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Autore: NemracEroif    23/10/2019    1 recensioni
Un demone minaccia la tranquillità di New York e Derek aiutato da Stiles, l’umano che gli ha salvato la vita, dovrà trovare i pezzi che compongono l’unica arma in grado di sconfiggerlo, il dirkey.
Un enigma dopo l’altro, indizio dopo indizio. Una verità lontana da svelare, un pianoforte dal pezzo mancante, un destino beffardo.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Nuovo personaggio, Stiles Stilinski
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I


Quella notte feci molta attenzione a non svegliare Stiles mentre sgattaiolavo fuori dal suo letto. Fui lieto di essere estremamente silenzioso e di vedere bene anche al buio grazie ai sensi del lupo. Nel freddo scivoloso e tetro mi incamminai con il cappuccio della felpa sollevato verso Columbus Avenue. La calma piatta di quella passeggiata immersa nel silenzio mi fece sperare che quello non fosse l’ultimo momento di tranquillità che avrei assaporato prima che gli eventi delle ore successive accadessero. 

 

All’incrocio con la 101esima strada svoltai e arrivato al numero 23 citofonai al nome Neerg Law. Non rispose. Suonai di nuovo. Solo al terzo tentativo la voce assonnata parlò: «Chi diavolo è?» chiese. 

«Sono Derek. Mi apri?» Pochi secondi di silenzio, poi sentii il rumore meccanico del portone che si apriva. 

Salii le scale fino al secondo piano e trovai la porta dell’appartamento socchiusa. Quando entrai mi saltò in mente il ricordo dell’ultima volta che ero stato lì, imbarazzato dalle avance che non avevo previsto arrivare. 

Walgreen era seduto con le gambe accavallate sul divano dai cuscini dorati con i capelli racchiusi in una fascia di raso rossa e una vestaglia maculata. Il suo appartamento era la versione meno confusa del suo ufficio: ugualmente pieno di libri e oggetti dall’aria preziosa (molti in oro luccicante) ma tutto era ordinato e aveva una collocazione studiata. Il pavimento era ricoperto quasi in ogni angolo da tappeti persiani e dal soffitto non scendevano lampadari, sostituiti con delle imponenti piantane, in quel momento spent, vicino le pareti con la carta da parati in una fantasia chic che ricordava le sue giacche. 

 

«Cosa ti porta qui di notte, Hale?» chiese. 

«Scusa il disturbo, ma avevo bisogno di parlarti.» Lui si accese una sigaretta con uno zippo. 

«Avete tutti i pezzi del pugnale, vero?» 

«Sì, sì, come ti ho scritto. Quando li ho uniti ha emanato un lampo verde, è un buon segno, no?» 

Cacciò fuori il fumo dalle narici: «Sì, ottimo» rispose. 

Sentivo tensione tra noi, nata proprio in quelle mura quando Walgreen mi aveva baciato e io mi ero allontanato confuso. E mentre riuscivamo a far finta che non fosse successo nulla quando erano presenti altre persone e ci trovavamo in luoghi diversi, in casa sua e da soli era difficile ignorarlo. 

 

Desistevo dal chiedergli quello che mi aveva spinto ad andare fin lì. 

«Devo chiederti un favore» iniziai, e mi sedetti sul divano dorato, gemello di quello dove era seduto, di fronte a lui. Il suo sguardo apprensivo sembrò rispondermi Tanto lo sai che lo farò, per te ma non disse niente. 

«Ho motivo di credere che Cam e Stiles non staranno solo a guardare, la notte dello scontro. Li conosco entrambi, non si faranno da parte e io non potrò fare molto per impedirlo.» 

Lui fece un ultimo tiro di sigaretta e la spense nel posacenere dorato alla sua sinistra. 

«Lo penso anche io. Mi stai chiedendo di chiuderli da qualche parte?»

All’inizio pensai che stesse scherzando ma la sua espressione mi fece capire che diceva sul serio. 

«No, no, non potrei mai fargli questo. Sono qui per chiederti di proteggerli.»

 «Oh» disse lui. 

«Non pensare a me, io so cavarmela e anche se dovesse succedermi qualcosa non sarebbe la fine del mondo. Ma loro… Ti prego, Wal, proteggili.» 

Lui mi guardò, quasi immobile, poi tirò un sospiro profondo. 

«Va bene, ci proverò» disse infine. Ma la tensione non si sciolse e io rimasi bloccato, perché quello che gli avevo chiesto era solo la punta dell’iceberg. Indagò il mio silenzio poi chiese: «C’è dell’altro?» sospettoso. 

«Un’ultima cosa» parlai piano, «se dovesse succedergli qualcosa...» lui mi bloccò capendo dove volevo andare a parare: «No, Hale, non lo dire. Non ci pensare neanche.» Fu categorico. 

«Se dovesse succedergli qualcosa» ripresi io con voce più forte, «dobbiamo salvarli, e tu sai come. E sai che io non te lo chiederei se non fosse necessario» finii. 

Lui si alzò dal divano e parlando mi puntò un dito contro: «Hale, no. Ho promesso che non lo avrei fatto più. Ho giurato!» 

«Lo so, e non vorrei chiedertelo. Spero che non sia neanche necessario, che io mi stia preoccupando per niente, ma non posso sapere come andrà a finire e vorrei che tu mi aiutassi, perché sei l’unica persona che può farlo.» 

Si sedette di nuovo, si lasciò cadere come un corpo stanco. Passò la mano piena di anelli sulla fronte, lo vidi riflettere e riflettere ancora. 

«Speriamo che non sia necessario allora» concluse. 

Ebbi la conferma che quello sguardo di poco prima diceva sul serio che avrebbe fatto di tutto per me e mi chiesi se meritassi un amico come lui. 

 

II


Tornai a casa accompagnato dalle luci dell’alba che rischiaravano la strada. Scrissi un messaggio a Stiles avvisandolo che ero andato via perché avevo alcune cose da sbrigare ma che avrebbe potuto raggiungermi in qualsiasi momento. Come una persona che avrebbe perso di lì a poco tutto ciò che aveva di più caro iniziai ad apprezzare qualsiasi cosa mi circondasse e che avevo sempre dato per scontato. Annaffiai con cura le piante del mio appartamento, sistemai il leggero disordine che si era creato negli ultimi giorni. Scesi al primo piano per salutare Mrs. Crowford e lei mi sgridò amorevolmente perché l’avevo fatta preoccupare, non mi vedeva da giorni. 

Mentre preparava il thè e serviva in tavola dei biscotti alla zucca fatti quella mattina aggiunse: «Ma ti perdono» scherzosamente.

«So come ti senti, caro, non preoccuparti»

«Dice sul serio?» le sorrisi. Lei versò l’acqua fumante in due tazze identiche.

«Oh sì! Mi sembra ieri che il mio caro Donald mi portò per qualche giorno negli Hamptons - ci misi un mese intero di preghiere a convincere mio padre a lasciarmi andare - e ricordo benissimo che in quei giorni non riuscivo a pensare a nient’altro.» 

Si sedette di fronte a me al piccolo tavolo della cucina con gli occhi sognanti di chi avrebbe dato tutto pur di tornare a quei momenti. 

«Oh, ma io…» tentai di farle capire che non era proprio la stessa cosa. Che sì, mi ero innamorato (lo realizzai pienamente soltanto in quel momento) ma che altre tantissime preoccupazioni orbitavano nella mia testa. Spiegarle tutto sarebbe stato difficile se non impossibile e lei mi interruppe prima che potessi provarci. 

«No, no, non serve caro. So di avere una certa età ma non sono mai stata una persona dalla mente chiusa, mi offenderesti se pensassi il contrario. E poi a me quel giovanotto piace, dico davvero. L’ho incontrato qualche volta nelle scale e mi ha sempre aiutata a salire, mi teneva la porta, mi piace davvero. Abbiamo anche parlato di te, ma non ti aspettare che ti dica qualcosa!» Fece un sorriso furbo. Non seppi cosa dire. Mrs. Crowford non avrebbe mai finito di stupirmi. Lei si accorse di avermi colto alla sprovvista e con un gesto affettuoso poggiò la sua mano sulla mia e la strinse un po’. 

«Io voglio solo che tu stia bene, tesoro. E che tu sia felice!» Quasi mi girarono negli occhi delle lacrime che trattenni con tutte le mie forze. Non avrei voluto piangere di fronte a lei ma l’unico pensiero che avevo era quanto lei fosse la figura più vicina ad un madre che avessi. Sapevo che mia madre le avrebbe voluto molto bene e avrebbe voluto ringraziarla per esserci per me. Mi chiedevo se mi avrebbe detto le stesse parole, poi mi convinsi di sì. 

«Ne parlavamo giusto l’altro giorno con Mrs. Medley» tornò a girare il suo thè. «Lei ha un nipote che si è dichiarato da poco, un giovane veramente bello, l’ho visto un paio di volte. Comunque, dicevamo proprio che il mondo sta cambiando, nel senso che sta andando avanti, ovviamente!»

Io le sorridevo sempre più sorpreso. 

«Oh! Ma ti prego, l’unica cosa» continuò. «Stai molto attento, d’accordo? La televisione parlava delle malattie che si possono prendere, roba brutta. Certo, tutte le malattie lo sono, ma… insomma hai capito, va bene? Non te lo deve dire certo una signora anziana come me!» Per poco non sputai il thè che stavo bevendo. Riuscii a trattenermi dal ridere nervosamente ma l’imbarazzo si manifestò sulle mie guance bollenti. Immaginai che questa conversazione facesse parte del pacchetto figura materna. Le tenni compagnia per un altro po’ di tempo dirottando l’argomento su di lei, le sue amiche, il meteo e le sue medicine. Sapeva benissimo prendersi cura di sé da sola ma avrei voluto che se mi fosse capitato qualcosa ci fosse stato qualcun altro a farle compagnia e ad andarla a trovare oltre le sue amiche (non molto più giovani di lei). 

 

III


Stiles venne da me ad ora di pranzo carico del cibo da asporto del nostro ristorante preferito. 

Decidemmo che per quella giornata non avremmo parlato di Ghul, Dirkey, strategie, combattimenti, possibile morte. 

Guardammo la tv con disinteresse (perché ciò che ci interessava davvero era l’altro). Lesse un libro poggiato sulle mie gambe. Ci dimenticammo di cenare.

Sapevamo che quella era con tutta probabilità l’ultima notte prima dello scontro e la vivemmo con la calma piatta e instabile della tempesta che ci avrebbe investiti a distanza di ore. 

 

Approfittammo di quei momenti, illuminati soltanto dalla luce che proveniva dalla finestra accanto al letto dalle insegne dei locali e dei ristoranti e il chiarore fioco e giallo dei lampioni della strada, per scoprirci meglio di quanto non avessimo mai fatto. Stiles sotto quei riflessi rossastri e dorati prendeva le sembianze di una divinità mai esistita e affabile, dai tratti delicati ma decisi, spigoloso nei punti giusti e levigato negli altri ma con la pelle ovunque liscia come velluto. Mi persi nella distesa di nei distribuiti senza criterio eppure proporzionalmente sulla sua schiena, fino alle spalle, per poi girare sulle braccia e disperdersi come una folla di persone che finisce gradualmente. Lasciai baci su ogni centimetro del suo corpo mentre le mie mani a turno accarezzavano i suoi capelli morbidi. Creavamo sottili ombre al nostro fianco e le immaginai come i Derek e Stiles di un mondo parallelo, anche loro intenti ad esplorarsi. 

Fu tutto molto lento, sfumato (nei ricordi, non nelle emozioni, quelle chiare e decise bruciavano nella stanza e sotto la pelle), graduale. 

Era un gioco di saliva, labbra rosse, gemiti silenziosi. Un calore avvolgente che ci legava come colla ed esaltava l’odore della pelle di Stiles di cui mi nutrivo avidamente, da cui diventavo dipendente. Si trattò di fiati spezzati, pressioni leggere, invasioni momentanee. Poi stimoli, spinte. C’era stato dolore, ma durò poco, e poi piacere. Una sensazione di completezza, una visione di pezzi che si incastravano perfettamente. Spinte scostanti, nomi sussurrati, baci fugaci e il battito del suo cuore che correva. E poi il desiderio (che provavamo a sottomettere per far sì che quell’istante durasse una vita) colpì, entrambi, d’improvviso. Un’energia che si diffondeva, si diramava e annullava la gravità. La pressione che si diluiva sotto le note dell’ultimo gemito interrotto. I nostri occhi si tenevano incollati, poi i miei brillarono di azzurro e si riflessero nel suo marrone ma lui non fu spaventato da quella reazione non umana, al contrario, sembrò guardarmi con ancora più desiderio. Il piacere allora si liberò con sollievo e lentamente il respiro tornò regolare. Non servirono parole, sarebbero state d’intralcio. C’erano soltanto carezze, gesti gentili e premurosi, le lenzuola sotto cui ci rifugiammo quando il calore dei movimenti si disperse e una leggera pioggia iniziò a farci compagnia mentre ci addormentavamo.

 

L’indomani mattina avrei voluto che il giorno tardasse ad arrivare. Stiles dormiva sotto la mia spalla, poggiato sul mio petto, con aria angelica e incredibilmente serena. Non avrei mai voluto svegliarlo. Il telefono sul comodino vibrò come per ricordarmi di non essere in grado di sfuggire dalle mie responsabilità e anche se ero cosciente del fatto che quel messaggio sarebbe arrivato, prima o poi, mi procurò ugualmente una sensazione di gelo interiore e mi chiuse lo stomaco. 

Cam: “Ci siamo. Sulla 131esima, a West Harlem, sotto la strada panoramica di Riverside drive. La vittima, Andrew McCoy, 32 anni.” Provai un misto di rabbia e frustrazione, promisi a me stesso che quella sarebbe stata l’ultima volta, l’ultima vittima. 

Risposi: “Vediamoci oggi pomeriggio da me.”

Lei disse: “A dopo.”

 

Stiles fece dei piccoli versi pieni di sonno per attirare la mia attenzione. Mi girai verso di lui, gli accarezzai il viso e lui sorrise mantenendo gli occhi chiusi. 

«Possiamo restare così?» chiese con la voce più bassa di chi si è appena svegliato. 

«Certo» risposi mentre giocavo con i suoi capelli. Lui si strinse ancora un po’ a me. 

«Intendo per un sacco di tempo» aggiunse. 

«Vanno bene circa sei ore?» 

«Perché poi che succede?» aggrottò le sopracciglia. 

«Avremo ospiti, dobbiamo organizzare un piano. E dovremmo anche allenarci, almeno, io dovrei farlo.» 

«É arrivato il famoso messaggio?» 

«Già.» 

Finalmente aprì gli occhi e mi guardò dal basso, con la testa poggiata sulla mia spalla. 

«Mi prometti che non morirai?» chiese serio. 

«Stiles…» 

«Promettilo.»

«Io non-» 

«Ti prego» i suoi occhi grandi mi stavano torturando. 

«Va bene» cedetti e lui si ricollocò con la testa sul mio petto iniziando a tracciare cerchi immaginari con le dita sul mio petto. 

«Ieri notte ho avuto paura» confessai. 

«Di cosa?» chiese mentre si alzava sui gomiti e si girava per guardarmi dritto negli occhi rendendomi ancora più agitato. 

«Di farti male… di non sapermi controllare» dissi, ma guardai un altro punto nella stanza, incapace di tenere il contatto con il suo sguardo. Con la mano girò delicatamente il mio volto verso di lui e mi lasciò un bacio leggero sulla guancia. 

«Non mi hai fatto male» sussurrò. «Anzi» aggiunse con un sorriso «si può dire il contrario.» Fece sorridere anche me. 

