso finora» commentò Doris.

«Lo so, Doris, non è colpa mia se sono nato con la zucca così piena di sale! Muhuhuhaha!»

Poi, guardando i corpi svenuti dei tre, chiese a Girodue se ce la faceva a trasportarli con aria imbarazzata. Lo pteranodonte, capendo le sue intenzioni quando iniziò a trascinare Vicky da lui, si spaventò all’idea dello sforzo e volò via strillando.

«No! Aspetta, Girodue! Non puoi tradirmi così! Aspetta!»

Per sua fortuna, Doris gli ricordò di Doris-B, così lui la indirizzò dal volatile a mezz’aria, lo ipnotizzò e lo fece tornare indietro.

«Forza, non ti pago per sfuggire al lavoro, sciagurato! Aspetta, perché dovrei pagarti? Sei un animale... domande per dopo»

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L’umore di Jack non era cambiato affatto, ore di marcia dopo all’inseguimento della coccatrice. Era furioso con Rockwell per aver messo a rischio la propria vita e la sua solo per dimostrare a Diana che era dispiaciuto coi fatti. Le orecchie gli ribollivano e aveva continuamente la tentazione di saltargli addosso e menare le mani. Il farmacista, per imbarazzo, non disse la verità ad Helena quando si trattò di chiamarla per spiegare un ritardo nel loro ritorno dall’URE. Accennò solo ad un “incidente di percorso” che avrebbe preso qualche tempo. Jack non aveva idea di come avesse resistito all’impulso di strappargli la ricetrasmittente e gridare a squarciagola la verità, solo per il gusto di prendersi una ripicca. E lo fece arrabbiare ancora di più il pochissimo buonsenso che Edmund dimostrò con questo breve scambio di parole:

«Almeno possiamo prenderci qualche animale? Io non voglio buttarmi contro quella cosa senza aiuto!»

«Purtroppo non c’è tempo da perdere, ragazzo: più aspettiamo, più la coccatrice causa danni. Dovremo saper batterla solo col nostro ingegno, come ho già fatto molte volte in passato! Credi che la specie umana sia salita in cima all’ecosistema con la forza fisica? No, ci è riuscita grazie alla sua intelligenza»

“Sai dove ti puoi ficcare l’intelligenza?” aveva pensato Jack, coi pugni tremanti.

Erano spacciati. Non ne sarebbero usciti vivi solo con quei ridicoli bastoncini che Rockwell chiamava “lance”, se il vecchio non si decideva a domare o farsi prestare una creatura da qualche parte. Gli insulti e le maledizioni che gli lanciò a mente furono troppi per contarli. Rockwell parlò molte volte mentre seguivano le tracce, facendo speculazioni sulle possibili abitudini territoriali e predatorie della coccatrice (battezzata anche Raphus timendus come nome scientifico), su quale strategia avrebbero potuto adottare per combatterla a seconda di dove lei si fosse stabilita, se aveva intenzione di stabilirsi da qualche parte, come prevedere le sue mosse eccetera. Erano dettagli utili da tenere a mente, ma ormai Jack non ascoltava più: era troppo arrabbiato, troppo colmo di odio. Quindi fece solo finta di annuire, quando in realtà si limitava a guardare davanti a sé e stare distratto. Ormai era notte, ma per fortuna non sembrava che ci fossero predatori nelle vicinanze. Camminavano serenamente, usando le lance come bastoni da passeggio, come se stessero facendo una scampagnata in montagna. Gli alberi si fecero un po’ più fitti, segno che la prateria stava finendo per cedere il posto alla boscaglia man mano che procedevano verso Sud-Ovest, la direzione presa dalla coccatrice. Arrivarono in riva ad un fiume molto grande, ma tranquillo. Davanti a loro apparve una casetta a due piani, circondata da torce e illuminata anche dentro, con un vialetto di sassi levigati che conduceva all’ingresso. Era in riva al fiume e, sul lato sinistro, si trovava un mulino che girava abbastanza in fretta. Sul lato opposto, illuminata dai fuochi, pendeva un’insegna in legno, che Rockwell seppe tradurre ad alta voce grazie ad Ellebasi che gli aveva insegnato l’arkiano:

IL PANE E LE FOCACCE DI ONINROC

APERTO TUTTO IL GIORNO E TUTTA LA NOTTE, VENDO ANCHE DURANTE LA LIEVITAZIONE!!!

