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Autore: _Frame_    01/09/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Ma buon quinto compleanno, ciurmaglia. Siete ancora qui? Io sono ancora viva? Incredibile. *soffia sulle candeline e distribuisce a tutti fette di torta con la glassa e le meringhette, mentre Pity Party di Melanie Martinez suona in loop in sottofondo perché tutto ciò è molto deprimente*

Nel frattempo, il compleanno del Miele e l’arrivo di settembre significano che l’estate sta finalmente giungendo al termine (quest’anno per me è stata tragica, signori, davvero tragica). Ma i primi timidi passi dell’autunno cominciano ad avere effetti positivi sulla mia psiche, il mio nervosismo stagionale si sta acquietando, il mio umore si sta rinvigorendo e con lui anche la mia capacità produttiva. Dalla finestra davanti alla mia scrivania riesco già a scorgere gli alberi del vicinato che ogni giorno diventano sempre più appassiti, le foglie sempre più mogie e gialle che si staccano un po’ per volta rivestendo il giardino su cui l’erba fa sempre più fatica a crescere rigogliosa come in estate. Dai campi dietro casa arriva l’odore pungente del fertilizzante fresco, quello fruttato delle vigne cariche di uva matura, quello della terra arata e pronta per la nuova semina, quello del gas di scarico dei vecchi trattori che di mattina presto attraversano la via sporcando l’asfalto di fango, e quello piovoso del vento che scende dai monti. E tutto ciò mi rincuora, donandomi una buona dose di energia per proseguire questo viaggio con maggior serenità.

Speriamo che le forze mi accompagnino anche per i prossimi mesi, almeno fino alla fine dell’anno. Sento di avere ancora tanto da dare per questa storia, di avere ancora tanto da esplorare in questo fandom da cui proprio non riesco a staccarmi, e l’unica cosa in cui spero è che le varie circostanze esterne mi permettano di continuare a scrivere fino a che lo desidererò.

Avevo programmato di terminare l’arco narrativo del Barbarossa proprio oggi, in occasione del quinto anniversario, ma l’ultimo capitolo ha richiesto un po’ più spazio del previsto quindi mi è toccato spezzarlo in due posticipando così la sua conclusione alla prossima volta. “Mi è toccato spezzarlo in due” è diventato un mio tormentone ricorrente, ahimè. Che bello sapersi porre dei limiti. *si ingozza di torta con la glassa, senza nemmeno aver sfilato le candeline, e inzuppa le meringhette di lacrime per dimenticarsi dei suoi problemi*

Come al solito non mi dilungo troppo, ma ci tengo comunque a rinnovare i miei ringraziamenti nei confronti di tutti quelli che sono ancora qui dopo cinque anni, tutti quelli che si sono aggiunti per strada, tutti quelli che magari ogni tanto tornano per dare anche solo una sbirciata, e tutti quelli che mi sostengono anche nei più bui momenti di crisi.

I love you, ciurmaglia. ♥ Forever!

 


204. Un destino inevitabile e La nazione più triste

 

 

La felicità di tutta l’umanità. Il nostro obiettivo è la felicità di tutta l’umanità.”

“Io sono felice. Sono felice ogni giorno.”

 

[Chernobyl (HBO), Quarto Episodio]

 

 

 

 

L’improvvisa ondata di vento e neve, risorta da un nuovo ruggito del Generale, raschiò il suolo innevato, rotolò fra le strade del villaggio, s’innalzò gonfiandosi fin sopra i tetti delle isbe e i pochi pali della luce, e cadde rovesciandosi sulle cinque nazioni che stavano abbandonando Khimki e la possibilità di raggiungere le porte di Mosca. La morsa di gelo si abbatté contro le loro schiene ingobbite dallo sforzo di rimanere in piedi nonostante le ferite, bruciò sulle loro nuche scoperte, e ruzzolò fra le loro gambe incerte e traballanti che furono costrette a fermarsi, sommerse dalla neve fin sopra le caviglie.

Romano tenne stretto il fianco di Spagna che giaceva su di lui con un braccio avvolto attorno al suo collo, si girò usando la mano libera per ripararsi dalla furia del vento, e dovette stringere gli occhi per resistere alla bufera bianca, agli sfregi di ghiaccio che resero le sue palpebre rosse e lacrimanti. “Che diavolo succede?” Non riuscì a vedere nulla. Solo una distesa di nebbia attraversata da ricurvi lampi azzurrini che stridevano come unghiate sul vetro.

Anche Prussia dovette sfilare un braccio dal fianco di Germania per ripararsi dal turbine di gelo. “È di nuovo quel maledetto freddo,” gridò per farsi sentire sopra gli ululati della tempesta. “Russia sta di nuovo dando di matto.” Arretrò contro lo spigolo di una delle isbe, tirandosi dietro anche il peso di Germania, e afferrò una manica di Romano per trascinare al sicuro anche lui. Lui e Romano si guardarono attraverso la foschia che si stava cristallizzando negli occhi di entrambi. “Dobbiamo andarcene prima che ci rinchiuda di nuovo nella bufera, impedendoci di lasciare il villaggio.”

Germania, nonostante la ferita che continuava a sanguinare attraverso la sua mano premuta sotto le costole, compì uno scatto e levò lo sguardo al cielo tempestoso. Corrugò la fronte sempre più pallida, madida di sudore e neve sciolta. Realizzò che... “No. No, non sta rinchiudendo noi. Questa volta...”

Le spire di ghiaccio che sfrecciavano loro attorno si distribuivano in maniera differente rispetto a quelle che li avevano aggrediti, feriti e respinti durante il primo attacco. Le lame d’aria ora curvavano sfiorandoli di striscio, gettando su di loro mucchi di neve che isolarono la forma di un ovale, una bolla elettrica di maltempo dove il vortice era bianco e lampeggiante, tutto condensato attorno alla figura china di Russia, ormai invisibile all’interno del turbine.

Germania si dimenticò del dolore che gocciolava fra le sue dita insanguinate, si dimenticò delle braccia di Prussia che lo sorreggevano, del calore di Italia di nuovo al suo fianco. Il suo cuore volto solo a quel senso di dubbio e incertezza. “Sta rinchiudendo se stesso.” Uno strano disagio gli passò attraverso, facendolo rabbrividire. “Sta usando il freddo per isolarsi e per non essere raggiunto da nulla.”

“Cos...” Romano tenne il braccio sollevato e piegato contro le spire di neve ma sgranò gli occhi, incredulo. “Ma perché dovrebbe farlo?” Sostenne ancora il peso di Spagna che gli stava scivolando dal fianco, sistemò il suo braccio cadente attorno al collo, e strusciò di un passo più vicino a Germania. “Ha riavuto indietro sua sorella, ci ha impedito di mettere piede a Mosca, e adesso siamo comunque costretti a ritirarci dal villaggio e ad arretrare sotto la sua controffensiva. Per che cosa dovrebbe essere sconvolto?” esclamò. “Che motivo avrebbe di disperarsi?”

“Be’,” borbottò Prussia, “non so voi...” Compì un altro passo indietro, reggendosi con la spalla alla parete dell’isba, e volse lo sguardo all’indietro, dove avevano lasciato il resto del battaglione prima di addentrarsi da soli per le strade di Khimki. “Ma io non ho proprio nessuna intenzione di starmene qui ad aspettare di scoprirlo. Ribadisco quello che ho già detto: recuperiamo il battaglione e andiamocene alla svelta prima di morire assiderati.” Accostò la mano libera al viso insanguinato, alla guancia ferita che si stava gonfiando, sempre più dolorante e sempre più bollente, strizzò il braccio attorno a Germania, e fece strada.

Romano annuì. “Per una volta sono d’accordo.” Anche lui si tenne avvinghiato a Spagna, al suo peso molle che riusciva a rimbalzare solo di qualche passo prima di sentirsi di nuovo accasciare, e seguì le orme di Prussia.

Italia trascinò un passo nella neve, affondando con tutto il piede, e si fermò. Sfilò il braccio da dietro la schiena di Germania e, combattendo contro il vento che gli scuoteva i capelli e i lembi della giacca, si voltò verso la bufera che si stavano lasciando alle spalle, verso la tempesta in cui Russia si era imprigionato.

Ucraina era di nuovo a terra con mani e ginocchia, intrappolata nel suo guscio di disperazione e impotenza, respinta come un nemico qualunque dalla barriera di ghiaccio che si era innalzata attorno a suo fratello. Le spire di luce cristallina a sfrecciarle attorno senza ferirla, il vento a scuoterle gli abiti e i capelli davanti agli occhi, le braccia tremanti che non riuscivano più a sostenere il peso delle sue spalle stanche, e la neve sempre più alta attorno alle sue gambe piegate.

Qualcosa si mosse dentro Italia. Un formicolio rapido ma doloroso proprio come quelle sferzate di gelo, una scheggia di compassione e di sensi di colpa infilata nel cuore, nella ferita lasciata aperta dal ghiaccio che si era sciolto grazie all’abbraccio di Germania e alla separazione da Russia. Russia... Gli occhi gli si inumidirono. Perché sei ancora triste? È forse...

Un fischio di vento gli sbatté addosso una sfilata di ricordi. L’arrivo a Mosca, la città che si stava rivestendo nel suo cappotto difensivo, la prima volta che si era avvicinato a Russia, quelle parole che si erano scambiati in mezzo al trambusto delle strade affollate da militari e da civili, quegli occhi tristi e solitari come uno sconfinato cielo siberiano che Italia non era riuscito a raggiungere e risollevare. “Ma per una nazione non dovrebbe funzionare in questa maniera.” Russia aveva pronunciato quelle parole con un sorriso malinconico e rassegnato. Il sorriso di chi aveva fallito. “Una nazione dovrebbe pensare solo alla propria vita, solo alla propria sopravvivenza. Se si dovesse legare troppo a un’altra nazione, rischierebbe di affondare assieme a lei. L’amore, l’amicizia, l’altruismo e la solidarietà sono concetti che per quelli come noi non hanno valore.”

È forse per tutto quello che mi hai detto quella volta? Italia strinse le mani infreddolite che stavano ricominciando a incrostarsi di ghiaccio, e fra le dita incontrò la rassicurante e pungente consistenza della croce di ferro che non si era ancora messo al collo. È perché adesso, anche se hai vinto, non riesci a trovare nessuna ragione per poter essere felice? È questo che ti fa disperare?

“Veneziano!” Romano accostò la mano alla bocca per tornare a chiamarlo. “Veneziano, si può sapere cosa diavolo aspetti? Sbrigati, dobbiamo andarcene da qui!”

Stringendo la croce contro il palmo, Italia si sentì pervadere da una nuova determinazione. Nonostante il freddo a rattrappirgli le dita e a bloccargli il respiro, nonostante la stanchezza a pesargli sulle ossa e sui muscoli, e nonostante la paura che ancora gli annebbiava il cuore e la mente, Italia sentiva di non poter ancora abbandonare la sua battaglia, sentiva di avere ancora qualcosa da dare. Lo salverò.

Le parole che Russia gli aveva rivolto tornarono a carezzarlo come il ricordo della sua mano sulla guancia. “Se tu stessi qua con me per sempre, io non permetterei mai che ti accadesse qualcosa di male. Io ti proteggerei, al contrario di Germania, e saprei dare valore alla tua vera natura, alla ragione per la quale tu esisti e che lui ha sempre dato per scontato.”

“E quale sarebbe?”

“Lenire il dolore degli altri.”

E allora lo farò. Nonostante l’inganno, nonostante il tentativo di strapparlo al suo paese e di separarlo da Germania, Italia non provò alcun rimorso nei suoi confronti. Anche se sei un mio nemico, anche se mi hai ingannato, anche se hai fatto del male a Germania e anche se hai cercato di tenermi lontano da lui, ti salverò un’ultima volta. Sradicò un primo passo dalla neve, si spinse controvento resistendo alla pressione dell’aria contro il petto e le spalle, arrancò sollevando le ginocchia fino al petto per poter avanzare, e ripercorse le sue stesse impronte. Ti dimostrerò che esistono ancora delle ragioni per continuare a combattere e per continuare a vivere in questo mondo.

Romano fu il primo a sbiancare davanti a quel gesto, a spalancare un muto gemito d’orrore e incomprensione. “Veneziano.” Un bruciore di paura lo rianimò, lo fece sporgere nonostante il corpo di Spagna a pesargli contro, lo fece gridare come quel vento disperato. “Veneziano, che cazzo stai facendo? Torna indietro e andiamocene, o qua crepiamo tutti congelati!”