«E posso sopportare molto pur di vedere di nuovo quegli occhi brillare.» 

Mi colse di sorpresa come un’onda di due metri in una giornata di mare piatto. In tutte le volte che c’erano state prima di quella (che adesso rivalutavo come vuote, certo piacevoli, ma vuote) mi ero concentrato a chiudere gli occhi, a chinare la testa, a nascondermi in quel momento di vulnerabilità così forte da non essere in grado di controllare il colore dei miei occhi, la mia vera natura, come un lupo appena morso durante la sua prima luna piena. Lo strinsi a me e mi sforzai di contenere l’emozione che quelle parole mi davano. 

 

IV


Cam e Walgreen arrivarono quasi nello stesso momento. Lui, con un abito nero che gli fasciava il busto e scendeva morbido fino alle caviglie, lei con l’impermeabile che la rendeva distinta e di classe ma informale. Seduti al tavolo rettangolare del mio soggiorno chiarimmo le dinamiche della notte che sarebbe venuta: io mi sarei recato sotto la Riverside drive dove era avvenuto l’omicidio e avrei seguito la traccia (mi venivano i brividi solo a pensare alla sensazione di gelo) fino al punto di cui avrei trovato il Ghul. Poi, armato di pugnale e con l’aiuto della magia di Walgreen avremmo combattuto. 

«Dovrai colpirlo al cuore o alla testa» precisò Walgreen. 

«Se lo prendi da qualche altra parte potrai ferirlo ma non lo ucciderai e corriamo solo il rischio di farlo arrabbiare di più» aggiunse. 

Ci fermammo a discutere per qualche minuto di alcune strategie che avremmo potuto adoperare, trucchetti per confonderlo e distrarlo. Poi dal nulla Cam, che fino a quel momento era stata in silenzio e aveva soltanto ascoltato con attenzione disse: «Verrò anche io.».

E neanche un secondo dopo Stiles aggiunse: «E anche io.»

Non mi finsi sorpreso, non lo ero, ma provai comunque a sviarli. 

«No, è troppo pericoloso.» 

«Non te lo stiamo chiedendo» disse Cam. 

«Non posso mettervi in pericolo» insistetti. 

«Ascolta Hale. Noi ti seguiremo con la mia macchina, okay? E poi interverremo solo se avete bisogno di noi.» Mi chiesi da quanto tempo aveva programmato quella fase. 

«E in quel caso cosa farete? Gli chiederete gentilmente di arrendersi?» 

«No, gli scaricherò dodici caricatori della mia 9 millimetri addosso, qualcosa devono pur fargli, non è vero?» e guardò Walgreen in cerca di approvazione. Lui sorpreso tirò su le spalle e disse: «Beh, sì, sicuramente non gli faranno bene.»

«Forse questo è il momento giusto per dirvi» intervenne Stiles «che mio padre era un commissario di polizia e mi ha insegnato a sparare.»

Mi girai nella sua direzione con lo stupore dipinto sul volto e un’espressione che gridava Se stai mentendo ti picchio e lui si affrettò ad aggiungere: «È vero, te lo giuro!»

Presi un respiro profondo. Li guardai entrambi negli occhi. 

«Non fate niente di stupido. Non fate niente che possa mettervi in pericolo. Se io o Walgreen vi diciamo di fare qualcosa voi la fate e se vi diciamo di scappare voi scappate.» 

Il mio tono così come il mio discorso mi ricordarono le parole che dissi a Stiles dopo che gli raccontai la verità sul mondo soprannaturale, quando gli concessi di venire con me da Walgreen e lo avvertii che non avrebbe dovuto invischiarsi più di tanto. 

Un bel fallimento di discorso, viste come erano andate le cose.

Loro dissero quasi in coro: «Va bene» e vidi il volto di Walgreen scurirsi sotto il peso del nostro accordo e farsi carico della mia richiesta di proteggerli. Esaminammo ancora delle possibili strategie e ci demmo appuntamento a mezzanotte in punto. 

 

Quel pomeriggio io e Stiles ci allenammo insieme e dopo una breve doccia ci forzammo a mangiare nonostante entrambi i nostri stomaci fossero chiusi dalla tensione. 

«Non mi hai mai detto di tuo padre» gli dissi mentre prendevo due piatti dallo scaffale della cucina. «Non è mai capitato… Comunque lui sta a Pittsburgh adesso. Mi chiede di andarlo a trovare spesso ma credo che ci andrò dopo la laurea.» 

Non sapevo cosa dire, se fare altre domande. Non ero ferrato sui rapporti familiari. 

«E tuo padre?» mi chiese. 

«É morto prima che io nascessi, non so molto di lui.» Quell’argomento non mi faceva male (non quanto parlare di mia madre e delle mie sorelle) ma semplicemente non ero a mio agio e, notai, neanche Stiles. Così lasciammo cadere la conversazione. 

Dopo cena non sapevamo più come occupare il tempo. Avevo controllato l’orologio tre volte nell’ultimo minuto. Feci un’altra doccia nella speranza di alleviare la tensione. 

Rimasi piacevolmente colpito quando Stiles mi raggiunse sotto il getto d’acqua calda dicendo: «Pensavo volessi compagnia.» 

 

Ci vestimmo, io con un pantalone e una maglia di cotone a maniche lunghe neri, lui con una felpa scura e un jeans nero. Mancava mezz’ora all’appuntamento quando lo vidi prendere dei fogli dalla sua giacca appesa all’ingresso. Si venne a sedere vicino a me e notò il mio sguardo curioso. 

«Questo è per te» mi sorrise porgendomi i tre fogli bianchi da un lato e pentagrammati dall’altro. «Mi hai chiesto se un giorno avrei composto qualcosa per te e ho pensato che avrei dovuto farlo prima di stanotte.»

Non avevo parole, non uscivano, si incastravano in gola, così lui continuò: «Ma ovviamente te lo farò ascoltare solo domani, quando tutto questo sarà finito, e ci saremo lasciati alle spalle questa storia.» E così dicendo indicò il titolo del brano, in alto al centro del primo foglio, che si era impegnato a scrivere in modo originale, con una calligrafia corsiva: What was left behind.

«Muoio dalla voglia di ascoltarlo, Stiles» provai ad intenerirlo. 

«Vedi pianoforti in giro? Comunque no, conservalo. Domani» mi scoccò un bacio sulle labbra. 

«Ti dispiace se li piego?» chiesi. 

«No, fai pure. Tanto è tutto qui» si indicò la fronte con l’indice. Piegai accuratamente i tre fogli a metà e poi ancora a metà fino ad ottenere un rettangolo di una misura tale che potesse entrarmi nella tasca anteriore dei pantaloni, dove li conservai. 

«Allora li porto con me, fino a domani.» Vidi i suoi occhi illuminarsi di soddisfazione. 

 

Il citofono suonò un quarto d’ora prima della mezzanotte, era Cam. Anche lei vestita di nero con una giacca blu scuro di pelle e la fondina attaccata alla cintura dei pantaloni. Portava con sé un borsone dall’area pesante che fece cadere sul pavimento provocando un rumore metallico. 

«Scusate l’anticipo ma volevo farvi vedere alcune cose» disse in un sorriso teso. Non sembrava particolarmente nervosa, probabilmente perché di retate e cose del genere da poliziotti ne aveva fatte tante, era ben addestrata, eppure un demone soprannaturale metteva i brividi anche a me, per cui pensai che fosse semplicemente molto coraggiosa e anche abbastanza brava a nascondere le emozioni scomode. 

Aprì il borsone e lo poggiò sul tavolo. Tirò fuori per prima una piccola cimice auricolare che mi lanciò e afferrai al volo. 

«Questa la metti mentre segui la traccia, così possiamo seguirti e restiamo in contatto.» Annuii. «Questo invece è per te» disse a Stiles e cacciò dal borsone un giubbotto antiproiettile. 

«Prima che mi guardiate male, so che il Ghul non ci sparerà ma questo potrebbe servirci in ogni caso. Attutisce i colpi ed è comunque una protezione.» Stiles si tolse la felpa e lo indossò collegando le strisce di velcro laterali, poi la rimise. 

«E per ultima» Cam tirò fuori dal borsone una pistola e gliela porse. Stiles la prese senza titubare, con un gesto esperto e rapido estrasse il caricatore, controllò che fosse carico e lo inserì di nuovo. Poi tolse la sicura, mirò con la pistola nella mano destra e la sinistra che la sorreggeva, il braccio leggermente piegato e una posizione che sembrava gli venisse regolare. Poi reinserì la sicura e si accorse delle nostre facce sconvolte. 

«Beh, non credo serva che ti spieghi come si usa» disse Cam. 

«Sì… no… va bene così» balbettò Stiles e mise la pistola dietro la schiena coperta dalla felpa. 

«Ho preso abbastanza caricatori dall’armeria della centrale, dovremmo essere apposto.» Annuimmo. 

Prima di uscire dal palazzo usai l’udito per controllare che Mrs. Crowford stesse bene e sentii il suo respiro lento e regolare nel sonno. 

 

Fuori l’aria non era particolarmente fredda e dalla strada si intravedevano delle zucche illuminate dalle finestre delle abitazioni. Cam aveva parcheggiato la sua auto di fronte al portone. Prima che loro salissero in macchina mi rivolsi a Cam: «Stà attenta, va bene?»

«Tranquillo, Hale, andrà tutto bene» mi sorrise. 

Non riuscivo proprio a capire come facesse. Le diedi un abbraccio e mi rifocillai nel suo buon odore. Poi fece il giro dell’auto ed entrò al posto del guidatore dando a me e Stiles un po’ di privacy. Gli presi il volto tra le mani, lo baciai. 

«Non fare stronzate» gli sussurrai all’orecchio. Lui emise un ridolino. 

«Neanche tu» rispose. «E ricordati» aggiunse, «che quello che provi lui lo amplifica. Quindi cerca di essere fiducioso, okay? E non avere paura.» mi disse apprensivo. 

«Va bene» cercai di sembrare tranquillo e gli rubai un ultimo bacio (rievocai così tante volte quel momento dopo quel giorno che ad un certo punto iniziai a temere di star consumando la mia memoria). 

Stiles salì in macchina e Cam mise in moto. Si avviarono sul Clayton Powell Jr Boulevard sapendo che li avrei superati presto. 

 

Presi un momento per me, per fare un respiro profondo. Immaginai mia madre accanto a me, le parole che mi avrebbe detto, il coraggio che mi avrebbe trasmesso. Un ultimo momento prima di andare. Tirai fuori il Dirkey dal fianco dei pantaloni. Lo girai e rigirai nelle mani pregando che quella sera facesse il suo dovere. Poi una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare: «Nervoso?» Walgreen uscì dall’ombra rivelandosi in un completo verde scuro, perfettamente elegante anche in occasioni come questa.

«Mi hai quasi spaventato» dissi. 

«Sei pronto?» chiese. 

«Farai quello che è necessario?»

Lui aveva l’aria rassegnata. «Sì» ammise infine. 

«Allora andiamo a fargli il culo.» 

Riposi il Dirkey e cominciai a correre verso Riverside Drive. 

 

V


Sfrecciavo nei vicoli e nelle strade principali, pronto, concentrato. Walgreen mi seguiva teletrasportandosi attraverso i portali. Nell’orecchio in cui avevo posizionato la cimice sentii la voce di Cam: «Hale, mi ricevi?» 

«Forte e chiaro. Sono quasi arrivato.» La distanza da casa al luogo dell’omicidio era di un chilometro e mezzo circa, in una manciata di minuti mi trovai sul posto. Walgreen arrivò pochi secondi dopo di me. Percepii la presenza della scia che il Ghul si era portato dietro, chiara come la prima volta che l’avevo avvertita. Mi provocò un brivido lungo la schiena. Ampliai i sensi da lupo e mi concentrai al massimo, cercando di immergermi in quella sensazione nonostante non fosse per niente piacevole ma gelida, subdola e terrificante.

«Ragazzi, ci siete?» 

«Sì» rispose Cam. 

«Ho la traccia, sono sulla Broadway.» 

«Ricevuto.»

Continuai per quasi un chilometro senza rallentare mai. 

«Ho svoltato sul Martin Luthèr King Boulevard.» 

«Ti stiamo dietro.»

Correvo così veloce che le luci dei lampioni e della strada sembravano stelle cadenti. Sentivo il vento che mi sfiorava la faccia, le gambe che andavano da sole, l’adrenalina che faceva il suo corso. 

«Morningside Avenue» dissi ma dopo neanche un minuto mi fermai. Davanti a me il cancello in ferro battuto alto più di due metri era chiuso con un catenaccio spesso e un lucchetto grande quanto una pesca. 

«Ragazzi…» ruppi il silenzio radio, «Il nostro amico è entrato a Central Park.» 

 

Sentii la voce di Stiles lontana attraverso la cimice di Cam: «Che problemi ha questo coso con i parchi?»

Avanzai fino a trovarmi a pochi centimetri dal cancello per assicurarmi che la scia andasse in quella direzione. Ero certo che il Ghul avesse saltato senza troppi problemi per raggiungere l’altro lato e pensai di fare la stessa cosa. Tornai indietro di qualche metro, fino all’altro lato della strada, presi un respiro e corsi, saltando all’ultimo secondo, nel punto giusto. Vidi la punta delle assi di ferro simile a quella delle frecce di un arco passarmi sotto e atterrai sul terriccio semi morbido dell’altro lato con le ginocchia piegate per attutire il colpo. «Sono dentro» comunicai. Seguii il percorso asfaltato che saliva e scendeva, curvava ed era affiancato da numerose panchine. La quantità di alberi intorno a me era impressionante. Dalle foglie gialle e rosse, sparse sull’erba fresca e umida perfettamente curata mi spostai sul sentiero della pista ciclabile, molto più larga e centrale. Cercavo di ignorare il tremito involontario che mi faceva tremare le mani: mi stavo avvicinando. Sentii la presenza di Walgreen alle mie spalle, felpato e silenzioso come una sfinge. La voce di Cam nell’orecchio mi comunicò che erano all’ingresso. 

«E adesso come entriamo?» sentii Stiles. 

«Non entrate, non ce n’è bisogno» provai. Ma Cam era troppo determinata per farsi fermare da un catenaccio. Sentii il rumore del cofano della sua macchina che si apriva e Stiles sussultare un’esclamazione che non afferrai. 

«Non era questo il piano, Hale» rispose Cam. Il rumore di una tenaglia che spaccava il catenaccio mi schioccò nelle orecchie. 

«Ti seguiamo» confermò. 

 

Continuai a correre ma a ritmo più lento ed arrivai a costeggiare il lago in cui si riflettevano le luci della città. Avrei voluto che quella fosse una situazione diversa, in un momento diverso, in cui Stiles fosse accanto a me e insieme ci saremmo goduti quella vista stupenda. Mi appuntai mentalmente di portarlo lì quando tutto sarebbe finito. 

Ripresi la mia corsa per minuti interi fino a quando il brivido lungo la schiena diventò costante quasi paralizzandomi e mi fermai per riprendere fiato. Walgreen mi raggiunse. 

«Ci siamo, Hale» disse indicando pochi metri davanti a noi, dove il sentiero circondato dagli alberi finiva e lasciava spazio all’ampissima piazza che avevo visitato soltanto due volte, molto tempo prima, e che adesso ricordavo perfettamente. 

 

VI


La fontana era collocata esattamente al centro e la statua dell’Angelo delle Acque si ergeva a metri sopra le nostre teste, con le ali spalancate, sulle quali dei piccioni sostavano e borbottavano fra loro. 

