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Autore: ChiiCat92    24/10/2019    1 recensioni
"Il glitch si presenta la prima volta mentre lavo i piatti, accompagnato da una sensazione di strappo come di un muscolo troppo tirato. Lo chiamo “glitch” perché anche a sforzarmi non riesco a trovare una migliore definizione. Per un attimo la vista sfarfalla, linee nere di elettricità statica percorrono il mio campo visivo, e vedo in sovraesposizione un’altra immagine, di poco dissimile a quella che ho davanti. Le mani sono leggermente più sollevate, le dita della destra più in basso, quelle della sinistra stringono la spugna, la schiuma nel lavandino ha un altro colore."
Questa storia partecipa al Writober2019 di Fanwriter.it, lista PumpINK
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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23/10/2019

 

Ricordo


Il glitch si presenta la prima volta mentre lavo i piatti, accompagnato da una sensazione di strappo come di un muscolo troppo tirato. Lo chiamo “glitch” perché anche a sforzarmi non riesco a trovare una migliore definizione. Per un attimo la vista sfarfalla, linee nere di elettricità statica percorrono il mio campo visivo, e vedo in sovraesposizione un’altra immagine, di poco dissimile a quella che ho davanti. Le mani sono leggermente più sollevate, le dita della destra più in basso, quelle della sinistra stringono la spugna, la schiuma nel lavandino ha un altro colore. 

Poi tutto svanisce e mi ritrovo a fissare corrucciato, le palpebre che vanno su e giù come un tic per cancellare il glitch dalla retina.

Poso il piatto insaponato, sciacquo velocemente le mani e corro in bagno. Cerco tracce del glitch sul mio viso, segni sulla pelle del bug di sistema, qualcosa. Vedo solo l’immagine di un ragazzo con gli occhi spalancati che si tasta la mascella, il naso, i capelli ancora spettinati dal cuscino. Niente. 

Mi chiedo se per caso non sia la stanchezza, lo stress, i pensieri a causare stupide reazioni del mio sistema interno. 

Batto ancora le palpebre, una volta sola, il pannello di controllo scivola sulla mia retina, azzurrognolo come nebbia fredda. Faccio una rapida scansione del sistema alla ricerca di qualcosa che non posso vedere ad occhi nudi e quando mi viene risposto con “nessun errore riscontrato” tiro un sospiro di sollievo. 

Batto di nuovo le palpebre, il pannello sparisce, e posso tornare a lavare i piatti. 

Poche cose come lavare i piatti, fare il bucato e pulire casa mantengono autentico il mio senso di appartenenza ad una realtà tangibile. Non ci sono schermi invisibili quando spazzo i pavimenti, né robot che aspirano lo sporco, né ologrammi di sfarzosi mondi paralleli alle pareti. Solo io, attrezzi e prodotti per pulire antidiluviani, e qualche timido momento di silenzio. La normalità è un lusso che si trova nel passato, e nessuno vuol più vivere nel passato. 

Controllo che sia tutto in ordine, i piatti sgocciolano lentamente nel lavandino, puliti, guardo il piano cottura con un certo orgoglio. 

E poi lo vedo di nuovo.

Il glitch sovrappone un’immagine sgranata a ciò che vedono i miei occhi, un’ombra dalla forma vagamente umanoide mi sfila davanti e devo fare un passo indietro per non esserne travolto. 

Boccheggio, terrorizzato, ma quando batto le palpebre l’immagine svanisce. Sono solo, tremante, ed è ho bisogno del servizio assistenza. 

 

Le stanze sono tutte bianche, bianche sono le pareti, bianchi sono i pavimenti, persino aria e odore sono bianchi. Così come la paura.

Nella sala d’attesa ci si siede tutti vicini come per sfuggire a quel bianco, per trovare conforto l’uno nell’altro.

Siamo tutti qui per lo stesso motivo: la tecnologia, il futuro che doveva rendere tutto più semplice, ci ha tradito. Circuiti e microchip non funzionano con i tessuti cerebrali, e se il primo intervento per impiantarli è stato sprovveduto e facile quello per rimediare al danno fatto non è altrettanto. 

