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Autore: Celtica    22/10/2019    4 recensioni
Soulmate!AU! SanSan
Sandor lavora in un bar, e Sansa è cliente.
A Sandor piace Sansa, ma non trova il coraggio di avvicinarsi. Quando finalmente si decide ad andare a parlare con lei, entra Petyr e le siede vicino.
Questa storia è ispirata a un prompt di Relie Diadamat, e partecipa alla Ottobre Challenge: Trick or Treat? indetta dal gruppo facebook Il Giardino di Efp.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Joffrey Baratheon, Petyr Baelish, Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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3. Nei miei sogni

 

Nei miei Sogni

 

 

 
Il tempo non era migliorato. Gli alberi di fronte al locale erano sempre più spogli, mentre i cumuli di foglie secche da raccogliere aumentavano. Ma nessuno si era avventurato in strada per pulire, non quel giorno.
Il vento era fortissimo. Polare. Come se qualcuno da lassù avesse mutato il ghiaccio in aria.
Sandor era rimasto a dormire nel locale, contro le sue previsioni. Non era la prima volta, ma ora era strano pensare di essere intrappolato lì dentro. Aveva trascorso la serata a bere, poi aveva rimesso a posto il locale.
Fuori, il vento era affilato come un rasoio.
Capì che quel giorno non avrebbe ricevuto molti clienti. Capì che non avrebbe ricevuto lei.
E infatti, finché il vento non si placò, alcuni giorni dopo, Sansa non rimise piede lì dentro.

  n

Le notti nel locale furono due, e furono strane. Sandor fece sogni che non aveva mai fatto, se non la prima volta che Sansa si era fermata davanti alla vetrina, a sbirciare dentro il bar. Ricordava ancora il senso di smarrimento quando aveva incontrato i suoi occhi. Come se li avesse già visti.
Ma Sansa non aveva dato segni di averlo riconosciuto.
Quella prima notte sognò un bosco, una grande carrozza e cavalieri in armatura. Sognò di rincorrere un lupo enorme tra gli alberi. Sentì persino l’odore della terra e delle foglie marce, la puzza degli escrementi del suo cavallo.
E nel sogno c’era anche lei, solo che era poco più di una bambina. Vestiva d’azzurro e aveva parte dei capelli intrecciati. Negli occhi le leggeva una gran paura.
Non ricordava molto altro. Ed era un’immagine che si ripeteva spesso durante le sue notti, quando lei si presentava al bar.

Quando dormì nel locale, Sandor rivide Sansa nei suoi sogni. Stava dicendo qualcosa, ma lui non riusciva a capire cosa. Poi si allontanava al braccio di Joffrey.
Sandor si ritrovava allora da solo in una radura, con dame e cavalieri sempre più lontani, e uno strano elmo a forma di cane tra le mani. Cercava di raggiungere gli altri, ma era troppo lento, e loro sempre più distanti.
Poi trovava il suo cavallo. Era nero e possente, e si sentì mentre lo chiamava per nome.

«Andiamo, Straniero.»

Il bosco mutò intorno a lui, trasformandosi nei vicoli di una città medievale. Ovunque vedeva solo pietra, straccioni e sporcizia. Nel naso aveva l’olezzo della povertà, dei catini svuotati per strada e di topi arrostiti agli angoli dei palazzi.

Poi udì le urla. Poi la vide.

Gente sudicia che la trascinava via, lontano da lui. E anche se sapeva di essere in un sogno, non poteva fare a meno di lanciarsi a salvarla.
Sentiva il cuoio delle briglie tra le mani, gli stivali che lasciavano le staffe. Volteggiò da cavallo e li seguì in un portone malmesso. Il pavimento era ricoperto di sporco e di fieno. Ora distingueva bene la sua voce.

«No!» continuava a gridare.

Sandor nemmeno si accorse di avere una spada tra le mani. Il sangue non gli faceva nessun effetto. Si rese conto di averli uccisi solo quando la trovò a terra, i vestiti strappati, tremante come un uccellino.

