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Autore: Ethan Atlas    23/09/2019    4 recensioni
Leone ha una malformazione cardiaca fin dalla nascita, ed è in lista d'attesa per un trapianto, quando incontra Alessandro. Questa è la loro storia, raccontata su uno dei testi più belli dei Foo Fighters.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Ciao, io mi chiamo Ethan, e questa è la prima storia originale che pubblico, anche se non è proprio la prima che scrivo. Questa storia è stata scritta per il contest "Playlist", indetto da Soul Dolmayan. Le storie del contest dovevano essere basate su una canzone, e a me è uscita Wheels, dei Foo Fighters. 

Questa è una storia originale, i personaggi di Leo e Ale sono entrambi di mia invenzione, ma Leo è vagamente basato sul personaggio di Braccialetti Rossi di cui porta il nome. 

Wheels è una canzone complicata. Non è stato facile interpretarla, né darle una storia. Il testo parla di speranza, ma in modo malinconico e insolito. Per citare il vecchio saggio Albus Silente, parla della speranza che si cela negli angoli più bui, se solo ci si ricorda di accendere la luce. 

Indipendentemente dal risultato che otterrò nel contest, sono molto soddisfatto di questa storia, e credo che scriverò ancora di Leo e Ale. 

Prima di cominciare, volevo darvi qualche riferimento per visualizzare i due personaggi. La storia dura circa quattro anni, e comincia con Leo diciottenne. Leo è un ragazzo minuto, è magro e di carnagione molto chiara, e adora i vestiti larghi, che accentuano sua corporatura esile. Ha il viso delicato e sottile, gli occhi azzurri e i capelli quasi neri, non troppo lunghi, ma nemmeno troppo corti. Ale invece ha sei anni in più, ha appena finito l'università di lettere classiche e lavora in una casa editrice. Non ha mai avuto il coraggio di ammettere a sé stesso di essere gay fino alla fine del liceo, ma da lì in poi l'ha vissuta molto serenamente. Ale è un bel ragazzo, e non ci ha messo molto a cominciare a fare esperienza. È alto e ha un fisico secco e slanciato, ha i capelli biondo scuro, e gli occhi color nocciola. Ha un po' di barbetta che tiene sempre piuttosto corta, e i capelli mossi abbastanza lunghi da solleticargli le spalle, anche se di solito li tiene legati. 

Spero davvero che la storia vi piaccia, e chissà, magari riuscirò a strapparti una lacrimuccia. 

Buona lettura, 

-Ethan

 

 

Wheels

 

 

La prima volta che lo vidi stava bene.

Beh, più o meno, considerando che era ricoverato in ospedale.

Non avevo idea di chi fosse, né l'avevo mai visto prima, ma per uno scherzo del destino quando entrai in quella sala d'aspetto quello accanto a lui era l'unico posto libero.

Aveva una felpa nera che gli stava enorme, i pantaloni della tuta e delle Nike bianche. Per quel che riuscivo a vedere aveva un viso grazioso e delicato, ma le guance scavate gli facevano sembrare gli zigomi appuntiti in modo quasi innaturale e i cerchi scuri sotto gli occhi risaltavano il suo colorito pallido e l'aria stanca.

Sembrava magrissimo, e i capelli neri sotto il cappuccio erano arruffati e un po' unticci, ma il dettaglio che mi incuriosì di più fu il braccialetto di plastica bianco che aveva allacciato al polso, con un codice a barre, un numero a sei cifre, e un caduceo stampati sopra.

Io odiavo gli ospedali, ma forse era perché stavo bene, mentre lui dormicchiava tranquillo in quella sala d'aspetto, e per un momento non potei fare a meno di chiedermi come mai fosse ricoverato. 

A giudicare da come sbuffò quando mi sedetti potrei scommettere entrambe le chiappe che non aveva portato con sé le cuffiette, o se le sarebbe messe.

Decise comunque di ignorarmi come meglio poteva e si voltò leggermente dall'altra parte, ricominciando a dormicchiare appoggiato al muro. Come se bastasse la mia mera presenza a infastidirlo.

Cercai di impormi di stare calmo, ma nel giro di venti secondi avevo ricominciato a tamburellare a terra col piede e a sfregarmi le mani fradice di sudore. Lui mi guardò come se fossi un pazzo furioso, con un sopracciglio inarcato lo sguardo rassegnato. 

-Vuoi farti uccidere?- mi chiese, sarcastico. 

-Uh, no, non credo...- risposi, continuando a sfregarmi le mani. -Tu l'hai mai fatto?- glielo chiesi senza nemmeno pensarci. 

Lui mi guardò se possibile anche peggio di prima. 

-Ho mai fatto cosa, di preciso?- 

-Una TAC.- 

-Una TAC? Cos'è hai paura degli aghi?- 

Annuii nervosamente, e lui scoppiò a ridere, scuotendo la testa. -Cazzo amico, sei messo male allora.- ridacchiò. 

-Cosa?! Usano degli aghi?-

-Certo che usano degli aghi cazzo, come pensi che lo facciano il cazzo di esame? Non si chiama mica Agoaspirazione Transarteriosa a Contrasto perché suonava bene.-

-Stai scherzando?- gli chiesi, in preda al panico. 

-Ho la cazzo di faccia di uno che scherza?- disse, impassibile, gli occhi così fermi da essere quasi minacciosi. 

-Ma perché la A e la T sono invertite?-

-Ma che cazzo ne so, perché era in inglese.- mi rispose, scocciato. Aveva anche senso. -Comunque, perché ti fanno una TAC?-

-Oh, mi hanno picchiato e avevo una costola rotta, devono vedere se il polmone è a posto... Cavolo, mi avevano detto che non servivano aghi, che era tipo una radiografia...- piagnucolai. 

-Certo che ti hanno detto che non si usano aghi, genio, altrimenti saresti scappato a gambe levate.- disse lui. 

-Fa così male?- chiesi, con la voce che tremolava. 

