Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: hikaru83    01/10/2019    4 recensioni
Storia scritta per l'evento "Il tempo passa, la Johnlock resta" indetto dal gruppo fb "Johnlock is the way... and Freebatch of course!"
Il mondo è in bianco e nero fino a che non si incontra la propria anima gemella. Prima che ciò accada gli unici oggetti colorati sono quelli toccati dalla propria soulbond. Il che significa che se la tua anima gemella è dall’altra parte del mondo a cercare di farsi uccidere in guerra sei condannato a una triste versione in scala di grigi. Fino al giorno in cui i primi sprazzi di colore fanno capolino nel mondo, il che significa che la propria anima gemella è finalmente vicina.
#Soulmatemagic #Johnlock #Mystrade #Happyend
Genere: Fantasy, Fluff, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mike Stamford, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Eccoci qui, questa storia è nata per il compleanno di Martin (amore bello lo so che sono un pochetto in ritardo ma tu non ti offendere) e grazie all'evento Il tempo passa la Johnlock resta del gruppo FB Johnlock is the way... and Freebatch of course!

Tra i prompt disponibili ho scelto questo:

Il mondo è in bianco e nero fino a che non si incontra la propria anima gemella. Prima che ciò accada gli unici oggetti colorati sono quelli toccati dalla propria soulbond. Il che significa che se la tua anima gemella è dall’altra parte del mondo a cercare di farsi uccidere in guerra sei condannato a una triste versione in scala di grigi. Fino al giorno in cui i primi sprazzi di colore fanno capolino nel mondo, il che significa che la propria anima gemella è finalmente vicina.


Non mi resta che augurarvi buona lettura.
 




Sfumature
 



Sherlock

 
 
Sherlock osservava annoiato il giardino della villa. La festa che i suoi genitori avevano organizzato era esageratamente sfarzosa.

Il tutto per festeggiare cosa poi?

A Sherlock sembravano tutti matti.

Che premura avevano di trovare l’anima gemella? Come se non fossero dei completi esseri umani se non si accoppiavano in fretta.

Che immane idiozia!

Fino a quel momento almeno aveva potuto contare sul supporto del fratello. Non che Mycroft lo sostenesse per scelta. Ma era il maggiore, aveva quasi raggiunto la quarantina e non aveva ancora trovato la sua anima gemella.

Immaginava che per i loro genitori quella situazione doveva essere un incubo: avevano due soli figli, che sulla carta non avevano nulla da invidiare a nessuno, a cui sembrava la sorte giocasse contro non permettendo loro di costruire una famiglia.

Non che a lui importasse.

La storia delle soulbond a lui aveva sempre dato fastidio.

Il fatto di essere destinato a qualcuno senza avere alcuna libertà di scelta era assurdo.

L’idea di diventare un idiota per colpa dei sentimenti poi, gli dava sui nervi.

E sinceramente il terrore di scoprire quanto potesse essere stupida la persona che gli era capitata per colpa del caso, era elevato. Perché in effetti quante probabilità che fosse intelligente quanto lui, sarebbero esistite?

Nulle, molto probabilmente.

E se gli fosse capitato uno come Anderson? O come una delle persone qualsiasi che stavano infestando Villa Holmes in quel momento?

L’orrore!

Nel caso raro poi, in cui fosse intelligente come lui, la cosa avrebbe potuto risultare anche peggiore.

Guardò di sbieco il fratello, che almeno sembrava rimasto il solito di sempre, a parte qualche occhiata ancora stupita – e decisamente simile a quella di un pesce lesso – verso il suo compagno.

E pensare che il loro incontro era stato tutto merito di Sherlock e del fatto che, se non si incontrava la propria anima gemella il mondo sarebbe rimasto tutto in una scala di grigi.

Quindi per quanto si possa essere attenti, anche se tra il nero e il bianco le differenze erano evidenti, in mezzo, tra una sfumatura di grigio e un’altra, non c’è molta difformità.

E a volte, per fare gli esperimenti di chimica, riuscire a riconoscere le differenze di colore era abbastanza essenziale, altrimenti potevano innestarsi reazioni esplosive...nel vero senso della parola.

Fu per uno degli esperimenti di Sherlock andati male che Lestrade era entrato nelle loro vite.

Sherlock e Mycroft erano tornati alla villa degli Holmes per una di quelle cose inutili come un compleanno o forse un anniversario, a nessuno dei due fratelli la cosa sembrava rilevante considerando che entrambi avevano il loro lavoro – sicuramente molto importante – da sbrigare, ma nessuno dei due voleva rischiare di incappare nelle ire della madre.

La signora Holmes sapeva essere molto vendicativa quando voleva.

Così Sherlock si era ritrovato a fare i suoi esperimenti nel piccolo, ma ben servito, laboratorio che negli anni aveva tirato su nella stanza messa a disposizione a villa Holmes.

Gli altri bambini avevano avuto una stanza dei giochi, i fratelli Holmes avevano declinato questa, in qualcosa di più personale. Sherlock non aveva idea di come appariva e cosa contenesse quella del fratello ma immaginava che fosse terribilmente noiosa.

Una piccola esplosione, dovuta a una di quelle maledette impercettibili sfumature di grigio che non era riuscito a cogliere, aveva messo in guardia l’ispettore che passava davanti alla villa proprio in quel momento.

Sherlock aveva aperto la porta e mentre si preparava alla ramanzina del poliziotto aveva ricevuto solo silenzio.

L’ispettore era con gli occhi sgranati e osservava qualcosa, o meglio qualcuno, alle sue spalle.

Quel qualcuno era Mycroft, che aveva lo stesso sguardo stupito dell’ispettore.

Sherlock capì immediatamente cosa stava accadendo, e improvvisamente alcune delle cose avvenute in quelle settimane gli tornarono in mente.

 
Infatti Mycroft si comportava in modo strano da tempo. Ogni tanto lo scorgeva mentre osservava un oggetto come se non l’avesse mai visto in passato.

La prima volta che era successo erano in centro, davanti a uno di quei fastfood a cui loro non si erano mai nemmeno avvicinati. Eppure Mycroft era piazzato davanti all’entrata e osservava la maniglia della porta come se fosse la cosa più straordinaria di sempre.

Era successo altre volte, tante altre volte, ma il fratello aveva sempre trovato la calma in fretta e aveva evitato di parlare con lui e con chiunque di quello che stava accadendo.

Sherlock ora lo sapeva.

Mycroft aveva iniziato a vedere i colori.

Lestrade, in seguito, aveva confessato che girava spesso vicino alla villa, appena aveva tempo libero, perché le chiazze di colore che aveva notato in città si intensificavano nella zona.

 
E adesso erano lì, a festeggiare la cosa, con la madre che volteggiava tra un ospite all’altro, pavoneggiandosi di quanto Mycroft fosse stato fortunato. Un ispettore di polizia trasferito da poco nella loro città. Erano compatibili anche come lavoro. Entrambi dalla parte della legge.

C’era la piccola differenza che Lestrade la rispettava, mentre Mycroft la piegava al suo uso e consumo. Ma perché fare gli schizzinosi?

Suo padre gli sorrise da lontano e Sherlock usò tutta la sua forza di volontà per non fuggire a gambe levate mentre si avvicinava con l’ennesima persona che voleva fargli conoscere, nella speranza che fosse quella giusta. Cosa che ovviamente lui sapeva non lo era. L’avrebbe notata una chiazza di colore in tutto quel grigio del resto.

Esattamente come aveva notato quella barchetta di carta trovata quando da bambino giocava a essere un pirata.
 

Erano al mare da settimane. Quel giorno avevano deciso di fare un picnic e si erano fermati vicino a una insenatura da dove un fiumiciattolo si univa al mare.

Quando, all’improvviso, vide qualcosa di strano nell’acqua. Una barchetta di carta che non era grigia come tutto il resto, ma di un bel blu. O meglio, lui aveva associato quel colore al blu, anche se non aveva idea di cosa fosse il blu.