L’acqua era piatta ai piedi della fontana, spenta, e riproduceva perfettamente a specchio il contorno della piazza che da un lato affacciava sul lago dall’acqua più verde e meno trasparente di quello di prima. 

Dall’altro lato, invece, il Bethèsda Terrace con le due ampissime scale ai lati che conducevano in alto, alla terrazza vera e propria, sorretta da  sette archi a volta. Sapevo che il Ghul era lì e lo sapeva anche Walgreen. Ci guardammo con circospezione intorno, pronti, con i sensi a mille. Cercai di fare come mi aveva detto Stiles: essere fiducioso. Presi tutta la preoccupazione che avevo, pesante sulle spalle, e la spazzai via.

Acuii l’udito e sentii il suo respiro. Prima che potessi fare altro, però, i suoi occhi rossi e grandi si illuminarono nel buio sotto gli archi a volta. 

«Ci siamo» lo indicai a Walgreen, che intento a mettere in atto una delle nostre strategie si teletrasportò in cima ad una delle scale, quasi sulla terrazza. Il Ghul mi vide, fece un ringhio profondo. Passo dopo passo uscì allo scoperto, alla luce della luna crescente di quella sera. Tirai fuori il pugnale e me lo passai da una mano all’altra. Lui avanzò fino a rivelarsi completamente e dovetti sforzarmi per non far vacillare la mia fiducia. 

Dire che fosse diventato la versione più grossa e forte di quella che avevo incontrato quasi sei mesi prima non sarebbe bastato a rendere l’idea. Cresciuto di almeno un metro e mezzo (adesso ne contava circa tre) in altezza e con il busto largo, molto più largo, la sua pelle adesso era più scura, visibilmente ancora più spessa e dura come una corazza. Continuò a camminare nella mia direzione fino a che solo pochi metri ci separassero e emise una specie di suono gutturale quando mi riconobbe: ero colui che lo aveva ferito e che per poco non aveva ucciso. Incalzò la rincorsa e abbassò la testa puntandomi con le corna appuntite. Poco prima che impattasse mi spostai di lato. Tentai due fendenti ma lui, per quanto grosso, non mancava di agilità. I due colpi mancati lo fecero innervosire. Quando provò a colpirmi con il destro (adesso la sua mano chiusa a pugno aveva la forma di un pallone da calcio) una corda dal bordo scintillante trattenne il suo braccio. Ci girammo entrambi a guardare l’estremità dell’altro lato e vidi Walgreen, distante da noi, che usava la sua magia e tirava con tutte le sue forze. Approfittai del momento per usare il Dirkey ma riuscii ad arrivare soltanto alla gamba e a sfiorarlo appena, prima che la corda si spezzasse sotto la sua forza e con un calcio mi facesse volare di un paio di metri sul bordo della fontana che come una frusta mi colpì appena sotto le scapole. Lui guardò dove il Dirkey lo aveva colpito e un piccolo graffio gli stava facendo uscire del sangue demoniaco, nero come la pece, che gli scorse il un rivolo sottile. Almeno sappiamo che funziona, pensai. Urtato dalla sua nuova debolezza il Ghul lanciò un grido straziato in aria prima di cominciare a correre verso di me, ancora in terra. Ma poco prima che arrivasse il pavimento sotto i suoi piedi si aprì in un vortice di scintille rosse e lui cadde, sparendo. 

«Vediamo se sai anche volare» disse Walgreen mentre agitava le mani in senso circolare. Un altro vortice si aprì alto nel cielo e il demone precipitò sbattendo per terra con un tonfo fragoroso che fece spaccare sotto il suo peso alcune delle mattonelle del pavimento. Acciaccato si tirò subito in piedi, visibilmente irritato. Mirò Walgreen da lontano e a grandi falcate percorse la distanza dal centro della piazza macinando quattro gradini alla volta. Iniziò allora una specie di acchiapparella tra i due che vedeva il Ghul inseguire Walgreen e lui sparire all’ultimo secondo per ricomparire soltanto una manciata di metri lontano. In più, lui lo stuzzicava con frasi del tipo «Che c’è? Non riesci a prendermi?» e non ero sicuro che lui capisse la nostra lingua (la maggior parte dei demoni non lo fa) ma si innervosiva lo stesso. 

Questo mi diede il tempo per riprendere le energie e distratto com’era, mi preparai all’attacco. Con il pugnale stretto nella mano destra iniziai a correre alle sue spalle e saltai per raggiungere il suo collo. Prima che potessi affondare la lama nella sua armatura fatta di pelle si girò e di nuovo: lo graffiai appena. 

Seguì una rapida sequenza di pugni e fendenti (alcuni li schivai, uno mi prese allo stomaco creando un taglio netto e abbastanza profondo, un altro in volto) ma quando Walgreen arrivò in mio soccorso per permettermi di riprendere fiato tutto ciò che avevo ottenuto erano delle insignificanti lacerazioni che non gli avevano causato quasi nessun dolore. Con uno scatto tirai fuori gli artigli e le zanne trasformandomi del tutto in un lupo mannaro. Con un ruggito profondo attirai la sua attenzione e lui si girò nella mia direzione pronto al prossimo scontro. Mentre con la destra brandivo il pugnale, in cerca del momento giusto per colpirgli il petto, con l’altro braccio tentavo di difendermi dalla scarica di colpi. Poi, con la mano girata, riuscì a colpirmi in pieno viso e nel cadere il Dirkey volò lontano da me. Walgreen cercò di intervenire ma lui fu più veloce e con due rapidi falcate arrivò per primo prendendo il pugnale tra le mani (così grandi che quello sembrava un coltellino da burro). 

Espresse la sua frustrazione verso quell’oggetto con un ruggito rivolto verso l’alto e lanciò il pezzo lontano, negli alberi fitti e scuri. Mi accorsi solo in quel momento che la cimice che mi aveva dato Cam mi era caduta durante il conflitto, chissà dove, perché la voce di Stiles mi arrivò poco più lontana, grazie ai sensi che involontariamente tenevo allerta. 

Disse: «Vado a recuperarlo io» e vidi un cespuglio in lontananza muoversi, dove immaginai che loro due erano stati nascosti fino a quel momento. Avrei voluto gridargli di non andare, anzi, di scappare via molto lontano, che in qualche modo ce la saremmo cavata ma che lui doveva stare al sicuro. Ma avrei solo attirato su di lui l’attenzione del Ghul, quindi mi trattenni e tornai all’attacco. 

 

Senza il pugnale e con la sua pelle inscalfibile c’era un unico punto che avrei potuto mirare per procurargli un qualche tipo di danno: gli occhi. Feci cenno a Walgreen di trattenerlo e lui afferrò al volo. Di nuovo, questa volta due corde che uscivano direttamente dalle sue mani si legarono agli avambracci del mostro trattenendolo. Sfruttai il momento per correre a tutta velocità nella sua direzione mirando alle piccole fessure rosse. Saltai appoggiandomi con il piede sul suo stesso ginocchio e affondai gli artigli sulla parte sinistra del suo volto. Lui urlò dal dolore e del sangue nero gli scivolò sulla guancia. Nonostante si dimenasse Wal riuscì a tenerlo fermo ancora un pò, tempo che mi permise di saltare nuovamente, girando su me stesso, per lanciargli a mezz’aria un calcio in pieno volto.

A quel punto, in un impeto d’ira, riuscì a liberarsi dalla presa e cominciò a colpirmi. Non me ne accorsi neanche quando il primo pugno, veloce come un proiettile, mi schizzò in faccia. Poi il secondo nella pancia, il terzo sul petto. Non riuscii a reagire. In pochissimo ero steso a terra, lui mi sovrastava e assestava un colpo dopo l’altro. Sentivo il dolore crescere secondo dopo secondo, diramarsi da un punto all’altro raggiungendo ogni muscolo, ogni osso, ogni centimetro di pelle. Poi smise di colpire. Immaginai che Walgreen fosse intervenuto ma non avevo quasi la forza di muovermi, a mala pena mi girai su un fianco per sputare fuori del sangue. Riuscivo ad ascoltare i suoni dello scontro fra loro due e cercavo di aggrapparmi a qualsiasi cosa mi tenesse sveglio perché se avessi ceduto in quel momento… Invece avevo bisogno che i miei poteri di guarigione facessero il loro corso e anche un solo secondo in più avrebbe fatto la differenza. Fu in quel momento che iniziai a riflettere su quando tutto era cominciato, quella mattina del 20 maggio, appena sei mesi prima. Allora mi aggrappai al suono delle sirene delle volanti della polizia e gli usignoli cinguettanti nel cuore della notte, al suono delle campane di St. Jean Baptiste Church, al ritmo del sangue che pulsava forte nelle orecchie e che mi rimandava a quella maledetta melodia che sognavo da mesi ma che non riuscivo a ricordare. Resisti, tieni gli occhi aperti. Ancora un po’. Fallo per loro pensavo. E poi lentamente sentii le fibre del mio corpo ricongiungersi nei punti in cui erano state brutalmente percosse e il dolore che da insostenibile diventava tollerabile, almeno quanto bastava per cercare di aprire gli occhi, tornare alla realtà. 

 

Ma la realtà fu più atroce di quanto immaginavo. Walgreen, dal volto stremato e lucido di sudore, con diverse ferite e un livido già ben visibile sullo zigomo, cercava in tutti i modi di resistere agli attacchi del Ghul con poco successo. Indebolito all’inverosimile anche la sua magia non gli era più di molto aiuto. Con tutte le sue forze bloccava nell’aria i fendenti sempre più rapidi e li spingeva indietro, ma il demone guadagnava terreno ad ogni passo e presto gli fu addosso. Chiusi gli occhi, incapace di guardare. Quando li riaprii Wal era accartocciato sui gradini, immobile. Usai l’udito per verificare che il suo cuore battesse ancora: era vivo. 

 

Iniziavo solo allora ad avere più sensibilità nelle gambe e nel giro di un minuto avrei potuto mettermi in piedi. Ma il Ghul, con tagli superficiali e un occhio fuori uso (certo stanco e affaticato) sembrava battere in ritirata. Poi accadde tutto rapidamente. Un grido provenne dalla mia destra e attirò la sua attenzione facendolo girare nuovamente. Cam uscì dal cespuglio, in piedi in una postura dritta e ordinata con la pistola nella mano destra aspettò che il demone si avvicinasse passo dopo passo e solo quando arrivò alla distanza che lei riteneva idonea cominciò a sparare. 

Scaricò tutto il caricatore senza mancare un solo colpo. 15 spari in sequenza. Molti nel petto, un paio nelle gambe, uno sul collo, uno in fronte. Avevano appena scalfito la sua buccia fatta di cemento ricadendo in terra. Lui continuò a camminare, imperterrito, verso di lei. Scappa, ti prego scappa ma lei rimase lì. Pronta a ricaricare la pistola con altri 15 colpi. Fece in tempo a spararne tre prima che lui la sollevasse con la mano possente dalla gola fino a tenerla sospesa diversi metri da terra. Ma anche allora cercò di divincolarsi dalla presa stretta agitando le gambe e le braccia nel tentativo di colpirlo. Dal nulla, la voce di Walgreen, di nuovo in piedi, anche se esausto, ruppe il silenzio: «Ei!» gridò a pieni polmoni, «Sono qua! Allora, vuoi venire o no?» con tono di sfida. Il Ghul (che per quanto forte era incredibilmente stupido) lasciò cadere Cam come un peso morto e si diresse verso di lui. Provai a muovermi con tutte le mie forze ma dovevo avere diverse ossa rotte che impiegavano più tempo per guarire e che mi impedivano di alzarmi da quel maledetto pavimento. Walgreen, quasi allo stremo, aprì un portale alle sue spalle e cominciò a tirar fuori con rapidi movimenti nell’aria una serie infinita di spade, coltelli, armi affilate di ogni tipo e dimensione. Le scagliava addosso al demone che tentava di schivarle ma anche quando non ci riusciva queste semplicemente rimbalzavano sulla sua pelle. Come ultimo, disperato, tentativo, attirò nella sua mano una granata dalla forma di un piccolo gufo. 

«Vediamo se questa ti piace» disse prima di strappare la linguetta e tirargliela ai piedi. Dopo due secondi l’esplosione rimbombò nell’aria e le ceneri delle scale di marmo adesso in polvere riempirono la piazza. Il Ghul, steso a terra, finalmente riportava qualche acciacco. Fu allora che Cam, zoppicante, si alzò e raccolse da terra una delle daghe sul pavimento avvicinandosi cautamente. Sapeva di non avere la possibilità di ucciderlo ma lui quasi fermo, steso sul pavimento, era un’occasione ottima per continuare a colpirlo. Così fece quello che mi aveva visto fare poco prima: mirare agli occhi. Cercò di essere silenziosa e si mosse con estrema cautela fino ad essere ad un metro dalla sua rivoltante faccia demoniaca. Alzò il braccio con la daga fra le dita e appena prima che potesse calarsi e affondare nei suoi occhi la mano del Ghul schizzò in alto e le afferrò il polso. Le posizioni si invertirono rapidamente e lui la sovrastò, usando quella stessa arma per procurarle un taglio netto e profondo da parte a parte del collo. Poi si alzò e si diresse verso Walgreen, che ancora a terra a causa dell’esplosione cercava di reagire. 

Sentii una ferita interna bruciare, nulla che avesse a che fare con le altre. Riuscii a strusciare fino al punto in cui Cam, distesa con gli occhi al cielo, si muoveva convulsamente. 

«Cam… Cam, no. Ti prego, no. Guardami, guardami» le dissi con gli occhi pieni di lacrime. Le posai le mani sul collo cercando di contenere l'emorragia ma tantissimo sangue continuava ad uscire e si raccolse in una pozza scura sotto di noi. Lei non riusciva a parlare. Tentai di portarle via il dolore e per poco le vene delle mie braccia diventarono nere ma dopo poco tornarono normali e il battito debole del suo cuore che facevo risuonare nella mia testa si fermò. Il suo corpo rimase immobile fra le mie mani e nei suoi occhi, aperti e languidi, si spense la luce. Poggiai la mia fronte sulla sua in un gesto disperato sussurrandole: «Non lasciarmi, ti prego non lasciarmi» mentre le mie lacrime scendevano fino al suo volto, asciutto, perché lei non ne aveva piante. Era stata coraggiosa fino all’ultimo secondo. 

Non c’era più nulla da fare. I fiocchi di neve iniziarono a scendere silenziosi, mischiando il bianco del ghiaccio alla cenere sporca dell’esplosione: la firma del suo assassino. 

 

VII

 

Quando alzai lo sguardo lasciai andare un urlo e sentii gli occhi brillare di blu. Tutto quel dolore si trasformò in rancore e poi in una furia aggressiva che mi diede la forza di rialzarmi. 

Quello che vidi, però, mi provocò di nuovo una fitta interna che sapeva di senso di colpa e paura. Walgreen utilizzava le mani, unite alla base dei palmi, per creare uno scudo protettivo attorno a Stiles che, rapido, correva verso di lui con il Dirkey tra le mani. Il Ghul colpì Walgreen, ancora, e lui non riuscì a difendersi. Poi si diresse verso Stiles. Riuscì a schivare i primi colpi del demone, poi finalmente mi vide correre nella sua direzione, così con un lancio curvo tirò il pugnale ma la neve fitta gli oscurò la visuale e il Ghul lo prese al volo, prima che potessi farlo io, conficcandolo nel suo fianco, dove il giubbotto antiproiettile non lo proteggeva. Il respiro gli si spezzò in gola dal dolore. 