-Beh, si, ma se è da fare è da fare, no?- commentò, facendo le spallucce e appoggiando la testa all'indietro, contro la parete, chiudendo gli occhi. Calmo come un laghetto di montagna, mentre io mi mangiavo le mani strizzato su quella sedia e pensando che probabilmente di lì a pochi minuti sarei stato coperto di aghi. 

 

One, two, three, four

I know what you're thinkin'

We were goin' down

I can feel the sinkin'

But then I came around

 

Anche la seconda volta che lo vidi, seduto al bancone di quella piccola discoteca gay, stava bene.

Beh, più o meno, penso fosse abbastanza ubriaco.

Ricordo il suo viso, ancora un po' pallido e scavato, e i suoi capelli, che ora erano morbidi e soffici. La sua pelle morbida rifletteva le luci colorate della discoteca, e i cerchi sotto gli occhi erano quasi spariti.

Ricordo che aveva in mano un drink rosa in un bicchiere da martini dall'aspetto orrendamente dolce, e che si spostava una ciocca di capelli neri dal naso soffiandoci contro.

Pensai che fosse bellissimo, seduto lì da solo come se nulla fosse, in mezzo alla musica e alle luci che lo facevano sembrare surreale.

Ricordo la sua giacca bianca, e i pantaloni aderenti che lo facevano assomigliare a Freddie Mercury, e ricordo che finì quel drink rosa e che si avvicinò a me cercando di far finta di esserci capitato per caso. 

-Guarda chi si rivede, dottor House.- lo presi in giro. 

Lui ridacchiò.

Aveva un bel sorriso, dopotutto. Era pallido e magrolino, ma il suo sorriso era spettacolare già allora. 

-Posso offrirti qualcosa da bere?-

-Davvero sei abbastanza grande per pagarmi da bere?- chiesi sarcastico. 

-Beh per cominciare, vaffanculo. Tu sei uno di quei cowboy del cazzo da birra e whisky eh? Devo essere sincero però, non credevo fossi frocio.- commentò lui, acido, schiaffando una banconota da venti euro sul bancone del bar. -Un gin lemon e una birra rossa Luis.- disse al barista con i capelli biondo platino, che gli annuì con un occhiolino. 

-Perché, avere paura degli aghi non è abbastanza gay?- chiesi. 

-Naah, fare la checca con quello seduto di fianco a te all'ospedale non è abbastanza gay. E neanche dire che ti hanno picchiato.-

-Davvero?- chiesi, sarcastico.

-Certo. Non si dice mai che ti hanno picchiato. "Ho fatto a botte", magari, ma mai "mi hanno picchiato".- disse, come se fosse la prima cosa che gli avevano spiegato alle elementari. 

-Oh beh, grazie dell'illuminante spiegazione. A proposito di spiegazioni, ho fatto la TAC, e a quanto pare bisogna solo sdraiarsi in un tubo, l'avresti mai detto?- gli dissi con un ghigno. 

Lui ridacchiò di nuovo, e tentennò un po' prima di rispondere. -Andiamo, era uno scherzo innocente, ti stavi cagando in mano anche prima che intervenissi io.- 

-Quello sicuro, ma non hai migliorato la situazione! Tu e l'agoaspirazione di chissà cosa...- risi io, scuotendo la testa e bevendo un sorso di birra. -Che vuol dire TAC in realtà?-

-Tomografia Assiale Computerizzata. Però non era male il nome, ammettilo.-

-Cazzo no, sembravi uno che la sa più lunga di quel naso che ti ritrovi.- Continuai a prenderlo in giro, volevo vedere quanto ci avrebbe messo a mandarmi a fanculo. Volevo vedere quale sarebbe stata la domanda sbagliata. La trovai subito. 

-Che ci facevi lì dentro?-

Lui bevve un sorso di drink dalla cannuccia nera. -Niente, un esame di controllo.- 

-Non pensi che se qualcuno ti piace abbastanza da offrirgli da bere non dovresti mentire? Eri ricoverato, non stavi facendo un controllo.-

Non mi guardò. -Certo... Cosa mi ha tradito?-

-Beh, nessuno diventa così scassacazzo solo per un esame di controllo.- dissi. -E avevi il braccialetto al polso.- 

-Il braccialetto...- borbottò, ricordandosene. -Allora ti propongo una cosa...- mi guardò schioccando le dita. 

-Alessandro.- 

-Alessandro! Io sono Leone, ti propongo una cosa Alessandro. Adesso prendiamo una bottiglia e facciamo un gioco. Se vuoi sapere qualcosa di me, me la chiedi e bevi un bicchiere, se voglio sapere qualcosa io te la chiedo e bevo. Quindi per cominciare ti bevi un cazzo di bicchiere, poi mi fai il favore di chiedermi qualcosa che ti interessa davvero, e non perché ero ricoverato in un fottuto ospedale.- disse. 

-Mi dispiace...- tentai. -Davvero non volevo, non devi rispondere se non...-

-Non rompere il cazzo.- Tagliò corto lui. -Si chiama stenosi aortica. Vuol dire che la valvola da cui passa il sangue per uscire dal cuore è andata a puttane. Bevi.-

 

And everyone I've loved before

Flashed before my eyes

And nothin' mattered anymore

I looked into the sky

 

Leo era... speciale.

Aveva passato gran parte della sua vita in ospedale, tanto che ormai quando ci andava lo conoscevano tutti, che per me era assurdo vista l'infinità di persone che lavora in ospedale. 

Aveva l'insopportabile modo di fare saccente e sarcastico tipico di quei ragazzini cresciuti un po' per conto loro, ed aveva un'interessante tendenza malinconica e rassegnata che lo faceva sembrare un personaggio di un libro di Hemingway. 

Viveva da quando era bambino con la consapevolezza di essere diverso dagli altri, ma non nel senso che si intende di solito, perché una volta un dottore gli aveva accuratamente spiegato che il suo corpo era difettoso. I bambini in ospedale sono disarmati da questo punto di vista, e come tanti altri, Leo aveva finito per crescere guardando i suoi coetanei da dietro un vetro. 