I vantaggi di farsi installare l’interfaccia neurale sono, in effetti, infiniti. Niente più dispositivi elettronici, di qualsiasi tipo, per svolgere le quotidiane attività ormai naturali per l’uomo, niente più cellulare, auricolari, lettori mp3, niente più sveglie, timer, lavagnette dei memo: tutto poteva semplificarsi con un delicato intervento al cervello. 

E funzionava. La corsa al potenziamento neurale non si era ancora esaurita e i nuovi aggiornamenti, le nuove integrazioni, la possibilità di collegarsi alla rete, aveva reso tutti affamati di tecnologia. 

Tutti, tranne quelli che ne pagavano le conseguenze, come me e gli altri seduti su sedie bianche, sporchi come una macchia di fango. 

Imbarazzati dal loro essere disfunzionali, i presenti tengono la testa bassa, come sperando di nascondere la propria presenza. Se non si può essere un membro aggiornato e funzionante della società non si è niente. 

« Il prossimo. » chiama la voce sintetica e controllata di un’infermiera in bianco.

Il prossimo, senza volto, senza nome, senza numero, solo il prossimo, per la vergogna di essere una mela marcia in un cesto di frutta altrimenti perfetta. 

Mi alzo, su gambe instabili, chiedendomi se ho fatto bene a venire. In fondo non sono neanche sicuro che il glitch sia reale, che ci sia davvero un problema.

L’infermiera non mi tocca, cerca persino di evitare il contatto visivo. Mi indica una stanza in fondo al corridoio con la cartelletta e poi mi volta le spalle.

Gentile da parte sua, da parte loro, scartare come involucri vuoti quegli individui i cui impianti non funzionano, come se fosse colpa nostra, come se dipendesse da qualcosa che abbiamo fatto, alla stregua di abuso di alcool e droghe siamo accusati ingiustamente di degradare la società. 

Voglio solo che mi dicano che va tutto bene, che sto sovraccaricando il sistema con lo stress, che sono stanco. Voglio che mi prescrivano pillole per dormire e che mi lascino andare a casa. 

Busso alla porta socchiusa che mi ha indicato l’infermiera e da dentro proviene un freddo, quanto annoiato, “avanti”. 

Il medico è giovane con una nuvola di capelli scuri che ondeggiano ad ogni movimento della testa, gesticola nel vuoto con un dito, ma so che ha davanti agli occhi dalla pupilla vacua linee di dati, cartelle mediche, forse pagine social. 

Mi schiarisco la gola con un colpetto di tosse, dal momento che bussare non è stato sufficiente per fargli capire che stava per entrare qualcuno, e quando lui batte le palpebre per chiudere le finestre virtuali e mi mette a fuoco una smorfia gli solleva per un attimo il labbro superiore. 

Farmaci e iniezioni possono curare il cancro, il lavoro del medico è scivolato sempre più verso l’inutilità, almeno finché non è dovuta subentrare la nuova categoria di medici tecnici, specializzati a risolvere i problemi del interfaccia neurale. 

« Si sieda. » mi dice, indicandomi una poltroncina al centro della stanza.

Faccio fatica a spostare i piedi, vorrei non essere stato costretto ad accettare di avere un problema, a provare abbastanza paura da venire al centro assistenza. Forse la prospettiva di impazzire o peggio consumarmi lentamente per colpa di un virus virtuale era più spaventosa di questo. 

« Allora, qual è il problema? » chiede, ma vedo il movimento della palpebra, come un occhiolino, e so che almeno su una delle sue retine è proiettata la mia cartella clinica, e il modulo che ho consegnato all’infermiera all’ingresso indicando il motivo della mia presenza.

Probabilmente gli piace giocare ad essere un Dio le cui richieste possono essere derise e ignorate. 

« Stamattina ho riscontrato...un paio di glitch... » 

« Glitch? »

Mi interrompe subito e sento il cuore stringermi la gola. Glitch, come se avessi sputato pus infetto da una pustola aperta sulla pelle. 

« Sì. » continuo, però la voce trema un po’. 