 

Rimasi paralizzato per pochi istanti. Fermo, ancorato al pavimento, con i brividi di freddo lungo tutto il corpo. Era tutta colpa mia. Prima Cam, adesso Stiles. Entrambi innocenti, travolti dalle mie responsabilità. Che cosa avevo fatto? Perché avevo permesso che tutto ciò accadesse? Avrei dovuto essere io quello steso a terra nel suo stesso sangue, non loro. Tutto quello che avevano fatto era stato aiutarmi. E io li avevo condotti alla morte.

E il Ghul, davanti a me, era impassibile. Forse conscio di quello che mi aveva tolto, mi guardava soddisfatto con in mano lo stesso pugnale che avrebbe dovuto ucciderlo. Mi fiondai su di lui prima che potesse reagire. Lo colpii con tutta la forza che avevo in corpo, quella su cui lavoravo da quando ero nato. Lo facevo per Cam, priva di vita e avvolta dal manto di neve spessa ormai centimetri, per Stiles, il cui cuore batteva ancora anche se molto debole, e per Walgreen, consumato e privo di energie. Il Ghul provava a difendersi ma io ero più veloce questa volta, troppo arrabbiato. Assestavo un pugno dietro l’altro fino a quando non riuscii a rubargli il Dirkey e a conficcaglielo in profondità nella spalla destra. Lui urlò di dolore. Ne avrebbe avuto per un po’, così lo lasciai agonizzante a terra e andai da Stiles. 

«Che diavolo hai fatto?» gli dissi mentre controllavo la ferita, ma con un tono non arrabbiato, che voleva solo fargli capire quanto ci tenessi. 

«Mi… mi  dispiace» balbettò. Mi concentrai, con le mani poggiate sul suo fianco nudo per prendere il suo dolore che era così forte da farmi tremare. 

«Derek» mi chiamò ma io continuai senza ascoltarlo «Derek» mi prese le mani nelle sue interrompendo il contatto. 

«Smettila, va bene così» aveva la voce flebile e sottile. Capii che non ce l’avrebbe fatta. Mi avvicinai al suo viso sporco di cenere in alcuni punti e gli lasciai un bacio sulle labbra, poi vicino all’orecchio gli sussurrai: «Tu non morirai. Risolverò tutto, vedrai. Starai bene» e vidi una lacrima scendergli dall’angolo dell’occhio. Non disse nulla così lo baciai di nuovo, un bacio casto sulle sue labbra gelide, e mi allontanai.

 

Walgreen era appoggiato ad uno dei pilastri degli archi a volta, il fiato corto e un profondo taglio sul braccio. 

«Mi dispiace, Hale» teneva le mani sulla fronte. Non lo avevo mai visto così, gli occhi spenti e disperati, sinceramente dispiaciuto. 

«Ci ho provato, te lo giuro» continuò. 

«Lo so» lo tranquillizzai. Mi piegai sulle ginocchia per essere alla sua stessa altezza a guardarlo bene negli occhi. 

«Adesso c’è solo una cosa che possiamo fare» dissi con tono calmo e piatto. Lui mi guardò fisso, ragionò. Poi mi porse una mano e io lo aiutai ad alzarsi. Mi allontanai di un paio di metri lasciando impronte ben definite nella neve. 

«Basteranno 30 minuti» proposi. 

«Hale… Sono davvero stanco… Ho paura di poter combinare un macello» confessò. 

«Va tutto bene. Ce la puoi fare. Si tratta di un salto temporale brevissimo» cercai di tranquillizzarlo. Annuì, prese un respiro profondo e cominciò a vorticare le braccia in movimenti studiati ed eleganti. Pronunciò delle parole in latino, per me incomprensibili, e vidi lo strato più fresco di neve poggiato a terra levarsi lentamente e salire di pochi centimetri alla volta riempiendo la piazza di bianco. Quando Walgreen concluse l’incantesimo chiusi gli occhi d’istinto. Sapevo che stavamo per infrangere una delle tre regole inviolabili dei Supremi e presto avrei dovuto affrontare quello scontro nuovamente, dall’inizio, evitando che Stiles e Cam rimanessero coinvolti. Un fascio di luce rmi investì gli occhi anche da sopra le palpebre chiuse, dove il buio nero si dipinse di rosso fuoco. Eppure, quando li riaprii, era l’alba e il sole si affacciava appena alle spalle degli alberi in fiore. La piazza era deserta e io, solo e spaesato, giravo su me stesso in cerca di… non so bene cosa. Ricordo di aver sussurrato fra me e me: «Che cosa abbiamo combinato, Wal?» pieno di paura che non sarei riuscito a salvarli, ma anzi, di averli abbandonati. 

 

VIII


Una voce mi riportò alla realtà: «Ei ragazzo! Non puoi stare qui!»

Mi girai. Un uomo sulla cinquantina con una grande pancia tonda chiusa in una divisa un po’ antiquata era seduto su un tagliaerba verde. Quando mi focalizzò (i lividi, i tagli, il sangue sui vestiti) mi chiese se stavo bene e se avevo bisogno d’aiuto. 

«No, grazie» risposi e poi aggiunsi: «Sa dirmi che giorno è oggi?» 

«Il 10 Aprile.»

Perfetto, pensai. Avevamo sbagliato “solo” di qualche mese. Grandioso! Avrei voluto spaccare qualcosa. Andai via, zoppicante e acciaccato com’ero. 

Mi ritrovai sulla 5th Avenue. Il mio stomaco fece due capriole quando dando un’occhiata in giro vidi che il palazzo all’incrocio sulla 64esima dove ero passato innumerevoli volte era in costruzione, che le poche persone che circolavano erano vestite come in un film di Zemeckis degli anni ‘90 e che una ragazza alla fermata del pullman aspettava con le cuffiette collegate ad un walkman. Mi sentii svenire: stanco, pieno di dolori, adesso accaldato dal sole, decisi di sedermi sulla prima panchina che trovai (ancora oggi, quando passo davanti quella panchina, che è rimasta lì per tutti gli anni che seguirono, il ricordo di quel giorno mi travolge). 

Mi accorsi solo dopo un po’ che una copia del New York Times era stata abbandonata proprio lì affianco. La data diceva: 8 aprile 1996. 

La lessi tre volte. Il giornale era di due giorni prima e io... ero 23 anni nel passato. 

 

Partì da lì una profonda riflessione che da una parte mi portava all’altra e perfino mettere a posto i pensieri fu difficile. Per prima cosa pensai che avevo 8 anni in quel momento, ovvero il me che si trovava al posto giusto in quella linea temporale, ed era dall’altra parte dell’America, in California. Ma soprattutto pensai che quel bambino aveva ancora una mamma, delle sorelle e un branco, e così sarebbe stato per altri 8 anni circa. 

Avrei potuto prendere un aereo, raggiungerli, uccidere mio zio oppure avvertire mia madre. Ma mi avrebbe creduto? Mi avrebbe riconosciuto? Certo che lo avrebbe fatto. Fino a poche ore prima avrei fatto qualunque cosa per poterla riabbracciare soltanto una volta, per sentire di nuovo la sua voce, il suo profumo. E adesso… era a qualche migliaio di chilometri da me. 

 

Seconda cosa: Stiles, Cam e Walgreen. Cos’era successo nel momento in cui ero sparito? Quando sarei tornato indietro? Sarei tornato indietro? Cosa dovevo fare adesso?

Stiles, con le sue passioni da nerd, avrebbe saputo esattamente cosa fare. Si perdeva il conto dei film e le serie tv che aveva visto sui viaggi nel tempo per non parlare dei libri che aveva letto. 

«Regole base.» Avrebbe detto. «Non parlare e non farti vedere dal te del passato, morirete entrambi all’istante. Non cambiare gli eventi, questa è difficile, lo so. Non portare oggetti del futuro nel passato e soprattutto non lasciarli lì.» 

Mi mancava tantissimo. 

Capii che c’era soltanto una persona che poteva aiutarmi anche se l’avrei conosciuta soltanto più di vent’anni più tardi: Walgreen. 

 

In Leadwell Street la clinica veterinaria non era ancora aperta e al suo posto c’era un negozio di dischi. Eppure la piccola porta accanto era la stessa anche se l’insegna non c’era più, o meglio, non c’era ancora. 

Bussai. Dopo qualche secondo di attesa venne ad aprire un bambino, dalla carnagione scura come quella di Walgreen, di circa 10 anni. 

«Chi sei?» mi chiese con aria incuriosita. 

«C’è Walgreen? Sono un suo amico.» Lui si fece da parte per lasciarmi passare. 

«Certo! Accomodati» disse entusiasto. Il posto non era molto diverso: stesse cianfrusaglie, solo in minore quantità. Il bambino mi superò per farmi strada e parlò ad alta voce: «Wal! C’è un tuo amico! Vieni!» poi mi indicò un divano di pelle di coccodrillo e si sedette su un pouf grigio lì vicino. 

«Io sono Murph» si presentò. Portava dei pantaloncini che gli arrivavano alle ginocchia e una maglietta a maniche corte infilata dentro i pantaloncini. Ai piedi, riconobbi un modello di scarpe che avevo avuto anche io alla sua età. 

«É un piacere conoscerti Murph» risposi con un groppo alla gola. Quando Walgreen fece il suo ingresso dovetti trattenermi dal ridere. I suoi ricci erano molto più stretti e i capelli così lunghi da superargli l’altezza delle spalle. Sembrava piuttosto ridicolo, ma di certo, quella era la moda del momento. Per il resto, non c’era nulla di diverso dal Walgreen che avevo lasciato solo poco tempo prima, ne un giorno in più ne un giorno in meno sulla sua pelle. Anche la camicia di raso che indossava sembrava identica alle sue solite, solo con un taglio più ampio e meno aderente. Mi squadrò da testa a piedi. «Ci conosciamo?» chiese circospetto. 

«Non ancora» mi alzai dal divano per stringergli la mano e lui mi porse la sua come un gatto che accetta diffidente di farsi dare una carezza. 

«Murph, và a giocare fuori per qualche minuto» gli disse e quando lui passò in mezzo a noi gli passò una mano sui capelli in modo affettuoso. 

«Ti manda il Supremo Kadeem? Senti, devi dirgli che ho smesso con i viaggi nel tempo, sul serio.» 

«Non mi manda il Supremo, ma dovresti smetterla sul serio, prima che te la facciano pagare» risposi.

«Tu che ne sai?» Mi sedetti di nuovo sul divano. 

«Forse è meglio se ti siedi anche tu» dissi e stranamente mi diede ascolto. 

«Mi chiamo Derek Hale e sono un lupo mannaro.» 

«Sì, questo l'avevo capito» mi interruppe. 

«E noi non ci conosciamo perché succederà solo tra vent’anni, qui a New York.» 

La sua espressione rimase identica eccetto per i suoi occhi, gialli e felini come al solito, che strabuzzò fuori dalle orbite. Poi si mise le mani nei capelli in un gesto terrorizzato. 

«Oh Dio. Oh Dio che cosa ho fatto? Cos’è successo? Sono in pericolo? Tu non dovresti essere qui! Tu non dovresti per niente essere qui!» parlò velocissimo. 

«Ascolta, calmati. Adesso ti dico cos’è successo» provai a dire ma lui attaccò di nuovo: «No!!! Assolutamente no! Io non devo sapere! Perché poi cambierebbe tutto, capisci? Tu non puoi dirmi niente!»

E la situazione si fece piuttosto complicata perché se non mi avesse aiutato lui non avrei saputo cos’altro fare. Poi mi venne un idea. 

«Okay, cosa ne pensi se io ti parlo, tu mi aiuti, e poi ti fai cancellare la memoria da un altro Nissen?» proposi. 

Lui ci pensò, si tamburellò le dita sul labbro inferiore come faceva sempre, e poi alzò le spalle e abbassò gli angoli della bocca: «Massì, penso che possa andare. Dimmi tutto, sto morendo di curiosità.» Incrociò le gambe poggiando il mento sotto le mani in una posa pettegola. Non sapevo neanche da dove cominciare. 

Partii dal fatto che venivo dal 2019 e che sei mesi prima che ero tornato indietro un Ghul si trovava a New York al che lui commentò: «Oh, terribili bestie. Una volta ne ho affrontato uno in Cile-» 

«Sì, ce l’hai raccontato» lo interruppi. Lui fece un cenno con la testa di continuare. Così gli spiegai del ritrovamento dei pezzi, il primo nella cattedrale, il secondo nell’orologio, il terzo nel pianoforte, senza mancare alcun dettaglio sui collegamenti, gli indizi, le stranezze che erano successe. Lui mi guardava come catturato dal mio racconto, non mi staccava gli occhi di dosso e lo vedevo, si tratteneva dal commentare qualsiasi cosa. Arrivai a raccontare della battaglia, della morte di Cam, la ferita di Stiles. 

«... e allora ti ho chiesto di tornare indietro nel tempo. Di mezz’ora. Il tempo necessario per ricominciare lo scontro e avere una possibilità perché le cose andassero in modo diverso. Tu eri molto stanco, me lo avevi detto che qualcosa poteva andare storto, ma non avrei mai potuto lasciarli morire capisci?» 

Lui annuì serio. 

«E tu lo hai fatto anche se non avresti dovuto perché hai promesso davanti il Supremo di non usare mai più i viaggi nel tempo, altrimenti-» mi fermai. Non avrei dovuto infilarmi in questa storia. Ero stato stupido. Ovviamente il Walgreen di quel tempo, che non riusciva a smettere di farlo ed era entrato in un circolo temporale vizioso, non potè fare a meno di saperne di più. 

«Dimmelo, ti prego. Tanto poi lo dimenticherò!» mi supplicò. Pensai che dopo tutto quello che lui (non proprio lui, il lui del futuro) aveva fatto per me, questo glielo dovevo. 

«Non molto tempo dopo che ci siamo conosciuti mi hai raccontato che avevi passato un periodo della tua vita in cui, contro la legge, utilizzavi spesso i viaggi nel tempo, fino ad esserne diventato quasi dipendente. Mi dicesti che il Supremo ti avvertì diverse volte intimandoti di smettere ma tu non gli desti ascolto. Così, per dare una punizione esemplare a chi cominciava ad imitarti, trasformò una delle persone a te più care in quel momento in un’iguana che sarebbe cresciuta, vissuta, e una volta morta sarebbe rinata dalle sue ceneri per sempre.» 

«Chi? Chi trasformò?» chiese con il terrore negli occhi. 

«Il piccolo Murph.» Lui si portò una mano sulla bocca, scioccato e terrificato. Poi fece un respiro profondo facendo un gesto della mano per scacciare i pensieri. 

«Allora? Stavi dicendo che per sbaglio ti ho portato venti anni nel passato?» 

«Beh ecco… sì.» 

«Sai mi sembra un po’ difficile da credere. Sono piuttosto bravo con i viaggi nel tempo.» «Pensi che stia mentendo?» alzai la voce quasi arrabbiato. 

«No, no, assolutamente. Sto dicendo che certe volte le cose che devono accadere accadono e basta.» Vide la mia espressione interrogativa e continuò: «Davvero non hai notato il collegamento? Okay, ascolta: avete trovato due dei tre pezzi del Dirkey in posti che erano connessi a te, alla tua vicina, no? E a lui, nel pianoforte. E un antiquario ha venduto il pianoforte al tuo amico. Ma qualcuno deve avercelo messo questo pezzo dentro al pianoforte, no? E nell’orologio, stessa cosa. Non capisci? Sei stato tu! Adesso! In questa linea temporale.» 

Mi sentii le gambe di gelatina. Come avevo fatto a non capirlo prima? Prevederlo, quello sarebbe stato impossibile, ma adesso… tutto aveva senso. 