Anche nello sguardo di Spagna, inebetito dal gelo che lo aveva attraversato come una mano fantasma, si riaccese un bagliore di vita, di volontà e di paura. Spagna schiuse le labbra bluastre, soffiò un alito di condensa bianca. “Fermalo, Germania.” Si appese a lui, lo scosse. I suoi occhi assunsero un luccichio implorante. “Fallo tornare indietro, ti prego.”

Gli occhi di Germania si soffermarono sulla figura di Italia sempre più distante, sempre più piccola ed evanescente in mezzo a quella tempesta che stava per dividerli una seconda volta. Il cuore gli si strinse, aggredito da un nuovo conflitto. Italia... Da una parte, il bisogno di gettarsi a raccogliergli la mano e di strapparlo alle nevi di Russia; e dall’altra, il desiderio di fidarsi di lui.

Le prime graffiate di gelo aggredirono Italia, respinsero la sua marcia sputandogli addosso pugni d’aria e frustate di neve che si addensarono fra le sue gambe, rallentandolo. Le spire di ghiaccio gli tagliarono le guance, s’infoiarono sotto i lembi della giacca, aprirono laceri sanguinanti anche sotto gli abiti, e lo stritolarono all’altezza delle ginocchia, indurendogli i muscoli dei polpacci e paralizzandogli i piedi in mezzo alla neve.

Italia strinse i denti, contenne un ansito di fatica, divorato dal dolore saettato lungo le gambe, e spremette le dita sulla croce di ferro, nutrendosi della sua forza. Coraggio. Compì un altro passo, affondò di nuovo la gamba nella neve, mentre la sensazione calda e scivolosa del sangue cominciò a correre lungo il torso e le braccia. La mano ben salda attorno alla sua croce gli impedì di crollare, ordinò al cuore di continuare a battere e a lottare. Coraggio, devo farcela. Devo farcela.

Raggiunse Ucraina con un altro paio di faticose falcate. Lei era ancora a terra, in ginocchio, a schiena gobba tanto che le spalle quasi toccavano il suolo, bloccata dal ghiaccio e dal dolore di non poter nulla contro quella tempesta che l’aveva di nuovo separata da Russia.

Italia le si inginocchiò affianco. Le toccò una spalla. “Ucraina.”

Ucraina risollevò il viso arrossato dal freddo, rigato dalle lacrime che si stavano congelando fra le ciglia e lungo le guance. Lo guardò con occhi disperati. “Non sono riuscita a salvarlo.” Si aggrappò al braccio di Italia. Il capo chino e l’aria prostrata. “Non ce l’ho fatta,” singhiozzò. “Non ce l’ho fatta. E... e Russia è...”

“Va tutto bene.” Italia le sorrise dolcemente. Le strofinò una carezza d’incoraggiamento sulla scapola. “Tornerai a casa assieme a lui, te lo prometto.” Si rialzò da terra, barcollò sotto un ennesimo schiaffo di vento e neve che voleva respingerlo, ma resistette. Calpestò un passo in avanti, attraversò la barriera di spire di ghiaccio, ferendosi come se si fosse infilato in un turbine di rasoi, ma non emise alcun lamento. Il bruciore delle ferite attraversò il torso, le braccia e le gambe. Le chiazze di sangue si allargarono attraverso gli abiti, le prime gocce scarlatte piovvero dalle maniche e picchiettarono a terra, affianco alle sue impronte. Italia cadenzò il respiro, si isolò dal dolore, si concentrò solo sulla neve che doveva attraversare. Va tutto bene, ripeté anche a se stesso. Non ho più paura del freddo. Ormai non può più farmi niente di male rispetto al ghiaccio che è stato dentro di me per tutto questo tempo. Distese le braccia, aprì le mani su cui i rivoli di sangue stavano ramificando e addensandosi, e lo vide, seppe a cosa aggrapparsi. “Russia...”

Ricadde in ginocchio. “Eccomi, Russia.” Lo strinse fra le braccia come Germania aveva fatto prima con lui per riportarlo indietro. “Sono venuto a prenderti.” E lo raggiunse in quel luogo dove si era nascosto.

 

.

 

Circondato da uno spazio bianco e infinito, dove il dolore e la tristezza non avrebbero potuto raggiungerlo e fargli del male infrangendo il suo fragile cuore di ghiaccio, Russia avvolse le braccia attorno alle gambe piegate e accostò le ginocchia al petto, poggiandosi sopra con il mento. Batté le palpebre una volta sola. Bianco. Non vi era nient’altro. Solo lui, il vuoto, e il vortice di pensieri che lo aveva risucchiato in quel luogo nel quale avrebbe voluto rinchiudersi per l’eternità, immobile e perfetto come un pezzo di ghiaccio custodito nella nicchia di una grotta.  

Russia sospirò. “Una nazione non dovrebbe mai lasciarsi coinvolgere dai sentimenti umani.” Lo disse con voce piatta. Gli occhi spenti e lo sguardo inespressivo di chi si è staccato dal mondo. “Credevo di averlo capito. Credevo di aver imparato dai miei errori, e credevo anche che non ne avrei mai più commessi altri.” Strinse le dita sulle gambe rannicchiate e raccolse un lungo sospiro, senza però provare alcuna vibrazione fra le corde del cuore. “Ma non è successo. Non è successo quando a giugno ho ritardato la controffensiva dell’invasione perché ero troppo sconvolto per reagire. Non è successo quando ho deciso di assecondare i piani di Germania andando a difendere Kiev per salvare Ucraina invece che rafforzare la difesa su Mosca. Non è successo durante la sacca di Uman, quando ho deciso di risparmiare la vita a Romania solo perché mi faceva pena.” Sollevò il viso e trovò due dolci e sensibili occhi color nocciola a vegliare su di lui. Nemmeno la carezza di quello sguardo riuscì a smuoverlo dal gelo. “E non è successo quando forse avrei dovuto ucciderti invece che tenerti prigioniero,” disse, questa volta rivolto a colui che gli stava di fronte, “in modo da privare Germania di ogni speranza, in modo da strappargli ogni desiderio di continuare a combattere.” Russia scosse il capo. Il gesto disperato di chi ha perso tutto, ogni energia, ogni obiettivo, ogni desiderio. “E invece non l’ho fatto.”

Italia si mise a gambe incrociate, anche lui seduto in mezzo al bianco, e si diede una piccola spinta con le mani per rimbalzargli più vicino. Il viso candido e immacolato come l’ambiente che li circondava. “Ma questa è una cosa positiva, non credi? Provare dei sentimenti non fa di te una nazione meno forte. Ti rende solo...” Fece spallucce. “Più umano.” Quanta ingenuità nella sua voce. Quanto desiderio di crederci. “Noi nazioni siamo fatte di tante e tante anime umane che convivono assieme. È normale che anche noi finiamo influenzati dalle loro stesse emozioni.”

Russia allontanò lo sguardo. Corrugò le estremità delle sopracciglia e si fece schivo. “Provare delle emozioni non serve a niente per quelli come noi. Porta solo all’infelicità. A una sofferenza inutile.”

Gli occhi di Italia tornarono ad avvilirsi. “È per questo allora che adesso vuoi rimanere nel ghiaccio, dove non c’è niente che ti possa turbare? Dove non c’è niente che ti possa fare male?”

Russia annuì. “L’esistenza stessa è sofferenza.” Ancora non lo guardava negli occhi. “Se invece tutto fosse freddo e immobile come il ghiaccio, allora nulla avrebbe bisogno di cambiare, non ci sarebbero le guerre, nessuno proverebbe odio o alcun desiderio di conquista, e nulla potrebbe farci alcun male. Tutto sarebbe perfetto e congelato.”

Italia rise. “Ma se fosse così,” rincalzò, “allora non si chiamerebbe più vita, non trovi?”

“Forse.” Russia tornò ad accucciarsi con il mento sulle ginocchia e la bocca affondata nella sciarpa, dove il suo profumo continuava a esistere nonostante lo spazio bianco. “Ma forse sarebbe anche un bene. Sarebbe bello per chi si è stufato di vivere e allo stesso tempo non può morire.”

Il sorriso di Italia svanì. “Non dici sul serio.” Lo sostituì una sgomenta espressione di stupore. “Tu hai tante ragioni per continuare a vivere. È solo che ora sei troppo arrabbiato per rendertene conto.”

“Eppure la nostra vita è così diversa rispetto a quella degli esseri umani.” Russia fece correre le dita fra le pieghe della sciarpa, giochicchiò con un lembo, riprese a guardare nel vuoto, a parlare con Italia e con nessuno. “Loro hanno dei limiti, noi no. E questo ci spaventa, così cerchiamo di compensare questa paura con qualcos’altro.” Chiuse gli occhi e annuì. “Hai ragione, Italia.” Lo ammise senza sentirsi sconfitto. Solo rassegnandosi a un destino e a una volontà più grandi di lui. “Io sono sempre stato una nazione profondamente infelice, perché ho sempre cercato la mia felicità nelle cose sbagliate, nei legami con le altre nazioni, arrivando persino a possederle per paura di ritrovarmi senza di loro, per paura di non avere niente per riempire quel senso di vuoto che mi tormenta ogni giorno fin da quando sono nato.”

“Per questo li tiranneggi?” Nonostante tutto, lo sguardo di Italia si fece più comprensivo. “Per paura che ti abbandoni?”

Russia annuì di nuovo. “A volte è meno doloroso vivere in una dolce bugia che in un’amara verità.” Sollevò un sorriso malinconico e perso nella sua disperazione. “La mia tirannide è questo: una bugia con cui inganno loro, ma soprattutto me stesso.” Le mani si strinsero alle gambe, tremarono. “Eppure...” Quel brivido di dolore risalì la schiena ricurva, penetrò nel petto. “Eppure io li amo davvero.” La voce rotta da quello spasmo, soffocata da quel nodo che non riusciva a ingoiare. “Anche se so che il mio è un desiderio impossibile da realizzare, anche se so che con noi nazioni non funziona così. È per questo che io sono condannato all’infelicità eterna, come tutti quelli come noi.”

“No.” Italia gli scivolò ancora più vicino, ma sempre senza sfiorarlo. Scosse il capo con rassicurante convinzione. “No, non è vero che noi nazioni siamo condannate all’infelicità, tantomeno alla solitudine. Nulla ci impedisce di... di fare amicizia, o di innamorarci. Anche questo fa parte della nostra natura.”

“Ma la nostra sopravvivenza dipenderà sempre e solo dalle guerre,” rispose Russia, “dalla lotta per difenderci e per continuare a sopravvivere e a prevalere sugli altri.”

“Sì.” Ogni traccia di ingenuità scomparve dal viso di Italia, dal suo sguardo che si fece di colpo più anziano, più vissuto. “Sì, lo so,” mormorò Italia con voce più flebile. “Ma non per questo dobbiamo sempre soffrirne. Io credo sia per questo motivo che, anche se siamo nazioni, possiamo comunque provare dei sentimenti come gli esseri umani.” Si posò la mano sul petto. Ascoltò quella voce a cui si aggrappava ogni volta in cui smarriva la strada. “Proprio per avere qualcosa a cui stringerci quando il dolore è troppo forte da sopportare.” Si mise sulle ginocchia, raccolse le mani di Russia, così grandi rispetto alle sue, così fredde, e gli sorrise senza alcun turbamento. “Nessuno di noi è condannato all’infelicità, te lo prometto.” Gli trasmise un calore fresco e profumato. Un calore che sapeva di rinascita, come in primavera, come quando le margherite bucano la neve fiorendo sotto i raggi del sole. “Ma spetta solo a noi decidere di essere felici.”

Il candore si dissolse, il legame fra le loro mani ruppe il gelo, li catapultò fuori, in quella realtà che ora non faceva più così paura. Non avrebbero mai più dovuto affrontarla da soli.

 

.

 

La voce del vento si ritirò, cessando l’ululato del suo lamento disperato, e risucchiò le spire di ghiaccio, dissolvendo lo strato di nevischio cristallino risalito fino a toccare le nuvole. La nebbia si abbassò, fece tornare l’aria immobile e sospesa come quella di un sogno, come quella di una boccia di cristallo.

Senza le spinte di vento a sostenerlo, Italia si ritrovò svuotato di ogni energia, privo di qualsiasi forza. Le gambe affondate nella neve tremarono, il petto si fece pesante, il respiro bianco ansimò fra le labbra screpolate, le ciglia ghiacciate unirono un battito lento, e un giramento di testa fece trottolare l’ambiente attorno a lui, fondendo cielo e suolo in una spirale grigia che gli diede l’impressione di essere ancora immerso in quel sogno da cui si era appena staccato portando Russia con sé.