Era sempre stato un bambino timido e solitario, entrambi tratti che non andavano per niente d'accordo con la sua personalità rumorosa ed esuberante, ed aveva cominciato a prendere in mano le cose solo da poco, quando aveva realizzato che, cuore o no, era abbastanza grande per uscire la sera. 

Da lì, Leo aveva cominciato a passare una sera sì e una no fuori di casa, scoprendo pian piano i bar e i locali della città, con tutte le meravigliose relazioni umane che si intrecciavano al loro interno, e aveva cominciato a imparare come si faceva. Aveva guardato gli altri, e aveva cominciato a imitarli, a farsi degli amici e a provarci con le ragazze, realizzando quasi subito di essere gay, nonostante i suoi tentativi da goffo Dongiovanni andassero spesso a buon fine. 

Coi ragazzi non era altrettanto semplice, purtroppo. Lo mettevano un po' più in soggezione delle ragazze, cosa che non gli piaceva per niente, ma che aveva capito essere normale.

Inoltre aveva diciotto anni, ma nonostante odiasse il pensiero di non poter davvero fare quello che voleva, non poteva. Voleva sperimentare, buttarsi, fare esperienze nuove, ma doveva stare attento a girare per strada, e voleva avere la santissima libertà di fare sesso con qualcuno nel bagno solo perché gli andava, ma sapeva molto bene che una qualsiasi malattia sulla fascia dell'HIV lo avrebbe escluso all'istante dalle liste d'attesa per i trapianti d'organo. 

Leo viveva circondato da libertà. Circondato da persone che si divertivano, che si fumavano una canna con gli amici e che facevano sesso nel bagno con qualcuno solo perché gli andava di farlo, e nonostante avesse diciotto anni, era stato costretto ad accettare che era ancora il bambino che guardava il mondo da dietro un vetro. 

Ricordo ancora lo sforzo che dovetti fare anche solo per realizzare quanti di quei problemi io gli avessi risolto, per il solo fatto di essere entrerato a far parte della sua vita. 

 

Well we all want something better than

We wish for something new

Well we all want something beautiful

I wish for something true

Been lookin' for a reason and

Something to lose

 

La prima volta che mi baciò fu strano. 

Io non ebbi le palle di farlo, ovviamente, ma lui sì, e penso non aspettasse altro. 

Stavamo uscendo insieme da un paio di settimane, avevo deciso di portarlo a cena nel ristorante in collina in cui andavano sempre i miei genitori, e dopo cena ci eravamo sdraiati sull'erba a guardare le stelle. 

-Allora? Come sono da qui?- gli chiesi. 

-Bellissime...- disse lui. -Dalla città non si vedono così bene...-

-Lo so... È la luce dei lampioni, molte stelle non sono abbastanza luminose, e se non è completamente buio non si vedono. Nei posti dove si vedono davvero bene si riesce a vedere la Via Lattea, ma di solito sono posti un po' scomodi... tipo il Nepal per intenderci.-

Leo ridacchiò. -Beh andiamo in Nepal allora.-

-Come no, dammi cinque minuti e prenoto il volo.- scherzai io. 

Lui si si alzò sui gomiti e guardò dall'alto. -Non sto scherzando, Ale. Io... Tu mi piaci. Sei gentile e ti preoccupi e non mi mandi a fanculo quando faccio lo stronzo. Io ci verrei via con te.-

-Anche tu mi piaci Leo, davvero. Però non possiamo fare le valigie e andarcene, a tua madre verrebbe sicuramente un colpo. E credimi, il Nepal è davvero tanto lontano.-

Lui si sdraiò di nuovo. -Ci sei stato?-

-In Nepal? Si, qualche anno fa con la mia famiglia.-

-Che figata...- sussurrò. 

Restammo in silenzio per qualche secondo, poi Leo si puntellò di nuovo sui gomiti, facendo frusciare l'erba sotto di lui. 

-Me la prometti una cosa?- mi chiese. 

-Tipo?-

-Se staremo ancora insieme, fra qualche anno, quando ci saremo sistemati o vivremo insieme o che ne so, andremo in uno di quei posti. Uno di quei posti dove si vede il cielo, non mi interessa quanto è lontano.-

-Forse si può fare.- mormorai, guardandolo negli occhi blu. 

Lui sorrise.

Sorrise e si abbassò, appoggiando le labbra sulle mie. Io gli infilai le dita nei capelli morbidi, e dopo qualche secondo lui prese confidenza e mi appoggiò una mano sul petto. 

-Ti amo...- sussurrò, fra un bacio e l'altro, assaporando la sensazione del mio sorriso contro la sua bocca.

 

When the wheels come down

When the wheels touch ground

And you feel like it's all over

There's another round for you

When the wheels come down

 

La prima volta che facemmo l'amore fu ancora più strano. 

Leo era curioso e spigliato, e da quando feci le analisi per controllare che non avessi nemmeno l'ombra di una malattia, la cosa mi sfuggì di mano molto più velocemente di quanto avessi voluto. 

Io abitavo da solo, ed era fin troppo facile, e Leo aveva capito che tanto sarebbe riuscito a convincermi a fare qualunque cosa. 

Lui voleva provare, voleva sapere cosa si provava.

Era il frutto proibito che da mesi guardava penzolare dall'albero, e ora ce l'aveva in mano, e da quelle analisi a quando mi fece una sega passarono a malapena i dieci minuti che ci mettemmo ad arrivare alla mia macchina nel parcheggio sotterraneo del reparto di analisi del policlinico. 

Io però non ero sicuro.

Leo era eccitante, e rilassato, e adorabilmente goffo, ma in confronto a me era così piccolo... Era così leggero che quando lo avevo in braccio, sul mio divano blu un po' sfondato, quasi non ne sentivo il peso.

Era minuto, e considerevolmente più basso di me, e io mi divertivo a sollevarlo, a mettermelo in spalla mentre provava a farsi mollare, o a ribaltarlo quando era a cavalcioni su di me per intrappolarlo sotto al mio corpo. 