Non aveva avuto il coraggio di parlarne con i suoi genitori, nemmeno con il fratello, aveva troppa paura che fosse qualcosa di strano. Non sapeva ancora di quella storia dell’anima gemella, né cosa fossero i colori. Il suo mondo era in bianco e nero, come era giusto che fosse quello di un bambino. I colori appartenevano solo a chi aveva incontrato la persona destinata a dividere la vita con loro. Per gli altri non esistevano e non sarebbero mai esistiti.

Andava bene a Sherlock, e forse, se non avesse mai trovato quella barchetta, sarebbe rimasto completamente felice e appagato della sua condizione di single.

Ma quella barchetta c’era. E gli ricordava dopo anni che il mondo aveva meraviglie da mostrargli che a lui erano celate se non avesse mai trovato la sua anima gemella.

Per anni aveva odiato il creatore di quella barchetta. Perché non aveva potuto lasciarlo in pace?

Però c’erano volte in cui il pensiero di non essere destinato a stare solo lo avvolgeva come una calda coperta durante una fredda notte e lo faceva sentire stupidamente e irrazionalmente felice.

Anche se non l’avrebbe mai ammesso nemmeno a se stesso.
 

Alla fine, senza sapere come aveva fatto, era riuscito a sfuggire a quella tortura che, nel salone principale della villa e nel suo giardino, si stava ancora sviluppando. E si era rintanato nella sua stanza.

Aveva tenuto le luci spente per evitare che i suoi genitori si potessero accorgere della sua fuga e si rigirava tra le dita la barchetta di carta, che conservava gelosamente da quel giorno. Quel Blu circondava la sua anima, tranquillizzando le sue paure e la sua rabbia.

Il baccano di sotto non diminuiva.

Festa di fidanzamento, cosa poteva esserci di peggio?


 

John

 
 
John era uscito dopo un turno di quarantotto ore dal pronto soccorso.

Era stanco, ma dopo quello che aveva vissuto in guerra era più abituato rispetto ai suoi colleghi a essere sempre vigile e a riposarsi nei momenti di pausa.

La sua capacità di addormentarsi in pochi secondi in qualsiasi posizione, con qualsiasi rumore o luce, era senz’altro un punto a suo favore. Il fatto che gli bastassero davvero pochi minuti per ricaricare le batterie era ancora meglio.

Dopo aver passato un anno al fronte – con ordigni che potevano esplodere da un momento all’altro e nemici sempre pronti ad attaccare – oramai non c’era nulla che gli impedisse di dormire.

A parte gli incubi, ma quelli non lo colpivano mai quando era di turno. I bastardi arrivavano solo quando era a casa, nel suo letto, nel silenzio più totale, impedendogli di fare una dormita decente almeno per una notte.

Quando era arrivato a Londra aveva passeggiato a lungo in città. Aveva cercato i luoghi che, da studente, aveva frequentato, trovando tutto così diverso da non sembrare neppure la stessa Londra.

Non sapeva se era la città ad essere cambiata, o era lui a non essere più la stessa persona.

In ospedale aveva trovato un vecchio compagno di studi, Mike Stanford, che ora insegnava alla nuova generazione di medici.

Grazie a Mike aveva avuto la spinta giusta per avere quel lavoro, quando c’era stato bisogno di sostituire temporaneamente un medico in pronto soccorso. E sempre grazie a lui aveva un appuntamento con un ispettore di Scotland Yard. Non riusciva a capire perché Mike avesse insistito così tanto. Era vero, il lavoro in pronto soccorso non sarebbe durato per sempre, ma non capiva cosa potesse fare lui per un ispettore di polizia.

Comunque, aveva deciso di andare all’appuntamento. Mike sembrava ci tenesse parecchio, interessandosi così tanto e John non voleva fare la parte del maleducato mettendo l’amico in difficoltà.

Per questo quella mattina si era fatto dare il numero dell’ispettore, aveva deciso di chiamarlo nel momento in cui, quella sera, le porte dell’ospedale si sarebbero chiuse dietro di lui.

John Watson era così, le cose se bisognava farle si facevano subito, tentennare non era nel suo carattere. Se l’offerta gli sarebbe interessata avrebbe accettato, altrimenti avrebbe semplicemente declinato spiegando le sue motivazioni con educazione ma fermezza.

Non aveva nulla da perdere in ogni caso.

L’ispettore, dalla voce al telefono, gli era sembrato una persona disponibile e alla mano, e gli aveva chiesto se per lui andava bene incontrarsi in un pub, visto che era abbastanza tardi e doveva ancora cenare. John aveva accettato con entusiasmo. Soprattutto il suo stomaco aveva accettato con entusiasmo, quando era stato l’ultimo pasto decente che aveva fatto? Non se lo ricordava nemmeno.

 
Quando era entrato nel pub, che gli era stato indicato , aveva trovato ad accoglierlo un ispettore sulla quarantina. Da quello che la sua vista – ancora in scala di grigi – poteva vedere, doveva avere i capelli che iniziavano a essere brizzolati, gli occhi scuri, la pelle leggermente abbronzata.

Il sorriso sembrava genuino, la stretta di mano con la quale lo aveva salutato era vigorosa.

Il suo istinto lo aveva sempre aiutato a comprendere la natura umana e adesso gli stava dicendo che ci si poteva fidare. Forse Mike aveva davvero ragione a insistere perché lui parlasse con il nuovo ispettore appena arrivato.

Quel Gregory Lestrade sembrava proprio una brava persona.


 

Sherlock

 
 
Da quando il fratello aveva conosciuto Lestrade Sherlock doveva ammettere che le cose erano andate molto meglio di quello che si aspettava.

Mycroft continuava ad essere il solito Mycroft, solo che c’era qualcuno in grado di dargli una calmata, cosa che prima era impossibile.

Ma soprattutto, Sherlock aveva iniziato a seguire dei veri casi.

Quando l’ispettore si era accorto della sua intelligenza oltre misura, gli aveva chiesto se gli interessasse dargli una mano di tanto in tanto. A Sherlock questa richiesta non pareva vera. Per anni aveva cercato di far capire a quelle teste vuote di Scotland Yard gli errori che si ostinavano a commettere e come risposta aveva solo ricevuto, quando era stato fortunato, porte in faccia. Ora Lestrade non solo aveva ammesso che l’intelligenza di Sherlock avrebbe potuto cambiare le sorti di un caso, ma aveva anche chiesto il suo aiuto dicendo che, per quanto gli riguardava, la cosa essenziale era trovare i colpevoli e scovare la verità per le vittime e per i loro familiari. Era il minimo che si poteva fare per loro, non una grande consolazione ma un modo per andare avanti.

E non lo diceva perché non fosse orgoglioso, Lestrade era molto orgoglioso di ciò che era e di quello che sapeva fare. Solo che accettava aiuto quando si rendeva conto che avrebbe velocizzato la cattura del colpevole.

E Sherlock doveva confessare, solo con se stesso, che quell’ispettore era il minore dei male potesse succedergli.

A Mycroft era andata piuttosto bene.
 

Per lui era ancora assurda la storia del colpo di fulmine, dell’anima gemella che ti cambia la vita decisa per uno sciocco scherzo del destino. Ogni tanto si convinceva che a lui non sarebbe mai accaduto, perché era davvero una cosa senza senso. Poi la barchetta di carta tornava prepotente nel suo palazzo mentale. Quel Blu inondava la sua mente, la riempiva.

Da qualche parte a questo mondo esisteva il suo soulbond, perché se una cosa era certa per Sherlock era che non poteva che trattarsi di un uomo.



 
John

 
 
Osservava l’ispettore che stava addentando con soddisfazione la bistecca fumante posta davanti a lui. Cercando di riordinare le idee.

Gli aveva davvero chiesto di collaborare con le sue indagini?

La situazione era abbastanza strana. Perché con tutte le persone degne di fiducia che doveva conoscere si voleva affidare a un estraneo?

Su quel punto non era stato chiaro, ma non doveva essere un caso visto che aveva esordito informandosi più delle sue capacità di soldato che quelle di medico.

Ci doveva essere qualcosa sotto, solo che l’ispettore faceva finta di non comprendere le occhiate incessanti che gli lanciava. E John era sicuro che stava solo fingendo di non comprendere.

