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Autore: Imperfectworld01    30/09/2019    0 recensioni
Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede.
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.
Megan Sinclair è la brava ragazza del quartiere, quella persona affidabile su cui si può sempre contare, con ottimi voti a scuola e con un brillante futuro che la attende.
E poi, all'improvviso, una sera cambia tutto. Una notte, un omicidio e un segreto. Un segreto che Megan, con l'aiuto di un improbabile alleato, cercherà di mantenere sepolto a tutti i costi.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Perchè è giusto


La settimana trascorse lenta. Lentissima, anzi. Non feci altro che trascorrere le giornate aspettando che arrivassero al termine.

Ebbi così modo di accorgermi di quanto fosse curioso il fatto che più si aspettasse con tanta foga e frenesia un momento, più questo non facesse che tardare ad arrivare. Specialmente perché i miei genitori mi fecero una sfuriata sabato sera quando rientrai e mi misero in punizione per essere uscita di casa senza avvisare nessuno ed essere tornata tardissimo, dopo aver "rubato" l'auto di mia madre. Rimanere segregata in casa sembrò allungare ulteriormente le mie giornate, ma io non mi diedi per vinta: prima o poi quel venerdì sarebbe arrivato, e così anche la fine di questa storia.

Avevo detto che non sarei riuscita a darmi pace finché l'assassino di Emily non avesse pagato, e quel momento era quasi arrivato, o almeno lo speravo. Avevo sempre sentito dire che le più grandi vittorie richiedevano tanti dolori e tanti sacrifici e in fondo così era stato anche per me. Se non altro, era ciò di cui cercavo di convincermi, che tutto ciò che avevo passato e tutto ciò che avevo perso dalla morte di Emily fino a quel momento, erano soltanto parte di una fase che mi avrebbe portato a una ricompensa più grande: ottenere giustizia per Emily. Era l'unica cosa che mi permise di andare avanti quella settimana, anzi, l'unica cosa che, fin dall'inizio, mi aveva dato la forza di continuare e mi aveva permesso di arrivare fino a quel momento.

La strada, tortuosa, in salita e piena di ostacoli, che avevo percorso in quell'ultimo mese, non era stata casuale, doveva avere un senso, doveva portarmi fino a qui.

Non volevo prendere in considerazione nessun'altra spiegazione se non quella che mi ero data. Non potevo permettere che mi sfiorasse anche solo l'idea che non fosse realmente così che dovesse andare, perché io non mi ero meritata tutto quel male, e doveva esserci per forza un senso a tutto quello che avevo provato ultimamente.

Continuai a ripetermi queste cose per tutta la settimana, con più intensità mentre guardavo i lividi che mi aveva lasciato sul polso quel mostro, che nel corso di quei giorni divennero dapprima rossi, poi violacei, in seguito verdognoli e infine gialli, quasi marroni.

Continuai a ripetermele anche mentre mi addentravo, forse per l'ultima volta, dentro l'aula di tribunale del palazzo di giustizia di St.Mary, accompagnata dai miei genitori, dal mio avvocato e... e anche da David, o forse avrei dovuto dire "solo il figlio del mio avvocato".

Quel giorno avrei finalmente deposto, ma non prima della testimonianza di quel vile assassino. E io ero più pronta che mai.

•••

Per primo venne chiamato al banco dei testimoni un esperto di medicina legale, colui che aveva eseguito l'autopsia di Emily.
La sua deposizione non durò molto, l'avvocato Finnston gli fece poche domande tecniche e specifiche, le cui risposte, tuttavia, si dimostrarono molto utili al mio caso.

«Secondo i risultati della sua analisi, sarebbe possibile risalire all'arma del delitto?» chiese l'avvocato.

«È stata utilizzata un'arma da taglio dalla lama piuttosto lunga, approssimativamente fra i venti e i trenta centimetri» rispose il medico legale.

«Per via delle dimensioni da lei specificate, ritiene che potrebbe trattarsi di un coltello da chef?»

Il procuratore Goldberg si alzò in piedi e protestò: «Obiezione, sta chiedendo al teste un'opinione!».

L'avvocato Finnston volse le spalle al testimone e nel farlo, sollevò, in modo quasi impercettibile, gli occhi verso il soffitto, prima di rivolgersi al giudice Sullivan: «Vostro Onore, il teste è un esperto di medicina legale, le sue considerazioni non maturano pertanto da opinioni personali, bensì da conoscenze da lui acquisite nel corso degli anni. Inoltre, ritengo sia nell'interesse di tutti avere più informazioni sull'arma del delitto, dal momento che non è ancora stata rinvenuta e saperne di più potrebbe essere di grande aiuto nelle ricerche».

Dopo aver esitato per un istante, il giudice Sullivan fece un cenno con la mano all'avvocato Finnston: «Obiezione respinta. Avvocato, proceda».