Quando facevamo la lotta, o gli facevo il solletico, o mi sdraiavo su di lui, stavo sempre attento. Sapevo di essere più grosso, e Leo sembrava così delicato, così fragile. 

Avevo una paura tremenda di fargli male, ma non riuscii a rimandare la cosa più in là di tanto, come ho detto Leo avrebbe potuto convincermi a fare qualunque cosa, e lui lo sapeva. 

Quella sera eravamo entrambi un po' brilli, anche se lui reggeva l'alcool molto meno di me.

Mi era saltato in braccio, con le gambe sottili fasciate in quei maledetti pantaloni aderenti strette attorno alla mia vita.

Dovetti fare un notevole sforzo per aprire la porta del mio appartamento e magari richiuderla anche.

Arrivati in camera lo mollai sul letto senza troppi complimenti, e mi sfilai la felpa e la maglietta insieme, rimanendo a petto nudo mentre Leo mi guardava a bocca aperta. 

-Hai cambiato idea?- gli chiesi. 

Lui scosse la testa. 

-Bene.- mormorai io, abbassandomi per baciarlo mentre gli sbottonavo la camicia bianca. 

Scoprii pian piano le lunghe cicatrici chiare sul suo sterno, e quella più piccola sotto la clavicola destra, sfiorandole con le dita e sentendo l'osso sotto la sua pelle pallida, ruvido e irregolare per via degli interventi, mentre con l'altra mano gli accarezzavo la pancia, morbida e piatta. 

Ricordo che dopo che finimmo lo strinsi a me, fregandomene del fatto che eravamo entrambi sudaticci e appiccicosi, e che lui appoggiò la testa sul mio petto mentre riprendeva fiato. 

-Ale?- sussurrò, come per non svegliarmi in caso mi fossi addormentato.

-Mh?- 

-Grazie...- disse. 

Io risi. -Beh prego. Com'è stato? Non ti ho fatto male vero?-

-No, non mi hai fatto male, ma apprezzo la preoccupazione.- mi prese in giro. -Possiamo rifarlo?-

-Oddio Leo ma che ormoni hai? Dammi cinque minuti dai, domani lo rifacciamo.- 

-Domani o fra cinque minuti?- chiese.

Io presi il suo cuscino e me lo schiaffi in faccia. -Domani.- borbottai, ovattato dal cuscino morbido. -Sono troppo vecchio per queste cose...-

 

Now your head is spinning

Broken hearts will mend

This is our beginning 

Coming to an end

 

La prima volta che stette male davvero per poco non stetti male anche io. 

Era novembre, vivevamo insieme da qualche mese, ed eravamo andati a dormire in mutande, come sempre.

Leo si era a coccolato sotto al piumone con la schiena contro il mio torace, godendo del mio calore corporeo, e come sempre dopo una mezz'ora eravamo separati, io che dormivo in una posizione improponibile e Leo che se ne stava nella sua metà di letto e mi prendeva un po' a calci quando mi muovevo troppo e lo svegliavo. 

Quella notte mi svegliò un calcio.

O almeno io lo interpretai come un calcio, ma era una gomitata.

Mugolai infastidito, e mi rigira un po', ma ne arrivò un'altra, più forte, sulla schiena, accompagnata da un lieve rantolo.

Aveva gli occhi spalancati e sembrava assolutamente terrorizzato. Era sudato fradicio e aveva la fronte bollente, e si stringeva la gola, ansimando come se nell'aria fosse sparito l'ossigeno. 

Saltai giù dal letto e mi infilati i primi pantaloni che trovai, recuperando la coperta di pile dall'armadio.

Abitavamo vicino all'ospedale, e sapevo che avrei fatto molto prima a portarvelo in macchina che a chiamare un'ambulanza. Avevo istruzioni precise di portarlo in ospedale io finché il suo cuore batteva, anche se male, e di chiamare i soccorsi solo se andava in arresto e aveva bisogno di un defibrillatore e magari di qualcuno che lo sapesse usare.

Quella notte mi tolsero la patente. Bruciai tutti i semafori e polverizzai i limiti di velocità sul tragitto da casa nostra all'ospedale.

Ancora oggi ringrazio il cielo che fossero le tre del mattino e che non ci fosse nessuno per strada, e che la polizia abbia deciso di non arrestarmi.

Arrivammo in pronto soccorso in poco più di cinque minuti, io a torso nudo, con Leo in braccio, ancora in mutande sotto la pesante coperta rossa con cui lo avevo avvolto. Teneva la testa appoggiata alla mia spalla, mugolando di dolore, ma smise di resistere quando entrammo in ambulatorio, abbandonando la testa all'indietro esausto. 

-Aiuto!- gridai, guadagnandomi all'istante l'attenzione che mi serviva. -Aiuto, è cardiopatico, non respira!-

Un ragazzo in uniforme mi venne incontro, e mi aiutò ad appoggiare Leo a terra mentre gli sentiva il battito. -D'accordo va tutto bene, ora sistemiamo tutto. Ti ha detto che cos'ha di preciso o sai solo che è cardiopatico?-

-Ha una stenosi aortica, ma il ventricolo è inspessito e non riescono a sostituire la valvola, è in lista per il trapianto.- dissi, in preda al panico.

-Portami dell'adrenalina, e chiama cardiochirurgia, ha la valvola ostruita!- ordinò a un altro infermiere, che tornò dopo pochi secondi con una vaschetta di acciaio. 

Il ragazzo in uniforme prese una siringa con l'ago fin troppo grosso piena di un liquido giallastro, e iniettò il contenuto nel torace di Leo. 

Fu questione di secondi prima che si svegliasse, non ho idea di cosa stracazzo fosse quella roba gialla, ma funzionò a meraviglia. 

Per un attimo avevo pensato che non li avrei rivisti mai più quegli occhi azzurri, e quando Leo fece li sforzo di riaprirli mi sentii come se avessi potuto caderci dentro.

-Ciao Leo...- piagnucolai. 