Si lasciò andare. Scivolò sul fianco parando la caduta con le braccia, si rannicchiò come quando d’inverno s’infilava sotto le coperte, e rabbrividì in mezzo a quel silenzio e a quel bianco surreale che ancora lo circondavano. Il ghiaccio a rivestirlo, il sapore della neve e del sangue fra le guance, i cristalli condensati fra le palpebre socchiuse, ma una placida sensazione di pace ad avvolgerlo, a colmare il vuoto del suo cuore intorpidito ma di nuovo libero. Di nuovo felice.

Italia fece scivolare la guancia su un braccio e sollevò il capo, spostò lo sguardo attorno a sé.

Russia era sparito. Nemmeno Ucraina era più lì con lui. Della nebbia diradata era rimasto un sottile strato che galleggiava rasoterra, simile a fumo, e che copriva l’imbocco delle stradine e i piedi delle isbe, donando al villaggio un aspetto sospeso, quello di una città fantasma. Non un alito di vento a respirare fra le sue mura, non un palpito di vita a scorrere fra le sue vie. Della battaglia che si era appena consumata rimaneva solo una larga chiazza di sangue sciolta nella neve, attorniata da impronte rosse che si facevano più chiare e meno profonde man mano che si allontanavano attraverso le stradine che serpeggiavano in mezzo alla foschia.

Italia trasse un respiro tremante che si spezzò contro il braccio su cui teneva premuta la guancia. Non ci sono più. Levò gli occhi al cielo senza spostare il capo. Anche il cielo si era acquietato. Quegli occhi tempestosi che avevano vegliato su di loro durante tutto il corso della battaglia si erano chiusi, nascosti dietro la sottile distesa di nuvole che ora rivestiva il cielo come un soffice cappotto. Italia trasse un respiro più lungo e profondo, risollevò gli angoli delle sue labbra in un sorriso stanco. Niente più Russia, niente più ghiaccio, niente più freddo. Si sentì libero. È tutto finito?

Una sensazione tiepida e umida scivolò lungo il suo corpo accasciato, trasudò attraverso gli abiti, sciolse il ghiaccio che gli era rimasto addosso dopo la traversata della bufera, e colò sulla neve, allargando una chiazza scura da cui evaporò uno stomachevole odore di ferro.

Una scossa d’allarme ridestò i sensi intorpiditi di Italia, lo rimise a sedere con un rimbalzo nonostante la spossatezza dei muscoli e il respiro affaticato. Italia allargò le braccia, si tastò i fianchi umidi, si sporcò le mani di sangue, e allungò una gamba aprendo un solco nella neve scura e molliccia. Una botta di paura affondò dritta nello stomaco. Oh, no. Le chiazze di sangue si allargarono attraverso gli abiti, gocce sempre più larghe picchiettarono sulla neve fumante. Italia si ricordò della traversata delle raffiche di gelo per raggiungere Russia, le sfregiate del ghiaccio che erano penetrate fin sotto gli abiti, silenziosi e taglienti come rasoi. Sono... sono ferito. Si strinse un braccio, dove fece più male. Strizzò la sensazione del sangue tiepido e denso che continuò a gocciolare fra le dita. Ma quanto...

Dall’altra mano chiusa cadde un filo d’argento che emise uno squillo cristallino. Italia contrasse il pugno. Incontrò la resistenza della croce di ferro a cui si era appeso prima di buttarsi in ginocchio davanti a Russia. Schiuse le dita bagnate di sangue e la vide. La croce giaceva sul suo palmo, lucida e laccata di rosso, ma di nuovo con lui. Quella visione gli colmò il petto con una struggente sensazione di gioia e sollievo che gli fece dimenticare qualsiasi ferita. No, va tutto bene. Accostò la croce alla guancia, abbassò le palpebre e risollevò quel sorriso carico di serenità che da troppo tempo non brillava attraverso il suo animo intrappolato nel ghiaccio. Adesso va davvero tutto bene.

“Italia.”

Italia si voltò, andando incontro alla voce che lo aveva chiamato dalla nebbia.

Una figura sfocata si materializzò attraverso il nevischio. Camminò lentamente, con una mano posata sopra il costato, zoppicando ogni volta in cui poggiava il piede sinistro, ma tenne le spalle dritte. Dal suo sguardo alto trasparì la luce di un paio di occhi azzurri. Occhi che Italia aveva aspettato così a lungo e che ora gli venivano incontro.

Italia gli sorrise. Fu la cosa più naturale. Fu come sorridere al sole che sorge. “Sei tu.” Lo disse senza realmente sapere a chi si stesse rivolgendo. I ricordi mescolati, le immagini sovrapposte, l’azzurro di quegli occhi che gli trasmisero la stessa sensazione d’affetto che tanto aveva inseguito nel suo passato turbolento. “Sei tornato.” Con l’ultima spinta di energia che gli rimaneva in corpo, Italia spremette la croce di ferro fra le dita, piegò un ginocchio per alzarsi, e si diede un piccolo slancio. Una botta di vertigini gli offuscò la vista di nero, gli rese la testa pesante, gli arti deboli, e lo ritrascinò a terra, verso il suolo annaffiato del suo stesso sangue.

Germania cadde in ginocchio e distese le braccia, riuscì a raccoglierlo al volo, a stringerselo al petto prima che battesse la testa. In quell’abbraccio, il sangue di entrambi si mescolò. Il dolore indistinguibile. “Italia.” Germania gli posò il dorso di una mano sulla guancia, sulla sua espressione tanto serena da apparire addormentata nonostante il viso pallidissimo. È svenuto. Ma era vivo. Gli scostò i capelli passandogli una carezza sulla fronte, lo avvolse fra le braccia, raccogliendogli le gambe e le spalle, e si rialzò senza sforzo nonostante anche le sue ferite continuassero a perdere sangue e a pulsare di dolore.

In mezzo al campo di battaglia sul quale era stato sconfitto, Germania strinse l’abbraccio attorno al corpo ferito di Italia, a tutto ciò che in quel momento contava. Era per Italia che si era spinto fino alle porte di Mosca, ed era con Italia che se ne sarebbe andando dando le spalle alla capitale sovietica e alla vittoria.

Germania s’incamminò, sempre un po’ arrancando sulla gamba sinistra, ma con le braccia salde attorno a Italia e lo sguardo posato sul suo volto che gli dormiva contro il petto. Ho compiuto la mia scelta. Non vi era traccia di rimorso nel suo cuore. Alla fine, è andata così. Ho davvero posto Italia davanti alla guerra. Fece scivolare la coda dell’occhio alle sue spalle, dove sapeva che, come una beffa, come una boccaccia, le guglie del Cremlino osservavano la sua ritirata, la sua sconfitta tappezzata dalle impronte di sangue che avrebbero segnato la via del suo ritorno. Germania corrugò la fronte e resistette a quell’affronto. Ma quante altre volte mi sarà concessa una scelta simile, prima che risulti fatale?

Proseguì il suo cammino, la sua ultima marcia, e si lasciò Mosca alle spalle. Il cuore di Russia che nulla era riuscito a scalfire e a cui mai nessuno avrebbe avuto accesso.

 

♦♦♦

 

3 dicembre 1941

Krasnaya Polyana, Unione Sovietica

 

Immobile al centro della stradina sommersa dalla neve ripetutamente schiacciata dalle impronte di piedi e mezzi corazzati, con le braccia strette al petto, le mani infreddolite rintanate nelle pieghe dei gomiti, i lunghi capelli castani a caderle sulle guance rese violacee e screpolate dal freddo senza fine, Ungheria scrutava il panorama desolato attraverso il nevischio che tappava la vista dell’orizzonte. Lo sguardo rivolto alla piatta e silenziosa distesa ghiacciata che aveva accolto l’avanzata del battaglione, risucchiandola nel suo silenzio e nella sua nebbia.

Ungheria sfilò le mani da sotto le braccia, le chiuse a coppa davanti alle labbra e ci alitò sopra una nuvoletta bianca. Strofinò le dita raggrinzite – grigiastre e consumate all’altezza delle nocche, bluastre sotto le unghie –, e tornò a stringersi le spalle, a sfregare via i brividi di nervosismo che per lo meno la distraevano dall’aria umida che le pesava sui polmoni, dalla stanchezza che le straziava l’animo, dal groppo di ansia e disagio annodato in pancia, dai fiocchi di neve che cadevano silenziosi e indisturbati fra le sue ciocche in disordine e sul suo viso segnato dalla tensione. Ad annebbiarle i pensieri, a renderli ancora più grigi e tetri delle nubi che gravavano su quella triste mattina di inizio dicembre, un turbinio di immagini. Il battaglione intrappolato alle porte di Mosca, il resto della loro divisione costretta all’arretrata, i mezzi corazzati che abbandonavano il villaggio lasciando il vuoto della loro assenza, un buio che non avrebbe saputo guidare Germania e gli altri verso casa, una desolazione destinata a congelarsi e ad appassire come quell’inverno senza fine.

Passi lenti e cadenzati attraversarono lo strato di neve scricchiolante, scivolarono indisturbati nel silenzio. Austria giunse al fianco di Ungheria, si fermò come lei davanti alla strada costeggiata dai cavi della luce di cui non scorgevano la fine. La stessa espressione tesa a sciupargli il biancore del volto, la nebbiolina di nevischio a specchiarsi sulle lenti degli occhiali incrostate di ghiaccio. “Ancora nessun segno?”

Ungheria affondò le unghie nelle braccia conserte e si abbandonò a un sospiro avvilito. Scosse il capo facendo dondolare i capelli sulle spalle. “No.” Nemmeno la rassicurante presenza di Austria riuscì a darle conforto. “Né un segnale né altre comunicazioni dal battaglione. Nessuno li ha ancora avvistati.”

Austria si massaggiò le mani bendate, strofinò profondi movimenti circolari fra le nocche e lungo le falangi. “Prussia aveva detto quarantotto ore, giusto? Due giorni prima di sgomberare il villaggio e arretrare, anche senza di loro.”

“Sì. Ma...” Ungheria si tenne stretta in quel triste abbraccio solitario. Chinò lo sguardo, nascondendosi dietro i capelli scivolati sulle guance, incapace di fronteggiare quel destino, quella condanna. “Ma non so se sarei in grado di farlo. Non so se...” Scosse il capo. “Se avrei mai il coraggio di dare davvero l’ordine di arretrare mentre loro sono ancora in pericolo, forse feriti, o intrappolati, o...” Non volle pensare al peggio. Rivisse il momento in cui il battaglione era partito accompagnato dai rombi delle motociclette. L’ultima raccomandazione di Prussia, il suo ultimo sguardo carico di fiducia, il suo ultimo saluto sventolato sotto lo stesso cielo grigio. Rabbia e risentimento le infiammarono il sangue, il bruciore ribollì fino alle guance. “Maledetto Prussia,” ringhiò lei. “Quando tornerà lo riempirò di cazzotti per avermi affidato un ordine assurdo come questo.”

“Il tempo non è ancora giunto al limite,” la rassicurò Austria. “Abbi fiducia in loro.”

“Fiducia...” Ungheria fece scivolare lo sguardo su Austria, sulle mani bendate che ora riusciva a muovere con più scioltezza, e sulla sua espressione stanca ma priva di dolore, sul viso che aveva smesso di stropicciare ogni volta in cui provava a chiudere un pugno o a flettere le falangi divorate dai geloni. Se non altro, avere fiducia almeno in qualcosa ha dato i suoi frutti. “Come stanno le mani?”

Austria le tenne giunte protette ma annuì. “Meglio di ieri.” Portò una mano davanti allo sguardo, distese le dita bendate, le chiuse e le riaprì, sollevato per il fatto di non provare più alcun dolore nel muoverle. “Scaldarle con i mattoni ha funzionato meglio del previsto, e per lo meno le piaghe si stanno asciugando dato che siamo riusciti a recuperare le garze pulite.”

Anche Ungheria ne fu sollevata. Sollevata e grata del fatto che valesse ancora la pena sperare. “Grazie al cielo.” Gli avvolse una mano bendata senza il timore di fargli del male. Ne sentì il calore. E anche lui ora poteva percepirlo.

Altri passi attraversarono il silenzio della strada dietro di loro. Scricchiolarono sulla neve indurita, e li raggiunsero assieme alla voce un po’ arrochita di Bulgaria. “Com’è qua?” Anche lui soffiò sulle mani infreddolite, le strofinò rintanandole poi sotto le maniche della giacca. I suoi occhi stanchi, cerchiati da occhiaie bluastre, si affacciarono alla nebbia. “Buone notizie all’orizzonte?”