«La ringrazio immensamente, Vostro Onore, e sono lieto che lei capisca a pieno la vitale importanza di queste indagini e che sia sempre propenso a dedicarvi tutto il tempo necessario.» Dopo la deliziosa sviolinata, ricca anche di frecciatine, dal momento che, come sempre, il giudice non aspettava altro che la conclusione di quel processo, l'avvocato si volse nuovamente al testimone e ripeté la domanda, a cui seguì una risposta affermativa: «Sì. Per la dimensione e la profondità della ferita inferta alla vittima, il taglio potrebbe essere stato causato da un coltello da chef, denominato anche coltello francese».

«Un utensile da cucina, dunque, presente in tutte le case. E, da quelle che sono state le sue analisi, quali altri dettagli sono emersi? La ferita al collo è stata quella mortale per la vittima o ve ne sono state delle altre?» domandò.

«Sì, vi sono state altre ferite, come dei ripetuti colpi in varie zone del capo, che tuttavia non sono state abbastanza forti da fracassare il cranio della vittima, pertanto la morte è avvenuta a causa della ferita alla giugulare.»

Cominciarono a pizzicarmi gli occhi nel sentire quei racconti dettagliati, che subito mi riportarono indietro a quella sera del 28 settembre. Io ero lì, pensai, ero lì con Emily quando è morta. E niente mi faceva più male che rivedere quelle immagini nella mia mente.

Ma mi sforzai di continuare ad ascoltare. «Inoltre, sotto le unghia della vittima erano presenti delle tracce di pelle, come se la vittima si fosse aggrappata con le unghie a qualcuno in un dato momento, con così tanta forza da avergli staccato dei sottili lembi di pelle.»

«E secondo il test del DNA da lei eseguito, a chi corrispondevano quelle tracce di pelle?»

Il medico legale non rispose a parole, si limitò ad allungare il braccio davanti a lui e indicare coloro seduti in mezzo al pubblico. Così dovetti voltarmi, soltanto per accorgermi che il dito era stato puntato contro una persona specifica: Dylan.

Mentre lo stupore generale si levava in aula, generando un tumulto non indifferente, io non potei che emettere un ghigno compiaciuto. I miei genitori, al contrario, lo fissavano inorriditi, come anche gran parte del pubblico e della giuria. Il terrore, mischiato a un leggero imbarazzo, era impresso nei suoi occhi, ma non solo: anche il senso di colpa. Quello che solo un assassino si meritava di provare.

«La ringrazio, non ho altre domande.»

L'avvocato Finnston tornò a sedersi di fianco a me e ci scambiammo uno sguardo complice. Stava andando tutto bene.

Era il turno del procuratore Goldberg di fare le domande. Ancora scosso da quelle dichiarazioni che, evidentemente non si aspettava, si alzò in piedi incerto e si guardò intorno spaesato. Si passò la lingua fra le labbra per inumidirsele, e poi si risedette: «Non ho nessuna domanda».

La cosa mi lasciò ancora più attonita. L'udienza stava ormai giungendo al termine ed era lì che stava finalmente prendendo forma, una piega che mai mi sarei aspettata. Sperai che, in base ai dati emersi, la giuria stesse iniziando a convincersi della mia non colpevolezza.

•••

Dopo una breve pausa di quindici minuti, fu il turno di Lucy, che affermò di aver visto Dylan e Emily discutere la sera della festa, dopo la litigata fra me e Emily, dando prova del fatto che non ero stata io l'ultima a vedere Emily prima che morisse.

In seguito, Dylan venne chiamato alla sbarra. Lo vedevo confuso, insicuro e, soprattutto, spaventato a morte. Dopo aver prestato giuramento, si sedette, aderendo con tutto il corpo allo schienale della sedia, rimanendo poi immobile. Pessima idea, pensai. Se già non si trovava in una buona situazione, quel suo atteggiamento non faceva che dimostrare ancor di più il suo timore e la sua voglia di allontanarsi da quella situazione.

Dylan era stato chiamato per testimoniare a mio favore, ma l'avvocato Finnston travisò completamente il tutto, cambiando la maggioranza delle domande.

«Afferma di essere Dylan Valentine Walker, nato il 12 maggio 2002 a Morgan City, in Louisiana?»

«Sì.»

«Bene. Afferma di essere fidanzato con la mia cliente, Megan Ellen Sinclair?»

A quel punto Dylan schiuse la bocca e il suo sguardo si posò automaticamente sul mio. Non appena incrociai i suoi occhi, spostai il mio sguardo altrove. Non ce la facevo. Non ce la facevo a guardare in faccia quell'assassino.

«No. Non stiamo più insieme» rispose, con un leggero tremolio nella voce.

«Da quanto tempo vi siete lasciati?»

«Da quasi una... scusi, ma che c'entra questo?»

«Lei risponda alla domanda» insistette l'avvocato Finnston, mostrando un velo di nervosismo.

Dylan aprì la bocca per rispondere, ma fu interrotto dal procuratore: «Obiezione, non è rilevante!».

«Ci arriverò a breve!» ringhiò l'avvocato Finnston. «Sempre se Vostro Onore il giudice Sullivan mi darà la concessione di continuare» aggiunse, con tono più pacato.

Il giudice acconsentì: «Signor Walker, risponda alla domanda».

«Ci siamo lasciati sabato scorso» rispose.

«E perché?»