« E mi dica, che tipo di glitch? » più che interessato sembra orripilato, come dovevano essere i medici del ventesimo secolo quand’erano costretti ad aprire, sezionare, toccare, sviscerare prima di poter risolvere un qualunque, banale malanno. 

« Io… » fatico a rimanere concentrato. Sento il software di allerta medico che mi informa che il battito cardiaco e la pressione stanno salendo un po’ troppo in fretta e che l’adrenalina nel sangue è in quantità spropositata considerando la situazione di relativa tranquillità in cui mi trovo. È necessario che la ghiandola endocrina vada in override così che possa essere l’interfaccia neurale a controllarne il funzionamento? Sposto la pupilla su “no” e cerco di regolarizzare il respiro manualmente, un paio di respiri alla volta, dal più profondo al più lieve, mentre il medico mi osserva come se fossi pazzo ma con relativa pazienza. Evidentemente ha a che fare con pazienti molto in condizioni più deprecabili della mia. « È come se ci fossero delle immagini in sovrapposizione. Sono comparse all’improvviso. » sono riuscito a dirlo ma non mi sento meglio, più leggero, neanche sollevato. 

Il medico sfoglia la cartella virtuale rimanendo in silenzio. Forse vuole che aggiunga qualche dettaglio. 

« Un attimo prima non ci sono. » spiego, stavolta sono io che ho l’impressione di parlare con una persona a cui non funziona bene l’interfaccia neurale. « E un attimo dopo no. È successo due volte e nello stesso contesto. » 

« Bene. » mi sembra che sia passata un’eternità prima della sua risposta. Senza neanche alzarsi dallo sgabello girevole su cui è seduto si volta, facendolo ruotare, e fruga in un cassetto. Sento lo shakerare di un flacone di pillole. « Prenda una di queste due volte al giorno per una settimana. » 

« Tutto...tutto qui? » 

« Tutto qui. » quasi deve prendermi la mano e chiuderla intorno al flacone di pillole.

« Niente...niente revisione? Niente operazioni? » 

Lui, addirittura, sorride. Già solo questo dovrebbe farmi sentire meglio, no? Nessuno fa quell’espressione quando le cose vanno bene e non c’è niente di cui preoccuparsi. 

« Signor Narder. » comincia lui, pacato e gentile, accorciando le distanze tra me e lui. « Non c’è niente che non vada nella sua interfaccia. Sta lavorando molto ultimamente e può succedere che il ripetersi di gesti quotidiani quando si è sottoposti a molto stress facciano leggermente...per usare un suo termine “glitchare” l’interfaccia. Immagino che lei sia troppo giovane per ricordarsi di quando questo accadeva anche senza potenziamento tecnologico. Lo stress influisce molto sul sistema nervoso. Quindi le consiglio di prendere qualche giorno di riposo, o quantomeno di allentare il ritmo, e di prendere le pillole. »

« E...passerà? » 

« Glielo garantisco. » 

Stringo al petto il flacone di pillole, che ora mi sembra assurdamente prezioso, e ho già aperto la finestra di composizione delle mail per scrivere al mio capo: non andrò a lavoro domani. 

 

L’aria di casa è corroborante, ho come l’impressione che riesca in qualche modo a curare la corrosione dei polmoni, feriti da gas di scarico e fumo. 

Lascio le luci basse, lascio che le quattro stanze si riempiano di musica.

Le buste della spesa scricchiolano di anticipazione quando le poggio sul tavolo.

Una bella cenetta, un bagno caldo, le pillole e tutto mi sembrerà migliore. 

Sfilate le scarpe mi ritrovo a fischiettare il motivetto basso e corroborante della musica. So di sentirlo solo io perché l’interfaccia neurale lo produce direttamente sulla coclea facendo vibrare il mio orecchio interno. Il volume è sufficientemente alto perché me ne senta avvolgere ma non perché nasconda i suoni del mondo esterno. Potrei portarlo al massimo e rendermi sordo a tutto il resto, ma adoro sentire le interferenze della realtà tra le note della musica. Il rumore della plastica che avvolge la frutta, la carta che si strappa, le scatole di cartone che fanno resistenza alle dita, tutto si mescola insieme alla musica in una strana, assurda, melodica composizione.

