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Autore: LadyPalma    04/10/2019    15 recensioni
[Questa storia partecipa al contest "My favourite things" indetto da fiore di girasole sul forum di EFP]
Dove non erano riusciti né la rabbia né il dolore, poteva riuscire la vergogna verso se stessa e il disgusto verso il mondo. Era questa strana combinazione che la rendeva autenticamente cieca e che la stavano facendo tremare proprio in quel momento non di paura, ma di entusiasmo all’idea di punire l’intero ordine delle cose per mezzo di lui. Lui che era la fonte di quelle spiacevoli emozioni che adesso si agitavano in lei, ma che era colpevole innanzitutto di quelle piacevoli come l’amore, la gioia, la speranza. Lui che era stato l’unico che aveva spento per un poco gli impulsi omicidi che sentiva da sempre, ma che adesso paradossalmente diventava il motivo per cui quelle fantasie sarebbero diventate realtà.
Doveva soffrire perché le aveva fatto del male, anche se non lo sapeva.
Doveva soffrire perché doveva saperlo fino in fondo.
- La storia di un'ossessione con un colpo di scena che capovolge tutto.
Genere: Angst, Dark, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Effetto Stanislavskij
 
 
 
L’uomo imbavagliato prese improvvisamente ad agitarsi sulla sedia alla quale era legato e la donna seppe che quello era il momento di agire. Il suo volto, fino ad allora coperto da una maschera di impenetrabilità e distacco, si dissolse completamente in un sorriso sadico e uno spaventoso lampo di follia negli occhi. Mosse qualche passo in avanti, lentamente eppure con spavalderia, come per dominare il territorio che in quella strana circostanza si trovavano a condividere e dimostrargli che lei non aveva paura. Non perché averlo reso fisicamente inoffensivo lo rendesse effettivamente meno capace di farle del male, però almeno era consapevole che finalmente si sarebbe potuta prendere una rivincita. Stavolta magari sarebbe stata lei a ferire lui.
“Ciao Marco, che bello vederti! Mi riconosci?” esordì nel tono più sarcastico che riuscì a tirare fuori dalla nevrotica rielaborazione delle sue emozioni latenti. “Magari no, perché dovresti? In due anni che ci conosciamo, tu non ti sei mai fermato a guardarmi davvero e dalla tua memoria – puff – devo essere sfuggita via in un attimo. Hai addirittura smesso di salutarmi, ti rendi conto? Ci siamo visti quasi ogni giorno, abbiamo lavorato insieme, chiacchierato e scherzato perfino, ma tu non ricordi nemmeno il mio nome adesso. Dio, Marco, in verità mi chiedo se tu lo abbia mai saputo!”
Era stata attenta a far sì che ogni sua parola suonasse come un’implacabile accusa, però non era riuscita nell’intento ideale di mantenere una parvenza di freddo autocontrollo. La rabbia era filtrata a poco a poco fino a diventare cristallina, mentre la sua voce si era conclusa invece in una nota opaca. O meglio annebbiata, offuscata, da qualcosa di perfino più pericoloso: il dolore.
“Bene, non preoccuparti, ti aiuto  io. In fondo è giusto che tu sappia il nome di quella che potrebbe essere l’ultima persona che vedi in vita tua… Fino a questo pomeriggio non avevi mai considerato la mia esistenza e adesso io, proprio io, sto stringendo tra le mie mani la tua. E’ un’immagine curiosa, quasi poetica, non è vero? Se fossi una scrittrice, potrei scriverci un bel racconto in proposito, ma sono un’aspirante omicida e le emozioni preferisco viverle in prima persona, capisci?”
Di nuovo una sferzata di crudele ironia, di nuovo quello sguardo allucinato. Del resto era esattamente ciò che ci voleva per spiegare chiaramente come stavano le cose e precisare i ruoli che si trovavano ad interpretare. E, al termine di quella doverosa introduzione, lei gli aveva afferrato con forza la mano destra in una grottesca stretta di mano.
“Chiara. Mi chiamo Chiara”.
Lo vide aggrottare leggermente le sopracciglia, ponendo per un attimo tra parentesi la paura in favore di una più razionale perplessità.
Ah ah! Ma allora qualcosa di me ti ricordi!” esclamò la donna trionfante.
L’insperato superamento del trabocchetto che gli aveva teso l’aveva talmente esaltata che lei gli aveva lasciato andare la mano di scatto e aveva iniziato a camminare avanti e indietro senza un ordine preciso. Poi si era fermata davanti a un tavolo quasi dimenticato a causa della posizione defilata nella stanza, ma che in realtà serviva a sostenere l’elemento più importante. Perché si sa che una vittima, un colpevole e un movente non sono sufficienti; per parlare di un delitto occorre che il delitto avvenga e il trasformatore da potenza ad atto non può che essere l’arma. Una boccetta di veleno, coltelli di dimensione varia, qualche cacciavite, una corda, una pistola rubata chissà dove e addirittura una busta di plastica. Una selezione accurata di strumenti di morte, e taluni anche di tortura, che messi nelle sue mani potevano fare concorrenza alla creatività dell’Inquisizione spagnola. Per quanto avesse indugiato più volte nell’immagine mentale di affondare le sue unghia lunghe nel collo dell’uomo e stringere sempre più forte, non lo odiava abbastanza da ucciderlo così, a mani nude.
“Sofia. Il mio nome è Sofia” concesse infine con atona sincerità, mentre aveva già afferrato due coltelli di simile lunghezza e il ritmico impegno di affilarli sembrava catturare tutta la sua attenzione.