Dylan deglutì. Gli occhi gli si erano fatti lucidi, sembrava quasi sul punto di piangere ancora. Ma questa volta non mi lasciai impietosire, e così non fece nemmeno l'avvocato Finnston, che continuò a guardarlo con severità.

Dylan sospirò e poi rispose: «Mi ha lasciato lei, in realtà. Le cose non andavano più bene, anzi, secondo lei non sono mai andate e basta».

«Più nello specifico? Cos'è che non andava?»

Vidi Dylan stringere i pugni e arricciare il naso. Stava iniziando a innervosirsi e, forse, entro breve avrebbe perso la calma. Probabilmente era ciò a cui mirava l'avvocato. «Io. Non andavo bene io» disse, digrignando i denti.

L'avvocato si rivolse allora al giudice: «Vostro Onore, richiedo di poter trattare il teste da testimone ostile, dal momento che ho motivo di pensare che possa nutrire profondi risentimenti nei confronti della mia cliente dopo aver troncato con lei la loro relazione amorosa, e che per tale motivo possa pregiudicare la sua testimonianza per una cosiddetta ripicca».

Dylan si intromise. «Cosa? Non lo farei mai! Non farei mai del male a Megan!» esclamò.

Sebbene fosse girato di spalle, ero ben certa che l'avvocato Finnston stesse sogghignando dopo quell'affermazione di Dylan. «Mai? Quindi, non ha mai aggredito verbalmente la mia cliente nel corso di un'accesa discussione? L'ha mai aggredita fisicamente per via di un eccesso d'ira?»

Dylan sbiancò. Sentivo il suo sguardo posato sul mio, ma lo evitai appositamente.

«La sua natura violenta, in effetti, non è una novità. Conferma che poco più di una settimana fa ha quasi preso a pugni un suo compagno di scuola?»

Dylan rimase ancora zitto, messo alle strette da quelle domande così dannose per lui, dando così la possibilità all'avvocato di continuare.

«E che mi dice di Emily Walsh? Ha dichiarato alla polizia di aver avuto una relazione con lei durante l'estate, è corretto? E poi che è successo, perché è finita? Finita, con la morte della stessa.»

Il procuratore si intromise nuovamente, urlando a gran voce: «Obiezione, l'avvocato sta testimoniando!».

«Accolta.»

Ma l'avvocato non si fermò. «In base a quanto emerso poco fa dalla testimonianza della signorina Lucinda Bailey, è stato lei ad aver visto la vittima l'ultima volta. Stavate discutendo. La discussione è sfociata in una terribile litigata, lei ha perso la calma come fa sempre e l'ha aggredita fisicamente, prima con quei colpi in testa, e in seguito afferrando un coltello da chef, un utensile da cucina di cui lei, abitando in quella casa, conosce perfettamente l'ubicazione.»

«Obiezione!»

«Accolta. Avvocato, si fermi!» esclamò il giudice Sullivan che, fino a quel momento, non si era mai mostrato così tanto coinvolto.

A quel punto Dylan sbatté un pugno sul banco al quale era seduto, facendo sussultare me e anche molti altri dei presenti. «Io non l'ho uccisa!» urlò.

L'avvocato Finnston avanzò di qualche passo, fino a toccare con le punte dei piedi il banco dei testimoni. «Sta mentendo sotto giuramento» lo accusò.

«Avvocato, se dice ancora qualcosa, sarò costretto a...»

La voce del giudice venne sovrastata da quella di Dylan. «Io non sto mentendo!»

«Allora perché non risponde alle mie domande?»

Dylan rimase zitto e l'avvocato Finnston non andò oltre, così finalmente il giudice Sullivan poté parlare.

«Avvocato! Non le ho dato il mio consenso per trattare il testimone come ostile, perciò si fermi immediatamente o sarò costretto a invalidare l'intera testimonianza e a sospendere lei per cattiva condotta!» si infiammò il giudice Sullivan. «Signor Walker, se non vuole rispondere, può sempre appellarsi al quinto emendamento, che sancisce come segue: nessuno sarà tenuto a rispondere di reato, che comporti la pena capitale, o che sia comunque grave, se non per denuncia o accusa fatta dal Grand Jury, a meno che il caso riguardi membri delle forze di terra o di mare, o della milizia, in servizio effettivo, in tempo di guerra o di pericolo pubblico; e nessuno potrà essere sottoposto due volte, per un medesimo reato, a un procedimento che comprometta la sua vita o la sua integrità fisica; né potrà essere obbligato, in qualsiasi causa penale, a deporre contro sé medesimo, né potrà essere privato della vita, della libertà o dei beni, senza un giusto processo; e nessuna proprietà privata potrà essere destinata a uso pubblico, senza equo indennizzo» recitò il giudice Sullivan, visibilmente scocciato per l'aver dovuto perdere ulteriore tempo per ripetere uno dei dieci emendamenti contenuti nella Carta dei Diritti della Costituzione americana.

Dopo aver esitato per qualche secondo, forse per riflettere, forse per comprendere il significato di quel fiume di parole, infine Dylan annuì e disse: «Mi... mi appello al quinto».