Devo essermi lasciato prendere la mano perché c’è più carne di quanta riesca a mangiarne, almeno per due persone, vorrà dire che potrò gustare una doppia porzione o che per domani avrò già il pranzo pronto: niente male, no? 

Veleggio verso i fornelli, accendo i gas sotto la pentola piena d’olio e taglio la cipolla. L’olio sfrigola e quell’odore familiare in qualche modo va a rattoppare uno strappo che non sapevo di avere dentro di me. 

Aveva ragione il medico, era troppo stressato, prima i poi i nervi saltano anche a chi sta seduto davanti ad una scrivania a programmare computer tutto il giorno. Può succedere, no? 

Mentre saltello da un punto all’altro della cucina sulle note di non so bene quale brano di musica classica, accompagnato da trombe e percussioni, il glitch si ripresenta, più violento dei due precedenti. 

Le gambe mi si bloccano a metà percorso, come se l’interfaccia neurale avesse preso il controllo della muscolatura volontaria, e la vista si riempie di scintille nere. Di fronte a me la figura sgranata di una persona, un buco nero nel tessuto di cui è fatta la realtà. La sagoma è perfettamente ritagliata da mani esperte, i bordi sono netti e riesco a sentire, alienante, la sensazione che qualcosa mi sia stato estratto dall’interno, qualcosa che mi serviva per funzionare bene. 

Quando passa sono boccheggiante, sul pavimento, senza neanche ricordare di aver perso l’equilibrio ed essere caduto.

Eseguo il controllo dell’interfaccia, di nuovo, e non c’è niente che non vada, esattamente come ha detto il medico. Ma allora perché il glitch si è ripresentato? 

Riesco ad alzarmi, anche se a stento, aggrappandomi al tavolo, le dita che corrono verso il barattolo di pillole.

Una, una sola. La tengo sulla lingua più del necessario, è così amara e stopposa che il sapore rimane sul palato a lungo dopo averla inghiottita. Mi rannicchio con le gambe strette al petto e aspetto. Non so cosa, ma aspetto. 

 

Mi risveglio nella luce annacquata dell’alba, come farei normalmente per andare a lavoro. Le abitudini sono dure a morire.

Mi rigiro su un fianco, lo stomaco brontola. 

Dopo il glitch di ieri sera non sono riuscito a mangiare niente, né a rimettere in ordine la cucina. Forse la carne è andata a male per averla lasciata fuori dal frigorifero tutta la notte. Rimpiango brevemente l’assenza di un androide in casa. 

Vorrei un caffè, con un po’ di latte caldo da sorseggiare lentamente. 

Socchiudo gli occhi, mugolando come un bambino. E poi lo sento, l’odore inconfondibile di caffè nell’aria. 

Mi metto a sedere lentamente, confuso. Tutti gli elettrodomestici di casa collegati alla mia interfaccia neurale sanno che oggi non andrò a lavoro, perché la macchinetta si è accesa per preparare il caffè? È un altro malfunzionamento? 

Mi formicolano le mani e cerco con lo sguardo il flacone di pillole. Mi sono premurato di metterlo in bella vista sul comodino, tanto per rassicurarmi mentre prendevo sonno. Faccio scivolare in bocca un’altra pillola, amara come fiele lungo la gola.

Mi alzo, il brontolio dello stomaco si fa sentire più forte e l’odore del caffè impregna l’aria, tossico e bruciato.

Non appena entro in cucina, però, svanisce. 

La macchinetta è spenta, proprio come dovrebbe, e a parte il ronzare del frigorifero tutto tace. 

Avverto l’inizio di un’emicrania alla base della nuca come un chiodo di ferro che lentamente si fa strada tra pelle e tessuti. 

Devo mangiare qualcosa prima che la pillola mi provochi l’ulcera. Evito il caffè però, ho l’impressione che mi avvelenerebbe. 

Guardo con sospetto la cucina, mi sento tradito da casa mia, e consumo la colazione in camera da letto, le gambe incrociate sulle lenzuola sfatte e gli occhi fissi sulla porta.

Perché ho l’impressione che le pillole non stiano facendo il loro lavoro? 