-Mmh... Ma che succede?- mugolò lui, strizzando gli occhi, infastidito dalle luci al neon. -Fa male...-

-Lo so, sei stato male, ti ho portato in ospedale. La tua valvola aveva voglia di sfarfallare un po', ma sta arrivando il chirurgo, ora ti sistemano. Andrà tutto bene vedrai.- dissi, cercando di non far tremare la voce.

-Ale...- sussurrò lui. 

-No, Ale un cazzo.- lo interruppi, deciso. -Niente Ale, giuro se cominci a fare i discorsi da moribondo ti strozzo io. Cazzo, ho violato tre quarti del codice stradale, mi toglieranno anche la carta di credito, non posso averlo fatto per niente no?-

Il ragazzo in uniforme mi guardò male mentre finiva di attaccare gli elettrodi dell'elettrocardiogramma sul petto di Leo. 

-Leo, vero?- gli chiese.

Leo annuì lievemente. 

-Dammi la mano per favore, ti metto una flebo per darti qualcosa per il dolore.-

Annuì di nuovo e gli porse la mano, mentre lui scarta a un grosso ago e ci infilava sopra un rivestimento di plastica. 

Leo sussultò lievemente quando lago bucò la pelle delicata sul dorso della sua mano, ma si rilassò subito quando il farmaco trasparente nella bottiglietta di vetro cominciò a scorrere nel tubicino e a circolargli in vena.

Il cuore di Leo collassò altre due volte prima che arrivasse il chirurgo.

Gli infermieri lo sollevarono delicatamente e lo misero su un lettino, mi diedero una delle loro magliette verde acqua, e approfittano della confusione di Leo per mettergli un'altra flebo senza che nemmeno se ne accorgesse. 

Il cuore di Leo collassò altre due volte, ma quando il chirurgo arrivò lui era sveglio, e rimase sveglio per tutto il tempo. Continuavano a ripetere che era un buon segno ma io avevo solo voglia di vomitare mentre gli infilavano un ago di dimensioni ridicole nel petto e gli riaprivano la valvola dall'interno.

Ci vollero cinque persone per tenerlo fermo, prima che gli aumentassero leggermente la dose di anestetici e gli facessero perdere i sensi.

 

Well, you wanted something better man

You wished for something new

Well, you wanted something beautiful

Wished for something true

Been lookin' for a reason and

Something to lose

 

Era Natale quando arrivò la chiamata. 

L'attesa media per un trapianto di cuore in Italia è di circa tre anni. Forse non sembra molto, ma come ho detto per molti conta ogni secondo. 

La buona notizia era che da quando aveva avuto tre infarti nella stessa notte, un mese prima, la sua posizione nelle liste d'attesa per il cuore era schizzata alle stelle, e ora era praticamente in cima.

La cattiva era che il suo gruppo sanguigno, B negativo, era estremamente raro, e che quindi comunque un eventuale cuore rischiava di averne uno diverso.

La notizia di merda invece era che da quando era stato male le sue condizione erano peggiorate a vista d'occhio, era debole e aveva perso peso, e ormai era diventata una corsa contro il tempo per trovargli un cuore adatto prima che fosse troppo tardi. 

In Europa muoiono circa quattromila persone l'anno in attesa di organi che non arriveranno mai, e Leo rischiava seriamente di essere fra quelli. 

A Leo era sempre piaciuto il Natale, ma quell'anno era diverso.

Quell'anno era giù di morale, le sue condizioni erano andate peggiorando, al punto che aveva avuto altri attacchi ed erano stati costretti a mettergli un pacemaker per aiutare il suo cuore.

C'erano i farmaci che gli davano la nausea: mangiava come un uccellino ed era diventato magro a livelli preoccupanti, c'era la pressione sanguigna sotto le scarpe, e un accenno di anemia da carenza di ferro, perché la carne rossa lo faceva stare male. 

Quell'anno c'erano le iniezioni di anticoagulanti, che avrebbero dovuto essere fatte nel grasso sottocutaneo della pancia, che però sulla pancia di Leo non c'era più, e che invece finivano nei muscoli e gliela lasciavano piena di lividi, e c'erano le medicine che gli proteggevano le pareti dello stomaco dagli altri farmaci che gli davano sonnolenza, anche se non dormiva mai davvero bene. 

Quell'anno c'era la terapia di immunosuppressione, cominciata quando gli avevano messo il pacemaker, così se fosse arrivato un cuore avrebbero potuto operarlo subito senza pericolo di rigetto. Aveva il sistema immunitario a puttane, e doveva girare con la mascherina per strada per evitare di ammalarsi, e non poteva stare vicino a bambini piccoli. 

Quell'anno c'erano i problemi circolatori, che si erano aggravati insieme a quelli cardiaci. Ogni tanto aveva il fiato corto o faceva fatica a respirare, e le sue mani e i piedi erano sempre gelidi, tanto che per tirarlo un po' su avevo preso l'abitudine di fargli infilare le mani sotto la mia maglia per scaldargliele contro la mia pancia. 

Leo di solito adorava il Natale, ma quell'anno era diverso.

Anche a me di solito piaceva il Natale, ma non quell'anno.

Quell'anno la persona a cui tenevo di più era sull'orlo del precipizio.

Quell'anno la persona che mi aveva insegnato ad amare me stesso prima di amare gli altri, prima anche di amare lui, stava morendo.

I ragazzi della sua età non sanno nemmeno cos'è la morte, non ci pensano, non scrivono un testamento.

Molti ragazzi della sua età riescono ancora a tenere il conto delle volte in cui sono entrati in un ospedale, e lasciatemelo dire, ma nessuno dovrebbe scrivere il testamento a ventidue anni. 

A me piaceva il Natale, mi piaceva davvero tanto.

Ma quell'anno avevo troppa paura che Leo stesse di nuovo male di notte per riuscire a dormire, e quando mi addormentavo per sbaglio vivevo nel terrore di svegliarmi e non riuscire a svegliare lui. 

Quell'anno mi chiudevo in bagno a piangere non appena potevo. 

Ero esausto, ero distrutto fisicamente e moralmente, e stavo finendo le speranze a cui aggrapparmi.

Quell'anno le cose andavano veramente male. 