La paga era senz’altro buona, avrebbe avuto orari elastici che potevano tranquillamente coesistere con i turni in ospedale, finché questi ci sarebbero stati. Lavorare con l’ispettore non sembrava male, da quello che aveva visto sembrava davvero una persona degna di fiducia. Ma allora dove stava l’inghippo? Perché qualche cosa di negativo doveva esserci in quel lavoro. Non c’era altra spiegazione se essere un soldato pareva essere il motivo per cui aveva più possibilità di altri di avere quel lavoro.

E così come era sua abitudine, visto che l’ispettore evitava di parlane, ad un certo punto glielo chiese chiaro e tondo. Sempre diretto, John, stanco delle cose non dette o da interpretare.

E la risposta di Lestrade lo sorprese molto.

Anche perché la prima cosa che fece fu scoppiare a ridere, una bella risata coinvolgente. E poi rivelò che era nuovo a Scotland Yard, e il motivo per cui lo avevano mandato era che ai piani alti avevano il sospetto che qualcosa in quell’ufficio non andava, si pensava a una o più mele marce. E lui dopo diverse indagini era arrivato alla conclusione che una delle mele marce doveva essere nella scientifica, forse addirittura il medico legale.

Il problema era che, se spulciando i vecchi casi e rapporti poteva trovare le verità nascoste, nei rapporti della scientifica e del medico legale non riusciva a venirci a capo. Il linguaggio era troppo specifico, i termini impossibili da comprendere per chi non era del settore. E quindi se, come sospettava, c’entrava qualcuno del reparto della scientifica non l’avrebbe mai potuto scovare se non avesse un medico di fiducia a cui rivolgersi.

Era stato mandato a investigare perché era molto bravo, e perché non aveva alcun legame con i suoi nuovi colleghi, non conoscendo nessuno era totalmente imparziale. Il problema era che questo fatto lo portava anche a non sapere di chi fidarsi.

Poi, durante un indagine al Barts, aveva conosciuto Mike ritenendolo una persona affidabile. Erano diventati amici e andavano a bere una volta a settimana almeno al pub insieme. Ed era stato Mike a parlargli di John, quell’amico soldato che aveva studiato medicina con lui e si era laureato con il massimo dei voti senza apparente sforzo. La persona più leale e onesta che avesse mai incontrato.

Esattamente quello di cui Lestrade aveva bisogno.

Lo fissò, osservandolo con calma e serietà, rivelando che se avesse accettato si sarebbe potuto trovare in pericolo, per questo il fatto che fosse un soldato, quindi capace di difendersi, era molto importante.
E a John, al contrario di quello che l’ispettore credeva, quella precisazione era stata ciò che l’aveva convinto ad accettare.

Perché John, in fondo, aveva bisogno della guerra.

 


Sherlock

 
 
Quando Lestrade l’aveva chiamato per la prima collaborazione “ufficiale” si era sentito improvvisamente elettrizzato.

Per il resto delle persone un triplice omicidio non era certo un motivo per festeggiare. Se poi si considerava che questi omicidi erano travestiti da suicidi, e che non si trovava nessun collegamento tra le vittime, la cosa avrebbe quantomeno preoccupato chiunque con un po’ di sale in zucca.

Ma per Sherlock quegli omicidi erano solo dei dati da analizzare, ogni caso aggiunto era un nuovo esempio del lavoro del killer, più ne avrebbe fatti, più materiale aveva da studiare, più vicina sarebbe stata la cattura.

Analizzava tutto con metodo scientifico Sherlock, metteva da parte i sentimenti, e guardava tutto con sguardo razionale.

Era stato lui stesso a mettere la pulce nell’orecchio a Lestrade. Una pulce piuttosto insistente e noiosa che, attraverso a SMS molesti avvisava il poliziotto e chiunque fosse interessato alla faccenda, che quello a cui erano arrivati dopo le indagini era un errore mastodontico.

Magari per chiunque altro, mandare a Lestrade e a tutti i giornalisti durante la conferenza stampa un messaggio con scritto “Sbagliato” ad ogni affermazione degli investigatori, avrebbe potuto sembrare esagerato, ma per il giovane Holmes era il metodo più semplice per essere ascoltato. E in effetti era stato convocato da Lestrade appena terminata la suddetta conferenza.

Lestrade aveva preso comunque di buon grado il carattere del suo futuro cognato – “futuro” solo perché parlare di matrimonio era abbastanza frettoloso per il carattere di Mycroft che già faticava di non avere il controllo sui suoi sentimenti, e lui non avrebbe mai fatto nulla che potesse in qualche modo far agitare il suo compagno, altrimenti Lestrade era già bello che pronto, aveva aspettato così tanto per trovarlo che costruire con lui una famiglia era quello che desiderava di più – così dopo aver finto di fargli una ramanzina, più per tener buoni i suoi collaboratori che altro, aveva preso la palla al balzo e lo aveva “sfidato” a lavorare con loro per dimostrare quanto fosse bravo.

Sherlock sapeva che era sua intenzione dall’inizio farlo collaborare e non poté fare altro che riservargli uno sguardo grato appena la sfida venne lanciata.

Quello che Sherlock non sapeva e che non avrebbe lavorato con il medico legale “ufficiale”, fino a quando si trovò davanti al cadavere del quarto corpo trovato.

Lestrade aveva fatto uscire tutti, compresa la scientifica e Sherlock si era trovato solo con l’ispettore, in quella stanza al terzo piano di quella palazzina abbandonata e fatiscente con il corpo di una donna. A detta dell’ispettore era un punto di rosa shocking in mezzo alla polvere.

All’inizio si era sorpreso, poi l’aveva visto prendere il telefono e fare una chiamata, forse per chiedere un permesso a procedere?

Solo dopo aveva scoperto che la chiamata era in realtà una videochiamata, e dall’altra parte dello schermo c’era un uomo, di circa la sua età o poco più grande, con occhi profondi, capelli chiari e un sorriso che Sherlock non sapeva etichettare, o meglio, la prima cosa che gli era venuta in mente era “bellissimo” ma quello non era certo un commento degno della sua sagacia, quindi fece finta di non averci pensato.


«E così tu sei Sherlock, Greg mi ha elencato le tue innumerevoli qualità. Io sono John Watson, chiamami pure John.» anche la voce di quell’uomo l’aveva etichettata con bellissima, la cosa cominciò a sorprenderlo e a preoccuparlo, che si stesse ammalando? Ma subito dopo tornò sui binari e contrattaccò, sembrava che questo Watson sapesse di lui, quindi perché non dimostrargli che lui non aveva bisogno che qualcuno gli parlasse di una persona per sapere tutto quello che c’era da sapere?

«Afghanistan o Iraq?» gli chiese fintamente annoiato. In realtà non lo era per nulla.

«Cosa? Greg gli hai parlato di me?» ma Sherlock non gli diede tempo di rispondere.

«Mi domandavo solamente perché Gavin ha bisogno della supervisione di un medico militare, tutto qui. Vistò l’età che dimostra potrebbe aver combattuto sia in Afghanistan che in Iraq, solo questo non mi è chiaro.»

«Scusate piccioncini, mi duole disturbarvi ma qui c’è un corpo di una donna che merita le dovute attenzioni. Non vi pare?» Li interruppe l’ispettore. “Non se n’era andato?” fu il pensiero di Sherlock, che da quando il viso del dottore era apparso sullo schermo non aveva notato più nulla.

«Il fatto che inizi a parlare come quel noioso di mio fratello mi preoccupa, speravo fossi tu a svecchiarlo non il contrario.» si lamentò, cercando di far trasparire tutto il suo disappunto.

«Sherlock invece di perdere tempo vuoi dirmi qualcosa di utile? E anche tu dottore.» continuò invece Greg, non preoccupandosi minimamente dell’evidente insoddisfazione.

«Greg, non per essere noioso, ma non credi che sia abbastanza difficile che dall’ospedale io possa fare qualcosa?» ribatté il dottore.

«Ho bisogno di qualcosa da cui partire, un inizio da cui so che posso iniziare a investigare senza essere forviato.»

Intanto Sherlock aveva preso a osservare il corpo da vicino. Senza alcuna esitazione.

«Viene da Cardiff, questo è evidente, sicuramente voleva fermarsi solo per una notte, considerando la valigia, lavora nello spettacolo, visto il colore scelto, da quello che mi hai detto molto acceso, direi televisione.»