«Oh, un panettiere…» Jack non se l’aspettava, anche se avrebbe dovuto.

«Le tracce si avvicinano alla bottega, ma poi continuano… forse non ha ancora il coraggio di attaccare prede più grosse delle bestiole in fondo alla catena alimentare» rimuginò Rockwell.

«Già, non ancora…» sottolineò Jack, preoccupato e irritato.

«Che ne dici di prendere qualcosa da mangiare e portare via, così riposiamo un po’? Ho dei ciottoli con me e mi sembra di notare che le nostre scorte cominciano ad essere poche per due persone…» suggerì Edmund.

«Perché no?»

I due entrarono, ma Jack aveva semplicemente voglia di isolarsi e tentare di sbollire. Così salutò distrattamente il panettiere Oninroc, che a pensarci bene era anche un tipo piuttosto simpatico e giulivo, nonostante le ore piccole a cui lavorava, e andò ad accostarsi ad una finestra, guardando il paesaggio notturno. Rockwell, invece, intraprese una breve conversazione col fornaio, chiedendogli se aveva notato una strana creatura che pareva un uccello misto ad un velociraptor, ma gli fu detto di no: era passata del tutto inosservata. Jack, stranamente, si sentì osservato. Si voltò verso destra e vide l’uomo più inquietante che avesse mai visto: un tizio all’incirca sulla quarantina, molto alto e grasso, con la pancia che gli avanzava molto fuori dalla maglia in cotone. Aveva barba e capelli alla Karl Marx ed era malandatissimo: gli mancava il braccio sinistro e aveva un pezzo di legno al posto di tutta la gamba destra per aiutarsi a camminare, come il capitano Achab. Una benda di iuta gli copriva l’occhio destro, il che faceva sospettare che gliel’avessero cavato. Lo fissava con sguardo arcigno e, tutt’attorno a lui, una fitta banda di mesopitechi domati guardava Jack con la stessa espressione, quasi fossero in sincronia telepatica col padrone. Jack cercò supporto da Rockwell, ma vide che il medico era troppo impegnato a conversare col panettiere, girato di spalle e con la pala nel forno per girare delle focacce. Lo spaventoso sconosciuto, con la mano, fece segno a Jack di stare zitto e seguirlo giù per le scale, in cantina. Il giovane scosse la testa con risolutezza e occhi strabuzzati: non ci pensava neanche, a seguire un tipo così! A questo punto, il grassone diede un ordine muto ai mesopitechi: due di essi andarono dal panettiere e presero a scimmiottare e fare acrobazie sul posto, attirando la sua attenzione.

«Avete ancora fame? Va bene, vado a vedere se restano delle nocciole…» disse lui, sbuffando e abbassandosi sotto il bancone, mentre Rockwell si sporgeva guardando giù per poter continuare a parlargli.

Ad un certo punto, dopo aver soddisfatto i mesopitechi, Oninroc chiese a Rockwell se gli poteva interessare comprare dei gambi essiccati di grano da usare come pagliuzze per accendere il fuoco da campo, cosa che era un’offerta unica di quel panificio. Rockwell ci rifletté un attimo, dopodiché accettò dicendo che una comodità in più non faceva mai male in un ambiente ostile. Dunque, il panettiere si fece seguire in una stanza nel retrobottega ed entrambi sparirono nella stanza adiacente… e fu allora che, di colpo, tutte le scimmiette si avventarono su Jack. Una lo imbavagliò con uno straccio, mentre le altre gli fecero perdere l’equilibrio. Lo fermarono prima che cadesse sul pavimento, tutte insieme, quindi lo trascinarono a forza nel seminterrato. Il loro padrone chiuse a chiave la porta e scese le scale, dopo che Jack fu gettato per terra.

«Argh! Lasciami stare! Chi sei? Che diamine vuoi da me?» chiese, terrorizzato, raggomitolandosi in un angolo.

Lo sconosciuto gli si avvicinò e, fissandolo col suo sguardo penetrante, parlò con una voce cavernosa:

«Il mio nome è Ottosir Nopuorg. Sono l’addetto alle consegne del panettiere»

«E io sono Jack… perché mi stai rapendo? Io non ho niente!»

«Non ti sto rapendo. Ti ho portato qui per farti una proposta, da uomo a uomo»

«…proposta?» Jack non capiva.

«Ho deciso di chiederti di farmi un piacere per saldare un conto aperto due anni fa»

«E sarebbe?»