Eravamo dai miei genitori, avevano un ristorante in campagna e la mia famiglia veniva sempre da noi il giorno di Natale, mentre per la vigilia noi due stavamo con i parenti di Leo. 

Non avevamo mangiato molto, e Leo era visibilmente più silenzioso del solito, oltre che essere così magro e pallido che sembrava un miracolo che riuscisse a stare in piedi.

Io avevo un maglione blu scuro, mentre lui aveva accuratamente selezionato la più soffice delle mie felpe, che essendosi adattata alla mia corporatura, più grossa della sua, rendeva ancora più evidente il fatto che fosse pelle e ossa. Aveva le guance incavate e dei cerchi scuri sotto gli occhi azzurri, che avevano perso la luce degli ultimi anni.

Quell'anno Leo era diverso, e si vedeva.

Stava morendo e se ne rendeva conto anche lui, e l'ultima cosa che gli serviva era la pietà. Perciò avevo spiegato la situazione alla mia famiglia, e avevo pregato tutti di non guardarlo come se fosse l'ultimo Natale che passava con noi, anche se era possibile, e di non fare commenti, domande, sguardi sconsolati e cose del genere, e loro avevano volentieri rispettato la mia richiesta. Mio padre lo aveva salutato con la solita pacca sulla spalla che gli riservava sempre, sempre delicata e affettuosa, non come quelle che dava a me e a mio fratello, mia mamma lo aveva abbracciato e baciato come fosse figlio suo, come sempre, e Riccardo, mio fratello, gli aveva semplicemente chiesto se aveva visto l'ultimo film di Tarantino, che piaceva a entrambi.

Mentre discutevano della scena di The Hateful Eight in cui uno dei personaggi faceva una strage avvelenando il caffè nella brocca, mio padre, a cui piacevano i documentari di National Geographic e le partite di tennis, fece un commento schifato, e Leo rise. O sorrise, non ricordo, ma ricordo che fu una delle prime volte che lo vedevo ridere dopo settimane. 

Dopo aver mangiato qualcosa ci eravamo seduti sul divano beige, e Leo si era addormentato appoggiato alla mia spalla. 

-Lola, sta lontano, non puoi andare vicino allo zio Leo quest'anno.- mi svegliai con mio fratello che allontanava delicatamente la sua bimba dai capelli rossi da noi, senza nemmeno realizzare di essermi addormentato. 

-Ma perché?- chiese lei. 

-Lola, Leo non sta bene. Prende delle medicine che lo fanno ammalare molto facilmente, anche se sembra strano da dire, e non possiamo rischiare di passargli dei microbi.- le spiegò Riccardo, paziente. 

-Ma papà, io non ho i microbi!- protestò lei, inspirando a pieni polmoni col naso per dimostrare che era libero. 

-Lo so, amore, ma per sicurezza dobbiamo stare lontani. Quando smetterà di prendere le medicine potrai tornare ad abbracciarlo, d'accordo?-

-D'accordo... Ma zio Alle, perché prende quelle medicine se lo fanno ammalare?- mi chiese.

Nostro padre aveva sempre preferito spiegarci le cose piuttosto che mentirci, e anche da bambini aveva fatto in modo di farci capire che la nonna aveva una malattia per cui non si ricordava le cose, e che non sarebbe migliorata, anche se eravamo bambini e l'Alzheimer non è facile da spiegare neanche agli adulti.

I bambini non sono stupidi, capiscono molto più di quanto sembri, e spesso basta spiegarglielo. Lui lo sapeva, e lo aveva insegnato a noi. 

-Vedi Lola...- dissi, stringendo la mano fredda di Leo, che ancora dormiva appoggiato a me. -Il cuore di Leo non funziona bene, e i dottori non riescono ad aggiustarglielo, quindi ne stanno aspettando uno nuovo. Sai ci sono delle persone, persone tanto gentili, che firmano un foglio che dice che se dovessero fare un incidente o se... ecco, se dovessero morire, vogliono regalare i loro organi a qualcuno che ne ha bisogno, come Leo. Il problema è che il nostro sistema immunitario non capisce la differenza fra dei microbi e un cuore, e potrebbe attaccare il cuore nuovo di Leo, che è molto pericoloso. Le medicine servono a fermare il sistema immunitario, ma dobbiamo stare attenti perché è facile che si ammali, che è pericoloso comunque, perché se si ammalasse non gli potrebbero dare il cuore.- le spiegai. 

Lei ci pensò un attimo, poi decise che aveva capito. -Quando sarò grande voglio firmare quel foglio anche io, così aiuterò qualcuno come Leo.- disse, convinta, gli occhioni castani che brillavano. 

I bambini non sono stupidi, capiscono molte più cose di quanto non sembri, basta spiegarglielo. 

-Sai che ti dico tesoro, appena posso lo vado a firmare anch'io.- disse Riccardo, guardandomi negli occhi. 

-Grazie Rick...- sussurrai.

-Io ci andrei anche subito, ma ho paura di essere troppo vecchio ormai...- si aggiunse mio padre. 

Una lacrima mi bagnò la guancia e si perse nella e si perse nella mia barbetta corta e un po' spelacchiata. 

Quell'anno ero distrutto, ma il Natale era sempre Natale, e anche quando va tutto male, ci sono persone che hanno il potere di farti sentire meglio. 

Quell'anno andava davvero male, ma in fondo avrebbe potuto andare peggio.

Passammo il resto della serata a chiacchierare, quasi come sempre.

Leo si svegliò e si infilò nella discussione con la sua solita disinvoltura, chiacchierando con noi per un po', e poi tornò a dormicchiare, appoggiato con la testa sulle mie gambe. Lola passò il resto della serata seduta nell'angolo opposto del tappeto soffice, a sgridare chiunque si avvicinasse a noi perché poteva far ammalare Leo.

Avevamo finito di mangiare già da qualche ora quando dal cellulare di Leo cominciarono a suonare le chitarre di quella canzone dei Foo Fighters. 