«Va tutto bene, uccellino.»

La prese tra le braccia e il contatto con la sua pelle lo svegliò.
Aprì gli occhi sulla brandina nel retro del locale, dove si fermava a dormicchiare qualche volta. E il pensiero di non vederla gli provocò una fitta allo stomaco.

La seconda notte aspettò di addormentarsi, sicuro di rifare quel sogno. Ma non era preparato a quanto vide e a quanto sentì.
Fiamme verdi lambivano le acque, affondavano le navi, e la puzza dei corpi bruciati arrivava fin sulle mura, dov’era lui.
Un nano gli dava ordini, ma lui aveva negli occhi solo il fuoco… Non capì nulla di quanto diceva, se non che intendeva farlo tornare . E là era tra le fiamme.

«In culo il Re.»

Si ritrovò a vagare in una fortezza, senza sapere dove portasse ogni corridoio, o cosa ci fosse dietro ogni porta. Aveva una sola certezza: lei era in una di quelle stanze. E lui doveva trovarla.
Sentiva l’alcol scorrergli nelle vene, dargli alla testa. Aveva voglia di lei. Voleva prenderla, e non importava cosa sarebbe accaduto dopo. Sapeva solo quello.

Quando si stancò di girare come una trottola, colpì una torcia, mandandola a terra. Imprecò ad alta voce. Poi qualcosa lo attirò in un’altra ala del castello. C’era come una scia, qualcosa che lo guidava in quella direzione. E finalmente trovò una porta – la porta – e la riconobbe. Era quella del bar.

Sapeva cosa c’era lì dietro. O meglio: chi.

Posò la mano sulla maniglia, deciso a varcarla e a prendere la ragazza, ma una grande luce lo investì, e Sandor si risvegliò nel retro del locale, sulla sua brandina.
La terza notte, a casa sua, sognò una grotta. Sansa non c’era, anche se lui la cercava tra i volti che aveva intorno. Poi qualcuno lo sospinse verso il fuoco – il fuoco! – e gli lanciò una spada.

«Dimostra la tua innocenza» disse una voce.

Sandor osservò l’impugnatura e la lama scintillante che rifletteva il bagliore delle fiamme. Se solo Sansa fosse stata lì, avrebbe potuto dimostrarle di poterla proteggere.
E quando un uomo con una benda sull’occhio si fece avanti, alla luce, Sandor si svegliò di nuovo.

Il giorno dopo, con il vento più calmo, la gente tornò nel bar. E tornò anche Sansa.
Si ignorarono, come avevano sempre fatto, come Sandor non sopportava più di fare. Ma quando furono quasi le sei – quando lui aveva ormai perso la speranza di parlarle – Joffrey entrò nel locale con due uomini e Petyr al seguito.
Sansa alzò gli occhi dal libro per seguire la scena.

«Buonasera, Mastino.» Joffrey aveva un’espressione così soddisfatta, che Sandor sentì la rabbia salirgli al cervello. «Ho parlato con mia madre dopo il nostro ultimo incontro. Sai, nemmeno lei è troppo contenta del trattamento che riservi ai tuoi clienti…»

Petyr, con il solito ghigno, si fece avanti. «Ha mandato me per questo.»

«E chi cazzo sei?»

«Il nostro avvocato» rispose Joffrey, scambiando uno sguardo d’intesa con Petyr. «Ora è meglio se dici alla tua gente di andarsene, prima che si metta male.»

Molti clienti, avendo seguito la conversazione, lasciarono il locale in fretta e furia. Gli altri erano troppo occupati a giocare a carte per accorgersi di qualcosa.
Con disappunto, Sandor si accorse che Sansa era esattamente dove l’aveva lasciata. Al solito tavolo, a leggere il solito libro, la tazza di tè ormai freddo ancora intatta.

«Fuori tutti» ringhiò Sandor a tutti gli altri. Poi si avvicinò a lei, posando una mano sulle pagine. «È meglio se te ne vai, ragazzina.»