Ormai è fatta, mi dissi. Dylan aveva scelto di non rispondere per non auto incriminarsi, e non ci sarebbero state conseguenze per lui, in quel processo. Tuttavia, se io fossi stata dichiarata innocente dalla giuria, il procuratore Goldberg avrebbe dovuto aprire una nuova pista e scovare un altro colpevole, e io ero certa che le indagini sarebbero partite proprio da lui.

L'avvocato Finnston si voltò nella mia direzione e non poté fare a meno di rivolvermi un piccolo ghigno, e la cosa mi infuse sicurezza, vuol dire che stava andando bene. «D'accordo, Vostro Onore, non ho altre domande» disse, prima di tornare a sedersi.

•••

Era ormai arrivato il mio turno, anche se ormai il grosso era fatto. Mancava solo un mio piccolo contributo affinché la giuria si convincesse che non ero stata io ad aver ucciso Emily, bensì quella bomba a orologeria senza freni e senza limiti.

«... ha iniziato a urlare, a dirmi che io ero sua e soltanto sua, che non potevo lasciarlo e... e poi...»

«Si prenda tutto il tempo che le serva, signorina Sinclair. Comprendiamo quanto sia difficile parlare di questi spiacevoli eventi» tentò di tranquillizzarmi l'avvocato Finnston, sebbene fosse consapevole che in realtà io ero tranquillissima e la mia era solo una recita. Covavo solo odio e rabbia nei confronti di Dylan e la cosa che desideravo di più in quel momento era vedere la sua faccia dietro le sbarre e, se per riuscirci, era necessario interpretare la parte della ragazza debole, fragile, dalla mente facilmente condizionabile e impaurita da tutti, allora l'avrei fatto con piacere. Dovevo solo rimanere concentrata e stare attenta a non incrociare lo sguardo di Dylan, seduto ora su una delle prime panche del pubblico.

«Ho cercato di andarmene, di scappare da lui, ma lui mi ha afferrato per il polso e ha continuato a stringerlo... non riuscivo a liberarmi e... e ho iniziato a temere che... che sarebbe andato oltre e che avrebbe potuto seriamente farmi del male» dissi, deglutendo.

«Si è sentita in pericolo e si sente tuttora in pericolo al pensiero di rincontrarlo?»

«Sì» affermai. Così come poco prima, mi sentivo gli occhi di Dylan addosso. Dovetti impiegare ogni mia forza residua per riuscire a non guardarlo. Sapevo che lo stavo ferendo, ma non mi importava. Al contrario, quella consapevolezza aveva uno strano effetto su di me: ne ero felice e, sapere di avere il potere di fargli del male solo attraverso le mie parole, non faceva che rendermi ancora più determinata. «Prima, quando era lì, mi guardava e io mi sono sentita... Lui ha una mente instabile, non riconosce i suoi limiti, non importa chi gli stia davanti.» Mi strofinai gli occhi e tirai su col naso, sebbene non stessi affatto piangendo.

«Obiezione, Vostro Onore! Tutto ciò non è rilevante!» protesto nuovamente il procuratore Goldberg.

«Mi perdoni, Vostro Onore. Anzi, chiedo umilmente perdono anche al procuratore Goldberg, perché in questo caso ha perfettamente ragione. Siamo andati fuori tema, perciò passiamo a un'altra domanda: chi era davvero per lei Emily Walsh?».

«Non era la mia migliore amica. Era più di questo, era come una sorella.» Mi fermai un istante, voltandomi verso la giuria, cercando qualche traccia di compassione nel loro sguardo. Rinunciai dopo poco, in fondo ero io il libro aperto, le cui espressioni erano facili da decifrare. E sperai che, almeno in quell'occasione, la cosa mi sarebbe stata d'aiuto, che avrebbero creduto al fatto che non avrei mai fatto del male a Emily. «Facevamo sempre tutto insieme, almeno una volta a settimana andavamo a dormire l'una a casa dell'altra. Ci dicevamo tutto, e ogni volta che c'era un problema, sapevo che potevo contare su di lei, e viceversa. E... e o-ora che non c'è più, io...» Mi interruppi, nel momento in cui mi resi conto di avere la vista annebbiata per via degli occhi pieni di lacrime. Li chiusi per trattenerle dentro.

«Signorina Sinclair, ha bisogno di prendersi una pausa?» chiese il giudice Sullivan.

Scossi la testa e riaprii gli occhi. In quel momento incrociai lo sguardo dell'avvocato Finnston, il quale, subito dopo, diede un'occhiata al suo orologio da polso. L'udienza stava durando già da parecchie ore, temeva che l'avrebbero rimandata di nuovo. «Vostro Onore, magari mentre la mia cliente tenta di riprendersi, sarebbe possibile ascoltare il messaggio in segreteria da lei lasciato alla vittima la notte in cui quest'ultima è venuta a mancare?» chiese, facendo riferimento al televisore che era posto vicino al banco dei testimoni e che fino a quel momento era stato inutilizzato.