«Quindi adesso…» cominciai ma Walgreen mi anticipò: «Quindi adesso devi trovare i pezzi e nasconderli per fare in modo che il te del futuro li trovi esattamente nello stesso punto.» Aveva senso. 

«Ma perché?» 

«Cosa perché?» 

«Perché è successo tutto questo? Quando è cominciato?» chiesi, rivolgendomi a lui come ad un oracolo. 

«Questo non lo so» ammise. «Ma un motivo c’è sempre. E se un motivo non c’è allora si chiama destino.» 

 

IX


Walgreen mi cedette una stanza per riposare e mi medicò quelle poche ferite così profonde che ci avrebbero messo più tempo per guarire. 

Mi stesi sul materasso scomodo che in quel momento mi sembrava la cosa più confortevole del mondo per quanto ero stanco. Erano più di trenta ore che non dormivo e sorrisi fra me e me pensando che Stiles mi avrebbe corretto dicendo che erano ventitré anni che non dormivo. Cominciai a pensare e pensare. Che fosse stato davvero il destino a creare tutto questo? Ma qual’era lo scopo? Forse che qualcuno riuscisse a sconfiggere il Ghul? O che io impazzissi? L’unica cosa che faceva grandi giri e poi si presentava di nuovo era Stiles o meglio, me e Stiles. Mi resi conto di quanto sembravo ingenuo alle mie stesse orecchie. Un mostro demoniaco, un viaggio nel tempo di vent’anni, uno scontro che provoca la morte di una persona, forse due, per cosa? Per far sì che noi ci conoscessimo? Che noi ci amassimo? Avevo ammesso davvero di amare Stiles? E pure non glielo avevo detto. Così giurai, su quel letto scomodo immerso nell’odore di spezie da cucina che passava dalla piccola finestre aperta appena dal ristorante indiano adiacente, che quando sarei tornato indietro la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata dirgli che lo amavo più di quanto avessi mai amato qualsiasi cosa. 

Poi caddi in un sonno profondo e senza sogni. 


Mi svegliai l’indomani mattina, quasi completamente guarito e con un grande appetito. Walgreen mi aiutò nella ricerca dei tre pezzi del Dirkey. Dopo le dovute raccomandazioni su quello che non avrei dovuto assolutamente fare (ad esempio parlare con chiunque a meno che non fosse indispensabile) usò i suoi poteri per darmi indizi sulla collocazione del primo pezzo. La ricerca, che non aveva senza Stiles lo stesso sapore di avventura ed entusiasmo, ci condusse il Senegal. Viaggiare con i portali di Walgreen rese le distanze di migliaia di chilometri percorribili in un battito di ciglia e invidiai il suo potere per questo. 

Il secondo prima eravamo nel suo studio, quello dopo sulla costa del lago Retba. E mentre da noi erano appena le tre del pomeriggio lì il sole cominciava a tramontare, infuocato, nel cielo dalle sfumature arancioni. 

«Nel lago» di cui non avevo mai sentito parlare, mi spiegò Walgreen, «ci sono delle alghe che producono un pigmento rosso e che fanno sì che l’acqua del lago sia rosa.» 

Sembrava di essere in un dipinto. L’assenza di vento rendeva la distesa d’acqua immobile, uno specchio rosa che all’orizzonte incontrava il cielo arancione. Alcune piccole barche a remi erano appoggiate sulla riva, vicino a piccole montagne di sale, prodotte dal lago stesso. La lama si trovava sul fondale, per cui dovetti tuffarmi, quasi dispiaciuto di rompere quella quiete naturale, e nuotare con difficoltà (la salinità del lago rendeva molto facile galleggiare, quasi impossibile andare in senso opposto) verso il fondo. Quando ruggii un piccolo luccichio provenne da alcuni metri di distanza e tornammo vittoriosi a casa - solo un minuto dopo! - con la lama del pugnale fra le mani. 

 

L’indizio seguente ci spinse in Germania, più precisamente in Baviera, al Castello di Neuschwanstein (nome che non fui in grado di pronunciare malgrado i numerosi tentativi). Scoprii che Walgreen era a conoscenza di così tante informazioni che mi fece sospettare di aver usato un incantesimo per iniettarsi una dose di cultura smisurata oppure che potesse leggere da un’enciclopedia invisibile tutte le informazioni che dispensava. La verità, mi spiegò, era che amava leggere e aveva sfruttato il suo potere di teletrasporto molte più volte di quelle che potevo immaginare (furono le sue parole), in più, aveva avuto decenni per farlo. «Hai presente Ludovico II di Baviera?» chiese prima di aprire il portale. Io feci un cenno della testa che si traduceva in un timido «sì» ma che voleva dire “Non ho idea di chi sia ma tanto so che stai per spiegarmelo” e di fatti lui continuò: «È stato il re che ha ordinato la costruzione di questo castello. Il suo popolo pensò che voleva rifugiarsi dal mondo reale, fuggire dalle sue responsabilità e restare solo in quella fortezza immensa, per cui gli diedero il nome di Re Pazzo. Ma la verità è che lui era un Nissen, come me, e amava viaggiare attraverso i portali magici.»  

Il castello fu una delle cose più belle che io avessi mai visto. Walgreen ci fece arrivare prima sulla collina a poche centinaia di metri da dove si poteva ammirare completamente. Due torri gemelle affiancavano la struttura e poi altre di diverse altezze con pinnacoli ornamentali, balconate e sculture lo rendevano irregolare ed asimmetrico ma proprio per questo, ancora più armonioso. La vastità del castello era bilanciata dallo sfondo quasi magico del fiume pöllat e dalle alte montagne con la cima innevata. Sento che nessuna mia descrizione potrebbe descrivere la maestosità di quei posti e dargli giustizia. Come due comuni visitatori gironzolammo tra le stanze (oltre 200) del palazzo fino alla sala del trono, dove la guardia del pugnale era nascosta. 

 

Ci misi una settimana a capire il terzo indizio a cosa portasse (Stiles ero sicuro ci avrebbe impiegato mezza giornata, forse anche meno) e Walgreen quasi pianse di gioia quando venne fuori che saremmo dovuti andare a Tokyo. Inizialmente non capii da cosa derivasse quella sua felicità quasi commossa fino a quando non mi spiegò che ci trovavamo nell’hanami, ossia il periodo di fioritura dei ciliegi. Ne avevo sentito parlare, certo, ma la sua gioia ai miei occhi appariva ancora immotivata. Disse che era la quarta volta che avrebbe visto la fioritura e non stava nella pelle.

Scoprii che il Giappone non era come me lo ero immaginato, anche perché non ci avevo pensato troppe volte prima di allora. Mi colpì la grandezza e il grigiore della maggior parte dei palazzi, la tranquillità degli edifici religiosi, la cordialità degli abitanti. Venne fuori che il pezzo che cercavamo si trovava proprio nel parco di Ueno, al che Walgreen mi disse: «Adesso vedrai con i tuoi occhi perché ero così contento di venire qui.»

Il parco di Ueno si trovava nel quartiere di Taitō e contava circa 8000 alberi di ciliegio. Non posso descrivere, e non riuscirei a farlo neanche tra decine di anni, le sensazioni che provai camminando sotto gli alberi in fiore. 

«Questa è la vera magia» disse Walgreen in un sussurro. Sembrava di camminare dentro nuvola. L’elsa del pugnale si trovava all’interno del tempio buddista collocato al centro del parco. Continuammo ad esplorare intorno, rapiti dal fascino dei ciliegi, anche dopo aver trovato il pezzo. 

Quando tornammo a New York sentii di aver lasciato un pezzo di me in ognuno dei tre posti in cui eravamo stati. 

 

X


Il giorno seguente il piano era quello di collocare le parti del pugnale dove le avevamo trovate io e Stiles a ventitré anni di distanza. Con Walgreen ci dirigemmo al 58 di Delancey Street, dove la New York che conoscevo stava appena nascendo e molti dei grattacieli che ero abituato a vedere non c’erano ancora, mentre due, maestose e ancora in piedi mi provocarono un brivido lungo la schiena. 

Gli indicai il punto in cui la scritta avrebbe dovuto essere, sul muro di mattoni rossi dove il murales del leone sarebbe comparso. Lui la incise con la magia in una calligrafia che riconobbi solo in quel momento essere la sua, perfettamente uguale a quella che avevo visto.

Quello stesso giorno ci recammo sulla 84esima e cercammo l’antiquario di cui Stiles mi aveva parlato. Il signore che lui aveva descritto come anziano era solo un quarantenne. «Posso aiutarvi, signori?» chiese gentilmente. 

«Stiamo cercando un pianoforte, antico, ne ha?» disse Walgreen. Gli si illuminarono gli occhi: «Oh sì! Vi accompagno» e ci fece strada lungo il negozio che quanto a cianfrusaglie faceva concorrenza all’ufficio di Walgreen. Era proprio lui, il pianoforte dal color marroncino con la scritta Blankenstein al centro poco sopra la tastiera. Feci cenno a Wal che era quello giusto. Il giovane John Koch tolse il panno protettivo in lana rossa per farci notare il buono stato della tastiera ma tutto quello che notai io fu che il Si bemolle che fino a quel momento era mancato adesso riempiva lo spazio vuoto in armonia con gli altri tasti. 

Se ne accorse anche Walgreen che disse con straordinaria convinzione: «Cercavamo anche degli spartiti, uno in particolare anzi, com’è che si chiama, Hale?» 

«Downbeat of your heart» risposi pronto. Lui si spostò di pochi metri cercando in una libreria da pochi dollari tra libri sparsi e pieni di polvere. 

«Forse questo?» mi porse il foglio, lo stesso che avevo passato a Stiles quella sera, solo la versione più giovane, non ancora ingiallita. 

«Sì, è lui. Può darmi anche gli altri?» nell’altra mano notai tutti quelli che Stiles aveva suonato disperatamente. 

«Bene» intervenne Walgreen con i suoi modi garbati e felini: «Ci può concedere un attimo?» con un sorriso quasi subdolo, ma che convinse il proprietario a tornare all’ingresso. 

«E adesso che facciamo?» chiesi. 

«Facciamo un po’ di magia» mi rispose alzandosi teatralmente le maniche della camicia. Prese lo spartito (quello che avrebbe azionato il meccanismo) e lo posizionò di fronte a lui, poggiandovi affianco l’elsa, l’ultimo pezzo che avremmo trovato. Bisbigliando parole indecifrabili aprì il pianoforte e le note dal foglio si levarono come piume leggere incastrandosi tra le corde e i martelletti. Prima di richiuderlo creò un varco all’interno del quale inserì il pezzo e poi rimise tutto come pochi istanti prima. L’ultima cosa che fece fu muovere l’indice e il medio della mano sinistra in aria, verso l’alto, facendo sollevare il Si bemolle mancante. Lo poggiò nella mia mano. 

«Cosa devo farci?» chiesi. 

«Non so, quello che vuoi.» 

«Ma come facevi a sapere che la fessura sarebbe stata proprio in quel punto? E che il Si bemolle fosse proprio quello? Io non ti ho detto queste cose.» 

Mi guardò come si guarda un bambino a cui vanno spiegate le addizioni. 

«Non dovevi dirmelo tu. Tu sapevi che sarebbero quelle cose sarebbero state così perché lo hai visto dopo che io l’ho fatto, capisci?» 

«Più o meno… In ogni caso, adesso come facciamo a dirgli di vendere il pianoforte a Stiles? Con gli spartiti?» 

«Lascia fare a me» disse, e si diresse verso la cassa con un braccio dietro la schiena. 

«Mi dica, quanto vuole per il pianoforte?» L’antiquario parve immensamente felice di poter concludere la vendita: «1500 dollari, sapete l’ho fatto accordare da poco.» (In realtà mi sembrava un prezzo stracciatissimo ma mi ricordai solo dopo dell’inflazione.)

Nella mano nascosta di Walgreen comparvero due mazzette di banconote. 

«Questi sono tremila» li poggiò sul bancone e il volto di John Koch impallidì. 

«Le farebbero comodo, no?» 

Lui ci pensò, poi disse: «Beh sa… sono tempi difficili.»

«Lasci che le dica cosa succederà adesso. Lei prenderà quei soldi e conserverà il pianoforte. Non lo venderà per i prossimi ventun’anni. Poi un ragazzo, giovane, uno studente universitario, lo riconoscerà, vorrà comprarlo. Lei glielo darà alla metà del prezzo perché al pianoforte manca un tasto e gli regalerà anche gli spartiti che poco fa ha dato a questo signore. Cosa ne pensa?» Quasi non si mise a ridere pensando che fosse uno scherzo, ma lo sguardo fermo di Walgreen gli fece capire che non era così. 

«Affare fatto» rispose. 

«Perfetto. Oh e non si preoccupi del tasto mancante, lo abbiamo già tolto noi.»

Uscimmo dal negozio prima che potesse replicare. 

«Ma come sai che lo farà davvero?!» sbottai preoccupato dalla superficialità con cui aveva trattato la faccenda. Lui smise di camminare e si girò nella mia direzione: «Vedo che il concetto del viaggio nel tempo non ti è troppo chiaro, eh?» 

Lo guardai ancora più innervosito. «So che farà quello che gli ho detto perché tu mi hai detto che lo farà! É così difficile da capire?» 

Se ci fosse stato Stiles al posto mio avrebbe afferrato tutto al volo. 

 

Aspettai che fosse notte per entrare nella Cattedrale di Saint John. Posizionai la lama nel lampadario e mi presi un attimo, seduto sulle mattonelle fredde della grande navata, per ricordare quel momento, così distante nel tempo eppure così vivo nella mia mente, in cui avevo ascoltato per la prima volta il battito del suo cuore. Mi mancava da morire. Non aveva senso, eppure mentre per me la vita continuava a scorrere, immaginavo loro bloccati come in una palla di vetro con la neve, congelati in un momento grigio. Da soli, in pericolo, senza protezione. Avevo fallito, su questo non c’erano dubbi. Ma avrei rimediato. Li avrei salvati, a costo della mia stessa vita. 

 

XI


L’indomani mattina rifiutai l’aiuto di Walgreen per collocare il secondo pezzo nell’orologio a pendolo che in quel momento si trovava, secondo i miei calcoli, ancora (o di già, a seconda della prospettiva) a casa di Mrs. Crowford che abitava al 2340 di Powell Jr Boulevard, sempre al primo piano, dove anni dopo l’avrei raggiunta. 

Arrivai lì a piedi, camminando per le strade che conoscevo bene ma che sembravano appartenere ad un mondo parallelo per i dettagli talvolta piccoli come i segnali stradali e talvolta grandi quanto interi palazzi che non erano ancora stati costruiti. Prima che potessi attraversare la strada, senza neanche un piano, fui colpito di sorpresa dalla versione più giovane della Mrs. Crowford che conoscevo, incredibilmente somigliante alle foto di sua figlia Laura che aveva appeso nelle cornici di casa e che mi aveva mostrato, la stessa adolescente che camminava vicina a lei sorridente. 

Con lo stesso taglio di capelli, soltanto neri anziché bianchi, il volto più levigato e pieno, la postura più eretta. Davanti a loro di pochi passi camminava suo figlio più piccolo, anche lui somigliante alla mamma. Vederla così in forze, giovane e felice mi fece sentire sollevato. 

Aspettai che girassero l’angolo per avvicinarmi al portone del palazzo (lo stesso di sempre) e usando la giusta forza sulla maniglia - di un tipo vecchio e quasi arrugginito - riuscii ad entrare. Tesi l’orecchio per accertarmi che non ci fosse nessuno in casa e nel silenzio entrai manomettendo anche la porta del loro appartamento. 