«Cardiff?» domandò l’ispettore.

«Ovviamente, il cappotto è bagnato, anche sotto il collo, questo vuol dire che ha tirato su il bavero per difendersi dalla pioggia, e visto che non ha usato l’ombrello doveva esserci anche un forte vento. Non deve aver viaggiato molto se consideriamo che qui non ha piovuto e che quindi essendo ancora bagnata deve averla presa prima della partenza. Da questo immagino un viaggio di un paio d’ore o poco più, l’unico posto dove ha piovuto ed è stato colpito da un forte vento alla distanza giusta per rispettare queste semplici deduzioni è Cardiff.»

«Straordinario!» la voce del dottore lo colpì come se fosse stata un qualcosa di materiale, come se avesse potuto colpirlo fisicamente. Sherlock si ritrovò a sorridere senza poterlo nascondere. «Visto che non sembri essere disturbato ad avvicinarsi al corpo potresti per favore annusare l’alito della donna?» Sherlock fece quanto chiesto.

«Ha un odore acido dolciastro.»

«Immaginavo, puoi per favore avvicinare il telefono e permettermi di guardare il corpo.» Sherlock ubbidì, non sapeva nemmeno lui per quale ragione, doveva essere lui a osservare, non aveva bisogno di un qualcuno che lo guidasse ma, per un motivo che non sapeva spiegarsi – e su cui, sinceramente, non voleva soffermarsi – non riusciva a negare qualcosa a quella voce decisa anche se gentile.

Una volta che John vide le unghie spezzate e il messaggio che la donna aveva tentato di lasciare diede la sua risposta a Lestrade.

«Grazie Sherlock. Come credevo è lo stesso veleno Greg, e non è cianuro come hanno scritto.»

«Come fai a dirlo?» L’ispettore cercava di stare dietro a tutti e due, ma entrambi lo sorprendevano. Aveva fatto davvero bene a chiedere loro di collaborare con lui. E se erano così affiatati solo da una video chiamata chissà cosa avrebbero potuto fare se fossero stati entrambi presenti? Non poteva impedirsi di pensare.

«Sherlock ha parlato di un odore acido e questo è dovuto al fatto che la donna non è morta per il veleno ma per asfissia, soffocata dal suo stesso vomito, poi ha parlato di un odore dolciastro, ma non di un odore di mandorla, e coraggio, persino tu dovresti sapere che l’odore del cianuro è assolutamente semplice da riconoscere. E poi Greg, questa donna ha avuto il tempo di tentare di scrivere un messaggio, il cianuro non ti da tempo di fare nulla, è veloce, una volta assunto bastano pochi secondi. Non avrebbe avuto nemmeno il tempo di iniziare a formare la prima lettera, figurati quasi finire una parola, sul legno del pavimento, usando solo le sue unghie. E non avrebbe certo avuto il tempo di morire asfissiata. Qualsiasi cosa ti abbiano detto ti posso assicurare che non è cianuro. Ma dimmi Sherlock hai parlato di una valigia, non mi pare ce ne siano, ma sai dalla mia postazione è un po’ difficile dirlo.»

«Cosa?» Holmes era rimasto incredulo dalla spiegazione del dottore. Era tutto ovvio per lui, certo, però era comunque rimasto incantato ad ascoltarlo.

«La valigia, Sherlock, John ha ragione non c’è nessuna valigia.»

«Ma deve esserci, è evidente, il segno sulle sue calze è chiaro, dev’essere un piccolo trolley.»

«Fantastico!» continuò a adularlo il dottor Watson.

«Lo sa che lo sta dicendo ad alta voce?» gli chiese stupito, nessuno gli faceva mai complimenti.

«Oh mi spiace, cercherò di trattenermi ma guardarti in azione è davvero stupefacente.»

«O-okay, non c’è problema.» Sherlock sentì le guance arrossarsi e dallo sguardo divertito di Lestrade immaginò che “arrossire” non era un semplice modo di dire. «Dobbiamo trovare la valigia, potrebbe darci altri indizi.» Disse, cercando di darsi un tono.

«E come credi che possa farlo? Hai idea di quanto sia grande Londra? Non sappiamo nemmeno se esiste questa fantomatica valigia.» si intromise l’ispettore.

«Oh Greg smettila di trovare scuse, non è una valigia è un piccolo trolley, hai sentito cos’ha detto Sherlock. Visto le sue capacità è evidente che sia così. E un trolley del genere non può essere invisibile.» rispose John impedendo a Sherlock di offendersi per la scarsa considerazione di Lestrade.

«Che cosa vuoi dire?» L’ispettore non poté fare a meno di chiedere, mentre Sherlock rimase immobile con gli occhi spalancati non credendo che qualcuno potesse essere alla sua stessa lunghezza d’onda.

«Ispettore che sia un piccolo trolley sono state le spettacolari, e sicuramente esatte, deduzioni di Sherlock – su cui, visto il suo ingegno, io metterei la mano sul fuoco – e sono propenso a credere, visto la vittima, che il colore di suddetto trolley sia lo stesso del cappotto, delle scarpe, dello smalto e del rossetto: rosa shocking. Hai detto tu che è totalmente in coordinato Greg. Ma forse Holmes è di un altro parere.»

«No, credo che abbia ragione dottore.»

«Perfetto, credo che oramai per te ispettore sia semplice da trovare un bel trolley rosa shocking, e Greg, stammi a sentire qualsiasi cosa ti dica Sherlock fai come ti dice, ti puoi fidare di lui senza dubbio più dei tuoi colleghi. Scusatemi ma mi stanno chiamando, c’è un’emergenza.» così chiuse la chiamata lasciando Sherlock in uno stato di confusione.


Confusione che non gli impedì di lavorare sul caso e facendo fare all’ispettore passi in avanti che senza di lui non avrebbe mai potuto fare, ma che rimase per tutto il giorno nel suo palazzo mentale, sotto forma di un John che entrava in ogni stanza e la faceva propria.


Fino a quando la sera non gli arrivò una chiamata sul cellulare. Non riconobbe il numero, ma decise ugualmente di rispondere.

«Ciao Sherlock, sono John, John Watson. Spero non ti dispiaccia ma ho chiesto il tuo numero a Greg.» Sherlock rimase in silenzio, nel suo palazzo mentale John Watson era diventato padrone di ogni stanza, si muoveva come fosse il suo territorio. «Sherlock, scusami, stavi lavorando?» Holmes si riscosse.

«Stavo solo mettendo ordine.» “Nella mia testa”, avrebbe voluto aggiungere.

«Disturbo?»

«No!» era stato troppo affrettato nel rispondere? Non lo sapeva, non era mai stato troppo bravo nei rapporti con gli altri. Anche perché in genere gli altri lo consideravano alla stregua di un fenomeno da baraccone.

Ma John no, lo aveva sentito con le sue orecchie definirlo fantastico, straordinario, qualcuno di cui fidarsi, qualcuno da stare a sentire, con un intelletto su cui “mettere la mano sul fuoco”. 

Era vero che anche l’ispettore gli aveva dato fiducia, ma del resto Sherlock era il fratello di Mycroft, e l’ispettore avrebbe fatto di tutto per la sua cara anima gemella.

Ma John, che motivo poteva avere se non quello che lo pensava davvero?

«Ne sono felice,» poi senza spiegare altro aggiunse: «so che può sembrarti strano ma come lo sapervi?»

«Come sapevo, cosa?» Sherlock pareva fare fatica a seguire i ragionamenti di quell’uomo. Non sapeva se fosse un problema suo, se fosse normale, non riusciva a comprendere nulla, quando c’era di mezzo John Watson si sentiva terribilmente normale. Era come se il suo cervello non reagisse come era solito fare. Era così che si sentivano tutte le altre persone?

Che cosa orrenda!

«Come sapevi che ero un medico militare, come sapevi che ero stato in Afghanistan? Sono certo che Greg non ti abbia detto nulla, da quello che ho visto prima le tue capacità sono uniche, solo che mi chiedo come riesci a farlo.» John sembrava un treno in corsa, aveva così tante domande che non sapeva da che parte iniziare a porle. E Sherlock sorrise, perché John voleva davvero conoscerlo. John voleva conoscere lui, veramente lui. Come poteva non sorridere a questo? «Se vuoi dirmelo, ovviamente.» Aggiunse un po’ imbarazzato.