Il giudice acconsentì e io sospirai di sollievo. La registrazione del mio messaggio in segreteria era il piano di riserva: dal momento che non ero riuscita a impietosire a sufficienza la giuria, quella registrazione l'avrebbe fatto al posto mio. Se non altro, sarebbe riuscita a rendere giustizia al rapporto di amicizia fra me e Emily.

L'avvocato si avvicinò al televisore e pigiò un tasto del telecomando per far partire la registrazione audio. «Ehi. Emily, sono io, Megan. Mi dispiace per quello che è successo, davvero. Non avrei dovuto trattarti così, dirti quelle cose. Sai che non le penso davvero. Tu sei una delle persone più importanti per me e non vorrei buttare via la nostra amicizia per nulla al mondo, figuriamoci per un ragazzo.
Ne abbiamo passate tante insieme, ricordi? Eri con me la prima volta che ho pianto per un ragazzo, eri con me quando stavo male perché mio padre era in ospedale, così come io ero lì, a tenerti i capelli, quando eri chinata sul water a smaltire la tua prima sbronza e giurasti che non avresti mai più toccato una sola goccia di alcool in tutta la tua vita, ed ero con te quando appena due settimane dopo quell'affermazione, ti aiutai a scolarti quell'intera bottiglia di vodka, nonostante sapessi che non mi piace bere. Ero con te quando i tuoi si sono separati. Ero con te quando hai vinto una delle competizioni di ginnastica artistica più importanti della tua vita. Ero con te quando hai pianto perché hai dovuto smettere di praticarla per quel problema alla schiena. Ci sarebbero altri mille esempi che potrei elencare per farti capire quanto sia stata importante la tua presenza nella mia vita. Insieme abbiamo riso, abbiamo pianto, ci siamo sostenute a vicenda e soprattutto siamo cresciute. Senza di te io non sarei la stessa. Quindi non voglio perderti. Scusami se ti ho ferita, non era mia intenzione.
Io... io n-non... io non ti farei mai del male, Emily. Ti prego, perdonami.»

Trattenni il respiro per tutta la durata di quell'audio e mi venne la pelle d'oca solo a ricordare quel momento: le lacrime che non la smettevano di sgorgare dai miei occhi, la voce rotta, la consapevolezza che quel messaggio non l'avrebbe mai ascoltato. E poi, nel momento in cui lo riascoltai, ero rimasta quasi impassibile, se non altro all'apparenza: rigida, sangue freddo, non una sola lacrima. Eppure dentro mi sentivo scoppiare.

Dopodiché l'avvocato Finnston ne approfittò anche per mostrare le foto mie e di Tracey all'interno del Golden Rose, scattate nel locale quella stessa sera.

Si passò poi al controesame del procuratore Goldberg che, dopo aver sistemato alcune carte sul suo banco, mi rivolse uno sguardo che mi gelò il sangue nelle vene. Assurdo come non mi sia accorta prima della somiglianza con la figlia, mi dissi, mi fissa con lo stesso disprezzo.

Si schiarì la gola e cominciò con le domande. «Dunque, signorina Sinclair, lei ha dichiarato più volte di considerare la vittima come una vera e propria sorella, eppure non sapeva della sua relazione con il signor Dylan Walker. Come lo spiega?»

Mi trattenni dall'alzare gli occhi al soffitto. Ora riteneva che avessi ucciso Emily dopo aver saputo che lei e Dylan erano stati insieme? La sua pista era ancora così scontata e banale?

«Non lo spiego» risposi scrollando le spalle. «Tutti hanno dei segreti, non mi stupisce che anche Emily ne avesse.»

«Dunque lei non ne era a conoscenza nel momento del vostro litigio?»

«No» mi affrettai a negare. «L'ho scoperto questa mattina» aggiunsi, non riuscendo a evitare di lanciare uno sguardo verso David, il quale, tuttavia, lo teneva fisso sul pavimento. Su Youtube circolava pure un video in cui era stata registrata interamente la nostra litigata, che era stato mostrato a tutta la scuola durante la commemorazione di Emily, in cui lei non aveva nominato neanche una volta una sua presunta relazione estiva con Dylan.

«D'accordo. E la sua frequentazione con il signor Walker quando è iniziata? Prima o dopo la sera della festa?» chiese.

«Dopo.»

«Eppure quando lei e il signor Walker siete stati sorpresi in atteggiamenti intimi dalla vittima, non era la prima volta che vi scambiavate effusioni, è esatto?»

Schiusi le labbra. Dylan aveva detto ogni cosa alla polizia. Ogni cosa riguardante me, se non altro. «Sì, è esatto» ammisi.

«E quando è successo sapeva dei sentimenti che provava la vittima nei confronti del signor Walker?»

«S-sì, lo sapevo» risposi, deglutendo. Ed ecco che ritornai, in meno di un secondo, a sentirmi una merda. Probabilmente era ciò che stavano pensando tutti all'interno di quell'aula di tribunale, giuria compresa.

Tutto quell'impegno e quella fatica, in particolare dell'avvocato Finnston, per convincere i giurati della profondità del rapporto di amicizia fra me e Emily, ed ecco che un paio di domande erano riuscite a far scemare il tutto. Solo a causa di un errore che avevo commesso.

