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Autore: ellephedre    23/09/2019    0 recensioni
Amore è quando inizi a sudare ed agitarti perché il ragazzo che ti piace sta salendo per le scale della scuola, tu stai scendendo e non sai se cambiare strada o tirare dritto e provare a sorridere, sperando che si accorga di te, pregando che si accorga di te.
O forse amore è continuare a tornare da un ragazzo che ti sta antipatico, che ti stuzzica e ti prende in giro, ma ti parla come se fossi una persona adulta invece di una bambina.
Lui non ti fa i complimenti, non ti riempie di attenzioni, ma a volte senti che con uno sguardo sfuggente ti ha dato così tanto di se stesso che hai voglia di fare due passi in avanti per parlargli da vicino, per chiedergli chi è, che cosa desidera, per cosa soffre, cosa vuole diventare da grande.
È una connessione folle, assurda.
È amore? Se lo è questo, non lo era quello di prima?
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Il primo ricordo che ho di Teo dura come una piccola stories di Instagram, un video di dieci secondi che rimarrà per sempre scolpito nella mia memoria.
Se solo lo avessi filmato, ,oggi potrei guardarlo e riguardarlo, ma allora sarei apparsa ancora più cretina di quanto non sembrai poi ai miei compagni di classe quel primo giorno di scuola, in quarta ginnasio.
Per l’occasione mi ero alzata presto. Allo specchio avevo provato a fare qualcosa coi capelli per dieci minuti, poi li avevo lasciati sciolti, cercando di sedare col pettine le onde che si erano create nella notte. Non era un brutto look, lo shampoo aveva accentuato i riflessi chiari della mia chioma castana, lunga fino a metà delle spalle. Avevo messo jeans e maglietta nuovi – non ero mai stata tipa da marchi e loghi, ma avevo scelto un liceo classico frequentato da gente fighetta. Non volevo fare brutta figura. Così sulla mia maglia bianca campeggiava la scritta ‘Levi’s’ e avevo indosso le mie sneakers rosa più carine, consumate dall’uso. Col jeans nero pensavo di essere a posto – non sembravo ricca, ma nemmeno una stracciona.
In casa viviamo dello stipendio da operai dei miei nonni, che non sono ancora abbastanza vecchi da essere andati in pensione ma ci sono quasi.
È per loro che ho scelto un liceo che va oltre le mie possibilità. Le maestre delle medie mi avevano consigliato un liceo socio-psico-pedagogico o magari un istituto turistico, ma secondo i miei nonni quelle donne erano delle pessimiste che non avevano intuito le mie reali possibilità.
Insieme abbiamo scartato lo scientifico giusto perché arrancavo in matematica da sempre. È  toccato a me scegliere tra linguistico, artistico e classico.
Se possibile in inglese facevo ancora più schifo che in matematica e disegnavo come una bambina di cinque anni – avete presente gli omini con le braccia come due stecchini dalle cui estremità partono cinque bastoncini?
Eccomi, sono io, disegno così gli esseri umani – probabilmente ancora adesso, alla veneranda età di sedici anni. Non ritento da qualche tempo solo per la vergogna.
Quando ho optato per il classico i miei nonni hanno esultato e solo per questo ho capito di aver fatto la scelta giusta. Loro sognano di vedermi frequentare l’università e non fare come mia madre, che si è fermata alla terza media dopo anni passati a cercare di agguantare un diploma professionale alla scuola serale.
Alla fine a me piaceva leggere e pure scrivere. Il liceo classico era per gente come me, no?
Non sapevo ancora quanto mi sbagliavo. Stavo andando verso un ambiente in cui sarei stata come una gazzella assettata in mezzo a branchi di professori coccodrilli nascosti nelle pozze d’acqua, pronti a saltare fuori azzannandomi con le loro interrogazioni.
Forse avrei almeno dovuto scegliere un istituto poco prestigioso, in cui andassero un numero minore di figli di papà, ma scuole come quella si trovavano troppo lontano da casa mia.
Riesco ad arrivare al mio liceo in trenta minuti esatti dal momento in cui mi alzo dal letto - se sono in ritardo e non faccio colazione. Mi è sembrato un buon criterio di scelta: sono troppe le volte che non sento la sveglia.
In sostanza, ho lasciato che fosse la mia voglia di dormire a scegliere.
Quel primo giorno il nonno mi ha accompagnato fino al cancello in macchina, fiero di veder andare al liceo la sua unica nipotina.
“Dài, nonno, andrò tutti i giorni coi mezzi. Perché vuoi farmi fare brutta figura? Alle medie non mi hai mai accompagnato!”
“Perché ci andavi a piedi. Non ti accompagnerò certo all’università, ma quest’ultima volta voglio farlo. Su, niente storie, Larettina, monta in macchina!”
Non sono riuscita a negargli un bacio sulla guancia in cortile quel giorno, ma mi sono accorta che fra i primini non ero l’unica che si era portata dietro i genitori.
Il nonno, coi suoi capelli biondi appena striati da bianco, riusciva a passare per un papà un po’ attempato.
L’ho salutato un po’ timorosa, entrando a scuola dopo aver controllato sui fogli appesi al cancello dov’era la classe a cui ero stata assegnata. Salendo velocemente i due piani di scale mi sono scoperta nervosa ma decisa a dare l’idea di una che era a suo agio, figa nei modi se non nell’aspetto.