Sansa chiuse il libro e lo ripose nella borsa. Poi prese la tazza di tè con due mani e se la portò alle labbra. «Non ho finito il mio tè.»
Joffrey rise e si avvicinò. «Lasciala stare, Mastino. Non ha finito il suo tè…» Accarezzò la sedia dov’era seduta e abbassò la testa, guardandolo di sotto in su. «Magari vuole vederti cadere… Vuoi vederlo cadere?»

Sansa lanciò un’occhiata a Sandor per dirgli di non intervenire. «Voglio solo finire il mio tè.»

Quando gli ultimi clienti lasciarono il locale, bastò un cenno di Joffrey perché un suo uomo corresse a chiudere a chiave l’entrata, e a voltare il cartello su “Chiuso”. L’altro abbassò tutte le tapparelle.
Poi il ragazzo fece girare il dito a indicare il bar. «Sai, mia madre pensava che avresti speso meglio i suoi soldi. Invece li hai investiti in questa baracca.» Sorrise, la schiena ben dritta, come se stesse reggendo una corona. D’istinto, Sandor strinse i pugni. «Ma non preoccuparti… Non ce l’ho con te per il pessimo servizio – che tra l’altro non è mai stato minimamente accettabile, nemmeno per una bettola come questa. Sono qui per aiutarti a rimodernare un po’. Vero, ragazzi?»
I due che erano con lui afferrarono alcune sedie, scagliandole contro le mensole. Ogni cosa che c’era sopra cadde a terra. Poi, mentre uno sfondava il vetro del frigo dov’erano contenute le birre, l’altro mandò in frantumi lo specchio dietro il bancone, lasciando che le bottiglie si sfracellassero al suolo.

«Come avvocato del signor Lannister…» si fece avanti Petyr, perdendosi lo sguardo incuriosito di Sansa, «devo avvertirti che hai una settimana per restituire il prestito, o ci vedremo costretti a chiamare la polizia…»

«Perché non la chiamate adesso?» si intromise Sansa.

Il sorriso sul volto di Joffrey scomparve. Era rabbioso. «Sei davvero una stupida.»

«Perché?» chiese Sansa con innocenza. Non sembrava offesa. «Volete che la chiami io?»

Senza aspettare una risposta, prese il cellulare dalla borsa e iniziò a digitare un numero. Joffrey sollevò una mano per colpirla, e Sandor gli afferrò il polso e glielo torse. Mentre il ragazzo gridava, Petyr si appropriò del telefono e chiuse la chiamata.

«Scusa, mia cara, ma è meglio se resti in disparte. Lo dico per il tuo bene.»

Sandor sollevò Joffrey di peso e lo scagliò contro un tavolo, attirando l’attenzione dei due che erano con lui. Gli sembrava di averli già visti. Non portavano un’armatura? Un lungo mantello bianco, elmi dorati e spade alla cintura.

I due lasciarono perdere il frigo e i liquori, e si lanciarono su di lui. Uno lo colpì alla schiena con una sedia, mentre l’altro tentava di accoltellarlo.
Udì il grido di Sansa e voltò la testa, vedendo Petyr stringerla in un abbraccio da dietro. «Sta’ calma. Non guardare.»

Quella distrazione gli costò cara.

Quello con il coltello – che Sandor aveva appena atterrato con un pugno – gli conficcò la lama nella gamba, facendolo gemere di dolore. Gli sferrò un calcio in testa, mentre l’altro gli ficcò la stecca del biliardo tra le costole.
Si voltò di scatto, sferrandogli un manrovescio, e Joffrey saltò in piedi su un tavolo e cominciò a gridare: «Uccidetelo! Fatelo a pezzi! Lo voglio morto! Addosso! Addosso!»
Sandor corse verso di lui, ma un attimo prima che riuscisse a raggiungerlo, qualcuno lo colpì alla testa.

«No!» gridò Sansa.