Bastò quella frase, quell’occhiata, a bucare la nuvoletta di malumore che galleggiava sopra la testa di Ungheria, ad annaffiarla con un nuovo e gelido diluvio di cattivi pensieri. “No,” mormorò. “Decisamente no.”

Bulgaria fece schioccare la lingua, alzò gli occhi al cielo. “Merda.” Si mise a braccia conserte, spostò il peso da un piede all’altro per tenere le gambe al caldo. Dovette distogliere lo sguardo dal termine della strada, dove la nebbia si addensava coprendone la fine, trasmettendogli la sensazione che non ci fosse via d’uscita. “E se i russi dovessero tentare un assalto qui? Saremmo completamente scoperti.”

“Se accadrà,” rispose Ungheria, “noi li combatteremo.”

“Ma non avevamo l’ordine di arretrare dopo quarantotto ore senza progressi?”

“E tu avresti il coraggio di abbandonarli?”

Bulgaria scosse le spalle. “Se sono gli ordini...”

Ungheria stritolò i pugni sui fianchi, trattenendosi dal rompergliene uno sul naso. “Oh, stai zitto.”

“Guarda che scherzavo.” Bulgaria si rimboccò la giacca e si ritrovò di nuovo a scrutare in mezzo alla foschia dove persino i fiocchi di neve parevano sospesi, congelati in quell’aria immobile dove non si muoveva neanche un’ombra. Un brivido lo percorse dalla schiena alla nuca, gli fece digrignare i denti. Dannazione a te, Germania, come hai potuto lasciarci qua da soli in queste condizioni? Farai meglio a tornare, altrimenti ti veniamo a prendere a noi solo per cantartene quattro.

Ancora brevi passi nel silenzio, ancora una camminata zoppicante alle loro spalle, ancora lo strato di neve che cedeva sotto quel leggero trascinare di suole, e ancora una presenza aggiunta alle loro, un nuovo flebile respiro a imbiancare quell’aria immobile come i battiti dei loro cuori sospesi in una morsa d’ansia.

Bulgaria sfiorò quella presenza solo con la coda dell’occhio. Fece roteare lo sguardo e schioccare la lingua fra i denti. Al sollievo di rivederlo in piedi si sostituì un leggero spasmo d’irritazione. “Il dottore non ti aveva detto di startene buono a dormire?”

Romania fece correre una mano smagrita fra i capelli da cui cadde ancora qualche filo di paglia, si diede una grattata alla nuca, e si strofinò il viso ancora bianco come la neve in cui erano sommersi. Ma era vivo, cosciente, in piedi, ed era tutto ciò che contava. “Direi che ne ho avuto fin troppo.” Raggiunse gli altri, portandosi al fianco di Bulgaria. Anche i suoi occhi bordati di grigio avevano riacquistato una pallida luce di vita che traballava fra le ciglia ambrate, ancora in bilico fra la vita e la morte. “E poi non ne posso più di starmene a marcire fra la paglia. Puzza del mio stesso cadavere.”

Nel vederlo lì in piedi affianco a lui, Bulgaria tornò a provare la stessa fitta di paura che gli aveva arrestato il battito del cuore quando si era ritrovato a stringere il suo corpo incosciente, a tastargli il braccio molle, a scuoterlo senza riuscire a svegliarlo, a piangere davanti al suo viso addormentato che credeva non avrebbe mai più riaperto gli occhi. E invece gli era vicino. “Se non altro,” borbottò Bulgaria, “il fatto che tu ti sia svegliato sarà una buona notizia con cui accogliere gli altri quando torneranno. Se torneranno.”

“Certo che torneranno!” Ungheria lo fulminò di traverso. “E torneranno anche assieme a Ita.”

“E se non dovessero farcela?” Bulgaria sollevò il mento, ricambiando l’occhiataccia storta. “Non posso credere che tu sia così ingenua. Sul serio credi che basti sperare per far sì che le cose accadano?”

“I-io...”

Austria le posò una mano sulla spalla. La difese rivolgendo a Bulgaria uno dei suoi truci sguardi di disappunto. Anche quelli si stavano rimettendo in sesto come le sue mani. “Fiducia e speranza sono sentimenti che non devono mai scomparire dai nostri animi. Perché una volta spariti...” Scosse il capo. “Allora non saranno rimasti né la motivazione né la voglia di combattere.”

Il silenzio tornò ad avvolgerli, a stringere tutti e quattro nella stessa grave atmosfera di attesa e contemplazione, pesando su di loro, sui loro volti stanchi, come un sudario. Bulgaria si strinse a Romania, quasi per paura che la sua vita potesse di nuovo scivolargli da sotto il naso, e Ungheria posò il tocco sulla mano con cui Austria le teneva ancora avvolta la spalla. Non ci fu bisogno di dire altro.

Un nuovo rumore di passi in corsa – passi rapidi, questa volta, passi affrettati provenienti dall’estremità della strada che usciva dal villaggio – emerse dalla nebbia assieme al soffiare di un respiro affaticato, di una voce che gridò: “Arrivano!”

In mezzo alla foschia si materializzò la sagoma di una delle sentinelle. L’uomo corse loro incontro, dividendo il velo di nevischio, facendosi sempre più grande e più nitido, e sventolò un braccio al cielo. “Sono tornati, sono qui!” I primi soldati sbucati dalle altre strade e dalle isbe occupate uscirono allo scoperto, gli si radunarono attorno, richiamati da quella notizia. “Sono quelli del Sessantaduesimo Battaglione, sono dentro al villaggio!”

“Ma allora ce l’hanno fatta?”

“Ma Mosca è presa?”

“Non dire idiozie, e ringrazia piuttosto che siano tornati.”

Romania sgranò gli occhi di nuovo accesi di vita. Lui e Bulgaria si guardarono con espressioni bianche che ancora non osavano gioire. “S-sono...” Bulgaria batté le palpebre, inarcò un sopracciglio, ancora dubbioso. “Sono qui?”

Ungheria fu scossa da un brivido di tensione che le arrestò il battito del cuore. “Arrivano?” Strinse la mano di Austria in un guizzo improvviso. Anche loro due si guardarono, con una nuova luce di speranza a brillare nei loro occhi, a illuminare i loro visi screziati dalla guerra. Il cuore di Ungheria accelerò, la mano stretta a quella di Austria sudò, e i suoi pensieri volarono, innalzandosi al cielo come preghiere. Oh, ti prego. Ti prego, ti prego, fa’ che stiano bene. Solo questo. Tornò a guardare verso la sentinella che ora stava prendendo fiato e parlando a un mucchio sempre più numeroso di soldati accorsi. La sua voce troppo distante per poterla decifrare in mezzo al borbottio eccitato che ora riempiva le strade del villaggio. Non importa di Mosca, continuò a pregare Ungheria. Non importa della battaglia, fa’ solo che tornino tutti sani e salvi.

Un largo e tondo occhio di luce si accese nella nebbia. La luce del fanale proiettò un nebuloso fascio di luce che ricadde sull’asfalto innevato, fra i piedi delle quattro nazioni, e accompagnò l’entrata della prima motocicletta in cima alla formazione del battaglione. Tanti altri occhi di luce brillarono nella foschia. I rombi si innalzarono, più forti, metallici, odoranti di gas di scarico e di olio addensato.

Una volta fuori dalla nebbia, le motociclette del battaglione si divisero, rallentarono la corsa, accostarono il ciglio della strada lasciandosi circondare dai soldati a piedi che corsero loro incontro sorridendo e sventolando ampie sbracciate, e qualcuno spense il motore lasciando però il fanale acceso. I soldati rimasti nel villaggio corsero in mezzo alla nube di gas di scarico che si era gonfiata coprendoli fino alle ginocchia e rendendo l’orizzonte ancora più grigio e soffocato. Una massa di giacche scure, di fiati mescolati, di corpi abbracciati, di pacche sulle spalle, di braccia che sostennero i corpi zoppicanti ma di nuovo a casa, di borbottii fra cui s’innalzò anche qualche voce più rauca e allegra, qualche sospiro di sollievo strappato ai loro cuori ora privi d’ansia.

Ungheria si separò dalla mano di Austria, compì un primo passo in avanti, e anche lei calpestò la foschia di gas di scarico dissolta fra le sue caviglie. Avanzò ancora. Un passo più deciso, una falcata più lunga, con lo sguardo sempre teso e aguzzo in mezzo alla nebbia, in cerca di altre figure, di altre presenze che ancora non riusciva a percepire. Corse.

Austria tese il braccio per fermarla. “Aspetta...” Riuscì solo a sfiorarle un gomito che Ungheria era già sparita, diventata già un’ombra come le altre.

Ungheria si aprì la strada in mezzo ai fari ancora accesi, soffiò rauchi respiri che si condensarono pizzicandole le guance fredde ma sudate, e lasciò che i capelli sventolassero, che le cadessero sugli occhi, senza nemmeno trattenerli fra le dita.

La sagoma scura di uno dei semicingolati le si spalancò davanti, frantumando anche la neve più dura ed emettendo un rombo minaccioso. Ungheria compì uno scarto di lato per evitarlo. Si ritrovò a correre in mezzo ai fari di due motociclette che si divisero soffiandole il gas in faccia, per poi fermarsi ai lati della strada senza spegnere motore, e avanzò ancora in mezzo all’aria più buia, distante dalla luce gialla, traballante e nebulosa dei fari ancora accesi.

Rallentò. Lo scricchiolio dei passi risuonò nell’ambiente vuoto dove Ungheria tornò a sentirsi soffocata, imprigionata in una bolla di tensione e solitudine dove gli unici suoni percepibili erano il suo stesso respiro spezzato fra le labbra tremanti e i battiti ansiosi del suo cuore in attesa.

Una prima ombra traballò in mezzo alla nebbia, scomponendosi e riassemblandosi, come fatta di fumo o come la timida fiamma di una candela. L’ombra si fece più nitida, i tratti più netti e delineati, e camminò verso di lei tenendosi aggrappata a qualcos’altro, a un’altra sagoma poggiata sulla sua spalla.

Una fitta di gelo risalì i piedi di Ungheria, le ghiacciò le gambe e strinse il cuore in una morsa, impedendole di respirare, di pensare, di sperare.

Romano e Spagna furono i primi a comparire. Spagna zoppicava, aveva il respiro corto e un suo braccio ciondolava attorno alle spalle di Romano, ma era in piedi, sorretto attorno ai fianchi e seguito dalla scia del suo fiato tremolante. Romano, ammaccato a sua volta e con i capelli imbiancati da cristalli di neve, si chinò a stringerlo, gli aprì una mano sulla schiena, e lo aiutò a raddrizzarsi. Spagna si passò una mano sulla fonte, scostò le ciocche da davanti gli occhi, e incrociò lo sguardo di Ungheria. Le sorrise. Trovò chissà dove anche la forza di salutarla con un cenno di mano.

Ungheria si portò la mano alla bocca. “Oh.” I piedi si mossero da soli, ripresero a camminare, a correre, e volarono verso di loro incuranti della neve schizzata da sotto le suole.

Una terza figura sorse dalla nebbia, raggiunse Romano, lo aiutò a sorreggere Spagna, e gli diede una spolverata alla giacca per ripulirlo dai fiocchi di ghiaccio che continuavano a depositarsi sulle sue spalle. Anche i suoi occhi incontrarono quelli di Ungheria. I soliti ardenti occhi rossi che ora splendevano in un viso inondato di sangue a cui le ciocche di capelli si erano incollate, diventando color rame. Prussia le sorrise, ammiccò con le sopracciglia e le inviò un cenno d’intesa con il mento. Ti avevo detto che saremmo tornati, no?

Ungheria accelerò le ultime falcate di corsa e spiccò un balzo gettandogli le braccia al collo, senza nemmeno preoccuparsi di potergli far male. Ma Prussia non si sottrasse, raccolse quel suo salto, soffocò solo un breve gemito nei suoi capelli schiacciati fra spalla e spalla, e strinse l’abbraccio. Rilassò la tensione del corpo, annegando in quel momento di abbandono e di sollievo, le passò una mano fra i capelli per districare le ciocche rimaste schiacciate fra loro due, e le diede un’energica strofinata sulla schiena. Era tutto finito.

Ungheria sciolse la stretta e si lasciò scivolare con i piedi a terra, di nuovo preda di un’inquietudine fitta come la nebbia che li circondava. “Dov’è Germania? Dov’è?”