E fu così che Sherlock gli spiegò ogni cosa, gli disse che era stato evidente pwe lui, perché aveva notato la sua postura, e il taglio militare, oltre a una leggera abbronzatura che si notava sulle mani e sul viso ma che non continuava sulle braccia – e mentre lo spiegava si rese conto che era assurdo che avesse notato una sfumatura di colore così lieve, e non sapeva spiegarsene il motivo eppure era sicuro di averla vista – gli raccontò ogni cosa.

E a ogni sua spiegazione le esclamazioni del dottore erano stupefatte e positive. Il cuore di Sherlock prese a battere più forte e un calore sconosciuto lo circondò. Nessuno lo aveva mai fatto sentire come stava facendo John Watson. Se non fosse stato John Sherlock si sarebbe forse iniziato a preoccupare, ma, senza nemmeno sapere il perché, il fatto che fosse lui rese l’accettazione della cosa semplice e naturale. Talmente naturale che nemmeno si rese conto di quello che era accaduto.


 

John

 
 
Aveva iniziato a telefonare a Sherlock tutti i giorni. O meglio entrambi si chiamavano ogni giorno. Sembrava che aspettassero solo una scusa per sentirsi. Per John era una cosa davvero strana. Generalmente non aveva voglia di avere a che fare con la gente.

Non che non andasse alle feste o non cercasse di avere amici. Usciva spesso con i medici del pronto soccorso, anche con Mike e Greg capitava parecchie volte di passare serate al pub, a bere birra e guardare le partite, calcio, rugby poco importava. E si divertiva, non poteva negarlo.

Eppure non gli era mai interessato conoscere davvero qualcuno e soprattutto non aveva mai permesso a qualcuno di conoscerlo veramente. Non aveva mai parlato della malattia della madre, né dei problemi d’alcool della sorella o della totale indifferenza del padre. Nessuno sapeva delle notti in bianco per colpa degli incubi, nessuno sapeva degli incontri con la psicologa. Eppure a Sherlock ne aveva parlato, con lui aveva davvero parlato di tutto. E Sherlock parlava con lui. Gli raccontava un sacco di cose, di se stesso, della sua famiglia, di quell’amico che oramai viveva lontano e che sentiva ancora, anche se raramente.

Parlare con Sherlock lo rendeva felice. Sorrise quando il telefono squillò e vide il nome dell’investigatore sullo schermo.

«Ciao Sherlock, sto quasi finendo il turno.» “Che ne dici se mangiamo qualcosa insieme?” avrebbe voluto aggiungere, ma non lo fece, non si riconosceva più, non era lui quello che se voleva una cosa andava e se la prendeva? Perché con Sherlock ci metteva tanto a decidersi?

“Perché vorresti che fosse lui e sei terrorizzato di scoprire che non è così, ecco perché.” Ora ci si metteva anche la coscienza, come se non avesse già altri problemi a cui pensare.

Arrivò a casa, o meglio in quel buco freddo, grigio e con problemi d’umidità evidente che aveva trovato e aveva accettato di chiamare casa. Avrebbe fatto tutto il possibile pur di poter rimanere a Londra e non dover tornare sul divano nell’appartamento del padre a passare tutto il suo tempo libero ad andare a raccattare la sorella per la città.

Tutto pur di evitare quella situazione. Si sentiva davvero una persona pessima ogni volta che ci pensava, ma non ce la faceva a prendersi anche quel peso, era già difficile sopravvivere ai propri demoni.

Aveva fatto tutta la strada con la voce di Sherlock nelle orecchie che gli stava raccontando la sua teoria “mi trovo meglio a parlare a qualcuno che mi ascolta” gli aveva detto una volta. John era molto felice che lo ritenesse un buon ascoltatore. Fosse per lui avrebbe potuto ascoltarlo per ore, tutta la notte se fosse necessario. Adorava sentire le sue teorie e non si capacitava del fatto che gli altri lo considerassero strano. Certo, doveva ammettere che l’idea di un polpo come assassino era al quanto fantasiosa, ma in effetti per come gli aveva spiegato la cosa aveva la sua logica.

Con Sherlock bastava starlo a sentire senza pregiudizi ed era evidente che avesse ragione.

«…e così sono arrivato alla conclusione che avesse lasciato la valigia in macchina – e deve per forza averla portata in quel quartiere in macchina, a piedi sarebbe stato troppo pericoloso, avrebbe potuto scappare o tentare di chiedere aiuto ma in macchina non aveva scampo. Considerando il tempo che è passato ho immaginato che l’assassino se ne sia accorto, e che quindi avrebbe cercato di sbarazzarsene, e indovina cosa ho trovato dopo solo una giornata di ricerca?»

«Non ci credo! Hai il trolley?» Gli rispose interrompendo il flusso di notizie che Sherlock gli stava dando.

«Proprio qui, in questo momento. Avevi ragione, era in coordinato con il resto, ho potuto esserne sicuro grazie alla faccia schifata di mio fratello che, non chiedermi come, mi ha intercettato poco dopo l’avevo trovato.»

«Greg starà facendo i salti di gioia.»

«Chi?»

«L’ispettore Sherlock, sai, quello che sta con tuo fratello.» Non riusciva ancora a capire se facesse sul serio o solo perché gli piaceva prendere in giro il futuro cognato, ma pareva che si scordasse sempre di Lestrade.

«Ah, lui. Non ne ho idea.» Gli rispose. John si trovò a immaginarlo mentre alzava le spalle con noncuranza.

«In che senso? Non sai se era felice quando ha saputo della valigia?» Chiese sorpreso. A lui sembrava una notizia piuttosto importante il ritrovamento di quella valigia.

«Ma lui non lo sa, a meno che mio fratello non glien’ha parlato, sei l’unico che ho chiamato. Perché dovrei avvisare lui, neanche mi credeva che ci fosse una valigia.» “...Sei l’unico che ho chiamato.” Queste sei parole si marchiarono nella testa di John.

«Ma Sherlock, è una prova!» Cercò di ribattere.

«Tanto quelli della scientifica combinano più danni che altro, sbaglio?»

«Non so di cosa stai parlando.» Cercò di fingere di non capire.

«Del motivo per cui tu lavori per Gavin ma nessuno della sua squadra sa di te.»

«Oh Sherlock, non ti arrendi mai?» Non era la prima volta che Sherlock cercava di sapere di più su quella cosa.

«Mai.» Sorrise John, non si aspettava risposta diversa.

«Sei tanto intelligente, scommetto che l’hai già capito perché lavoro con Greg.»

«Vorrei che me lo dicessi tu.»

«Quando prenderemo questo assassino, ok?»

«Affare fatto.»

«Però non capisco Sherlock, come ha convito le vittime a salire sulla sua macchina? Perché quello che hai detto per l’ultima vale per tutte.»

«Ci sto ancora lavorando.»

«Dimmi che stai indossando dei guanti.» Gli chiese sorridendo, immaginandolo mentre rovistava nel trolley.

«Cosa?»

«Stai rovistando nella valigia vero?» Sherlock era impossibile, e lui si trovava ad adorarlo proprio perché era così.

«Come fai a saperlo?» domandò sorpreso.

«Diciamo che ho tirato a indovinare.» rispose con un sorriso dovertito.

«Sì li ho messi.» replicò allora.

«Cosa hai trovato?»

«Vestiti, diciamo che se qualcuno aveva dubbi ora c’è la certezza del fatto che tradiva il marito, credo che certe cose sono considerate parecchio sexy.»

«Certe cose?»

«Beh sì, roba di pizzo, cose così.»

«Beh il pizzo è sexy, non ti piace forse?»

«Non sulle donne.» Confessò allora Sherlock, il cuore di John fece una capriola.

«Ah...»

«La cosa ti disturba?»

«Figurati, sono un soldato Sherlock, sono cresciuto a libri di medicina, armi e spirito cameratesco, non mi interessa minimamente, va bene tutto per quanto mi riguarda. Solo che mi stavo immaginando completi di pizzo maschili. Secondo te esistono?»