Si svegliò di soprassalto, recuperandolo dal tavolino di legno come se stesse andando a fuoco. 

-Oi Leo, piano.- Gli dissi io. 

Lui mi ignorò, strizzando gli occhi per leggere il nome sullo schermo. 

-Cazzo...- imprecò, anzandosi. -Cazzo, è Martinelli.- disse, scattando in piedi e barcollando un po' per la testa che gli girava. -Sì, eccomi! Dimmi tutto Gio.- disse al telefono, aprendo la porta e uscendo sul portico.

Lo seguii a ruota con una coperta, e gliela gettai sulle spalle mentre il mio stomaco si ribaltava.

Giovanni Martinelli era il suo chirurgo, il primario di cardiochirurgia dell'ospedale e la persona a capo dell'equipe trapianti. Era la persona che gli stava cercando un cuore. 

Cercai di sentire quello che diceva ma non ci riuscii, e qualche secondo dopo Leo riattaccò e si lasciò cadere in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani tremanti. 

-Leo?- chiesi, cauto.

Ricordo che fece un verso strano, metà singhiozzo e metà risata. 

-Leo?- ripetei. -L'hanno... L'hanno trovato?-

Lui annuì, alzandosi in ginocchio e gettando la testa all'indietro, per poi fare un paio di respiri profondi, soffiando delle nuvolette di condensa nell'aria gelida di fine dicembre mentre si stringeva l'iPhone al petto. 

-Oh cazzo...- sussurrai, quasi parlando fra me e me. -Cazzo hai un cuore...-

-Puoi dirlo forte cazzo.- disse, prendendo la mia mano per alzarmi e abbracciandomi una volta in piedi. -Avrò un cuore...- singhiozzò, con la faccia contro il mio collo, mentre io scoppiavo a ridere.

Anche quando le cose vanno male, anche quando hai le ruote a terra e ti sembra che non ci sia più nulla da fare, c'è un'altra possibilità per te. 

Ed era fatta.

Era finita.

L'odissea di una vita di malfunzionamenti cardiaci era finita, e ora l'unica cosa da fare era pregare un Dio in cui non credevamo perché Leo uscisse vivo dalla sala operatoria. 

 

When the wheels come down 

When the wheels touch ground 

And you feel like it's all over

There's another round for you

When the wheels come down

 

l giorno che lo operarono fu il giorno più brutto della mia vita. 

Lo avevano ricoverato a Santo Stefano, e mentre lui faceva le analisi preparatorie io ero corso a casa a recuperare il necessario, cercando di non farmi venire un attacco di panico. 

In ospedale Leo era tranquillo, aveva aspettato quel giorno per tanto tempo e dopo averci pensato per anni ed anni aveva semplicemente accettato l'idea che nessuno poteva garantirgli di uscirne vivo ma che avrebbero fatto tutto il possibile, perciò se sarebbe morto in sala operatoria se ne sarebbe andato serenamente, e che se e quando sarebbe arrivato il momento dell'operazione, lo avrebbe affrontato con la dignità e la calma che un grande momento merita. 

Leo era sereno, ma sapeva che sarebbe potuto succedere, anche se io mi rifiutavo di accettarlo, così quando tornai in ospedale, chiese agli infermieri di lasciarci da soli. 

Io stavo piangendo come un bambino, lui mi guardava, tranquillo. 

-Posso fare i discorsi da moribondo ora?-

-Ti prego non farlo...- piagnucolai. 

-Ale, per favore. Non voglio crepare su un tavolo di acciaio inossidabile, e soprattutto non voglio crepare stasera, ma potrebbe succedere. Lo so che per te è difficile, io ho avuto tanto tempo per accettarlo, ma tu no. Lo so, davvero, ma ti prego, se succederà, ho bisogno di sapere che ti ho salutato come si deve.- disse, calmo, la voce che nemmeno tremava. 

-Non mi devi dire niente che non sappia già.- ribattei, deciso. 

Lui sorrise. -È vero... non l'avevo mai vista così. Ma voglio comunque parlare.-

Io non riuscivo a guardarlo in faccia, mi fissavo le scarpe e trafficavo nervosamente col cinturino dell'orologio. 

-Ale sei un uomo in gamba. Sei giovane, bello, simpatico, premuroso... e cazzo, sei bellissimo.- disse piano, venendomi incontro e sollevandomi il mento con un dito. -Se la mia vita finisse qui, ti prego, ti scongiuro, devi promettermi che la tua andrà avanti. Potrai essere depresso per un annetto e poi tuo fratello comincerà a trascinarti fuori di casa di peso. Ricomincerai ad uscire e a fare quello che facevi prima, e quando sarà il momento, troverai qualcun altro con cui stare.- 

Io scossi la testa. -No, Leo...- 

Lui mi strinse i lati del viso fra le mani fredde. -Sì, Ale, sì. Non sei tagliato per la vita da solitario, hai bisogno di qualcuno da amare. Ci sono tanti ragazzi fantastici là fuori, o magari anche ragazze. Troverai qualcuno che ti vuole bene e che ti fa stare bene nonostante tutto, ti sistemerai e proverai davvero a essere felice. E arriverai a un punto in cui ogni tanto, quando ti parte la vena nostalgica, penserai a me, ma solo ogni tanto.-

Mi abbracciò e io continuai a piangere, chinato contro la sua spalla spigolosa. 

-Non sono io la chiave della tua felicità. Lo so che non ti sembra così ora, ma fidati di me. Eri felice prima di incontrarmi, e riuscirai a essere felice di nuovo. Ti prego devi promettermi che andrai avanti.- sussurrò vicino al mio orecchio. 

Io scossi piano la testa, singhiozzando. 

-Ti prego, Ale. Sono d'accordo con Riccardo per trascinarti fuori di casa, ma ho bisogno di sapere che ci proverai davvero.-

-Sei uno stronzo.- piagnucolai io. -Tu, Rick e i vostri complotti. Va bene, cazzo, quello che ti pare...-

Passammo le ore successive insieme, abbracciati sullo stretto letto foderato di lenzuola bianche, a baciarci e a guardarci. A guardarci come se fosse l'ultima volta che ci vedevamo.