C’è qualcosa che non va e il medico non se n’è accorto, e va sempre peggio. 

Non sento il sapore del cibo, non so neanche sicuro di cosa stia mangiando, voglio solo inzupparlo nei succhi gastrici nella speranza che la tensione all’addome si attenui. 

Questa volta mi accorgo dell’arrivo del glitch un paio di secondi prima, ma non posso fare niente.

Le immagini della camera da letto si sovrappongono ad un’altra camera da letto identica i cui bordi però non coincidono alla perfezione, e la sagoma scura, che ora so essere quella di una persona, ritagliata nel vuoto si avvicina, una mano tesa. Riesco a distinguere le dita fatte di buio ma non posso ritrarmi, non posso muovermi, tutti i muscoli sono paralizzati. Mi chiedo in preda al panico se anche il cuore cederà alla paralisi o se l’interfaccia neurale sarà efficiente abbastanza da farlo continuare a battere. 

La mano si avvicina al mio viso, sento l’aria, divenuta spessa come un tessuto, frusciare al suo tocco, e punte di polpastrelle assurdamente calde mi toccano le guance. Poi sento gli occhi ruotare all’indietro e la coscienza scivola in un anfratto torrido. È lo stesso posto da cui proviene la figura nera. 

 

« Sta prendendo le pillole? »

« Sì, certo che le sto prendendo. » 

Il medico è lo stesso del giorno prima (di una vita prima?) e alla stessa maniera controlla la mia cartella clinica, solo con un occhio, mentre l’altro è fintamente interessato ad un punto nel vuoto. 

« Beh allora deve solo aspettare che facciano effetto. »

« Sta peggiorando. » sembro troppo disperato? Lo sono? Ho gli occhi umidi di lacrime e ho paura di battere le palpebre per scacciarle perché l’interfaccia aprirà una delle sue finestre di dialogo. « Forse...forse dovrei spegnerla. È possibile spegnerla? Solo per un po’. » 

Il medico si lascia andare ad una risata, non può credere che abbia detto quelle parole intendendole davvero, pensa che scherzi, o che non mi renda conto. « No, non è possibile. Se spegnessimo l’interfaccia spegneremmo lei. L’interfaccia non si limita a dotare il suo cervello di optional tecnologici, ne è parte integrante. Una volta potenziato, non si può tornare indietro. »

“Allora ne morirò.” però non riesco a dirlo, non voglio dirlo.  

« Non è possibile che non ci sia niente. Questi glitch sono...violenti, mi bloccano i muscoli e...ho visto una figura… » 

« È solo stress. » mi sento offeso dal modo tagliente in cui mi interrompe, come se fossi troppo stupido per capire le ragioni mediche dietro la sua diagnosi. « Ha bisogno di riposare e aspettare. È venuto qui solo ieri, cosa pretendeva che i farmaci fossero magici? Deve lasciargli il tempo di agire. » 

« Non credo che sia solo stress, è… »

« Ed io non credo che lei abbia i mezzi per contraddirmi. » ho ancora la bocca aperta, ma la richiudo con uno schiocco. Mi sento un bambino e il dottore ha smesso di essere amichevole. « Aumentiamo la dose a quattro pasticche al giorno, d’accordo? »

« D’accordo… » mormoro. Prendo la ricetta, il secondo flacone, e mi trascino fuori dallo studio. 

 

Non mi sento più al sicuro a casa ma non ho un altro posto dove andare e non voglio vedere nessuno. Giro intorno al tavolo della cucina con i crampi allo stomaco e i flaconi di pillole sul ripiano. Il medico si è raccomandato che li prendessi dopo aver mangiato ma non riesco a considerare neanche il pensiero. 

Il nome del farmaco è strano, pieno di x, y, ph, lungo abbastanza da farmi capire quante sostanze chimiche ci siano al suo interno, ma quali? Non ho idea di quali siano.

Inserisco brevemente il nome in rete e avvio la ricerca. L’interfaccia neurale mi restituisce immediatamente milioni di risultati. La maggior parte sono siti di acquisto all’ingrosso per farmacie, ospedali, e strutture di assistenza, un’altra bella fetta è composta dai bugiardini lunghi quattro pagine che raccontano in quanti modo il farmaco possa fare più male che bene, poi ci sono un paio di siti su cui capeggiano quattro parole in grassetto.