«Non ci ho mai pensato a dir la verità.» Nemmeno John ci aveva pensato, fino a quel momento.

«Dovresti Sherlock, se vuoi essere un buon investigatore devi conoscere più cose possibili.»

«Mi stai prendendo in giro?»

«Solo un po’ lo ammetto, ma senza cattiveria.»

«Lo so, John.»

«Ok a parte il pizzo cosa c’è?»

«Documenti, trucchi, creme, il carica batterie del cellulare, non mi pare che ci sia nulla di interessante.»

«E il cellulare sei riuscito ad accenderlo, aveva una password?»

«Non c’è il cellulare.»

«Ma Sherlock ci deve essere, c’è il carica batterie e sul corpo non l’hanno trovato, quindi dev’esserci.»

Il silenzio la fece da padrone per qualche istante, John pensò di aver detto qualcosa di sbagliato e stava per domandarlo quando Sherlock prese la parola.

«John non sei intelligentissimo, ma sei un portatore di luce strepitoso.»

«Grazie, credo.»

«Fammi controllare, sull’etichetta sulla valigia c’è il nome e... perfetto la mail, con questi dati sono certo che...»

«Sei certo cosa? Sherlock?» Lo sentiva digitare velocemente sulla tastiera.

«Quella donna era un genio, più di tutti noi.»

«Potresti restituirmi il favore e illuminare anche me?» Quanto avrebbe voluto avere il cervello così veloce da riuscire a stare dietro a quello di Sherlock.

«”Rache” era davvero Rachel come avevamo ipotizzato, e nient’altro.»

«Cosa stai dicendo?»

«Ti ricordi quando avevamo parlato del messaggio che aveva lasciato? Da quello che ho potuto scoprire Rachel era il nome della figlia nata morta ed è anche la password per entrare nel suo account da dove possiamo triangolare la posizione del cellulare. E John, non ci crederai mai ma è qui!»

«Cosa?»

«Dico sul serio il cellulare è praticamente qui... scusa John stanno suonando alla porta arrivo subito.»

«Sherlock non puoi lasciarmi così...» Il cuore di John batte impazzito, non riesce davvero a placare la paura che sente crescere dentro di sé.


I secondi passano, diventano minuti e nessuno ritorna al telefono. Non può rimanere fermo ad aspettare. Deve fare qualcosa. Ma cosa? Non ha nemmeno idea di dove abita Holmes.

«Greg!» esclama battendosi la mano sulla fronte. Aggancia e digita febbrilmente fino ad arrivare al numero dell’ispettore. Parte la chiamata mentre sistema la pistola dietro la schiena – spera che non serva, ma vuole essere pronto a tutto – e si infila la giacca.

«Ehi John dimmi, ci sono novità?»

«Greg dammi l’indirizzo di Sherlock.» domanda senza preamboli.

«Oh finalmente ti sei deciso, sono giorni che aspetto che uno dei due si muova.»

«Greg è importante.»

«Cos’è successo?» il tono agitato ha messo in allarme anche lui.

«Non lo so ancora, ma devo andare a vedere, magari si è solo scordato che eravamo a telefono e si è messo a fare qualche esperimento, lo sai com’è fatto, se si tratta di lavoro si scorda di ogni altra cosa.»

«Sei sicuro?»

«Davvero Greg, vado a vedere sono già in strada, ti chiamo appena sono lì, vuoi darmi il suo indirizzo.»

«Ha trovato un piccolo appartamento a Baker Street, al 221b.»

«Grazie Greg!»

«Fammi sapere.» non rispose nemmeno, il cuore in gola non gli permetteva di dire altro. Doveva raggiungere Sherlock.

Fu così che, rubando il taxi a una coppia di turisti francesi, giunse casa di Holmes.

Gli aveva detto che voleva trovare una casa per se a Londra, viveva già da solo fuori città ma amava la capitale e desiderava starci considerando anche che sembrava che Greg fosse ben propenso a usarlo spesso per le indagini. Quella stessa mattina gli aveva comunicato che ne aveva trovata una perfetta, un po’ cara e più adatta a una coppia che a una persona sola, ma l’aveva sentita subito sua e non aveva resistito. John aveva scherzato sul fatto che se era così cara e grande avrebbero dovuto andare a convivere perché la sua era un buco e puzzava di cavoli cotta, e aveva ricevuto un “Quando prenderemo questo assassino, ok?” in risposta, era quella la causa per cui aveva replicato così solo pochi minuti prima, rifiutandosi di parlare del motivo per cui lavorasse per Greg.

E adesso non riusciva a smettere di darsi dello stupido, come se dirgli perché Greg l’aveva reclutato avrebbe potuto cambiare qualcosa.

“Quello no, ma se non fossi stato tanto codardo e avessi avuto il coraggio di incontrarlo forse potevi essere con lui questa sera. A casa ad aiutarlo con gli scatoloni del trasloco. Non sarebbe stato solo e adesso sarebbe stato al sicuro con te.” E questa volta alla coscienza non riuscì a replicare.

 


Sherlock
 


Ascoltò quell’uomo, come aveva fatto per tutto il viaggio in taxi, analizzandolo e cercando di carpire ogni più piccolo segreto.

Si rende conto che forse accettare di seguirlo non era stata una mossa tanto furba, ma sete di conoscenza lo ha forviato un momento. Era convinto comunque di venirne fuori, non vedendo l’ora di chiamare John per dirgli quello che aveva scoperto. E chissà, forse fermato l’assassino, troverà il coraggio di dirgli che desidera anche lui andare a cena con lui.

Certo John non gliel’ha proprio chiesto, ma Sherlock sapeva che lo avrebbe voluto fare. Non sa il motivo per cui non l’aveva chiesto. Se per timore o per qualcosa detta dall’ispettore sul suo carattere che gli ha fatto credere che non avrebbe apprezzato la cosa.

Spera tanto che sia per lo stesso motivo che ha impedito a lui di andare in ospedale per cercarlo di nascosto.

Spera che anche John vorrebbe che fosse il suo lui almeno quanto Sherlock vorrebbe lo fosse John.

Eppure, Sherlock è convinto che se non fosse così, se non cambiasse nulla, se anche il mondo fosse ancora in bianco e nero dopo averlo visto, John sarebbe comunque stato il suo lui che insieme avrebbero potuto superare una cosa tanto sciocca come la storia delle anime gemelle. Perché loro erano perfetti. Sherlock non ne aveva dubbi. Se lo sentiva nelle ossa.

Se avere John avrebbe significato rinunciare ai colori l’avrebbe fatto. Anzi, avrebbe buttato quella stupida barchetta che ancora conservava, senza alcuna esitazione.

Ma ora doveva stare attento a ciò che stava accadendo. Il lungo tavolo di legno lo divide da quell’uomo. Due boccette di vetro identiche, al cui interno sono conservate due pillole anch’esse identiche. E una scelta da fare.

Davvero era stata questa la scelta che le vittime si erano trovate a dover fare?

Ma cosa più importante: cosa ci guadagnava quell’uomo? Non si trattava di vendetta, pura e semplice. Sherlock aveva capito bene che quell’uomo viveva solo, era divorziato e non vedeva i figli da anni, che era malato e ne era cosciente. Era stata la scoperta di questa malattia a far uscire il lato da serial killer che era sopito in lui?
Holmes non lo credeva possibile.

Ci doveva essere altro, se lo sentiva, doveva esserci altro per forza. Quell’uomo non era tanto intelligente e poi dove avrebbe preso quelle pillole? Quel veleno non era certo di libero acquisto. Ci doveva essere altro sotto. Era sicuro che se ci fosse stato John lì con lui, se avesse potuto parlane con lui, tutto sarebbe stato più chiaro. Non riusciva a capacitarsi di come bastava parlare con il dottore per riuscire a notare cose che lui riteneva solo notiziole di sfondo mentre John era capace di dare loro la giusta importanza nel momento giusto. Come il fatto che il cellulare fosse assente nella valigia, Sherlock se ne era accorto subito, come ricordava perfettamente della sua assenza sul corpo, eppure se John non gli avesse chiesto direttamente del cellulare in questione lui non avrebbe messo insieme le notizie e non avrebbe capito che la donna doveva averlo lasciato in qualche modo sull’assassino dando tra l’altro la chiave per trovarlo. Parlare con John era diventato importantissimo, avere l’opinione di qualcun altro aiutava parecchio le sue deduzioni. Qualcuno che era sulla sua stessa lunghezza d’onda naturalmente.