Un brivido percorse il volto insanguinato di Prussia, addensò i cerchi d’ombra attorno ai suoi occhi. Prussia chinò la fronte, strinse la mano che teneva ancora accostata alla schiena di Ungheria, e guadagnò un respiro profondo dalle narici. Si girò.

Un lento scricchiolare di passi – crunch, crunch – sbriciolò il denso e bianco silenzio che si era di nuovo solidificato su di loro, isolato dal vociare dei soldati appena ricongiunti e dai rombi delle motociclette che non avevano ancora spento. La foschia si diradò, schiudendosi e lasciando emergere un’ultima figura, silenziosa e solitaria nella sua ultima marcia di riconciliazione.

Germania camminava sulle sue gambe, solo un leggero arrancare quando poggiava il piede sinistro. Sangue rappreso a macchiargli l’uniforme invernale, lo sguardo alto e duro e l’espressione di un’integrità solenne, come se la sconfitta non lo avesse nemmeno scalfito, i capelli in disordine davanti agli occhi azzurri che brillavano come gemme d’acqua in quella grigia oscurità, e Italia raccolto fra le braccia.

Germania respirò fiato bianco, compì un ultimo passo, strinse il braccio che passava sotto le sue gambe rannicchiate, sollevò quello che gli sosteneva le spalle, aprendogli una mano fra i capelli castani, in modo da tenere il suo viso riparato contro il petto, e anche lui rivolse un cenno d’affermazione a Ungheria.

Tutto era sospeso.

Ungheria si sentì sciogliere in quella marea di calore che sorse dallo stomaco, fino al petto e fino al viso, colmandole gli occhi di lacrime pungenti, squagliando i fiocchi di neve cristallizzati fra le ciglia e spezzando il maglio di terrore in cui il cuore si era ingabbiato. I battiti ripresero a tambureggiare, vivi, profondi, ossigenati da quella visione che pareva una pagina voltata sul loro passato, un destino che non si era mai concluso e che ora era lì, davanti ai suoi occhi.

È finita.

Tornò ad appendersi alle spalle di Prussia, a respirare contro di lui, a lasciarsi stringere, ad abbandonarsi a quel momento di sollievo e disperazione. Non le importava di fare la figura della stupida, non le importava perché il loro passato era tutto lì, in quell’abbraccio, in quel ritorno, in quel cerchio che si chiudeva, complice di una promessa che solo ora trovava la sua pace.

 

♦♦♦

 

3 dicembre 1941

Mosca, Unione Sovietica

 

Nevicava poco, ma il pavimento della Piazza Rossa era già diventato un largo e soffice tappeto bianco chiazzato solo da nere impronte fresche, attraversato dal ritmico scrocchiare di passi che non trovavano pace nemmeno in quell’ambiente candido e ovattato, lontano dal conflitto che si stava consumando fuori Mosca.

Bielorussia era l’unica ad andare avanti e indietro, a girare su se stessa, a lanciare qualche sguardo all’ambiente deserto, a strofinarsi le spalle nonostante non sentisse freddo, a far correre una mano fra i lunghi capelli biondi, a sgranocchiarsi le unghie fino a farle sanguinare, a rimettersi a braccia conserte e a riprendere quella camminata sopra i solchi già lasciati dalle sue impronte. Era tutta la mattina che andava avanti in quel modo.

Lettonia zampettò di qualche passettino in disparte per non finire urtato dalla sua rabbiosa camminata. Strinse le braccia attorno al corpicino di Moldavia, passò una soffice carezza fra i suoi codini senza riuscire a far star ferme le gambette dondolanti che battevano sul suo petto a ogni oscillazione, e si girò verso Estonia, in cerca di sostegno, in cerca anche solo di uno sguardo rassicurante.

Estonia non lo guardava. Guardava le sue braccia conserte, i piedi che solo ogni tanto spostava facendo scricchiolare qualche crunch! nella neve fresca, il denso respiro bianco che gli appannava le lenti degli occhiali e che rimaneva sospeso e condensato in quell’aria immobile. Non aveva ancora aperto bocca.

Lettonia cullò Moldavia per far calmare il dondolio dei suoi piedi e levò la punta del naso al cielo, in mezzo alla neve che fioccava lenta attorno alla sagoma alta e imponente del Cremlino, celandone le torri di cui si scorgevano solo le guglie, le punte che foravano il gonfio strato di maltempo spolverato su di loro. Quella visione gli diede le vertigini, lo fece sentire ancora più piccolo e solo. “P-perché ci impiega così tanto? Aveva detto...” Un’acquosa luce spaventata traballò attraverso i suoi occhi. “Aveva detto che sarebbe stata una cosa veloce, no? Che comunque non avrebbero potuto combatterlo.” Tornò a voltarsi verso Estonia. “Quindi...”

Estonia scosse il capo senza sollevare la fronte. Gesti rapidi e nervosi. “Non lo so.” Diede un colpetto agli occhiali scivolati lungo il naso e si strinse le tempie fra le dita. “Non lo so, non lo so, non chiedermelo perché non lo so.” Perché Russia ci ha abbandonati? risuonava la rabbiosa voce nella sua testa. Perché ci ha lasciati qui da soli? Aspettare in questa maniera è ancora più atroce rispetto all’idea di combattere un’altra volta contro Germania.

Moldavia si mise a stropicciare il bavero della giacca di Lettonia, senza smettere di far dondolare le gambe. Si annoiava. “Quando torna il fratellone?”

“N-non...” Lettonia sospirò, gli scostò delicatamente la manina dal bavero. “Non lo sappiamo.”

“Oh.” Moldavia si guardò attorno, aspettò che Bielorussia facesse marcia indietro, ricominciando a pestare i passi sulla neve fresca, e diede un piccolo strattone alla manica di Lettonia. “Torna adesso?”

Un altro sospiro di Lettonia. “No.”

“E adesso?”

“No.”

“Oh.” Moldavia avvolse le braccia attorno al collo di Lettonia, sovrapponendo le maniche troppo larghe della sua giacca, si dondolò avanti e indietro con le spalle, e schiuse le labbra per catturare i fiocchi di neve con la punta della lingua. Schioccò la lingua sul palato. Sapeva di ferro, di acqua piovana. Non gli piacque. Si annoiava di nuovo. “E fra cinque minuti?”

Lettonia gli rimboccò la giacca che gli stava cadendo dalla spalla. “Forse.”

“Oh.” Moldavia guardò dietro di sé, verso la piccola figura di Lituania che si era isolato dagli altri, fermo e solitario in mezzo al fioccare della nebbia, con lo sguardo rivolto fuori dalla Piazza. Agitò ancora le gambette fra le braccia di Lettonia e gli strattonò una manica. “Sono già passati cinque minuti?”

Bielorussia serrò la mandibola con uno schiocco, masticò un ringhio ribollente, frenò un passo fra la neve e si voltò a sbraitargli contro. “La vuoi piantare, piccolo sgorbio?” L’eco del suo ruggito rimbalzò attraverso tutta la Piazza Rossa.

Moldavia strinse le labbra traballanti in una triste smorfia da cucciolo bastonato, allargò gli occhioni lucidi, lasciò che i codini si ammosciassero, e si rintanò nell’abbraccio di Lettonia.

Estonia scosse il capo e diede una pulita agli occhiali inumiditi di neve. “Non prendertela con Moldavia,” mormorò. “Moldavia non c’entra niente. E non serve agitarsi.”

“Oh, certo.” Bielorussia serrò le unghie sulle braccia conserte e affilò lo sguardo, affettando quell’aria di ghiaccio solo con un battito di ciglia. “Perché invece rimanere calmi risolverà tutto, come no, come ho fatto a non pensarci prima? Sei proprio un cazzo di genio, eh?”

La voce di Lituania soffiò fra di loro come un tiepido alito di vento. “Non litigate.” Ma anche lui dovette rimboccarsi la giacca per proteggersi dal freddo sempre più opprimente, per placare quell’ansia che si stava infittendo nel suo petto come la neve che gli cadeva sulle spalle, attorno ai piedi e fra i capelli. Si massaggiò la gola ferita che ancora gli doleva, nonostante le ferite si fossero cicatrizzate. Guardò oltre il Cremlino, oltre il cielo nuvoloso sotto il quale sapeva che Russia stava ancora combattendo. Da solo. Una scossa di rimorso gli punse la nuca. “Forse non avremmo dovuto permettere che andasse da solo.”

Bielorussia sbuffò. “Ci puoi fottutamente scommettere che non avremmo dovuto.” Passò un’altra manata fra i capelli, tenne il viso corrugato in quel broncio scuro e schivo, e si strofinò dietro l’orecchio. “E mi ero anche ripromessa di non lasciarlo più andare. Stupida.” Scosse il capo, noncurante delle ciocche che erano ricadute sulle guance e davanti agli occhi. Il suo respiro tremolò. “Sono solo una stupida.”

Lituania avrebbe voluto raggiungerla, posarle una mano sulla spalla – sempre se lei glielo avesse permesso – e rassicurarla del fatto che Russia sarebbe tornato, che avrebbe mantenuto la promessa che ormai nemmeno Germania avrebbe potuto sconfiggerlo. Ma nemmeno lui era certo di riuscire ad appigliarsi a una tale speranza.

Il vento emise un fischio basso e gorgogliante, si ritirò con un risucchio, facendo rotolare un turbinio di neve secca e farinosa fra le gambe delle nazioni, e cessò. Sulla Piazza Rossa si riversò una presenza buia ed elettrica come una nuvola di temporale. La neve cessò di cadere, rimanendo sospesa in una nebbiolina grigia e luccicante, e l’aria si fece nera, diventando densa, ferrosa e irrespirabile.

Lettonia impallidì per primo, provando un nodo allo stomaco ben più doloroso dello sgambettare di Moldavia sulla sua pancia. Tenne il piccolo stretto fra le braccia, gli coprì la testolina in un istintivo gesto di protezione, e si girò di scatto verso quella presenza che li aveva sfiorati come una carezza di ghiaccio. “A-avete sentito?” I suoi larghi occhioni blu si colmarono di angoscia. “È...”

“Sì.” Estonia deglutì ma trovò la gola secca, il battito del cuore ad arrestare il suo respiro. Si accostò a Lituania, gli strinse un polso e gli parlò con un sibilo. “Lituania. Senti...”

“Lo so.” Nemmeno Lituania riuscì a crederci, a sperare. È tornato? Ma allora... Rivolse gli occhi al cielo nero, alle nuvole diventate bassissime, tanto da dare l’impressione di poterle toccare solo allungando un braccio, annusò il vento stagnante che odorava di ghiaccio, di fumo e di sangue. Tutto quel malessere gli si riversò addosso, dandogli la nausea e facendolo diventare bianco in viso ancor più di Lettonia. Perché ho questa brutta sensazione addosso?

I passi di Bielorussia li raggiunsero, ma anche lei si fermò. “Fratellone.” Lo sguardo ansioso di chi ancora non osa crederci.

Si strinsero nel silenzio. Attesero.

I passi di Russia attraversarono la neve sospesa. Il cuore dell’Unione Sovietica era tornato al suo posto, il solenne e rispettoso respiro di Mosca si era fermato davanti al suo cospetto. Russia lisciò un lembo della sciarpa insanguinata, facendola sventolare fra le gambe, passò le dita fra le ciocche di capelli scurite, e tenne il tocco accostato al viso inondato di rosso, a quegli occhi che parvero più tristi che mai, desolati come il cielo sovrastante.

Lituania fu il primo ad accorgersi del sangue. Quella visione lo scosse come uno schiaffo sonoro in piena guancia. Lo hanno... ferito? Le sue gambe irrigidirono, incapaci di muovere un passo. Ma allora è stato sconfitto? E Ucraina non è...

Bielorussia reagì con rabbia davanti alla vista del sangue. Spremette i pugni fino a sentire le falangi scricchiolare, vi stritolò dentro tutta la sua furia rovente. Come hanno osato?

Russia sfilò la mano dal viso e rasserenò lo sguardo. Sorrise a tutti, nonostante il sangue sul viso e l’ombra di quella lotta a pesargli sulle spalle. Fu uno dei suoi dolci sorrisi da ‘va tutto bene’ che nemmeno l’inverno siberiano sarebbe stato in grado di scalfire. Guardò alle sue spalle, in mezzo all’immobile foschia di neve. Distese il braccio e aprì la mano, richiamando qualcuno a sé.

Un’altra mano, più esile, si posò sulla sua, chiuse la presa, e si lasciò accompagnare attraverso la nebbia, guidare all’interno della Piazza dove il tempo si era fermato.