Non camminare come una papera e tieni la cartella su una sola spalla, come fanno i grandi.
Volevo fare amicizia, era ciò a cui tenevo di più in quella prima settimana.
Quando sono arrivata in classe c’era già un po’ di gente – più ragazze che ragazzi. Ho abbozzato sorrisi a destra e a manca, dirigendomi subito verso il fondo dell’aula.
Dei sei banchi nell’ultima fila orizzontale, quattro erano già occupati da giacche. Gli ultimi due erano vuoti, ma sulla parete vicina c’erano due zaini. Non capivo se erano un modo per segnare il territorio.
Mi sono appoggiata alla finestra accanto, per reclamare il posto senza troppa arroganza e andarmene velocemente se per caso avevo sbagliato.
Gli unici altri posti liberi erano nelle due file davanti e io ci tenevo davvero davvero tanto a non stare seduta così in vista.
«Uè, Teo!»
Un biondino magro alza il braccio al cielo, per salutare un ragazzo che è appena entrato dalla porta.
Mi ricordo il momento come in un film: lui che attraversa la soglia con un sorriso che illumina tutta l’aula – coi denti drittissimi, perfetti. Ha capelli neri che mi hanno tolto il fiato per quanto sono lunghi in un ragazzo. Gli arrivano fino alle spalle e con un gesto naturale lui li raccoglie in una mano. Si aiuta con la bocca a sistemare sulle dita l’elastico con cui li lega in una coda.
«Uhei, Giorgio!»
I due si danno il cinque.
Lui e quel Giorgio sembrano gli unici a conoscersi in classe. Il ragazzo appena arrivato supera il suo amico di tutta una testa. È altissimo, bellissimo e simpaticissimo. Sapete quando si capisce il carattere di una persona fin dalla prima occhiata? Lui non mi delude.
Allunga il braccio per toccare i compagni vicini, altri ragazzi.
«Io sono Zanin. Matteo, ma chiamatemi Teo, altrimenti non vi rispondo.»
Si mostra allegro con tutti, disponibile e interessato a conoscere i loro nomi.
Lo osservo dal mio angolino, persa nei suoi occhi blu, così vividi sotto le sopracciglia nere… Non mi accorgo che due ragazze hanno recuperato la cartella ai piedi della parete, sedendosi nei posti che cercavo di prenotare.
In classe entra la professoressa, una donna bassa con un tailleur marrone. «Buongiorno a tutti!»
Mi unisco al coro di saluto, cercando disperatamente dove sedermi.
«Mi chiamo Elisabetta Caruso, sono la vostra professoressa di latino e la referente della classe. Se vi siete già sistemati, facciamo l’appello.»
Mi nota in piedi in fondo all’aula, con le mani strette intorno alle bretelle della cartella. Tutti si girano verso di me, la scema che è rimasta senza banco.
Mi sento avvampare e so che ogni mio singolo compagno di classe sta scoprendo quanto arrossisco facilmente.
«Manca un posto?» La prof si abbassa a guardare il registro, poi la sua attenzione viene attratta da un movimento alla porta. “Due posti. Lei è la signorina?”
«Io?» Claudine è trafelata dalla corsa che ha appena fatto. «Mi chiamo Claudine Giraudo.»
«Le pare il caso di arrivare in ritardo il primo giorno?»
Claudine si incassa nelle spalle, ridacchiando. «Scusi.» Guarda la classe senza vergogna e so che li ha già conquistati.
«Sentite, ragazze, andate dal bidello all’inizio del corridoio e chiedete di far portare due banchi. Che disorganizzazione. Qui dobbiamo fare spazio. Voi alla finestra, tutta la fila. Spostatevi in avanti, fate posto.»
Scappo fuori dall’aula insieme a Claudine, non prima di aver visto la risatina che ho suscitato nel viso di Zanin, Teo.
Non è una risata cattiva – è una risata tenera, di quelle che si rivolgono al cuccioletto appena adottato che ha rovesciato la ciotola di cibo sul pavimento.
Non dovrei sentirmene lusingata, ma il cuore mi batte lo stesso fin nelle orecchie.
In corridoio Claudine si presenta. «Colpite dalla stessa sfiga, eh? Piacere, io sono Clò!»
«Io…» I nervi della figuraccia e quelli che mi ha regalato il sorriso di Teo mi impediscono di trovare le parole.  Mi ripiglio. «Io sono Lara Biondi.»
«Infatti sei bionda!»
Normalmente me la prendo per la battuta, ma Claudine ride di me in maniera troppo gentile per racimolare un broncio. «Ci sono biondi più biondi di me. Io sono quasi castana.»
«Ci sono castani molto più castani di te. Posso chiamarti Là?»
«Là come lì o qua?»
Claudine scoppia a ridere mentre camminiamo svelte in corridoio.
«Quando mi andrà sarai Là!»
Dopo aver parlato col bidello torniamo in classe e ce ne stiamo appoggiate al davanzale della finestra, in piedi, mentre la prof fa il primo appello.
Accanto a Claudine, così sicura di sé, non mi sento più un’imbranata. Teo non mi presa più attenzione più ma quel suo primo sguardo mi ha già rischiarato la giornata.
   
 
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