Mentre pensava a tutto questo era rimasto in silenzio e l’uomo non aveva aperto bocca come se stesse aspettando che prendesse una decisione.

Sherlock pensò a John e improvvisamente capì, persino a distanza, persino senza poter comunicare con lui direttamente, perfino in quel modo John aveva illuminato la via.

«Chi è?» chiese.

«Scusa?» rispose l’uomo appoggiando il malconcio cappello sul tavolo.

«Chi è il tuo... come chiamarlo? Complice?»

«Lo chiamerei più sponsor.»

«Sponsor?»

«Sì direi che è il nome più appropriato. Non dovrei parlartene perché sai a lui non farebbe molto piacere ma del resto fra non molto non sarai più qui, quindi non avrai il tempo di dedurre nulla mio caro detective.»

«Potresti non essere più qui tu.»

«In teoria sì, certo, ma sei il quinto a giocare contro di me, e io ho sempre vinto su tutti, forse non sono così sprovveduto come credi. Comunque, ammettendo che tu possa stupirmi e prendere la decisione giusta, sarò io quello morto e non credo che il mio sponsor se ne potrà avere se parlo di lui ora. Non ti dirò comunque la sua identità.»

«Non ne ho bisogno, so che c’è, so che è un uomo, so più di quanto sapevo fino a poco fa.»

«Peccato che tutto questo talento presto vedrà la fine, fai la tua scelta Holmes.»

«Non vedo come sei riuscito a convincerli. Se dovevano fare solo una scelta potevano scegliere di andarsene.» disse il detective, annoiato.

«Questa sarebbe la tua mossa?»

«Perché no? Cosa mi tratterrebbe da prendere questa decisione? Tu?»

«Io? Oh no, non avresti problemi a mettermi K.O. ma a questa tua mossa io rispondo così.» replicò tirando fuori da una tasca una grossa pistola e puntandola contro di lui.

«Quindi tutto si riduce a questo? O le pillole o la pistola? Che delusione.»

«Fai la tua scelta.»

«Scelgo la pistola, ovviamente.» Holmes si alzò dando le spalle all’uomo. Credeva che sarebbe stato divertente invece si era ridotto tutto a una farsa.

«Nessuno l’ha mai scelta.» disse l’uomo.

«Riconosco le armi vere da quelle finte. E ora se mi vuoi perdonare credo che telefonerò alla polizia.»

«I patti sono patti, anche se...»

«Anche se?» Sherlock si voltò, la curiosità stava vincendo.

«Nulla, mi chiedevo solamente se saresti stato in grado di capire il trucco delle pillole. Forse sai riconoscere una pistola ma non sei davvero abbastanza intelligente per quello.» continuò l’uomo con noncuranza.

«Certo che so quali di quelle pillole sono inoffensive.»

«Davvero?»

«Ovviamente, è cosi elementare.»

«A parole sono bravi tutti, perché non me lo dimostri? Tanto non hai nulla da perdere se sei tanto sicuro. O forse non lo sei, non del tutto.»

Lo scatto del braccio verso il tavolo fa sussultare l’uomo. Agguantò una delle boccette e togliendone il tappo. L’uomo lo guardò e sorrise prendendo la boccetta rimanente.

Sherlock lo osservò e avvicinò la boccetta alle labbra vedendolo fare altrettanto. Una voce, il John nel suo palazzo mentale, urlava di fermarsi, che stava facendo una stronzata. Il detective rimase sorpreso da come quello “Sherlock” che aveva sentito sembri così reale. Ma non aveva tempo di pensare a nulla a malapena sentì il freddo vetro vicino alle labbra prima che uno sparo squarciò il silenzio così irreale e un proiettile colpì l’uomo davanti a lui.

Sherlock lasciò cadere la boccetta, sorpreso, voltandosi.

Nel vetro della finestra un foro, dall’altra parte a diversi metri di distanza una finestra gemella da cui, come uno specchio, vede un’altra sala come quella in cui si trovava anche se quest’altra era immersa nel buio. Non notò nessuno ma sicuramente era da lì che avevano sparato.

La sua attenzione tornò verso il l’uomo che si contorceva dal dolore sul pavimento.

«Chi è il tuo sponsor?»

«Non chiedermelo non te lo dirò.»

«Chi è?» insistette, mentre premeva il piede sulla ferita dell’uomo le cui urla quasi nascondevano le sirene della polizia.

«Mori-arty» esalò prima di perdere i sensi, probabilmente per sempre.

Sherlock si sentì inquieto, non sapendo bene il perché. Ha scoperto il nome di quello che sembra un criminale ben peggiore di quello che giace a terra, era vero, ma non era per quello che si sentiva inquieto. Aveva a che fare più con un senso di irrequietezza, come se stava per succedere qualcosa di importante, come se stava perdendo tempo e dovesse correre perché stava rischiando di lasciarsi sfuggire qualcosa di unico, qualcosa che cambierà la sua vita.

Mai in vita sua si era sentito così.

Greg entrò nell’aula. Sherlock si voltò cercando di superarlo, continuava a sentire che doveva uscire di lì subito.

«Sherlock stai bene?» Gli chiese Lestrade.

«Non sono quello con un proiettile in corpo. Lui è il serial killer, un tassista, come hai fatto ad arrivare tanto in fretta? Mi seguivi?»

«No, è stato il dottor Watson a chiamarmi.»

«John?»

«Sì lui, credevo di trovarlo qui, mi ha detto dov’eri e che c’era stato uno sparo. Forse nella confusione non l’ho visto.»

Il giovane Holmes vorrebbe parlare ma venne interrotto da un uomo della scientifica.

«Signore? Abbiamo trovato questo conficcato nella parete.» disse mostrando loro un proiettile. Il cui color rame risaltava tra il sangue che Sherlock vedeva ancora quasi nero. Quel proiettile risaltava rispetto a ogni cosa ed era come se avesse appena colpito lui dritto al cuore.

Sherlock spostò di lato Lestrade e iniziò a scendere a due a due i gradini. “John è qui” riusciva solo a pensare. “Lui è veramente qui. E se lui è qui forse ha sparato lui, ha toccato lui quel proiettile, e se fosse così forse...” La sua mente continuò a produrre troppe tesi, doveva assolutamente avere la certezza.

«Sherlock si può sapere che diamine ti prende?»

«Dopo ispettore, dopo.» riuscì solo a dire, quasi gridando.

E Sherlock non gridava mai.
 

L’aria fresca, le luci lampeggianti e un caos di persone fecero quasi girare la testa al detective che cercava un viso solo, voltandosi velocemente a destra e sinistra fino a trovarlo.

John!

John che lo osservava appoggiato a un muro. John che pareva divorarlo con lo sguardo. John con quei capelli biondi e la pelle chiara.

Ogni passo che Sherlock faceva riusciva a notare un dettaglio in più. E si perdeva sempre di più in quel sorriso che sapeva di “casa”.

Fino a che non sprofondò in due occhi Blu intenso. Più intenso di quello della barchetta di carta che lo aspettava tra le pagine di un libro.



 
John
 
 

Non riusciva a crederci. Quanto era stato stupido!

Era ovvio che fosse lui, non doveva proprio temere il contrario.

Come poteva essere altrimenti?

Solo la sua anima gemella poteva essere così pazza da seguire volontariamente un serial killer.

Quando era arrivato davanti all’indirizzo dato da Greg non si era reso conto di nulla. I suoi sensi cercavano disperatamente di dirgli quello che era davanti i suoi occhi. Ma che lui non riusciva a vedere perché la paura per Sherlock era più forte di tutto.

Trovò il telefono appoggiato sul tavolo della cucina, tra un sacco di alambicchi contenenti liquidi che non volle identificare. E un portatile da cui poteva seguire il movimento del telefono della vittima.

Lo prese e corse giù, verso il taxi a cui aveva chiesto di aspettare.