Io piansi come un idiota per la maggior parte del tempo, e Leo mi capì, e mi consolò volentieri, assicurandosi che avessi capito che lui stava bene, che era tranquillo e sereno e che andava tutto bene.

Lui aveva avuto tanto tempo per accettarlo ma io no, e se tornassi indietro cambierei molte cose di quel pomeriggio. 

Qualche ora dopo stavamo dormicchiando, e un'infermiera bussò alla porta, informando Leo che stavano finendo di sterilizzare la sala operatoria e che era ora di andare. 

Restai con lui fino a che potei.

Camminai accanto al lettino su cui era sdraiato, tenendogli la mano, fino a che non arrivammo a una porta che io non potevo oltrepassare. 

Leo mi sorrise, e mi diede un bacio.

-Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata.- sussurrò, prima di lasciarmi la mano e fare cenno all'infermiera di proseguire. 

Lo guardai arrivare in fondo al corridoio, seduto a gambe incrociate sul lettino, gli occhi fissi nei miei, da dietro il vetro della porta che non potevo oltrepassare, e sparire dietro l'angolo. 

Non ricordo molto altro di quel giorno, ma in effetti non c'è molto altro da ricordare, né ho particolarmente voglia di farlo. 

Un trapianto di cuore ha una durata media di quattro o cinque ore, sei considerando le fasi pre e post operatorie, ma quello di Leo durò più del previsto.

Passai il resto della giornata nella sala d'attesa, a fissare il vuoto, accanto a Rick e alla famiglia di Leo.

Un infermiere di sala dell'equipe operatoria usciva ogni mezz'ora a dirci come andava, ma dopo circa cinque ore e mezza, a più di quarantacinque minuti dall'ultimo aggiornamento, non si era ancora fatto vivo nessuno, e nessuno si fece vivo fino ad oltre un'ora dopo.

Ero disperato, quando il chirurgo e il ragazzo riccioluto che lo aiutava, uscirono a testa bassa nel corridoio dietro la porta a vetri, con i camici macchiati di sangue, e il ragazzo si sdraiò a terra, sfinito, mentre Martinelli si sfilava gli occhiali e si strofinava un po' gli occhi, scuotendo la testa.

 

When the wheels come down

When the wheels touch ground 

And you feel like it's all over

There's another round for you

When the wheels come down

 

Mi svegliai col rumore del mare quella mattina.

Avevo sempre adorato il rumore del mare.

Le foglie delle palme e degli altri alberi frusciavano mosse dal vento, e qualche uccelli esotico di cui ignoravo l'aspetto cantava imperterrito da qualche parte fuori dal l'elegante porta a vetri che dava sul portico.

Tastai il materasso morbido con una mano, trovando solo lenzuola soffici e mi alzai di soprassalto realizzando di essere solo.

Recuperati gli occhiali dal comodino, studiando meglio l'aspetto di quella stanza che dava sulla spiaggia, in un pittoresco resort in Indonesia. 

Eravamo arrivati la sera prima, distrutti dal jet lag, ma avevamo deciso di andare a bere qualcosa al bar sulla spiaggia. Penso di non aver fatto nemmeno in tempo ad toccare il materasso prima di addormentarmi. 

Mi infilai i pantaloncini a fiori che avevo lasciato sulla sedia accanto al letto, e uscii sul portico, ad ammirare il mare e la spiaggia di sabbia bianca, tinta di rosa dalla luce del crepuscolo.

Avevano dormito parecchio. 

Un ragazzo, dalla pelle così chiara che quasi stona a sotto quel sole, era immerso nell'acqua fino alla vita, fissando l'orizzonte e ammirando i colori del cielo e del mare. 

"Non sono io la chiave della tua felicità."

Gli andai incontro, rabbrividendo leggermente al contatto con l'acqua fredda, mentre onde leggere si infrangevano contro il mio addome. 

"Eri felice prima di incontrarmi, e riuscirai a essere felice di nuovo."

Erano passati quasi otto mesi dall'operazione di Leo. 

Erano stati mesi difficili. 

Quel giorno c'erani state delle complicazioni durante l'intervento.

Un lembo dell'aorta di Leo si era danneggiato mentre lo attaccavano al nuovo cuore, e avevano dovuto aggiustarlo. Ci avevano messo molto tempo, e Leo aveva perso molto sangue, ma ce l'avevano fatta.

Dopo più di sei ore di intervento, Leo ne aveva passato dodici in terapia intensiva, e quasi diciotto ore dopo essersi addormentato, si era svegliato completamente.

Quando gli avevano sfilato dalla gola il tubo del respiratore, dopo aver finito di tossire e sputare gel anestetico, Leo se ne era uscito con un elegante "datemi della cazzo di morfina, fa malissimo".

Si era ripreso molto bene.

Quando i dottori ce lo avevano permesso, avevamo cominciato ad andare a camminare al mattino, e poi avevamo iniziato a correre. 

Quando glielo avevo insegnato, Leo aveva realizzato che gli piaceva nuotare, e aveva cominciato a farlo più spesso.

Aveva preso peso, messo su un po' di muscoli e si era fatto crescere un po' la barbetta sul mento, al punto che era quasi irriconoscibile. 

La sua vita era migliorata a vista d'occhio, e ogni giorno faceva tutto quello che per una vita aveva sognato di poter fare.

E ora era lì, immerso nell'Oceano Indiano, a guardare il tramonto, così immobile da sembrare quasi surreale. 

Lo abbracciai da dietro, stingendolo contro di me e cercando di evitare di toccargli il solco di pelle giovane che gli tagliava lo sterno per il lungo, spiccando contro le altre cicatrici ormai schiarite, che gli dava ancora fastidio. 

-Sei sempre più bello...- mormorai contro il suo orecchio. 

Lui sorrise. -Tu lo sei sempre stato.-

 

When the wheels come down

When the wheels touch ground 

And you feel like it's all over

There's another round for you

When the wheels come down

 

 

 

   
 
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