«La mia donna e le mie meravigliose bambine sono morte tra le mie braccia e fra atroci sofferenze. Ed è tutta colpa dell’arroganza e dell’incompetenza del vecchio bastardo con cui stai»

«Rockwell?! Sul serio?»

«Sì. È da quando ho saputo del suo ritorno che cerco un modo per dargli una lezione che non dimenticherà mai, ma purtroppo l’ho sempre visto in mezzo alla gente o protetto dagli Uomini dal Cielo… fino ad ora»

«Tu… ci spiavi? Da quanto?» chiese Jack, meravigliato.

«Da quando tu e la tua combriccola avete avuto un incidente all’Etnorehca, il giorno in cui diluviava. Ogni tanto, fra una consegna e l'altra, andavo a tenervi d'occhio in attesa di opportunità»

«Ah…»

«Guarda caso, ora ho avuto l’immensa fortuna di trovare quel maledetto al mio posto di lavoro… con te»

«Non mi hai ancora detto perché vuoi chiedermi un favore»

«Nei tuoi occhi ho visto la mia stessa rabbia per lui. Non negarlo: sono ferratissimo nel capire i sentimenti con gli occhi. Cos’ha fatto a te?»

«Con una sostanza che aveva l’URE abbiamo trasformato un dodo in un mostro per sbaglio, ora vuole che lo uccidiamo a mani nude senza che io possa dire la mia. Mi tocca morire senza poterlo evitare solo perché lui vuole riparare ad un errore! Potrei scappare, ma cosa cambierebbe? Qualcosa mi mangerebbe lo stesso…»

«Allora possiamo capirci! Dunque ha creato il mostro che ho visto avvicinarsi alla bottega, eh? Lo sapevo: da uno come lui non possono venire che disgrazie. E dimmi… non ti sei mai chiesto quanto le cose migliorerebbero senza Rockwell?»

«Nelle ultime ore, sì»

«La vostra creatura ha attraversato il fiume ed è andata alla Sorgente di Artsa, la fonte più pura dell’isola. Per arrivarci, si può seguire il fiume o un giro più largo che passa da alcune pozze di zolfo, pieni di comodi punti da cui fare imboscate… voglio che tu lo conduca lì»

A questo punto, Jack rimase interdetto:

«Vuoi che ti aiuti ad ucciderlo?»

«Ti sto chiedendo di andare alle pozze con Rockwell, lasciare le pozze senza Rockwell e tornare alla tua vita. Nulla di più facile»

Jack scosse subito la testa:

«No, signore, hai sbagliato persona. Io non sono il tipo a cui chiedere queste cose! Sono arrabbiato con lui, ma non a questo punto! Mi spiace per la tua famiglia, ma se lo uccidi non sarai tanto meglio di…»

Si alzò e fece per uscire dalla cantina, ma Ottosir gli afferrò la collottola, lo sbatté al muro e lo tenne premuto contro i blocchi di pietra:

«Allora non te lo chiedo, te lo ordino» disse, dieci volte più minaccioso.

«Non lo farò! Non voglio una morte sulla coscienza!»

«Non c’è nessuno da avere sulla coscienza, lui non merita compassione»

«Non mi interessa!»

Ottosir lo sbatté sul pavimento, lo sollevò ancora con l’incredibile forza del suo unico braccio e fece un cenno ai mesopitechi. Loro andarono in un angolo pieno di sacchi di farina, li spostarono e rivelarono un grosso catino di legno pieno d’acqua. Lo trascinarono al centro del seminterrato e Ottosir portò la faccia di Jack sopra i bordi: nell’acqua si agitava una grossa anguilla mista ad una murena, un elettroforo. Da tutto il corpo uscivano delle scariche elettriche dal bagliore quasi accecante e così forti da far ribollire il liquido.

«Appena ti mollerò, farai più luce tu di una stella cadente e friggerai come olio. Se oserai ancora paragonarmi a Rockwell, lo sperimenterai adesso – ringhiò Ottosir – Ti sconsiglio di mettermi alla prova»

«Scusa! Perdonami! Mettimi giù!»

Ottosir lo tirò ancora su e lo girò per costringerlo a fissarlo:

«Se non farai come ti ho detto, ti rintraccerò dovunque e ti butterò in una vasca piena di elettrofori, rimpiangerai questo catino elettrificato»

«Lo farò! Giuro!»