Non riuscì nemmeno a rendersi conto della padrona di casa che doveva averlo preso per un pazzo e a cui avrebbe dovuto chiedere scusa prima possibile. Ma non si preoccupava della cosa. Perché ora, con Sherlock davanti a lui, sano e salvo grazie al suo proiettile, era certo che avrebbe avuto molte occasioni per chiederle scusa.

Persino attraverso lo schermo non aveva potuto non notare il fascino dell’uomo che adesso aveva davanti. Ma ora era tutto più amplificato. Lo vedeva per la prima volta veramente e tutto pareva tornare al posto giusto.

Lo osservava senza parlare, così decise di intervenire lui. Non avrebbe resistito ancora a lungo senza sentire la sua voce. Ne aveva bisogno.

«Il sergente Donovan mi ha spiegato tutto è…» come definire quello che era successo? Non lo sapeva nemmeno lui. «e le due pillole? Una storia tremenda.»

«Dov’è?» gli chiese Sherlock, il solo suono di quella voce bassa fece tremare la sua anima.

«Dov’è cosa?» Domandò.

«Smettila, davvero. Cosa ne hai fatto della pistola?» era orgoglio quello che vedeva negli occhi stupefacenti del detective? Ma soprattutto, avrebbe mai smesso di  stupirsi della bellezza e dell’unicità dell’uomo che era il suo compagno?

«Oh quella, è sul fondo del Tamigi.» rispose con noncuranza.

«Dobbiamo sbarazzarci dei residui di polvere da sparo sulle tue dita, non credo che andresti in prigione ma sarebbe meglio se evitassimo il tribunale. Ma come hai...»

«Ti ho raggiunto grazie alla triangolazione del cellulare, ovviamente ho chiamato Greg e poi ho pensato che era meglio tenerti d’occhio. E comunque sparo regolarmente al poligono quindi non c’è problema.»

«Stai bene?» Sembrava preoccupato.

«Certo che sto bene.»

«Hai appena ucciso un uomo.»

«Eviterei di urlarlo, grazie. E comunque ho visto morire un sacco di persone, di brave persone, molti erano miei amici. Pensavo non sarei più riuscito a dormire. Questa notte dormirò bene.»

«Giusto.»

«Quello non era un buon uomo.»

«No, non lo era.» gli diede ragione il detective.

«Avresti preso quella maledetta pillola, vero?» Gli chiese, avrebbe dovuto essere arrabbiato. Ma come poteva se era chiaro che quello che Sherlock era, nel modo esatto in cui lo era, era il motivo per cui lo sentiva perfetto, parte di sé?

«Certo che no, prendevo solo tempo.» cercò di convincerlo.

«No, non è vero. È così che ti diverti, vero? Rischiando la vita per dimostrare la tua intelligenza.» Di certo era meglio che Sherlock capisse che lui riusciva a comprenderlo meglio di chiunque. Che forse non era intelligente come lui, ma lo capiva e sapeva riconoscere la verità.

«Perché dovrei farlo?» Gli domandò allora.

«Perché sei un idiota.» Rispose. Non pensava davvero che non gliel’avrebbe detto, vero?
Si sorrisero. Ancora. Era così semplice sorridersi.

«Ceniamo?» gli domandò Holmes.

«Muoio di fame.» ammise.

«C’è un buon locale cinese in fondo alla strada, sta aperto fino alle due. Lo sai che si può riconoscere un buon ristorante cinese esaminando l’ultima parte della maniglia della porta?»

«Sherlock non mi devi impressionare, lo hai già fatto.»

«Ehi ehi voi due, fermatevi.» Greg li raggiunse di corsa. «Ho delle domande per te Sherlock, e anche per te dottore, non potete andarvene così.»

«Ispettore Lestrade a quanto so quest’uomo non mangia da diversi giorni. Ora, se lo vuole vivo per i prossimi casi deve farlo cenare.»

«E sentiamo chi lo dice?» Riconobbe il divertimento negli occhi dell’ispettore.

«Io.» affermò.

«Tu John?» Chiese ancora Greg un po’ stupito, passando lo sguardo tra lui e il detective, capendo che stava accadendo qualcosa ma non riuscendo a capacitarsene del tutto.

«Sì, sono il suo dottore.» dichiarò orgoglioso. “Sono il suo qualunque cosa” dissero i suoi occhi all’ispettore.

«E solo uno sciocco discute con il proprio dottore.» continuò per lui Sherlock.

«E va bene, ma voi due domani mattina venite in centrale, chiaro? Andate ora.»

«Grazie.» Sorrise riconoscente John.

 
«Allora, sei corso per Londra, te l’avevo detto che la tua zoppia era psicosomatica.» gli disse Sherlock mentre continuava a guardarlo di sottecchi.

«Lo sapevo.» Gli rivelò John

«Però ti hanno sparato per davvero?» Chiese.

«Sì, alla spalla.» rispose mentre una risata gli sfuggì.
 

Le loro risate coloravano l’aria fredda della notte ormai iniziata. Greg li osservava con un sorriso mentre sentiva la presenza di Mycroft comparire accanto a lui.

 


Greg


 
«Sai Myc? Ho la sensazione che stando con te ho imparato a dedurre in maniera più precisa.»

«Ah sì? E cosa hai dedotto, illuminami.»

«Che presto a casa Holmes ci sarà una festa per un nuovo fidanzamento, che lui lo voglia o meno.»

«Non c’è che dire ispettore, lei è molto intelligente. Che ne dici, andiamo a casa?»

«Dovrei coordinare le indagini,»

«Questa è la parte bella dell’essere capo amore, puoi delegare e tranquillo, lascio qui anche qualche mio uomo per sicurezza.»

«In tal caso come posso dire di no?»

«Non puoi.»

Le loro mani si intrecciarono e il freddo divenne molto meno pungente di prima.



 
Un mese dopo

 
 
A casa Holmes una nuova festa illuminava la serata. Sherlock trovava ancora la cosa stupida ma non gli interessava in realtà molto. C’era John accanto a lui e tutto era perfetto.

«Voglio farti vedere una cosa.» gli disse a un certo punto, ricordandosi di un oggetto che era rimasto nella sua vecchia stanza. Da quando aveva John non gli era più servita.

Riuscirono a sfuggire dalla massa di persone che avevano invaso Villa Holmes e a salire le scale fino a raggiungere la sua vecchia stanza.

Prese un libro – si accorse che era un testo di anatomia e si sorprese di quanto il suo sesto senso avesse visto giusto – e sfilò la vecchia barchetta che ora pareva di un blu molto meno brillante, forse perché adesso associava il blu agli occhi di John, e ogni cosa sarebbe parsa insignificante rispetto al colore di quelle iridi.

John strabuzzò gli occhi e sorrise.

«Hai mai provato ad aprirla?»

«No perché?» chiese curioso.

John prese la barchetta di carta e, delicatamente, spiegò il foglio. Ed ecco che al suo interno Sherlock lesse queste parole:

“Sono il pirata John, sono certo che tu che hai trovato questa mia lettera sarai il mio degno compagno. Combatteremo insieme per tutta la vita, sei pronto?”

Si guardarono negli occhi.

«Sì» Rispose Sherlock.

«Sì? Intendi proprio quel sì? Che tipo di sì dici? Perché...» John stava andando in iperventilazione, come spesso accadeva. E quasi sempre a causa sua.

«Sì per qualunque cosa John. Ti dirò sempre sì.»

John lo prese tra le braccia. Si impossessò delle sue labbra, duellò con la sua lingua.

Sherlock si lasciò guidare indietreggiando fino a raggiungere il letto. Il corpo di John sul suo gli fece attraversare il corpo da un brivido caldo, come una piacevole scossa che lo percorse per intero svegliando tutti i suoi sensi.

Non riusciva a fare a meno di sorridere pensando a quanto fosse felice.

Era certo che non sarebbero scesi tanto presto alla festa, ma è anche certo che nessuno avrebbe avuto nulla da ridire in merito, non che la cosa gli interessasse.

Il mondo a colori era davvero meraviglioso, doveva ammetterlo.

Le sfumature sembravano infinite. Almeno quanto infinito era l’amore che provavano l’uno per l’altro.
 



Fine.
  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: hikaru83