Ucraina uscì allo scoperto, dapprima un passo timido, poi l’ombra scivolata giù dal suo profilo, e infine sollevò il suo viso tondo e latteo nel quale gli occhi azzurri e pieni d’affetto splendevano solo per il fratello che le aveva teso la mano, riaccogliendola a casa. Ucraina pettinò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, socchiuse le palpebre, e regalò quel sorriso anche agli altri. Fu il saluto più grande, quello che tutti stavano aspettando. Grazie per avermi aspettata, diceva il suo sguardo. Grazie per non avermi abbandonata.

La vocina di Moldavia ruppe il silenzio dopo un lungo sospiro incantato. “Sorellona.”

Lituania mosse le labbra ma non ne uscì un singolo sibilo. Il suo respiro era fermo come quello di Mosca stessa. Bielorussia gli camminò davanti, un passo lento, poi uno più lungo, uno più veloce, e scattò a correre senza nemmeno il timore di scivolare sul ghiaccio. Si tappò la bocca e strinse gli occhi, lasciando che le lacrime le piovessero fra i capelli. Briciole di diamanti nel vento.

Ucraina la accolse a braccia spalancate, la strinse a sé, lasciando che Bielorussia nascondesse il grugno commosso contro la sua spalla, e cominciò a piangere anche lei, in silenzio. Le carezzò i capelli, la schiena. Il suo sorriso si ravvivò. “Ciao, Bielorussia.” Le raccolse il viso fra i palmi, la baciò sulla fronte, su una guancia, e tornò a stringerla.

Russia carezzò il capo di Bielorussia, e tenne l’altra mano posata sulla spalla di Ucraina. Loro tre assieme come quando erano piccoli, indifesi e vulnerabili, senza nulla su cui contare se non la reciproca presenza. Loro tre assieme come se non si fossero mai separati, consapevoli che nessuna nazione e nessuna guerra avrebbe mai potuto dividere i loro cuori.

Moldavia balzò giù dalle braccia di Lettonia, corse anche lui attraverso la Piazza Rossa, e spalancò le braccia per appendersi a Ucraina che si era già chinata per abbracciarlo forte. Accorsero anche gli altri. Si unirono tutti in un abbraccio soffocante, scivolarono a terra, sulle ginocchia, senza lasciarsi, senza perdersi, come orfani che si ritrovano, e si strinsero in quel silenzio di cordoglio e liberazione.

Russia fu l’unico a rimanere in piedi, a proteggerli, a vegliare su quella riconciliazione che aveva ferito tutti e che avrebbe fatto male ancora per molto tempo. Vedendoli così a terra, si rese davvero conto del modo in cui aveva rischiato di abbandonarli. Di abbandonare se stesso. Non posso più lasciarmi andare in quella maniera. Ripensò alla bufera nella quale si era rinchiuso e dalla quale non avrebbe più desiderato uscire. Non posso più crollare, rischiare di farmi sconfiggere, e lasciarli soli, senza nessuno che possa proteggerli. Sangue caldo trasudò dalla ferita alla tempia, percorse l’arco dell’orecchio, e discese tiepido lungo la guancia già bagnata di rosso. Russia si toccò il viso. La mano rimase sporca. E stavo anche per farmi uccidere. Non ci fu rabbia, non ancora. Tutto ciò che occupava la sua mente erano le ultime parole di Italia, il suo sguardo così vicino ed empatico, quelle frasi di conforto che erano riuscite a estrapolarlo dal guscio di ghiaccio, lasciandogli però dentro una fredda realizzazione che non si sarebbe mai sciolta.

Russia levò lo sguardo al cielo. La neve aveva ripreso a cadere, a sciogliersi sul suo viso. Lungo una guancia lacrime trasparenti e dall’altra lacrime rosse. Triste. Di nuovo quella consapevolezza lo soffocò, gli schiacciò il petto e gli strinse il cuore in una fitta. È questo che io sono. Io sono una nazione triste perché incarno l’anima di un popolo che è stato infelice fin dalla mia nascita. Sono nato in questa terra fredda, inospitale, e già carica di dolore. Di un dolore che ho ricevuto sulle spalle fin da piccolo.

Il dolore che era cominciato quando era piccolo, quando era solo in mezzo alla neve, rifugiato in un abbraccio di ghiaccio che non avrebbe mai potuto insegnargli ad amare. Lo stesso dolore che ora si specchiava nei suoi occhi tristi da bambino abbandonato.

E solo per essere nato in questa terra arida e fredda come quello che sento dentro di me. Ero solo, indifeso, e la mia gente è sempre stata perseguitata, massacrata, soggiogata da nazioni più forti. Mi sono ripromesso di diventare più forte in modo che il mio popolo fosse ripagato di tutti i sacrifici che ha fatto combattendo e sopravvivendo per me. E ci sono riuscito. Sono una delle nazioni più forti, potenti ed espanse del mondo. Ho superato carestie, guerre, rivoluzioni, tutto per conquistare una pace che non sono mai riuscito a raggiungere.

Lacrime tiepide si mescolarono al sangue e alla neve, sciogliendosi silenziosamente lungo i tratti del volto.

Ma perché tutto questo? Quand’è che il mio animo sarà finalmente in pace? Quand’è che potrò definirmi felice, oltre che potente?

Ma le sue sorelle erano ancora assieme a lui. E anche Lituania e gli altri. Erano lì, stretti ai suoi piedi, protetti dalla sua ombra e custoditi dal loro legame.

Russia inspirò a lungo e usò una manica della giacca per asciugarsi gli occhi. Smise di piangere. Oggi ho vinto una battaglia, ma la guerra non è ancora finita. E io le sopravvivrò. Sopravvivrò... Strinse i pugni, sollevò uno sguardo più fiero e solenne. Siglò quel giuramento davanti al Cremlino, sopra il suo stesso cuore. Fino a che non avrò trovato la risposta.

 

♦♦♦

 

7 dicembre 1941

Mosca, Unione Sovietica

 

L’allarme a Mosca era cessato assieme allo stato d’assedio, il Cremlino era tornato abitabile e la presenza di Russia all’interno dei suoi locali stava lentamente ravvivando l’ambiente, come un cuore che ricomincia a battere in un corpo lasciato congelare fin troppo a lungo.

Dal caminetto appena acceso uscì più fumo che calore. Avevano appena riaperto le canne fumarie e rispolverato le grate dalla vecchia fuliggine. C’era voluto un buon quarto d’ora di tentativi prima che le braci facessero presa sulla legna umida e resinosa, racchiusa nel focolare rimasto al freddo per tutta la durata dell’autunno, tranne per quando avevano dovuto bruciare i documenti segreti, durante l’evacuazione di Mosca.

Lettonia si chinò a sventolare un vecchio giornale in mezzo ai riccioli di fumo nero, li rispedì nel focolare, lasciando che la corrente li risucchiasse nella canna fumaria, e punzecchiò le braci con un attizzatoio, ravvivando le fiamme e soffiando sullo sciame di scintille bianche e rosse che turbinarono fra le vivaci lingue di fuoco.

Coprendo la testolina di Moldavia, in modo da tenerlo riparato dal fumo, Ucraina si avvicinò al caminetto, alla luce rossa e traballante del fuoco appena acceso, al calore sempre più intenso e piacevole, al profumo della legna e della cenere vecchia. Carezzò i capelli di Moldavia – gli avevano sciolto i codini –, e lo cullò mentre i respiri del piccolo si facevano sempre più profondi, lenti e assopiti. La testolina a riposarle sulla spalla, le manine aggrappate alla sua camicetta, le gambette a ciondolare fra le sue braccia, gli occhi chiusi e l’espressione beata di chi si sta godendo un buon sonno dopo una lunga fatica.

Per gli altri però non era ancora giunto il momento di riposare.

Russia sfogliò una delle carte che avevano deposto sul tavolino al centro della sala, illuminato solamente dal riverbero del camino, e si portò una mano alla testa, massaggiando la fasciatura con cui gli avevano medicato la ferita alla tempia, lo sfregio dello sparo che per poco non gli aveva penetrato il cranio. Gli occhi stanchi, il colore spento delle iridi simili a un cielo nebuloso, erano lo specchio della sofferenza che ancora gli stava marcendo nell’animo dopo tutto quello che aveva vissuto. Ma doveva resistergli. Doveva essere più forte di così, non poteva permettersi un altro crollo. La guerra non era finita.

“Solo perché Germania ora è stato costretto a una prima arretrata,” disse Russia, “e solo perché Mosca è momentaneamente fuori pericolo, non significa che possiamo permetterci di abbassare la guardia e di prendere il conflitto sottogamba.” Piegò i gomiti sulle ginocchia, intrecciò le mani davanti al viso ombreggiato dai riflessi del fuoco che gli spendeva sulle guance, e sollevò lo sguardo. Anche gli altri avevano le loro ferite, le loro facce segnate dagli scontri, quelle espressioni un po’ trascinate, e buie auree di malessere a circondarli, a rendere la sala più fredda nonostante il caminetto acceso. “Tutti noi ci stiamo ancora riprendendo dalle precedenti battaglie.” Russia non finse di non notarlo. “E non saremmo mai in grado di combattere nel pieno delle forze considerando che è da luglio che non abbiamo mai lasciato i campi di battaglia. Dobbiamo approfittare di questa tregua momentanea per recuperare le forze senza però trascurare quello che ci aspetta.”

Estonia depose il piccolo compasso con cui aveva appena segnato l’area che racchiudeva la controffensiva sovietica e la ritirata tedesca, spinse le dita sotto le lenti degli occhiali e si massaggiò le palpebre gonfie e bluastre di stanchezza. “L’inverno comunque ci darà un vantaggio non indifferente, signore.”

“Sì.” Lituania annuì, assecondandolo. “Dopotutto, abbiamo già visto quanto i tedeschi fossero disorganizzati nella preparazione di una guerra invernale. Non ce la faranno mai a recuperare questo svantaggio, tantomeno ora che si sono spinti così lontani dalla frontiera.”

Bielorussia, poggiata con la schiena a una colonna affianco al caminetto, si pettinò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e intrecciò l’indice a un’estremità del nastrino che le cadeva dalla fronte. Sbuffò, acida. “Forse erano talmente sicuri di vincere entro la fine dell’estate da non prendere in considerazione l’idea che si sarebbero ritrovati a combattere in mezzo alla neve e al gelo.” Sfilò il dito dal nastro di raso. “Che idioti,” rise. “Tra l’altro, siamo solo agli inizi di dicembre. Il vero freddo è appena cominciato e ci vorranno ancora dei mesi prima dell’inizio del disgelo e della primavera, e Germania non ce la farà mai a riorganizzare un’altra offensiva come quello di giugno. Ormai abbiamo praticamente vinto.”

“No.” La voce e lo sguardo di Russia rimasero gelidi. “Non è detto. Se Germania dovesse ritentare una controffensiva in primavera, partirebbe comunque da una situazione diversa rispetto a quella di giugno.” I suoi occhi si posarono nuovamente sulla carta stesa davanti a lui, sulla larga porzione di Unione Sovietica che i tedeschi avevano trafitto e divorato. Posò la mano su tutto il territorio perso. “A giugno, il suo esercito ha cominciato l’invasione dal confine polacco, ma ora una buona parte del territorio sovietico è in mano sua, sia nel Baltico sia in Ucraina. Kiev è ancora una conquista tedesca, e rimarrà un’ottima base di partenza per lo slancio sul territorio del Caucaso di cui non è ancora riuscito a impadronirsi.” Spostò il tocco e sollevò un sopracciglio, colto da una scossa di anticipazione. “Compresa...”

“Stalingrado.” Fu Lituania a rispondere per lui, colto dallo stesso tremendo sospetto.

Russia annuì. “E c’è dell’altro.” Sollevò la mano e picchiò due dita a nord del suo paese, dove la terra si sbriciolava nelle acque del Mar Baltico. “Leningrado è completamente accerchiata, e la situazione si fa ogni giorno più tesa e difficile da sostenere per la popolazione costantemente sotto attacco.” Tracciò un cerchio invisibile attorno alla città assediata. “Germania potrebbe approfittare dell’inverno per inviare ancora più uomini e mezzi attorno alla città ed espugnarla una volta per tutte. Con una minaccia del genere ancora presente in ogni zona del paese, è chiaro che la guerra non può assolutamente dirsi finita. E che la vittoria è tutt’altro che scontata.”

Lo scoppiettare della legna nel caminetto e il sibilare delle fiamme sempre più alte e roventi riempirono il silenzio dove non traspariva nemmeno il flebile suono dei loro respiri.