Un errore che avevo continuato a commettere nel corso del tempo. Avevo trascorso settimane a tentare di convincermi che i sentimenti che provavo con Dylan fossero veri, forti e autentici, solo perché era l'unica cosa che mi avrebbe permesso di sentirmi meno in colpa per aver buttato via la mia amicizia con Emily a causa sua, solo per riuscire a sentirmi meno colpevole per la sua morte. Mi ero detta: «Lei ora non c'è più, quindi adesso le cose fra me e Dylan devono necessariamente funzionare, dal momento che è per lui che ho perso lei».

«Quindi questo mi dà motivo di pensare che la vostra amicizia non fosse così pura come vuole farci credere, a maggior ragione perché non era neanche presente al suo funerale.»

Quello fu un colpo basso. L'avvocato Finnston stava già per aprire bocca per obiettare, ma si fermò non appena incrociò il mio sguardo. Avrei potuto usare la cosa a mio vantaggio, per portare nuovamente la giuria dalla mia parte. «Ero presente, all'inizio» dissi. «Ma poi sono stata cacciata dai suoi genitori, che mi hanno impedito di partecipare al suo funerale. Comprendo a pieno il loro dolore, è lo stesso che provo io, sebbene non mi spieghi perché, fra tutti, abbiano deciso di indirizzare il loro odio verso di me. Ciò che non comprendo è perché persone sconosciute a Emily, sia della scuola, sia della polizia, sia giornalisti, abbiano potuto avere l'occasione di partecipare al suo funerale, mentre a me è stato negato questo diritto. Il diritto di salutarla, di dirle addio. Ogni giorno mi sveglio con un senso di vuoto, lasciato da Emily e che, forse, partecipare al suo funerale avrebbe colmato almeno in parte.» Ero nuovamente vicina alla commozione, quindi smisi di parlare. Incrociai lo sguardo dell'avvocato Finnston, il quale fece un segno di assenso, a significare che me l'ero cavata.

E me la cavai, all'incirca, anche con tutte le domande successive, quelle che l'avvocato prevedeva che mi sarebbero state poste, e sulle quali mi ero preparata alla meglio.

•••

Giunse poi il momento delle arringhe finali. Essendo quello del procuratore un discorso molto lungo, forse durato almeno mezz'ora, non riuscii a seguire ogni parola, specie perché non fece che ripetere le stesse cose più e più volte.

In particolare, mi preoccupò molto il fatto che persino l'avvocato Finnston non sembrasse particolarmente attento a ciò che diceva. Perlopiù sembrava stesse approfittando di quel momento per riposarsi.

Sbarrai gli occhi nel momento in cui mi accorsi che, se da una parte il procuratore Goldberg si era preparato dei fogli interi con su scritto cosa dire, l'avvocato Finnston aveva davanti a sé un solo foglio bianco in cui le uniche parole scritte erano: "Arringa finale, 02/11/2019".

Deglutii. Non aveva preparato nulla. Cos'aveva intenzione di fare nel momento in cui fosse stato il suo turno? Avrebbe davvero improvvisato? L'arringa era il momento più importante dell'udienza, ciò che avrebbe dovuto convincere definitivamente la giuria a prendere la decisione giusta.

«È pertanto verosimile credere che la fautrice di tale orribile atto sia la ragazza che poco fa era seduta alla sbarra. Grazie per l'attenzione. Ripongo la mia totale fiducia nella giuria a mio lato» concluse infine il procuratore. Solo nel momento in cui il procuratore si schiarì la gola e si risedette, vidi l'avvocato Finnston attivarsi e scrivere qualcosa.