L’arredamento, molto più antiquato di quello attuale, era nello stesso stile rustico e accogliente. Senza perdere tempo aprii la teca di vetro e posizionai il pezzo del pugnale nello scomparto che trovai con facilità. Richiusi la teca e uscii dalla casa, assicurandomi di non aver toccato nulla. Scesa la prima rampa di scale un signore di bell’aspetto con il cappello poggiato sulla testa mi salutò educatamente ma io impiegai più del dovuto per rispondergli, scosso dal fatto che nonostante non l’avessi mai visto prima lo avessi riconosciuto quasi subito: Mr. Crowford. 

Dovetti mantenermi alla ringhiera liscia e lucida delle scale, colpito dalla consapevolezza che avrei potuto parlargli. Sapevo che sarebbe morto di lì a pochi anni ma dirglielo non avrebbe potuto cambiare le cose, avrei solo infranto una regola sacra. D’altronde, cosa dirgli? Di godersi quegli anni? Di abbracciare più spesso i suoi figli e baciare più spesso sua moglie? Non avrebbe dato peso a queste cose dette da uno sconosciuto e prima che potessi pensare a qualcos’altro aveva già aperto la porta di casa sua e l’aveva richiusa alle sue spalle. 

 

Soltanto quando Walgreen mi chiese se ci fosse qualcos’altro di cui dovessimo occuparci mi resi conto che rimaneva soltanto una cosa che avrei dovuto fare e che era forse la più importante di tutte. Neanche un’ora dopo un portale mi lasciò in un corridoio isolato dell’University of Charleston e chiesi a Walgreen di non seguirmi dicendogli che ci saremmo rivisti in quello stesso punto dopo 40 minuti. Immerso nel clima studentesco in cui non mi sentivo per niente a mio agio partii alla ricerca della facoltà di lettere. Lì chiesi in giro fino a quando un ragazzo non mi indicò il gruppo di ragazze sedute vicino la fontana al centro della piazza. Quando mi avvicinai a loro la riconobbi subito: «Claudia?» chiesi. 

Avrei voluto aggiungere il suo cognome ma non lo conoscevo, non quello da nubile. 

Lei mi guardò timida, con espressione confusa. 

«Sì?» Vidi le sue amiche scambiarsi dei sorrisi eloquenti e emettere ridolini buffi. 

«Posso parlarti in privato?» Lei senza dire nulla si allontanò intimandomi di seguirla. Camminammo per poco fino a fermarci in un corridoio poco trafficato e lei finì casualmente rivolta verso un'alta finestra da cui entrava il sole caldo di mezzogiorno. Sotto la luce di quei raggi notai che aveva gli occhi di Stiles, la sua pelle liscia e le lentiggini sulle guance, le sue labbra carnose e il ramato dei suoi capelli (anche se quelli di lei erano acconciati in una pettinatura tipica degli anni ‘90 che ora sembrerebbe bizzarra a dir poco). 

«Dimmi tutto» sorrise curiosa e io non sapevo proprio da dove cominciare. 

Tirai fuori la collana con il triskele che Walgreen aveva creato su mia richiesta fondendo il Si bemolle del pianoforte. 

«So che sembrerà una cosa impossibile da credere, quindi non tenterò di spiegartela, ma ho bisogno che ti fidi di me. Non posso dirti quando, ne come lo so, ma avrai un figlio, un maschio.» 

Lei rimase scioccata. «Sei pazzo?!»

«No, no, ti giuro che non lo sono» il mio tono era così implorante che la convinse a continuare ad ascoltare. 

«Ho bisogno che tu dia questa a tuo figlio poco prima di…» mi bloccai. Non avrei potuto dirle che sarebbe morta. 

«Saprai quando sarà il momento.» Lei si sforzò visibilmente di cercare di capire quello che stavo tentando di dirle. 

«È importante» continuai. 

«E ti aspetti che io ti creda?» chiese sospettosa. 

«Sì… in realtà so che farai quello che ti chiedo ma non so ancora cosa ti convincera a farlo…» mi lasciai sfuggire. 

«Ma di cosa stai parlando?!» Mi bloccai. Non sapevo cosa dire, cosa fare, come convincerla e non avrei potuto costringerla. Lei era l’unica che avrebbe spinto Stiles a cercare un significato dietro il simbolo, a non lasciare andare via dal suo appartamento senza avergli detto la verità. Immobile, senza speranza e alcun appiglio, rimasi senza parole. Lei confusa mi superò per andar via e mi voltai implorandola: «Ti prego! Prendi questa e digli che un giorno si troverà nel posto giusto al momento giusto!» Lei si fermò e mi guardò di nuovo. «Se lo farò mi lascerai in pace?» 

«Sì.» Prese la collana dal laccetto penzolante nella mia mano. 

«Bene allora» e se la infilò in tasca scomparendo dietro il muro di mattoni grigi nella folla di studenti che uscivano da un’aula. 

 

«Tutto bene?» chiese Walgreen pochi minuti dopo avermi riportato indietro mentre fumava una sigaretta lunga e sottile. 

«Non sono sicuro che farà quello che le ho chiesto» confessai sprofondando nella poltrona davanti a lui. 

«Se da dove vengo io lo ha fatto vuol dire che lo farà di nuovo, giusto?» chiesi gesticolando disperato e consapevole che la mia domanda era confusa e intricata. 

«Non è una certezza» rispose soffiando via il fumo dalla bocca. 

«Ma tu dall’antiquario hai detto che-» 

«Diciamo che ne sono sicuro al 80%, okay?» mi interruppe, poi fece un tiro e continuò: «Adesso hai fatto tutto quello che dovevi fare?» Pensai e ripensai. 

«Credo di sì.» 

«Bene, allora chiamo Hebert.» 

«Chi è Hebert?» 

«Il Nissen che deve cancellarmi la memoria, ricordi?» 

«Io come torno indietro?»

«Ci penso io a te. Domani mattina. Cerca di riposarti, c’è un Ghul ad aspettarti dall’altro lato» spense la sigaretta schiacciandola nel posacenere dorato (lo stesso che gli avevo visto usare anni dopo). 

 

La mattina seguente indossai gli stessi vestiti di quando ero arrivato nel 1996 due settimane e mezzo prima (non che avesse importanza, mi spiegò Walgreen, sarei stato lo stesso Derek che ero allora). 

«Wal… prima che io vada…» cercai di trovare le parole ma non ero mai stato un campione ad esprimermi. «Grazie» tagliai corto, sperando che capisse quanto significato c’era dietro quella singola parola. Sorrise mostrando i denti scintillanti e perfetti. 

«É stato un piacere, Derek. Ti direi di passare a trovarmi quando vuoi ma… immagino che dovrò semplicemente aspettare qualche anno per incontrarti di nuovo» poi ci pensò su e commentò tra sé e sé: «E comunque allora non mi ricorderò di te.» 

Poi tornò alla realtà: «Allora!  Devi dirmi il momento e il luogo esatto in cui vuoi che ti porti» disse mentre si arrotolava le maniche della camicia e piantava i piedi saldi nel pavimento. Sul luogo non avevo dubbi ma il momento esatto… ripercorsi in mente gli eventi di quella notte: sicuramente prima che Stiles e Cam rimanessero feriti, prima che io rimanessi quasi svenuto a terra. Poi ricordai: le campane di St. Jean Baptiste Church che scoccavano all’1. Cercai di quantificare il tempo che era passato da quando avevamo lasciato il mio appartamento a mezzanotte fino a quando ero arrivato nella piazza di Central Park ma dovevo essere estremamente preciso, avevo una sola occasione e se avessi sbagliato momento, magari successivo alla morte di Cam, non avrei potuto rimediare. Il momento giusto sarebbe stato appena prima che iniziasse lo scontro, anche se il Ghul sarebbe stato al pieno delle sue forze. 

«Allora?» mi intimò Walgreen. 

«Bethèsda Terrace, Central Park. Il 13 Ottobre 2019, alle 00:40.» 

Lui annuì e cominciò a muovere le braccia con la grazia che gli apparteneva, quasi danzando, creando dal nulla un vortice di energia e bisbigliando le parole latine che riconobbi. Chiusi gli occhi come quando la stessa magia mi aveva portato indietro, vidi il nero delle mie palpebre tingersi di rosso e poi lo stomaco sembrò attorcigliarsi e il fiato mi mancò. Ero pronto a combattere per riprendermi quello che avevo perso. 

 

XII


La prima cosa che mi accolse di nuovo nella mia linea temporale fu l’aria gelida di quella notte e poi il calore che proveniva dalla ferita all’altezza dello stomaco che avevo. Ci misi poco tempo per adattarmi alla realtà e riallinearmi con me stesso. Per una volta la vita era stata clemente con me: il Ghul portava i tagli leggeri e sparsi che ero riuscito ad inferirgli e combatteva con Walgreen che, in forze, tentava di trattenerlo con la magia. Mi girai in direzione del cespuglio dove sapevo fossero nascosti Cam e Stiles e la vidi, viva, con gli occhi agili e vispi, la pelle ancora rosea, il cuore che batteva. Avrei voluto correre verso di lei per abbracciarla. Stiles non c’era, ma questo lo immaginavo: nei paraggi non c’era il Dirkey 

e lui lo stava cercando dall’altra parte del parco. 

Come avevo fatto la prima volta presi la rincorsa in direzione del Ghul e saltando, mentre Wal lo teneva immobile, gli conficcai gli artigli a fondo, rendendolo cieco all’occhio sinistro. Luì urlò di nuovo (mi sembrava di avere un deja-vu ma tutto si muoveva più lentamente ed esattamente come ricordavo) e poi assestai il calcio a mezz’aria. La sua reazione fu la stessa, uno scatto d’ira feroce verso di me, con un’unica differenza: questa volta sapevo che avrebbe colpito. Paradossalmente fu proprio quello il punto che aveva cambiato le sorti dello scontro: la scarica di pugni che mi aveva inferto e che mi aveva costretto a terra era stato l’evento che aveva permesso che Walgreen venisse messo fuorigioco, che Cam intervenisse morendo e così via. Quello, fu il momento che cambiai schivando un colpo dopo l’altro e mentre mi spostavo agile e cercavo di sfruttare il suo punto cieco a sinistra (la mia destra) mi accorsi che Walgreen sparì in una nuvola di fumo. Quella distrazione quasi mi costò un colpo dritto sul viso. Ripresi a concentrarmi, convinto che avesse un buon motivo per sparire in quel modo, ma in realtà tremavo al pensiero di non sapere cosa sarebbe successo adesso che avevo assaggiato il sapore della certezza (era questo che aveva spinto Walgreen nella spirale dei viaggi del tempo?). 

Riuscii a colpirlo nel punti in cui il Dirkey gli aveva procurato dei tagli - anche se superficiali - e capii che quella non poteva essere una soluzione. Si trattava solo di temporeggiare nell’attesa che Stiles tornasse con il pugnale tra le mani e soprattutto di non farsi abbattere per evitare l’intervento di Cam. Mentre tiravo un gancio destro sull’occhio fuori uso del Ghul sentii chiamare il mio nome alle mie spalle. Mi girai, nei pochi istanti che la sua instabilità mi concedevano, e vidi Walgreen, quasi una visione ancestrale, al centro delle scale, illuminato dalla luna come un riflettore puntato su di lui: stringeva il Dirkey tra le dita. 

Lo tirò nella mia direzione e lo vidi vorticare e tagliare l’aria senza sforzo. Il contatto con il manico mi diede una scarica di energia e con un gesto rapido infilai la lama appuntita nel cuore del Ghul. Urlò disperato, cadde sulle ginocchia e poi si accasciò sul pavimento, dove diventò cenere e polvere disperdendosi nel vento. Quando di lui non rimase più traccia il silenzio della piazza piombò su di noi, ancora increduli, con il fiato corto che iniziava a riprendersi. Piccoli e gelidi fiocchi di neve iniziarono a scendere posandosi sulle mattonelle del pavimento e sciogliendosi nell’acqua della fontana. Raccolsi il pugnale da terra, girandomelo tra le mani come un trofeo. Quando mi girai Walgreen mi sorrise, con gli occhi quasi lucidi, stanco ma contento. 

«Ce l’abbiamo fatta, Hale!» mi corse in contro, ci stringemmo in un abbraccio vittorioso. Cam ci raggiunse. La strinsi così forte che pensai di averle fatto male. Il suo profumo era lo stesso e non fui mai tanto felice di sentirlo. 

«Non immaginate quanto sono felice di vedervi» dissi loro. Mi guardarono - giustamente - confusi ma non dissero nulla. Non riuscivamo più a smettere di sorridere, Cam fece una giravolta con le braccia spalancate e il viso rivolto al cielo sotto i fiocchi di neve. 

«Dov’è Stiles?» chiesi ancora raggiante. Cam fermò la sua giravolta per guardarmi, come Walgreen, con le sopracciglia corrucciate. 

Dissero quasi in coro: «Chi è Stiles?» 

Quello, fu l’esatto momento in cui il mondo mi crollò addosso e non sentii più il pavimento sotto i piedi. 

 

Mentre la neve continuava a scendere calma, circondandoci come in una cartolina di Natale, Walgreen aveva già capito cos’era successo, troppo esperto e bruciato sulla sua stessa pelle per non riconoscere un viaggiatore del tempo, e più precisamente, uno che aveva fatto casini. Senza che io dicessi nulla (anche perché sentivo di avere un’espressione terrorizzata e affranta che parlava da sola) mi chiese: «Dove ti ho mandato?» con un velo di colpevolezza nella voce. Cam ci guardò senza capire. 

«Nel 1996» risposi. 

«Abbiamo molte cose da dirci, è meglio se andiamo via di qui» concluse. 

 

Ci sedemmo nella prima tavola calda che trovammo aperta, non ricordo la strada, non ricordo il nome del posto: camminavo per inerzia seguendo loro due. Ordinammo tre caffè doppi (come se l’adrenalina della battaglia non fosse abbastanza per renderci frenetici ed irrequieti). Ci sedemmo nel tavolo più lontano possibile dall’ingresso nonostante il posto fosse quasi completamente vuoto. La cameriera ci guardò con circospezione a causa dei tagli e dei vestiti sporchi di sangue. 

Io fissavo un punto a caso sulla parete spoglia. 

«Allora» disse Cam stanca e agitata dal silenzio «potete spiegarmi cos’è successo?»

Io non mi mossi, lasciai parlare Walgreen: «Per quello che posso immaginare, Derek viene da una linea temporale diversa da questa.» Mi guardarono entrambi in attesa di un cenno di conferma, così annuii. 

«Deve essere successo qualcosa durante lo scontro che ci ha costretti ad usare l’ultima arma che avevamo a disposizione, dico bene? Altrimenti non mi avresti convinto a farlo.» Restai immobile. 

«Ma ti ho mandato troppo indietro nel tempo e quando sei tornato, cioè ora, durante lo scontro, questo... Stiles non era con noi, e noi non sappiamo chi sia.» 

Un’altra coltellata mi attraversò lo stomaco. Avrei voluto urlare fino a perdere la voce oppure chiudermi nel silenzio della mia mente, a torturarmi chiedendomi dove avessi sbagliato, a ripensare a quello che avevo perso. Ma dovevo loro una spiegazione. Così cominciai dal principio, dalla mattina in cui Cam mi aveva scritto portandomi sul luogo del primo omicidio. Gli raccontai del mio primo scontro con il Ghul, di essere rimasto quasi ucciso e che Stiles mi aveva salvato, della collana che aveva, del tempo che avevamo passato insieme cercando le soluzioni degli indizi che ci dava Walgreen, di come ci eravamo avvicinati. Ascoltavano attenti, non si smossero quando dissi loro che ci eravamo innamorati. Raccontai dettagli che sarebbero serviti per fargli capire quello che era successo dopo: il pianoforte con il tasto mancante, il pezzo dentro il pianoforte. Dello scontro: la parte che fece più male. 