“Voglio che tu sappia che in fondo mi dispiace. Provare avversione per le persone per me non è difficile, sai? Il mio analista dice che ho tendenze sociopatiche – o psicopatiche –, o qualcosa di simile insomma. Il più delle volte le persone tendono a irritarmi semplicemente… esistendo e, ad essere sinceri, la verità non è che odiarle non è difficile. Odiarle è proprio così facile. I perbenisti, i giusti, gli allegri… E poi ci sono quelli che sorridono sempre, Dio, quanto li odio! Devono fare di tutto per farsi accettare, per farsi volere bene da tutti e allora io li odio. A prescindere. Giusto per rovinare il loro piano di universalizzazione d’amore”.
Intanto che parlava, i movimenti delle mani si erano fatti più lenti, precisi e il suo sguardo sulle lame era diventato più incuriosito, quasi bramoso. Come se in quel momento ognuna di quelle detestabili facce se le vedesse comparire ad una ad una, e lei avesse la facoltà di decapitarle solamente con il potere dell’immaginazione.
“Ma con te è diverso, Marco”. E con quell’affermazione l’incanto si era come spezzato, ogni movimento bloccato e gli occhi si erano sollevati verso l’unica potenziale vittima presente in carne ed ossa. “Tu sei scontroso, snob e così terribilmente antipatico. Pensavo tu fossi come me e ho finito per affezionarmi come non mi era mai successo prima. Io mi sono innamorata di te perché se non ti amavo io, chi lo avrebbe fatto altrimenti? E non ti chiedevo niente, volevo solo che anche tu amassi me e allora…”. La strana dichiarazione d’amore si interruppe in una reticenza strozzata, accompagnata dal ricadere improvviso dei due coltelli sul tavolo in un unico tonfo. “Ma tu mi hai soltanto illusa!”
Dove non erano riusciti né la rabbia né il dolore, poteva riuscire la vergogna verso se stessa e il disgusto verso il mondo. Era questa strana combinazione che la rendeva autenticamente cieca e che la stavano facendo tremare proprio in quel momento non di paura, ma di entusiasmo all’idea di punire l’intero ordine delle cose per mezzo di lui. Lui che era la fonte di quelle spiacevoli emozioni che adesso si agitavano in lei, ma che era colpevole innanzitutto di quelle piacevoli come l’amore, la gioia, la speranza. Lui che era stato l’unico che aveva spento per un poco gli impulsi omicidi che sentiva da sempre, ma che adesso paradossalmente diventava il motivo per cui quelle fantasie sarebbero diventate realtà.
Doveva soffrire perché le aveva fatto del male, anche se non lo sapeva.
Doveva soffrire perché doveva saperlo fino in fondo.
Brandì di nuovo uno dei due coltelli, tenendolo ben saldo in pugno e con la punta rivolta verso l’alto in un moto di orgoglio. La decisione era presa e il fatto che finalmente si decise ad avvicinarsi per affrontarlo lo confermava. Mentre lo sfiorava con i polpastrelli, la mano libera tremava ancora, ma si trattava solamente di frammenti di dubbio che sarebbero rimasti inascoltati. Aveva scelto ormai, e aveva scelto l’odio quando l’amore non era mai stato una valida risposta. Fronte, naso, giù oltre il bavaglio fino a premere alla base del collo. L’impulso di strozzarlo avrebbe potuto quasi riaccendersi, se non fosse stato che era invece un’altra parte del corpo che stava attirando l’attenzione di Sofia in quell’istante, una parte che non poteva toccare.
“E’ un peccato per quegli occhioni verdi però. Non hai idea di quante volte mi hanno pugnalato e quante volte poi mi hanno salvato. Sarebbe davvero un peccato non vederli più… Ma potrei sempre strapparteli e tenermeli gelosamente in un vasetto di vetro, che dici?W disse con voce melliflua, mentre vedeva quegli stessi occhi spalancarsi d’orrore e sentiva il corpo di lui agitarsi sotto il suo tocco. “Ma non preoccuparti, non ti fara male. Lo farò post mortem, per evitare che l’afflusso di sangue rovini quel verde brillante… Ahh i tuoi stupendi occhi verdi tutti per me, guarderanno solo me, per sempre”.
Quella promessa non era servita a tranquillizzarlo e, come da copione, l’uomo prese invece a divincolarsi inutilmente. E con una forza uguale e contraria, lei tentò di bloccarlo allora, stavolta con la lama appoggiata finalmente contro quella parte di petto dove potevano essere uguali.
A destra, perché lì non c’è il cuore per nessuno.
“Sai cos’altro mi ha detto il mio analista? Che in fondo noi vogliamo solo ciò che riteniamo possibile. Forse voleva semplicemente che io cominciassi a ritenerti qualcosa di impossibile, ma l’unico modo che conosco per farti smettere di essere possibile è che tu smetta di esistere del tutto. Ecco perché devi morire, perché devi smettere di essere possibile”.
Gli fece una carezza leggera sul viso e poi, con la lama ancora ferma allo stesso posto, si lasciò scivolare in ginocchio di fronte a lui, rinunciando parzialmente a quella posizione di dominio che aveva guadagnato. Voleva ucciderlo mentre lo sguardo di lui le incuteva ancora soggezione per un’ultima volta, voleva ucciderlo mentre gli lasciava ancora una parvenza di potere.
L’accusa era stata discussa, l’imputato era stato costretto ad appellarsi al quinto emendamento e la sentenza era stata emessa senza possibilità di appello. Il giudice ed esecutore era pronto ed esitò solo qualche istante, immobile, per pregustare la sensazione di piacere nell’ottenere la liberazione definitiva dall’illusione, dalla debolezza e dalla possibilità.
In quel momento, riusciva a percepire la vita fluire via da quegli occhi verdi.
In quel momento, riusciva a vedere il sangue macchiarle le mani e la coscienza.
Ma l’unico rosso che vide fu quello delle tende del sipario che si chiusero davanti a lei, mentre lo scroscio di un applauso cristallizzava quel momento all’infinito.
 