Estonia, nel sentire pronunciare il nome di Leningrado, fu colto da un brivido, come se qualcuno gli avesse infilato una manciata di neve sotto la camicia. “D-dovremmo...” Spostò gli occhi su Russia, protetto dal traballare delle fiamme specchiate sulle sue lenti. “Leningrado dovrà essere una nostra priorità, allora, signore?”

Russia corrugò anche l’altro sopracciglio. L’espressione pensosa, anche se esausta. “Indubbiamente,” rimuginò, “ho trascurato fin troppo la situazione al nord, nonostante ormai sia arrivata a un punto stabile. Potrei...” Spinse le spalle all’indietro e accasciò il peso sullo schienale della poltrona. “Porla fra le mie priorità, ora che siamo in pieno inverno e che sicuramente la situazione sui campi di battaglia sarà rallentata.” Strinse il mento fra le dita. Quella prospettiva ravvivò anche se di poco la luce nei suoi occhi. “Potrei davvero raggiungere Leningrado di persona e dirigere la difesa direttamente sul campo.” Le fiamme del caminetto si abbassarono. Il suo volto tornò nero e tetro, la sua voce grave. “E soprattutto occuparmi dei traditori che stanno continuando a sostenere l’attacco per ordine di Germania.”

Estonia deglutì e si strozzò con il suo stesso fiato. Sudori gelati gli attraversarono il viso, brevi tremori discesero la schiena e gli fecero ballare le ginocchia. Nei suoi occhi una sola immagine: Finlandia sconfitto, riverso in una pozza del suo stesso sangue, e l’imponente ombra di Russia a sovrastarlo.

“Ma per ora...” Russia sventolò una mano e scacciò il problema. “Direi di consolidare il fronte invernale, se non altro per mantenere una buona linea di difesa sui territori che sono ancora in mano nostra, e basare il nostro contrattacco proprio su quelli. Quindi il Fronte di Kalinin...” Tornò a indicare le zone sulla carta. “E quello di Konev. E non voglio temporeggiamenti. Non voglio perdere nemmeno un giorno di vantaggio contro Germania per quanto riguarda le prossime fasi della guerra.” Nonostante l’amarezza in bocca e la frustrazione a bruciargli nello stomaco, fu costretto ad ammetterlo. “Germania avrà anche perso, ma è stato capace di organizzare un attacco senza precedenti, e questo perché ha tenuto molti segreti durante il corso della nostra alleanza. Non posso essere certo del fatto che non abbia ancora in serbo qualche arma o qualche strategia di cui noi non siamo a conoscenza, quindi non ci è permesso abbassare la guardia.”

“E tutto perché ci siamo fidati di lui,” si lamentò Bielorussia. “Forse...” Diede un colpetto di piede alla grata del caminetto e volse lo sguardo alle fiamme, a quella tinta ardente che rese i suoi capelli quasi trasparenti. “Il vero errore è sempre stata l’alleanza.”

“No,” la corresse Russia. “Il vero errore è stato non rendersi conto che le nostre due nazioni sarebbero inevitabilmente entrate in conflitto l’una contro l’altra. Ed è per questo...” Trasse un profondo respiro. “Che non mi lascerò mai più abbindolare in questa maniera, e che non mi fiderò mai più di nessuno.” Scosse il capo. “Tantomeno dei miei alleati.”

Di nuovo piombò il silenzio, un’aria fitta e ancora più soffocante del fumo trasudato dal caminetto. Una tensione elettrica caduta sugli sguardi di tutti, ad annebbiare le menti che stavano pensando tutte la stessa cosa.

Lituania strinse e rammollì i pugni, strizzando uno spasmo di coraggio fra le dita, e si fece avanti per primo, spinto dagli sguardi incoraggianti di Estonia e Lettonia. “A...” Si schiarì la voce. “A proposito di questo, signore...” Compì un timido passetto che però gli permise di rimanere a una cauta distanza da Russia. “Lei potrebbe approfittare della tregua invernale anche per chiarire la situazione con America e Inghilterra dato che...” Si strinse nelle spalle. “Che ora anche loro sono nostri alleati.”

Russia abbassò le palpebre per nascondere l’espressione esausta che era tornata a sciupargli il volto. Si prese la fronte fra le mani, massaggiò la fasciatura senza toccare i punti di sutura sulla ferita. America e Inghilterra. Quei nomi gli ronzarono attorno come insetti fastidiosi. Mi ero completamente dimenticato che ora anche loro due sono indirettamente coinvolti nella mia battaglia. È vero che finora mi hanno concretamente aiutato, ma come faccio a essere sicuro che anche il loro non si trasformerà in un voltafaccia com’è successo con Germania?

“Già...” Lettonia tolse le mani da davanti il fuoco, dopo essersele riscaldate, e fece tamburellare l’indice sulle labbra. “Chissà cosa stanno facendo adesso? Dopo quella chiamata a luglio, non c’è stato più modo né di sentirli né di contattarli, anche se loro hanno continuato a mandarci le armi e il cibo in scatola.”

Lituania annuì, visibilmente più rilassato. “Sì, forse sarebbe il caso di contattarli. Se non altro per fare loro sapere che Germania sta arretrando e che noi siamo pronti a una controffensiva su tutti i fronti. Forse il loro aiuto potrebbe essere determinante per prevalere anche nelle prossime fasi della guerra, e...” Abbassò la voce. “E forse porle definitivamente fine.”

Russia ignorò l’ultimo commento, fece finta di non averlo udito, e si limitò ad annuire. “Forse dovrei,” sospirò a malincuore. “Forse dovrei davvero discuterne una volta per tutte con America e con Inghilterra, faccia a faccia.” Finora ho preferito evitare di pensarci perché non ero sicuro di vincere contro Germania, e piuttosto che trascinarmi da loro in veste di perdente, chiedendo aiuto per liberare la mia capitale dall’invasione tedesca, avrei preferito morire per mano della Wehrmacht. Ma ora è diverso. Ora ho vinto. E magari saranno proprio America e Inghilterra a strisciare da me e a implorarmi di aiutarli a sconfiggere le Potenze dell’Asse. Però... “È chiaro che senza Inghilterra e America non potremo mai venire a capo di questa situazione, quindi per ora ascolterò quello che avranno da dirmi e agirò di conseguenza.”

Bielorussia arricciò la punta del naso in una smorfia di disgusto. “Perché dici che non ne verremmo a capo?” Si staccò dalla colonna affianco al caminetto e spalancò un braccio verso la parete. “Finora abbiamo respinto Germania sempre da soli, senza...”

“Respingere un nemico è una questione,” disse Russia. “Sterminarlo e sconfiggerlo definitivamente è un’altra. Ora noi possiamo solamente insistere sulla spinta verso ovest, sulla liberazione dei territori sovietici conquistati, e sul rispedire Germania al punto di partenza. Ma questo non lo fermerà. Anzi, lo riporterebbe solo fra le mura del suo paese, al sicuro.”

“Uhm.” Estonia si avvicinò alla carta su cui lui stesso aveva segnato gli ultimi appunti e si chinò a studiare i bracci della controffensiva che stavano spingendo le armate tedesche a fare retromarcia. “E se fossimo noi a invaderlo con la spinta verso ovest?”

“Si difenderebbe.” Russia fu irremovibile. Distese la mano a indicare le primissime conquiste di Germania risalenti a poco meno di due anni prima. “Belgio, Olanda, Francia, Scandinavia... tutti questi territori sono il suo cuscino ermetico e, finché non glieli sottrarremo, Germania avrà sempre un guanciale su cui appoggiarsi.”

“Ma allora come potremmo fare?” pigolò Lettonia. “Noi non possiamo attaccare sia da est che da ovest.”

“Per questo sono consapevole di non poter fare a meno di America e Inghilterra,” gli rispose Russia. “Per ora. Ma la vera domanda è...” Accigliò lo sguardo sulla porzione d’Europa in mano alle Potenze dell’Asse. “Loro cosa potranno mai fare per sottrarre il territorio a Germania, se Inghilterra non può mettere piede fuori dalla sua isola e se America non è nemmeno entrato in guerra?”

“Mhm.” Lituania si strofinò la nuca, scese a massaggiarsi il collo e le spalle indolenzite, e volse lo sguardo al soffitto. Scosse il capo. “Non è semplice.”

“Infatti.” Sulle spalle di Russia tornò a cadere tutto il peso della fatica che solo ora cominciava a farsi sentire, a battere di dolore sulle ferite, a rammollire i muscoli, a indurire le giunture e ad annebbiare i pensieri. Tutto attorno a lui tornò nero e nebuloso, irraggiungibile. “E ora sono fin troppo stanco per pensarci.”

Un senso di profondo affetto e protezione, lo stesso che l’aveva pervasa quando aveva raccolto Moldavia fra le braccia, cullandolo davanti al calore del fuoco, gonfiò il cuore di Ucraina, le inumidì gli occhi. Ucraina sfilò una mano dal corpicino del piccolo per poter carezzare la spalla di suo fratello. “Tu ora dovresti pensare solo a riposarti e a recuperare le forze. Alla guerra penserai quando ti sarai ristabilito.”

Lui le rivolse un sorriso stanco ma puro, uno di quegli sguardi che erano stati capaci di scambiarsi solo da bambini, quando i loro animi erano immacolati e i loro cuori liberi. Posò il tocco sulla sua mano, gliela raccolse accostandola alla sua guancia, lasciandosi carezzare il viso, e le baciò il palmo. Chiuse gli occhi e vi rimase immerso, respirando fra quelle dita bianche e sottili che, nonostante la prigionia di Germania, profumavano ancora di spezie, di erbe, di latte caldo, di vecchie coperte di lana, di tutto quello che erano stati. “Estonia.”

Estonia compì un piccolo rimbalzo, come punto da un ago. Avanzò di un passetto e raddrizzò la schiena di colpo. “Sì, signore?”

“Ho un favore da chiederti.”

Estonia batté le palpebre, confuso ma piacevolmente rasserenato allo stesso tempo. Com’è che fa tutto il gentile? “Certo, signore.”

Russia tornò a poggiare la guancia nella mano di Ucraina avvolta attorno al suo viso. Vi si abbandonò, stanco e sereno. “Ora che abbiamo ristabilito le comunicazioni e che le linee sono riparate, devo mettermi in contatto con America e con Inghilterra, per combinare un incontro fra noi tre.” Gli rivolse lo sguardo, senza però incutergli alcun timore. “Chiama l’ambasciata di Washington e vedi cosa si può fare. Poi vieni immediatamente a comunicarmelo.”

“Sì. Uhm.” Estonia annuì e si diresse alla porta. “Sissignore, vado subito.” Corse passando affianco a Lettonia che non gli tolse lo sguardo di dosso fino a che non fu sulla soglia, e richiuse la porta dietro di sé per non far uscire il calore del caminetto dalla sala.

Di nuovo lo scricchiolare delle fiamme fu l’unico suono a riempire il silenzio. Un ciocco di legno ormai carbonizzato si sfaldò, schiudendo il suo cuore di brace e seminando una manciata di scintille in mezzo al fumo. I profondi occhi di Lituania si lasciarono trascinare da quelle luci, ma erano distanti, ancora proiettati sui campi di battaglia, sui segni di matita con cui avevano marchiato le carte topografiche, sui dubbi che ancora persistevano nei pensieri di tutti. E fu proprio per questo che gli venne in mente... “Giappone.” Una bolla di pece scoppiò nel camino, accompagnando l’accensione di quel pensiero improvviso.

Tutti gli sguardi volarono su di lui, persino quello disinteressato di Bielorussia.

Lituania distolse lo sguardo dal caminetto. I tratti del suo viso apparvero più spigolosi e asciutti così avvolti dal colore del fuoco. “Se è vero che ora lei e Germania siete nemici, signore, lo stesso non si può dire anche per quanto riguarda Giappone. Il patto di non aggressione fra voi due è ancora valido, dopotutto.”

Bielorussia schiuse le labbra, tenne le parole sospese sulla punta della lingua, e scosse la testa con uno sbuffo. “Che stronzata.” Si rimise a braccia conserte, fece tamburellare le dita, e riprese a camminare avanti e indietro come durante l’attesa nella Piazza Rossa. “Anche con Germania c’era un patto di non aggressione, eppure lui lo ha comunque violato. Perché con Giappone dovrebbe essere diverso? Magari è proprio per questo che Germania gli ha fatto firmare quel patto con noi. Proprio per permettere a Giappone di attaccarci per primo.”