«Mi ha colpito ancora e ancora, fino a lasciarmi sanguinante e incapace di muovermi a terra. E poi ha messo KO anche te» dissi guardando Walgreen. 

«Così tu sei intervenuta e gli hai scaricato un caricatore intero addosso, ma lui non si è fatto niente.» Non ce la facevo a rivivere quei momenti pezzo dopo pezzo. Non volevo dirle quanto fosse stata ingenua a volerlo colpire con un pugnale che non fosse il Dirkey perchè aveva fatto esattamente quello che avrei fatto io. 

«Ti ha uccisa» dissi in un fremito. 

«E poi ha ferito Stiles, sarebbe morto anche lui.» Loro mi guardarono sconvolti. Cam si portò una mano sul collo in segno di stupore, nello stesso punto in cui il Ghul aveva reciso la sua pelle in un taglio profondo (mi chiesi allora se fosse una coincidenza o se i nostri gesti non fossero altro che ripercussioni di altre versioni di noi stessi). 

«Per questo ho acconsentito» commentò Walgreen. 

«Eri stanco, sfinito. E mi hai avvisato. Ma io non ti ho dato retta. Così da un salto che doveva farmi tornare 30 minuti indietro mi sono trovato nell’aprile del 1996.»

«Oh mio Dio» si lasciò sfuggire Cam. 

«Ti ho trovato» dissi a Walgreen. 

«Ho conosciuto Murph. E tu mi hai aiutato a capire che tutte le cose che erano successe, la collana di Stiles, i pezzi del pugnale che erano collegati a noi, il pianoforte di Stiles, era tutto collegato a quel viaggio nel tempo. Lo hai detto tu. Così abbiamo cercato i pezzi insieme e li abbiamo messi dove noi due li abbiamo ritrovati 23 anni dopo. Abbiamo trovato il pianoforte, lo abbiamo lasciato all’antiquario dove Stiles lo avrebbe comprato, abbiamo pensato a tutto» la voce iniziava a cedermi e tremava dietro il mio nervosismo. 

«Quel maledetto pezzo mancante. Gli spartiti. A tutto. E poi ho trovato la madre di Stiles, le ho chiesto di dare la collana a suo figlio e lei ha detto che lo avrebbe fatto» gli occhi mi diventarono umidi ma non mi importava: anche loro due li avevano bagnati. 

«Tu mi hai portato indietro a stanotte» conclusi. 

«E mi sono fatto cancellare la memoria perché altrimenti avrei cambiato la linea temporale che conoscevi» spiegò da solo. 

«Hebert» confermai. 

«Certo» annuì, come per dire che quella era la scelta più logica. 

«Quindi cos’è che è andato storto?» chiese Cam. 

«Non lo so» risposi. 

«Neanche io» disse Walgreen sovrappensiero. 

«Ma non è detto che sia stata la collana.» Si interruppe perché vide la cameriera portarci i caffè. Aspettò che lei andasse via per riprendere: «Potrebbe anche darsi che lei ha fatto quello che le avevi chiesto, ma se Stiles non si trovava nel parco in cui hai affrontato il Ghul la prima volta e non ti ha mai visto, non ti ha mai salvato… è lì il problema. Perché nella linea temporale in cui siamo ora quella notte hai chiamato me e io sono venuto a salvarti. Io ho trovato l’artiglio per terra.» 

La tazza scottava troppo anche solo per toccarla e io cercavo di concentrarmi su qualsiasi altra cosa che non fosse Stiles anche se dovevo continuare ad ascoltare. 

«Siamo stati noi ad aiutarti a trovare i pezzi del Dirkey» continuò Cam. 

«Il primo nella Cattedrale di Saint John, il secondo nell’orologio nell’appartamento di Bram Crowford, il terzo nel pianoforte dell’antiquario sull’84esima che si è aperto con un incantesimo di Walgreen.» 

 

Non sapevo cosa dire. Se era stato il destino a mandarmi nel 1996 quello stesso destino mi aveva tradito e adesso si prendeva gioco di me. 

«Cosa posso fare adesso?» chiesi in direzione di Walgreen disperato e afflitto. 

«Non penso ci sia qualcosa da fare, Hale.» 

«Non può tornare di nuovo indietro e sistemare le cose?» provò Cam, e la ringraziai mentalmente per averlo chiesto perché io conoscevo già la risposta a quella domanda ma avevo bisogno di sentirla. 

«No, quella è la cosa più stupida che possiamo fare. Sconvolgerebbe tutto ancora di più e farebbe danni ben peggiori di questo. In più, non sappiamo neanche cosa sia andato storto» Walgreen concluse la frase e bevve un sorso dalla sua tazza. 

 

XIII

 

Nei giorni che seguirono vissi una vita al rovescio in cui tutto sembrava uguale a prima tranne per il fatto che nulla lo era. Le giornate diventavano sempre più fredde e il sole tramontava sempre prima ma assistevo alla mia vita da spettatore silenzioso all’interno di casa mia, uscendo solo per fare la spesa e salutare Mrs. Crowford. 

Fortunatamente lei non era cambiata per niente, era ancora la vecchietta vispa e arzilla che ricordavo. Si accorse subito che qualcosa non andava in me ma non potevo rispondere alle sue domande con sincerità, quindi mentivo dicendo che non mi sentivo molto bene e lei si lasciava convincere aggiungendo raccomandazioni sul fatto che bisognava coprirsi per bene e non uscire senza sciarpa in quel periodo.

 

Meditai molto su quello che era successo. Ripercorsi centinaia di volte mentalmente le tappe di quel viaggio mai esistito in un anno che adesso odiavo follemente. Misi in discussione ogni scelta che avevo preso. Se non avessi convinto Walgreen a farmi viaggiare nel tempo forse sarei riuscito a portarlo in ospedale abbastanza in fretta perché vivesse (forse!) ma Cam sarebbe morta e io avevo promesso di salvarli entrambi. 

Vivere in quella casa piena dei nostri ricordi fece ancora più male: quello che mi rimaneva non era altro che il ricordo di qualcosa che non era mai accaduto, un’ombra sottile che diventava ogni giorno più sfocata e io avevo paura che avrei dimenticato quello che c’era stato tra di noi, che avrei dimenticato di Stiles come avevano fatto tutti gli altri. 

 

Walgreen venne a trovarmi. Disse che aveva una buona notizia: era riuscito a scovare il ragazzo che aveva dato vita al Ghul. Mi raccontò che la notte dello scontro era stato così male (perché le ferite del demone avevano impatto su di lui, in qualche modo) che si era trascinato in strada, aveva chiesto aiuto e qualcuno lo aveva portato all’ospedale. 

«La morte del Ghul lo ha liberato di tutto il dolore che si portava dietro» disse sollevato. «Certo, porta ancora i traumi di quello che ha passato, ma sta molto meglio. Sono andato a trovarlo.» 

Preparai meccanicamente del thè cercando di ignorare il fatto che nello scaffale mancassero le confezioni che mi aveva regalato Stiles. Walgreen mi chiese come stavo, visibilmente preoccupato per me. Disse di essere molto dispiaciuto, che si sentiva responsabile. Lo rassicurai del fatto che non fosse colpa sua. Prima di andar via e sparire in un vortice nuvoloso precisò che se avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa avrei potuto chiamarlo. 

 

Il giorno dopo trovai finalmente il coraggio di uscire per cercare Stiles. Forse sua madre non gli aveva dato la collana o forse qualcosa gli aveva impedito di essere al St. Mary's Park quella notte, ma ero certo che esistesse, che fosse nato e che la sua vita non fosse troppo diversa da come la conoscevo (senza l’unico dettaglio che io non ne facessi parte).

Meditai molto sul fatto di cercarlo. Quello che mi frenava era la paura di vedere una sua versione che non conoscevo, uno Stiles diverso da quello che amavo, e cosa peggiore di vedere i suoi occhi passare su di me con indifferenza, senza riconoscermi. Nei giorni precedenti Cam era passata a trovarmi diverse volte e avevamo parlato (lei molto più di me). Mi aveva consigliato di provare a cercarlo, di conoscerlo. Nella sua visione ottimistica del mondo aveva previsto che potessimo innamorarci ancora, come la prima volta. Ma io non sapevo come già fosse stato possibile una volta. Trovavo assurdo che un umano potesse vedere in me - un lupo mannaro con artigli e zanne lunghe fatte per squarciare - una persona meritevole di amore. Poi capii che quello che ci aveva uniti era stata la caccia di quei pezzi, il brivido della ricerca, vivere giorno per giorno uno accanto all’altro con la consapevolezza di fare qualcosa che salvi delle vite. Certo, questo poteva essere lo stesso Stiles, ugualmente curioso, intelligente e capace di vedere il buono dentro di me, ma io non ero più lo stesso e le circostanze che ci avevano unito, neanche quelle erano le stesse. Presentarmi alla sua porta con una verità pesante come quella del mondo soprannaturale senza una spiegazione nella mia testa non aveva senso e ogni scenario che immaginavo finiva con me che lo spaventavo o una vita di menzogne. 

Peggio ancora sarebbe stato presentarsi a lui dicendogli che in un’altra linea temporale eravamo felici insieme e che poi lui stava per morire così per salvarlo avevo viaggiato nel tempo ma qualcosa era andato storto e lui non si ricordava più di me. Avrebbe chiamato la polizia o l’ospedale per farmi internare.

Pensavo a tutte queste cose mentre mettevo un passo dopo l’altro senza neanche dover prestare attenzione alla strada perché anche le mie gambe l’avevano imparata a memoria: quella per andare al suo appartamento. 

Non avrei mai bussato, ovvio. Il suo nome sul citofono era scritto con lo stesso carattere di quello che ricordavo e questo mi fece sentire un po’ meglio. E adesso? Avrei potuto aspettare che uscisse di casa, o che tornasse a casa - impossibile saperlo -, ma decisi di camminare. Gironzolai a vuoto per un po’, realizzando soltanto in quel momento quanto mi fosse mancata New York e in particolare la New York che ricordavo. Calpestavo le foglie secche di diverse tonalità di marrone e arancione che formavano immensi tappeti folti sui marciapiedi di Manhattan e che scricchiolavano sotto il mio peso. Un leggero venticello muoveva le insegne dei locali appese ai pali della luce spenti e l’ombra più alta e sottile di me mi seguiva silenziosa. 

Finii per trovarmi in Delancey Street senza accorgermene (o facendo finta di non accorgermene) e di proposito continuai fino a cercare con lo sguardo il leone sul palazzo di mattoni rossi. E lui lì, immobile e fiero, mi guardava dall’alto in basso quasi giudicandomi. Tutto era rimasto uguale. Entrai nello Starbucks lì vicino, ordinai e mi sedetti sullo sgabello vicino al bancone aspettando il caffè. 

Che il destino ce l’avesse con me lo capii quando la porta si aprì e Stiles entrò mentre parlava con una sua amica (Kat mi sembrò fosse il suo nome, l’avevo vista un paio di volte). Riconobbi la sua voce e mi girai di scatto. Con una fitta al petto notai che era lo stesso identico Stiles che ricordavo, stessi capelli scompigliati, la stessa camicia azzurrina sotto il cappotto leggero che indossava la prima volta che l’avevo visto suonare, lo stesso sorriso luminoso. Parlavano di un esame ma non riuscii a concentrarmi troppo su quello che dicevano, terrorizzato dal fatto che io fossi a soli due metri da lui e che mi avesse visto (i suoi occhi erano passati sulla mia figura, ne ero certo) ma non mi avesse riconosciuto. Per lui non ero che una persona qualsiasi, seduta in un bar, con lo sguardo triste. Ordinò un thè freddo, pensai che quella fosse l’ennesima prova che lui era lo stesso Stiles che conoscevo. Andarono via non appena la cameriera gli consegnò l’ordinazione. Restai a rimuginare davanti il mio caffè per un altro po’ fino a quando notai il sole abbassarsi e decisi di tornare a casa a piedi. 

 

La conclusione a cui arrivai mentre percorrevo la 5th avenue era quella che avrei voluto evitare di accettare, ma che alla fine continuava a bussare alla porta del mio cervello presentandosi come la verità che non avrei potuto ignorare. C’era un fatto tangibile e reale (per quanto accaduto in una linea temporale diversa, cancellata, non saprei) ma che comunque era esistito: Stiles era stato ferito mortalmente. E per quanto una parte di me continuasse a ribadire il fatto che, materialmente, era stato il Ghul a trafiggergli il fianco, una parte molto più rumorosa continuava a ribattere che era successo perché io avevo lasciato che si trovasse coinvolto in quella situazione. L’altra parte allora diceva che Stiles sapeva a cosa andava incontro, che era consenziente e che aveva insistito per partecipare allo scontro, alla ricerca, a tutto. La parte rumorosa chiuse la discussione chiarendo che non sarebbe successo nulla se non ci fossimo incontrati. Difatti, lo Stiles di adesso camminava felice e sereno, senza pericoli e mostri che tentassero di ucciderlo. Ecco qual era la verità: che il mio mondo era una minaccia per la sua vita. Che se non fosse stato il Ghul sarebbe stato il demone successivo o quello ancora dopo, ma sarebbe rimasto ferito. Ero io il pericolo. Come uno stupido avevo lasciato che lui fosse coinvolto in una situazione buia e infida che conduceva inevitabilmente alla morte. Non ragionavo più, avevo solo pensieri che non mi appartenevano e cercai di smettere di pensare, a tratti con successo a tratti sprofondavo, e temevo che Stiles sarebbe stato per sempre il mio Si bemolle, il pezzo mancante che avrebbe reso la mia vita incompleta, perso nel tempo insieme a tutti i ricordi che avevo di lui. 

 

XIV


Tre giorni dopo mi svegliò il rumore del citofono. Mi trascinai stanco vicino la porta. 

«Chi è?» 

«Sono Cam, apri.» Feci scattare il portone e lascia la porta d’ingresso socchiusa così da tornare con la faccia sui cuscini del divano. 

«Hale, questo posto fa schifo» fu la prima cosa che disse quando entrò in casa chiudendosi la porta alle spalle. 

«Mmmmh» farfugliai senza muovermi. La sentii appoggiare la borsa e il cappotto sul tavolo e tirare su le tende facendo entrare fasci di luce bianca. 

«Dio mio, da quanto tempo non esci?» Non risposi. Lei aprì due balconi per cambiare l’aria. Riempì una brocca d’acqua e la distribuì tra le piante che ne avevano visibilmente bisogno. La sentivo muoversi da una parte all’altra dell’appartamento. 

«Cam, fermati» la pregai. Lei venne a sedersi di fianco a me. 

«Senti, non puoi continuare così» disse. 

«L’ho incontrato» confessai. Lei non parve particolarmente stupita. 

«Anche io l’ho visto.» 

«Che cosa?!» 

«Che ti aspettavi, scusa? Faccio la detective di professione. Volevo vederlo. Come ti è sembrato?» 

«Vivo» dissi ironicamente ma senza sorridere. «E felice.» Lei si incupì. 

«Potresti provare a parlargli» consigliò. Non me la sentii di tornare sull’argomento Sono la causa della sua quasi morte e rappresenterei un pericolo per la sua vita. 

«Non so se è una buona idea.» 

«Ho scoperto che ogni venerdì sera suona da Brandy, il bar sulla 84esima ad Est. Potresti andarci stasera.» Quella era la prima vera novità nella nuova vita di Stiles. 