Lui sentì gli occhi che si chiudevano. Si sforzò per tenerli aperti.
«Se eri già brutto prima, guardati ora» sussurrò Petyr, chino al suo fianco. Poi si alzò in piedi, rivolgendosi a Joffrey. «Tua madre ha detto di dargli una lezione, ed è quello che ha ricevuto. Ora lasciatelo lì. Non toccatelo.»

«Mi ha colpito!» gridò Joffrey, saltando. «Ha colpito me! Un Lannister!»

«Ed è stato punito per questo. Ora andiamo via, prima che qualcuno chiami davvero la polizia.»

Sentì la porta che si apriva e che si chiudeva, le grida di Sansa che veniva trascinata fuori. Si aggrappò alle gambe di un tavolo per tirarsi in piedi, e sentì la testa che gli doleva. Avrebbe dovuto inseguirli. Sì.
Fece per raggiungere l’entrata, ma la gamba ferita non resse il suo peso e Sandor cascò giù, di nuovo sul pavimento sporco.

Il campanellino della porta suonò ancora, e lui riuscì a dire soltanto: «Siamo chiusi.»
Pensò che Joffrey dovesse essersi liberato di Petyr per poter tornare lì con gli altri due.

Una mano gli frugò nelle tasche, poi lo afferrò per un braccio. «Ce la fai ad alzarti?»

Era Sansa. Sandor avrebbe voluto piangere quando riconobbe la sua voce. Voltò la testa per guardarla. «Che ci fai qui?»
«Volevo chiamare la polizia, ma mi hanno preso la borsa.» Abbassò gli occhi. «C’è tutta la mia vita lì dentro. Non solo il cellulare. Ora sanno tutto di me.»
Quella notizia gli diede una forza nuova. Si lasciò aiutare a tirarsi in piedi, poi prese una sedia e si sedette.

«È meglio se torni a casa.»

Sansa sgranò gli occhi, spaventata. «Sanno dove vivo! Hanno detto che se chiami la polizia… che se uno di noi chiama la polizia… che se proveremo a raccontare a qualcuno questa storia, mi uccideranno.»

«È stato Petyr?»

Sansa scosse la testa. «Joffrey. Ha detto che dovrò dimostrargli la mia fedeltà, che non devo tradirlo. No, Petyr ha cercato… in qualche modo ha cercato di difendermi. Ha detto a Joffrey di lasciarmi andare, che non avrei parlato.»
Sandor avrebbe voluto mollare tutto e lasciare la città, portando Sansa con sé. Avrebbe voluto dare fuoco al locale, fare un salutino a Joffrey e poi andarsene per sempre.

Sansa gli guardava il volto tumefatto. «Hai dei medicinali? Delle bende?»

Lui scrollò le spalle. Non aveva mai avuto bisogno di una cassetta del pronto soccorso. La vide correre dietro il bancone, frugare tra le sue cose. Entrò nel bagno – che Sandor sapeva essere lurido – e quando tornò, stringeva un flacone e degli strofinacci.

Lui non disse niente quando la vide prendere una sedia e sistemargliela di fronte. Non disse niente nemmeno quando Sansa inzuppò uno straccio con quel flacone trasparente, e glielo strofinò sul viso.
Sentì il corpo in fiamme ad averla così vicina, a vedere così bene dentro i suoi occhi.
Come nei suoi sogni.

«In genere sono io che salvo te, uccelletto.»

Sansa sorrise, e sembrò stupirsi lei stessa di quel sorriso. «Dove mi avresti salvata? Non ricordo.»
Nei miei sogni, ma non poteva dire ad alta voce nemmeno quello.

 n

N.d.A.:

Questa storia è una minilong, quindi mancano due soli capitoli alla fine!
Grazie per aver letto fin qui, e a chi ha recensito o inserito la storia tra preferite/seguite. E poi vorrei ringraziare fenice64 (che non manca mai!) e Anonima Italiana per aver recensito i primi due capitoli!

Celtica

   
 
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