A quel punto, dopo qualche istante di esitazione passato a osservare il foglio davanti a lui, sul quale erano scritte sì e no dieci parole, l'avvocato Finnston si alzò in piedi, sorprendendomi ancora una volta. «Vostro Onore, prima di incominciare vorrei evidenziare ancora una volta la sostanziale importanza del caso che stiamo esaminando: una giovane vita che è stata strappata ingiustamente e brutalmente e che ci ha lasciato troppo presto. La sacralità di una vita umana è stata violata in modo irreversibile. Ma quanto vale esattamente una vita umana? Per un genitore, quella di un figlio vale più di qualsiasi somma di denaro. E quando il proprio figlio o la propria figlia viene a mancare, il genitore non riesce a darsi pace, viene schiacciato dal dolore e dalla incommensurabile tristezza, tanto che anche una piccola parte della sua anima muore. Se la prende innanzitutto con se stesso, chiedendosi cosa possa mai aver fatto di male per meritarsi un tale supplizio. Poi supera quella fase e, accompagnato dalla perenne e quotidiana sofferenza, inizia a porsi un'altra domanda: chi è stato? Quello diventa il suo unico pensiero, dal quale non riesce a scappare, neanche di notte. 
Ed ecco che la sua nuova ragione di vita, il primo obiettivo da perseguire, è soltanto uno: scovare il suo carnefice. Scoprire la verità. Ottenere giustizia. 
«Pertanto, ricollegandomi all'illuminante discorso del brillante procuratore Goldberg, ci terrei a soffermarmi su una sua scelta linguistica in particolare: mi ha colpito molto l'utilizzo della parola "verosimile". Egli ha infatti affermato che "è pertanto verosimile credere che la fautrice di tale orribile atto sia la ragazza che poco fa era seduta alla sbarra". È questo che cercano dei poveri e addolorati genitori? Oppure cercano la verità, la reale versione dei fatti? Sono certo che, per quanto straziante possa essere, sia sempre meglio venire a conoscenza della verità, piuttosto che accontentarsi di una semplice congettura.
«Quindi ora diamo un'occhiata ai fatti, le cose certe e vere. Non è la mia cliente l'ultima persona ad aver visto la vittima prima che morisse. Non è la mia cliente ad aver avuto una relazione con lei durante l'estate. Non è la mia cliente ad aver problemi nel gestire la rabbia. Non è la mia cliente colei che ha una perfetta conoscenza dell'ubicazione degli utensili da cucina all'interno di quella casa. Non è la mia cliente colei la cui pelle, come comprovato dal test del DNA, era stata trovata sotto le unghia della vittima, a testimoniare un'aggressione. Non è la mia cliente ad aver trasportato il cadavere e ad averlo lanciato nel fondale del Lake End Park, dal momento che è stata testimoniata la sua presenza presso il locale Golden Rose nelle ore successive alla festa. Eppure è la mia cliente a essere accusata di omicidio. È la mia cliente, la persona ad avere il legame più stretto con la vittima, a essere stata accusata per prima. È la mia cliente, colei che ha sempre avuto una reputazione impeccabile, colei che è stata diffamata e calunniata più volte. È la mia cliente che la sera del 28 settembre ha avuto una terribile discussione con la vittima, come testimoniato da video che sono stati girati e diffusi in giro per la scuola senza il suo consenso. Fra litigare e commettere un omicidio c'è differenza, eppure alla polizia distrettuale è stato sufficiente per fondare le proprie accuse. Un'argomentazione piuttosto debole, se messa a confronto con l'entità delle accuse fatte. Oppure, per citare le parole usate dall'illustrissimo procuratore, è un'argomentazione verosimile. Se la polizia distrettuale non è riuscita a fare di meglio, spero che la mia esposizione riesca nel suo intento di dare chiarezza, basandosi la mia dimostrazione su fatti veri.
Pertanto richiedo, Vostro Onore, una sentenza di non colpevolezza nei confronti della mia cliente Megan Ellen Sinclair, oltre che un risarcimento per i danni morali, biologici ed esistenziali inflitti alla sua persona, che nelle ultime settimane è stata manipolata, è stata vittima di bullismo, ha sofferto di disturbi del sonno e si è sentita in pericolo di vita in seguito a delle minacce verbali ricevute.
Confido che la giuria riuscirà a prendere la decisione migliore.»

•••

Dopo numerosi minuti di attesa, quando l'ora di pranzo era passata ormai da un pezzo e sentivo il mio stomaco reclamare per questo, fummo richiamati all'interno dell'aula per udire la sentenza della giuria.

Anche il giudice Sullivan utilizzò numerosi giri di parole, ed ero così tesa che non riuscii ad ascoltare niente. Davvero. Non ascoltai una singola parola. Mi trovavo come in uno stato di trance, in cui ogni suono appariva ovattato, in cui l'unica cosa che riuscivo ad ascoltare erano i miei pensieri e il battito del mio cuore.

A un certo punto sollevai lo sguardo, nel momento in cui mi accorsi di una certa confusione generale. Mi resi conto che mia madre e mio padre erano giunti al mio fianco. Mia madre aveva le lacrime agli occhi e mi gettò subito le braccia al collo.

Allora cominciai a temere il peggio. Non ce l'avevo fatta. Ero stata condannata. Le prove indiziarie avevano avuto la meglio sulla difesa del mio avvocato, e sarei stata sottoposta a un vero e proprio processo. Mi guardai intorno, l'avvocato Finnston mi guardava, inizialmente con sguardo indecifrabile. Mi appoggiò una mano sulla spalla, come a volermi dare conforto. Non capivo se fosse deluso, amareggiato, oppure se in fondo se l'aspettava.

Poi aprì la bocca per parlare e finalmente capii ogni cosa: «Ce l'hai fatta».

A quelle parole, spalancai la bocca e mi sentii mancare il respiro. Mi avviai di fretta fuori dall'aula di tribunale e corsi in cerca del bagno, accasciandomi sulla parete una volta entrata.

A quel punto sentii qualcosa di umido bagnarmi la guancia e sollevai lo sguardo in alto, temendo che ci fosse qualche perdita dal soffitto. Nel farlo, mi accorsi di avere la vista annebbiata. Sentii ancora una goccia e allora non mi rimase più nessun dubbio: stavo piangendo. Io stavo piangendo. Non succedeva da così tanto tempo che non mi ricordavo neanche più cosa si provava. E dopo le prime due lacrime, ne seguirono altre a dirotto, non riuscivo più a fermarmi. Anche se il respiro era affannato, anche se la vista era sempre più annebbiata, mi sentii sollevata.