«Va bene» dissi ma non avevo nessuna intenzione di andarci, stavo già abbastanza male così. 

«Adesso devo andare, promettimi che metterai un po’ apposto.» 

«Promesso» e riprese in mano borsa e cappotto e andando via lasciò una scia di profumo. 

 

Impiegai un paio di ore per convincermi ad alzarmi e solo quando ci riuscii mi resi conto delle condizioni pietose del mio appartamento. Raccolsi prima tutta la spazzatura (cartoni di pizza e scatoli di take-away principalmente) poi lavai i piatti sporchi e le tazze che usavo per la colazione (non ne avevo più di pulite) che strabordavano dal lavandino. Infine raccolsi i panni sporchi sparsi in giro e li misi nella cesta per il bucato. Feci una doccia infinita e scesi nella lavanderia nel seminterrato con i gettoni in tasca. Non facevo una lavatrice da settimane. Riempii il cestello capo dopo capo fino a quando non mi passò per le mani quello che mi fece sussultare per un secondo: il pantalone che indossavo la notte dello scontro con il Ghul. 

Ma era impossibile, mi dicevo, una fantasia mi saltellava come un grillo nella mente. 

Con un gesto lentissimo portai la mano nella tasca destra anteriore del pantalone nero, macchiato di sangue in alcuni punti e sporco di terriccio in altri. Sentii il formicolio della carta sotto i polpastrelli. Tirai fuori il pezzo di carta come se stessi disinnescando una bomba, e lei, la bomba, era proprio lì nelle mie mani: il tre fogli pentagrammati dal titolo What was left behind. Mi sforzai di fare respiri profondi. Come diavolo era possibile? Se in quella linea temporale non ci eravamo mai conosciuti perché lo spartito era lì? Sentii la testa girarmi. L’ennesimo scherzo del destino? Adesso una rabbia irruenta stava prendendo il sopravvento. Non bastava quello che avevo subito? Chiamai Walgreen che rispose al terzo squillo. 

«Hale, che piacere sentirti!» 

«Wal devo chiederti una cosa» continuavo a fissare il foglio come se fosse un’allucinazione. «È possibile che una cosa che mi ha dato Stiles quella notte e che io avevo con me quando sono tornato indietro adesso sia ancora qui?» Sperai di essermi spiegato. 

«Non sono sicuro di aver capito bene, ma da quello che ho capito… direi che è impossibile.» «Allora perché sto guardando uno spartito che Stiles mi ha dato quella sera e che avevo in tasca?» 

«Non lo so, non dovrebbe essere possibile… quel foglio non è mai esistito in realtà.» 

Ignorai la fitta che mi provocarono quelle parole, ferme e convinte, che rendevano il periodo più felice della mia vita “una cosa che non era mai esistita in realtà”. 

«Ti dico che ce l’ho qui» insistetti. 

«Hale, non ho risposte a tutto. Sarà un’anomalia, un residuo temporale, non lo so.» 

Restai in silenzio. 

«Perché non ci vediamo stasera?» propose. 

«Lo dico anche a Cam, vediamoci da te alle 20» organizzò prima che potessi dissentire e mise giù il telefono. Misi la moneta nella lavatrice e tornai in casa. Lo spartito, come un cadavere trovato nel bosco nei film polizieschi, era immobile sul tavolo e io camminavo in tondo, avanti e dietro, come se da un momento all’altro potesse cominciare a parlare. Ma (ovviamente) non disse nulla. Avrei voluto essere una di quelle persone che riescono a leggere la musica dal pentagramma ma non ne ero in grado. Non avevo nessuna idea di quello che avesse da dire e non potevo fare a meno di pensare che le note, le chiavi di violino e quelle di basso disegnate all’inizio di ogni rigo e i tratti, segni che non riconoscevo, erano tutto quello che rimaneva dello Stiles che conoscevo. 

Era sua la grafia virgolettata e corsiva che aveva scritto pianissimo in alto in un punto preciso. Decisi di chiudere lo spartito in una scatola e di riporla nell’ultimo cassetto del comò in soggiorno facendo finta che non esistesse. 

 

Alle 20 Walgreen e Cam uscirono da un portale materializzandosi davanti il divano. «Bussare non si usa più?»

«Però bisogna ammettere che è una cosa molto comoda» Cam sorrideva mentre si spolverava (senza motivo) il cappotto bianco. 

«Sei pronto?» chiese Walgreen che per l’occasione aveva indossato la più brillante delle sue camicie di raso e un trucco tutt’altro che modesto, dello stesso rosso scuro delle sue scarpe coccodrillate. 

«Non voglio uscire» dichiarai cambiando posizione sul divano e facendo finta di concentrarmi sul quiz televisivo che guardavo sempre con Stiles. 

«Dai forza, ti distrai un po’» Cam si sedette vicino a me. 

«Non mi va, uscite voi, dico sul serio.» 

 

Mezz’ora dopo uscivamo tutti e tre dal palazzo e io non ero in grado di ricordare come mi avessero convinto per cui arrivai alla conclusione che Walgreen avesse usato la magia su di me. Non mi dispiaceva troppo infondo, perché sapevo di aver bisogno di aria fresca. Li seguii senza far caso alla strada, concentrandomi sui suoni della città, le luci dei locali e dei ristoranti accese, i profumi più diversi mescolati insieme. Era una cosa che non facevo da tempo: utilizzare i sensi da lupo. Era come se si fosse assopito, riposava dentro di me senza ricevere stimoli e piano piano lo stavo risvegliando. 

Camminando un passo dietro di loro notai anche quanto Cam e Walgreen fossero diventati amici, cosa che non ricordavo affatto e che capii solo in quel momento fosse una conseguenza del mio viaggio nel tempo: probabilmente avevano legato durante la ricerca dei pezzi del Dirkey e adesso camminavano sottobraccio come due vecchi amici di lunga data chiacchierando serenamente: un’accoppiata che non avrei saputo descrivere per quanto fossero diversi tra loro ma che evidentemente funzionava. 

 

Ero così distratto dal concentrarmi sui suoni che sentivo che finii per non accorgermi dove fossimo quando entrammo in un locale con le luci soffuse e tinte di blu. Ci sedemmo in uno dei pochi tavoli liberi laterali alla sala, vicini alla vetrata che dava sulla strada. Quando il cameriere venne ad ordinare Walgreen chiese tre vodka martini senza consultarci. 

«Lo sai che non riesco ad ubriacarmi» commentai dopo che il ragazzo in camicia bianca e taccuino elettronico era già andato via. 

«Perché smettere di provarci? Offro io stasera» sorrise. In poco tempo i drink furono serviti al nostro tavolo. Brindammo. Buttai giù in un sorso. La gola mi bruciò per meno di un secondo e poi basta, come se avessi bevuto acqua. Cam bevve il suo a piccoli sorsi. Il nostro cameriere salì su quello che riconobbi solo in quel momento essere un piccolo palco improvvisato e annunciò qualcosa a cui non prestai attenzione. Continuavo a finire con la mente allo spartito chiuso nella scatola, quell’inspiegabile incidente del tempo. 

 

Poi Stiles apparve sul palco. Pensai che Walgreen avesse messo qualcosa nel mio bicchiere, invece lui era proprio lì e girando lo sguardo sopra il bancone degli alcolici notai l’insegna al neon rossa che diceva «Brandy’s». Collegai che quel giorno era venerdì. «Siete… siete due…» la voce mi tremava. 

«Belle persone?» provò a finire Walgreen. 

«Non è quello che stavo per dire.» Stiles sorrideva al pubblico, ringraziò tutti di essere lì e andò a sedersi dietro il pianoforte, sul palco rialzato e illuminato di luce bianca che faceva contrasto con l’atmosfera blu e scura. Lo raggiunsero un chitarrista e una cantante e iniziarono a suonare musica calma e di sottofondo. 

«Tutto bene?» chiese Cam. Non sapevo come rispondere. Avrei voluto alzarmi e andarmene, correre via da quella realtà che non era la mia, eppure qualcosa mi teneva incollato alla sedia, con lo sguardo fisso su di lui, incapace di interrompere quel momento. Mentre lui suonava il tempo sembrava non essere trascorso, o meglio, non essere cambiato. Era lo stesso che suonava per me nel suo appartamento come se fosse la cosa più semplice del mondo. Non riuscii a focalizzarmi su altro, neanche sulla cantante vestita da cerimonia che reggeva con una mano l’asta del microfono fino a quando annunciò una piccolissima pausa e si diresse verso il bancone per bere. Stiles non si mosse dallo sgabello da pianista e iniziò a suonare da solo, forse la prima cosa che gli venne in mente. Paradossalmente il chiacchiericcio di fondo delle persone sparse ai tavoli si placò solo in quel momento e tutti ipnotizzati lo guardavano in silenzio. 

«Hale, dove hai lo spartito?» mi sussurrò Walgreen all’orecchio. 

«Eh?» 

«Dove hai lo spartito che hai trovato nei pantaloni?» 

«A casa, perché?» 

«A casa dove?» 

«In una scatola in uno dei cassetti del comò nel soggiorno» risposi automaticamente, senza neanche connettere il significato della domanda. Vidi un piccolo fascio di luce verde nascere e morire in fretta sotto il nostro tavolo e il secondo dopo Walgreen spostò i bicchieri quasi completamente vuoti per far spazio alla scatola rettangolare che conoscevo bene. 

«Ma che fai?» chiesi quasi innervosito. 

«Un esperimento» rispose tranquillo mentre sollevava il coperchio e prendeva il contenuto. «Wal, sarà meglio che tu non-» non feci in tempo a finire la frase che lui soffiò teatralmente sul foglio e questo iniziò a fluttuare in alto, sulle teste ignare dei clienti, fino a materializzarsi sul leggio del pianoforte di fronte a Stiles. Smise di suonare, non bruscamente, ma accorciò il brano terminando in un punto che sicuramente non era la fine. 

Seguì un applauso (anche Cam e Walgreen applaudirono, io riuscivo a stento ad avere l’autonomia per respirare e battere le ciglia) ma Stiles osservava accigliato lo spartito che gli era comparso davanti, lo prese fra la mani e lo sfogliò per guardarne anche il secondo e il terzo foglio. 

«Se lo ricorda?» chiese Cam leggendomi nel pensiero. Non avevo il coraggio di sperare tanto. Lo ripose di nuovo sul leggio e tirò su le spalle in un movimento rapido come per dire È uno spartito? Lo suono. 

Mi dimenticai come respirare. Il silenzio caldo del bar fu interrotto dolcemente dalle sue dita sapienti, concentrate e misurate nei movimenti. Dalla prima nota capii. Fu come essere tenuti saldamente al terreno dalla gravità dopo aver viaggiato per secoli nello spazio, una consapevolezza che esplose senza avvisare, rivelandosi per quello che era sempre stata: una verità nascosta ma in bella vista. E io, che sciocco, io! Per tutto quel tempo non avevo capito. Avrei potuto? Avrei dovuto. Eppure ad ogni accordo che lui suonava una luce bianca e familiare mi investiva, mi avvolgeva e mi spingeva fuori dal tunnel che avevo percorso decine e decine di volte nel buio dei miei sogni. La riconobbi da subito. La musica dolce che mi aveva tormentato per mesi, molto prima che conoscessi Stiles. Forse anche lei era un incidente temporale, ma mi piaceva pensare che fosse un indizio, lasciato dal tempo, dal destino, dal me stesso del passato, che diceva “sei nel posto giusto” e “stai vivendo la vita giusta”. Ricordi che credevo dimenticati, sbiaditi, cancellati per sempre, temevo, adesso scorrevano davanti a me come un film su una pellicola che corre all’impazzata. Dal primo momento, in cui con il sorriso aveva esclamato «Sei sveglio!» fino all’ultimo, in cui una lacrima gli era scesa in orizzontale dall’occhio sinistro, consapevole che sarebbe morto, e io gli promettevo che non sarebbe finita. Fu come vivere tutto per la seconda volta, come se qualcuno avesse preso la vita al contrario che stavo vivendo e l’avesse girata, poi rimessa al suo posto, si fosse pulito le mani simbolicamente e avesse detto “Così va meglio”.

Intanto la musica di Stiles continuava a galleggiare nell’aria, morbida e poi impetuosa, poi forte e infine calma, come le acque rosa del lago Retba. What was left behind. Stiles aveva costruito la chiave per aprire il lucchetto molto prima che questo fosse inventato. Lasciò le mani immobili, premute sull’ultimo accordo che sfumò lentamente. Poi le alzò dal pianoforte. Mi guardò e allora capii che aveva visto tutto ciò che avevo visto io. Che era lo Stiles che conoscevo. La sala si svuotò, così mi parve, perché l’unica cosa che vedevo era lui, in piedi, con una mano alla bocca e gli occhi pieni di lacrime. Si toccò il fianco nel punto in cui la ferita non era mai esistita. Mi avvicinai al palco con passi lenti, che si portavano dietro il peso e la paura che quello fosse solo un sogno, e che pregavano se così fosse di farlo durare quanto più possibile. Arrivato ai piedi del palco guardai Stiles dal basso, poco più alto di me, e lui si lasciò andare nelle mie braccia. Lo sentii tremare sotto la mia stretta, con il mento poggiato sul mio collo. Aveva lo stesso profumo. Ascoltai il ritmo accelerato del suo cuore. Sollevandolo gli feci fare mezzo giro e lo portai a terra senza allontanarlo da me neanche per un attimo. Mi sussurrò nell’orecchio: «Mi ricordo tutto» con la voce rotta.

Lo presi per mano e lo condussi fuori dal locale, nel retro poco illuminato dal lampione in fondo alla strada e quasi deserto, perché avevo bisogno che quel momento fosse solo nostro e non volevo condividerlo con una massa di sconosciuti curiosi. Gli presi il volto tra le mani e lo esaminai a fondo, ogni particolare, ogni piccolo neo, ogni ciglia folta e curvata. Poi finalmente poggiai le mie labbra sulle sue, in un bacio che sapeva di fresco e di cose perdute e poi ritrovate. Lo tenni stretto a me tutto il tempo necessario per convincermi che stesse accadendo davvero. 

«Sto sognando?» chiesi a pochi millimetri dalla sua bocca. 

Sorrise appena: «No… non credo.» 

«Non credi?!» mi allontanai con una faccia sconvolta per scherzo. 

«Mi sei mancato» sussurrai con la fronte poggiata sulla sua. 

«Anche tu» poi ci pensò e aggiunse «per una vita intera.» Gli passai una mano nei capelli morbidi e sottili. Sembrò avere come una rivelazione e spalancò gli occhi: «Ma il Ghul?! L’avete sconfitto?! E Cam?! Sta bene?» Prima che potessi rispondere la voce di Walgreen arrivò da pochi metri: «Avevi dei dubbi?» disse con lo sguardo felino e gli occhi gialli che risaltavano nell’ombra. «Walgreen! Cam!» gli corse incontro e si gettò tra le loro braccia disorientate. 

«Dovremmo dirglielo?» disse Cam guardandomi. Annuii. 

«Che cosa?» chiese Stiles. 

«Ragazzo, noi non ci ricordiamo di te» Walgreen sapeva essere coinciso quando serviva. «Oh, giusto. Comunque, potete spiegarmi cos’è successo?» 

Ci guardammo con sguardi complici e sorrisi luminosi, sinceri, di chi aveva vinto, questa volta sul serio. Gli avvolsi il braccio attorno al collo e tutti e quattro iniziammo a camminare senza meta, tra una risata e l’altra, raccontando la storia che ci eravamo lasciati alle spalle e che, in un modo o nell’altro, aveva cambiato le nostre vite per sempre.

   
 
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