“No.” Russia si separò dalla mano di Ucraina, dalle sue carezze. Di nuovo una maschera di serietà s’impossessò del suo sguardo. “No, dubito che Giappone sia una minaccia. E dubito che abbia intenzione di attaccarci. Se avesse voluto farlo, lo avrebbe già fatto la scorsa estate, quando eravamo più vulnerabili a causa della sorpresa di Germania.”

Bielorussia lo squadrò da sopra la spalla, da dietro una ciocca di capelli scivolata sulla guancia. “E cosa dovrebbe trattenerlo dal fare una bastardata simile?”

“Perché è troppo onesto?” azzardò Lituania.

Ma Russia scosse il capo. “Un intervento di America, mi sembra ovvio. Ecco cosa lo sta facendo desistere.”

Bielorussia non si convinse. “Ma America non ha mosso un mignolo finora.”

“Solo perché non ha ancora avuto un vero motivo per farlo,” ribatté Russia. “Ma ora il conflitto sta raggiungendo dimensioni sempre più ampie, e rimanere in disparte potrebbe nuocere alla sua immagine globale, quindi le cose potrebbero cambiare.” Si strinse nelle spalle. “Ma America è tanto imprevedibile quanto stupido, per questo ho bisogno di conoscere le sue intenzioni il prima possibile. Non sopporto l’idea di avere così poco controllo sulle azioni dei paesi che ora sono anche miei alleati.”

Lettonia si sporse verso l’uscita, socchiuse la porta e diede una sbirciata al corridoio. “Chissà se Estonia è già riuscito a contattare l’ambasciata? È già da un pezzo che è via.”

“Forse ci sono ancora problemi con le linee.” Lituania attraversò la luce proiettata dalle grate del caminetto e raggiunse l’uscita. “Vado a controllare che sia tutto a posto.”

“Vengo anch’io!” Lettonia lo rincorse senza aspettare alcuna risposta affermativa. “Aspettami.”

“Non rimanete troppo nelle sale che non sono state ancora riscaldate,” li ammonì Russia, con tono apprensivo. “Se i telefoni e le radio non funzionano allora tornate subito qui.”

“Sì, signore.” Richiusero la porta e anche i loro passi si persero nel corridoio, fino a diventare un soffice picchiettare ovattato, e poi niente.

Ancora addormentato in braccio a Ucraina, nonostante tutto quel parlare da parte dei grandi, Moldavia schiuse le labbra in un profondo sbadiglio che mise in risalto le punte acuminate dei suoi canini. Si diede una strofinata agli occhi con la manica della maglia, e si rigirò fra le braccia di Ucraina, tornando acciambellato e addormentato come un orsacchiotto nella tana.

Russia si rialzò dalla poltrona. Sorrise al piccolo. “Sei stanco, Moldavia?” Lo raccolse fra le sue braccia e gli passò una tenera carezza fra i capelli sciolti. “Da quanto tempo non dormi nel tuo lettino, vero?”

In risposta, Moldavia spalancò un altro sbadiglio e nascose il visetto contro il petto di Russia per ripararsi dalla luce del camino che gli batteva sugli occhietti chiusi.

Russia lo affidò all’unica persona che in quel momento poteva occuparsi di lui. “Portalo nella sua camera,” disse a Bielorussia, porgendolo fra le sue braccia, “e assicurati che stia al caldo.”

Bielorussia fece roteare lo sguardo, gorgogliò un lamento a denti stretti, aprendo e strizzando le mani sulle braccia conserte, ma alla fine accettò senza troppe storie. “D’accordo.” Raccolse il marmocchio, se lo caricò in spalla come quando se lo era portato dietro durante le battaglie, e anche lei riattraversò le luci traballanti del caminetto.

“E...” La voce di Russia tornò a chiamarla. “Bielorussia.”

Lei si girò subito dopo aver schiuso la porta.

Russia le sorrise. Un sorriso caldo e fraterno, intiepidito dalle tinte morbide del focolare acceso. “Riposati anche tu, da brava.”

Bielorussia divenne paonazza. Gli diede le spalle, “Non credo proprio”, e marciò via a passo pesante, facendo l’offesa.

Rimasto solo con Ucraina e con il fuoco del caminetto, Russia scosse il capo in un gesto sconsolato. “Sciocca sorellina.” Andò a raccogliere un grosso ciocco dal cesto, spostò la grata, e diede il legno in pasto alle fiamme. Una vampata di luce e calore bruciò sul suo viso, s’innalzò rigettando scuri nastri di fumo, e tornò ad acquietarsi, a mangiucchiare il nuovo boccone e a gorgogliare come un gatto che fa le fusa.

In pochi passi, Ucraina raggiunse la poltrona più prossima al caminetto, si aggrappò allo schienale e si lasciò scivolare seduta. La mano posata sul cuore come dopo uno sforzo, ma l’espressione più serena e le guance più rosee, nonostante l’assenza di sorriso. “Cambieranno molte cose da ora in poi, non è vero?” Si perse con lo sguardo fra le fiamme. Luci roventi a guizzare attraverso i suoi occhi d’acqua. “So che la guerra non è finita, so che nessuno di noi è fuori pericolo, e so che il mio paese e la mia capitale sono ancora in mano nemica.” Giunse le mani in grembo e questa volta sorrise senza sforzo. “Ma sono così felice di essere di nuovo a casa.”

Russia tese il braccio per raggiungerla, di nuovo animato da quella sensazione di vuoto e di perdita che lo spingeva a rimanerle vicino. “Sorellona.”

Ucraina gli raccolse la mano e questa volta fu lei ad accostarla alla sua guancia. Gli sfiorò le nocche con labbra piene e tiepide. Il suo respiro profumato sulla pelle gli trasmise un brivido. “Non ho potuto dirtelo prima perché è successo tutto così in fretta e perché il pericolo non era ancora del tutto cessato.” Chiuse gli occhi, le sue labbra tremarono. “Nonostante il periodo spaventoso che stiamo vivendo, nonostante tutte le disgrazie e le crudeltà che la guerra sta portando nelle nostre vite, tu hai dimostrato che in mezzo a tutto questo buio può ancora esistere qualcosa di buono a cui aggrapparsi per non perdere la speranza che torni la pace.” Di nuovo un sorriso le toccò la bocca e le irradiò il cuore. “Grazie.” Contenne a stento le lacrime. “Grazie per non avermi abbandonata.”

Quel pianto contagiò anche Russia, nonostante non avesse bisogno di spandere altre lacrime. Dopo aver affrontato il dolore della perdita, la fatica delle battaglie, il tormento della sua continua guerra interiore, finalmente ne ebbe la certezza. Ebbe la certezza che era valsa la pena affrontare ogni suo conflitto per riavere indietro Ucraina.

Scivolò sulle ginocchia e lasciò cadere il capo in grembo a Ucraina, tenendosi stretto a lei come faceva da bambino durante le notti più buie e le tempeste più gelide. “Se ti fosse successo qualcosa di brutto,” sussurrò, “se Germania ti avesse ucciso mentre eri prigioniera e se io non fossi riuscito a riportarti a casa...” Scosse il capo, si tenne aggrappato alle sue mani. “Non me lo sarei mai perdonato.”

Ucraina gli carezzò i capelli, posò un bacio sul suo capo, e rimase china ad abbracciarlo. “È tutto passato.” Un’altra carezza attraverso il tepore della nuca. “Ora va tutto bene. È tutto passato.”

Nonostante il sollievo di quel tocco che pareva riportarlo indietro nel tempo, nonostante la gioia di riavere sua sorella affianco, nonostante la soddisfazione di aver scacciato l’invasione tedesca, Russia non riuscì a rallegrarsi. Una vocina sottile e gelida come la caduta della neve continuava a ripetergli di pensare solo alla guerra, alle battaglie che sarebbero seguite, a un modo per uccidere Germania. “Quando eri prigioniera di Germania,” domandò a Ucraina, “c’è stato qualcosa che lui ti ha detto riguardo le sue intenzioni nei confronti del conflitto? Qualcosa...” Cercò il suo sguardo senza sollevare il capo dal suo grembo. “Che ora potremmo usare contro di lui?”

“Oh, no.” Ucraina si affrettò a scuotere la testa. “Con me non parlava mai dei suoi piani d’attacco o della sua strategia. Sarebbe stato controproducente, non trovi?”

“Ed era sul serio così sicuro di riuscire a prendere Mosca?” Russia non riuscì a disfarsi di quel sospetto pungente. “Non ha mai fatto parola di un possibile fallimento? Di quello che avrebbe fatto se fosse stato costretto a un’arretrata?”

“No.” Ucraina rispose con naturalezza, senza imbroglio, senza malizia. Il suo cuore non ne era capace. “No, lui veramente è...”

La porta della sala tornò ad aprirsi, fece scivolare dentro l’ombra di Bielorussia. “Il marmocchio è completamente crollato. Se siamo fortunati dormirà fino a domani mattina senza fare storie.” Si riaccostò al caminetto, aprì le mani davanti al calore delle fiamme, dandosi una rapida sfregata ai palmi, e si guardò attorno. Inarcò un sopracciglio. “I tre sfigati non sono ancora tornati?” Si strinse i fianchi. La posa rigida davanti alle fiamme del camino. “Si può sapere perché cazzo ci impiegano tanto? Si sono persi in casa loro?”

Russia sciolse l’intreccio dalle mani di Ucraina e si rialzò dal pavimento. “Vado a controllare.”

“Se ci sono ancora problemi con le linee,” gli disse Bielorussia, “dubito che riuscirai a fare qualcosa.”

“Non importa.” Russia scostò la porta, si rimboccò la sciarpa attorno al collo, e avanzò attraverso l’aria più buia e fredda del corridoio. “Voglio comunque controllare di persona.” Camminando fra le pareti deserte del Cremlino, inseguito dall’eco dei suoi passi, dal pensiero di Germania che non lo abbandonava come il dolore alle ferite, Russia tastò una nuova tensione elettrica, una vampata di brividi che penetrò fin sotto gli abiti, facendogli salire la pelle d’oca.

Si diede una strofinata alle braccia, incolpò lo sbalzo di temperatura dalla sala al corridoio, e proseguì, ignaro di quello che si era appena consumato dall’altro capo del mondo e che lo stava aspettando a solo qualche sala di distanza.

 

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Russia accostò la mano alla porta della sala delle comunicazioni. Qualche bisbiglio – riconobbe chiaramente la voce innervosita di Estonia e quella più pacata ma altrettanto tesa di Lituania – attraversò l’alta giungendo fino al suo orecchio, trasmettendogli lo stesso brivido pungente che aveva provato nell’addentrarsi nel corridoio. Molto sospetto.

Russia scosse il capo. Che sciocco, sarà sicuramente la stanchezza che mi gioca brutti scherzi. Certo, sono solo stanco. Sistemerò questa faccenda con America e poi darò retta a Ucraina e andrò a riposare per almeno un paio d’ore. Mi farà bene. Spinse la porta senza esitazione. “Siete riusciti a...” Lasciò entrare un flebile fascio di luce nella camera e congelò il passo sulla soglia.

Estonia era seduto al tavolo, chino sull’apparecchio, con le mani tremanti chiuse sui padiglioni delle cuffie, e uno sguardo vitreo perso nel vuoto. Lettonia soffocò un gemito dentro le mani che aveva sovrapposto sulla bocca, spostò un rapido sguardo su Russia, e anche lui tornò a fissare la radio. Lituania, bianco come un lenzuolo, vacillò di un passo indietro e strinse le labbra per non rendere ovvio il loro tremolare, come in preda a un conato di nausea.

Una scossa di sospetto saettò lungo la schiena di Russia, riaccese in lui quel brivido rovente. “Cos’è successo?”

I tre Baltici si guardarono. Le espressioni bianche e indecifrabili.

Estonia trasse un respiro spezzato. “S-signore, è...” Si tolse le cuffie e si girò traballando verso Russia. Per poco non cadde dalla sedia. “È successo...”

Lituania strinse i pugni, riprese il controllo, rimase integro, e compì un passo davanti agli altri due. Il pallore sempre lì a sciupargli quell’espressione allucinata. “Io temo che America non potrà essere in grado di riceverla al più presto, signore.”

Quel presagio si condensò in realtà. Una realtà che avrebbe cambiato tutto, come aveva detto Ucraina solo qualche attimo prima. Una realtà che avrebbe presto ribaltato le sorti dell’intera guerra, trasformandola finalmente nel definitivo Secondo Conflitto Mondiale che avrebbe inondato di sangue e morte l’intero pianeta prima di saziare la sua sete.

   
 
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