 
 
Antonio Baldi, il regista dello spettacolo era a dir poco entusiasta. “L’Omicidio della possibilità” era stato un successo: ogni minimo errore che si era verificato fino all’ultimo istante di prove era sparito sul palco, il pubblico aveva protratto il suo applauso per un periodo di gloria che era sembrato eterno e, inoltre, aveva individuato alcuni critici proprio nell’atto di unirsi a quell’ovazione. Costumisti, truccatori, il suo aiuto regia e alcuni attori lo avevano fermato ad ogni passo che faceva nel dietro le quinte, ma non aveva concesso a nessuno più di una parola o un sorriso perché la sua onestà professionale lo spingeva verso un’altra meta.
Si arrestò infatti solamente alla fine del corridoio, davanti a una porta singolarmente nera che recava la scritta: “Matilde Maffei”. Bussò due volte per doverosa cortesia, ma poi senza aspettare una risposta abbassò la maniglia ed entrò nella stanza dove trovò la donna che cercava seduta di spalle, davanti allo specchio, con un’espressione apparentemente persa nel vuoto. Bassina, un fisico esile, lunghi capelli biondi e lineamenti gentili: non aveva di certo il physique du role della psicopatica e farcela diventare non era stato facile. Avevano avuto i loro alti e bassi, lui l’aveva minacciata di toglierle il ruolo o alternativamente era stata lei a offrire la controminaccia di mollare tutto, ma alla fine avevano trovato un compromesso e quella tensione era stata incanalata sul personaggio.
“Matilde, cara, sei stata fenomenale! Hai visto che il metodo che ti ho proposto ha dato i suoi frutti? Non vorrei mai stare nei panni della persona che ti ha evocato simili emozioni nella vita, ma credo che dobbiamo ringraziarla se questo è il risultato. Fenomenale davvero, anche se…”. Il regista esitò per un attimo come aspettandosi una reazione da parte della donna a quella che sembrava profilarsi come una piccola critica, ma quando non ricevette risposta continuò semplicemente: “Anche se gli occhi della tua vittima sono azzurri e non verdi!”.
Solo allora l’attrice finalmente si voltò, riconoscendo la nuova presenza nella stanza. Ma se l’espressione vuota era sparita, al suo posto era comparsa l’ombra di un sorriso sinistro e diabolico, lo stesso che era riuscita a incollarsi addosso all’inizio dell’ultima scena.
Sofia non si era ancora riassorbita in Matilde. L’effetto Stanislavskij non era ancora finito.
“Oh, no, no. I suoi sono proprio verdi… Esattamente come i tuoi”.
 
 
 
 
 
 
NDA: Avevo scritto questa storia per il “Premio Teramo”, un concorso per scrittori a tema generale, ma dal momento che non ho ricevuto una posizione sul podio sono libera ora di pubblicarla su EFP. Una piccola nota di chiarificazione è sul titolo: Stanislavskij è forse uno dei più grandi teorici del teatro che, per dirla in breve, aveva l’idea del lavoro dell’attore come di un’immedesimazione completa nel personaggio. Questo metodo è molto utilizzato nel teatro e nel cinema e si sono riscontrati dei casi di attori profondamente segnati nella psiche dopo un lavoro intenso di questo tipo. Proprio questo è ciò che ho voluto portare “in scena” con questa piccola storia che di horror ha più che altro l’atmosfera.
   
 
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