Eppure non avrei dovuto. Perché lei era morta. Emily era morta. Non c'era più. Non sarebbe tornata indietro. Non l'avrei riavuta indietro. E, con lei, anche una parte di me era persa per sempre.

La porta del bagno si aprì e io mi alzai in piedi di scatto, asciugandomi in fretta le lacrime. Sentii una fitta nel petto, non appena incrociai gli occhi castani di David.

«Eccoti. I tuoi genitori ti stanno cercando» disse, senza mostrare il minimo imbarazzo. Ma, in fondo, ero io quella che aveva fatto una figuraccia dopo l'altra e che era stata rifiutata da lui ancora una volta poco meno di una settimana prima. Ero io quella ridicola.

Senza dire nulla, gli passai di fianco e uscii dal bagno. Mi sforzai di non guardarmi indietro e continuai a percorrere il corridoio, sebbene sentissi la sua presenza alle mie spalle. «Megan» mi chiamò.

A quel punto strinsi i pugni e mi voltai nella sua direzione.

«Va tutto bene?» chiese.

Considerando il mio stato d'animo, un vero e proprio turbine di emozioni contrastanti, non me la sentii neanche di mentire. «Ho pianto. Io... io non... non piangevo da un mese. Da quel martedì in cui ero fuggita da scuola, il giorno dopo la deposizione. Da quel momento non sono più riuscita a piangere, e poi ora, tutto a un tratto, mi è piombato tutto addosso e... e mi chiedo come mi sia stato possibile resistere per tutto questo tempo» confessai.

«Perché stai crescendo. Gli adulti non piangono per qualsiasi cosa.»

"Sì, ma io non sono un'adulta".

O forse per lui lo stavo diventando?

Feci per voltarmi ancora, ma non lo feci. «Io non ti ho mai ringraziato» dissi, cogliendolo di sorpresa. Poi avanzai di qualche passo e continuai. «Mi hai salvato la vita, quel giorno. E io non ti ho mai ringraziato per questo. Dovresti odiarmi per ciò che ho tentato di fare, per... per via di tua madre, e invece mi sei stato affianco, fino alla fine. Quindi grazie» dissi, prima di finire col posare il mio sguardo sulle sue labbra.

Rimase in silenzio, stupito dalle mie parole. Sembrava quasi sul punto di dire qualcosa, ma non lo fece.

Poi sentii la voce di mia madre dal fondo del corridoio e mi volsi un secondo per farle cenno che l'avrei raggiunta a breve, prima di tornare a guardare David.

«Perché queste tue parole suonano come un addio?» domandò, sorprendendomi. Pensavo che fosse ciò che volesse, ma in fondo non ero mai riuscita a capirlo fino in fondo.

Ma avevo imparato a capire ciò che era giusto per me, e mi bastava. «Perché lo è. L'udienza è conclusa. Io non avrò più bisogno dell'aiuto di tuo padre. E noi non ci vedremo più» dissi con voce ferma e decisa.

Mi parve quasi deluso, ma ancora una volta rimase in silenzio.

Così gli voltai le spalle e mi allontanai.

A quel punto vidi Dylan parlare con due uomini della polizia distrettuale e automaticamente mi si formò un ghigno in volto. Avevo ottenuto ciò che volevo.

Non appena si accorse di me, cominciò a chiamarmi, ma io lo ignorai.

«Megan! Megan, perché diamine mi hai fatto questo?» continuava a urlare, mentre veniva accompagnato dai due poliziotti fuori dal palazzo di giustizia.

"Perché è giusto."

Sebbene avessi fatto una scelta moralmente discutibile, facendo di tutto per incastrarlo, non avrei smesso di essere una brava persona. A volte c'è bisogno che le brave persone compiano delle brutte azioni, così che le persone cattive possano ricevere la punizione che meritano, mi dissi. E lui se lo meritava.

Ce l'avevo fatta. Era tutto finito finalmente.

Non seppi spiegarmi perché, quindi, in un momento in cui avrei dovuto esplodere dalla gioia, all'improvviso mi tornarono in mente delle parole che, apparentemente non avevano un senso, ma che di fatto mi aprirono gli occhi e mi fecero crollare il mondo addosso un'altra volta.

«Mio nonno usa una tecnica umana e indolore per uccidere gli animali che caccia. Te lo spiego, è molto semplice: prima si piega il collo, in modo da avvicinare il mento al torace. Poi si posiziona il coltello vicino alla giugulare e subito dopo si recide con un semplice taglio netto. Dopo poco, l'animale giunge in uno stato di immobilità. Inizia a dissanguarsi, senza sentire nulla.»

Mi sentii quasi svenire nel momento in cui realizzai che avevo sbagliato ogni cosa. Avevo appena mandato in prigione un innocente, che non c'entrava nulla, mentre il vero colpevole era ancora a piede libero.

Come avevo potuto essere così stupida da non capirlo subito? Quelle parole, se analizzate a fondo, erano tutt'altro che insensate. Se viste con occhio più critico e attento, costituivano praticamente una confessione.

Non era stato Dylan a uccidere Emily.

Era stato Herman.

 

 

   
 
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