Fu mollato per terra e corse di nuovo alla parete.

«Ma perché Rockwell deve andare proprio lì? Non puoi ucciderlo e basta?» chiese, perplesso.

«Silenzio e fa’ come ti è stato detto! Lo voglio alle pozze perché ho programmato tutto nei minimi dettagli, questo è quanto. Fila!»

Jack, terrorizzato, corse su per le scale, rigirò la chiave nella toppa e uscì in fretta e furia. Rockwell stava ad aspettarlo sulla soglia:

«Eccoti, finalmente! Dov’eri?»

Jack pensò in fretta ad una giustificazione:

«Volevo vedere quanti sacchi di farina ci sono qui. Già, è strano che ci abbia pensato, ma ci ho pensato»

Il panettiere rise, soddisfatto:

«Sono ben ottantacinque! Niente male, vero? Non sono tanto i lavoratori attivi come me, qui! Grazie per esserti interessato alla mia attività, straniero»

Per fortuna, Oninroc era stupido come una capra. Dunque i due salutarono e ripartirono. Jack ebbe degli istanti di esitazione. Ma, quando si voltò e vide Ottosir che lo fissava dalla finestra, non indugiò oltre: disse a Rockwell che l’addetto alle consegne del panettiere gli aveva anticipato dov’era diretta la coccatrice. Raccontò di questa “Fonte di Artsa” e delle pozze di zolfo da cui si doveva passare per arrivarci. Rockwell disse di sapere di quella fonte, ma che c’era una strada più rapida per raggiungerla. Spaesato, Jack pensò un attimo e, preso dal panico, ebbe il forte impulso di rivelargli tutta la verità sul ricatto che gli era appena stato fatto. Ma al pensiero della voce terrificante di Ottosir e dell’elettroforo, l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e si inventò un’altra scusa: disse che Ottosir gli aveva spiegato che negli ultimi mesi la scorciatoia si era riempita di predatori ferocissimi e che era una follia percorrerla. Rockwell sembrò poco convinto per un attimo e Jack ebbe paura che non ci cascase… ma alla fine si convinse e decise di andare alle pozze sulfuree per non correre rischi. Il ragazzo fece un sospiro di sollievo nascosto e continuarono il viaggio.

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Ora Jack non sapeva più cosa provare, il suo animo era un tripudio di emozioni contrastanti: paura della nuova “minaccia” che si era appena unita a quella della coccatrice, vergogna per aver ceduto alla paura ed essere stato al gioco di quel deforme, sempre la rabbia per la sconsideratezza di Rockwell che, però, andava man mano sgretolandosi lasciando il posto ai nuovi sentimenti… non era mai stato peggio. E, addirittura, la cosa peggiorò quando Rockwell lo guardò e fece quello che prima sperava si ricordasse di fare: gli chiese scusa.

«Giovanotto, io so che in questo momento sei arrabbiato con me»

«Lo sa?» fece Jack, giusto per dire qualcosa.

«Sì, è naturale che lo sia. Comprendo che avresti voluto contestare la mia decisione alla base di quei soldati, e mi scuso sinceramente per non avertelo concesso»

«Oh…»

«Quindi ora ti faccio una promessa: mi accerterò con assoluta precisione che ideerò la soluzione perfetta per risolvere il problema della coccatrice senza che a nessuno di noi due sia torto un capello! Sarebbe ingiusto che un ragazzo dalla mente brillante come te perda ogni occasione di farsi una vita degna del suo potenziale per un atto di “eroismo” improvvisato da questo vecchio pazzo»

«Uh... certo, grazie! Mi fido?»

«Ovvio che ti devi fidare! Anzi, se non riesco a mantenere la parola e ti succede qualcosa di grave, farò tutto quello che mi chiederai per scusarmi»

A questo punto, vedendo che Rockwell in realtà capiva perfettamente il suo stato d’animo, Jack sprofondò in un mare di vergogna assoluta. Come aveva potuto vendere la sua lealtà con un semplice “sì” perché se l’era fatta addosso con qualche minaccia, quando Edmund ora prometteva di proteggerlo come meglio poteva e di sdebitarsi se le cose fossero andate male? Ebbe la forte tentazione di confessare, ma la paura ebbe ancora il sopravvento. Era bloccato, pietrificato all’idea di cosa avebbe potuto succedergli se fosse fuggito dal ricatto di Ottosir… che fare?

   
 
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