Disturbo dissociativo della memoria.  

Tentenno un po’ prima di aprire il sito, consapevole del fatto che l’interfaccia neurale, e la navigazione in rete, hanno provocato negli esseri umani una serie notevole di malattie, paranoie, infezioni e causato, qualche volta, anche la morte. Ma sento anche nell’aria lo sfrigolare imminente del glitch come se avesse superato la realtà circoscritta della mia mente e fosse entrato con prepotenza nel mondo reale. 

“Chiunque si sia sottoposto alla procedura.” dice la prima riga del sito, la parola “procedura” è un collegamento ipertestuale per un’altra pagina “Può a volte sviluppare un disturbo dissociativo della memoria, caratterizzato da sovrapposizioni di immagini di…”

Procedura, che procedura? Non mi sono sottoposta a nessuna procedura. 

Mi bruciano gli occhi, lascio scivolare la pupilla sulla parola sottolineata. Il sito impiega una curiosa eternità per collegarsi, e alla fine appare una scritta, rossa e fastidiosa:

CONTENUTO IN QUARANTENA.

Mi sembra di non avere abbastanza aria nei polmoni. Che significa quarantena? 

Tento e ritento di collegarmi al sito e quando è chiaro che non ci riuscirò tornò sul motore di ricerca e provo altrove. Tutto ciò che è collegato al disturbo dissociativo della memoria risulta come contenuto in quarantena. 

Una fitta di dolore mi penetra il cervello, una lama di luce accecante, fa talmente male che devo strizzare gli occhi, reggermi la testa. È il glitch, mi sta uccidendo, lo so. 

Riesco a vedere la figura fatta di buio che mi si avvicina e ora il vuoto che la compone è pieno di domande. 

So per istinto che è stata la procedura, lo so, o forse è lei a dirmelo mentre mi sfiora con dolcezza. 

La procedura mi ha tolto qualcosa, qualcosa di cui non riesco a ricordare l’importanza, il colore, ma di cui intravedo la forma nel buco che ha creato il bisturi: una persona, e tutti i suoi ricordi. 

 

Le pillole, insieme alle domande, rimbalzano nella tasca della giacca. Non fa freddo,  l’aria è tiepida e timida, ma io sentivo il bisogno di coprirmi. Mi sento un criminale, un delinquente. E mi sento perso.

Senza usare l’interfaccia neurale mi rendo conto di non conoscere la città in cui vivo, ogni strada è nuova ai miei piedi, la mia percezione finisce dove inizia il navigatore satellitare impiantato nel mio cervello.

In rete si possono trovare molte informazioni, e alcune di quelle informazioni sono più sicure se comunicate a voce e non seguendo l’autostrada veloce e incerta dei neuroni.

Seguendo la pista lasciata dalle parole “contenuto in quarantena” ho trovato un blog di cospirazionisti esaltati che vantavano diverse capacità, tra cui quella di revocare la quarantena imposta dal sistema.

Per incontrare uno di loro ho dovuto scrivere l’indirizzo carta, qualcosa che non facevo da almeno cinque anni, e dirigermi sul luogo senza accendere il navigatore.

Un’impresa sorvegliata dal Glitch. Il vuoto incarnato nella mia memoria mi sorveglia dai margini del mio campo visivo, non appena sposto lo sguardo svanisce, ma almeno ha smesso di aggredirmi. Forse dipende dal fatto che io ho smesso di oppormi. 

Volto a destra e mi ritrovo in un vicolo cieco. Che abbia sbagliato? Controllo più e più volte ma l’indirizzo sembra quello.

Sto valutando l’idea di mandare un messaggio al mio contatto quando una porticina si spalanca, nascosta in parte da un bidone della spazzatura.

« I corona di fiori per i defunti. » dice l’uomo, sulla quarantina, lo sguardo penetrante e vivo mi dice che non sta usando l’interfaccia neurale, che forse non la usa da tempo. 

« Un fiore...un fiore rosso per il mio amato. » concluso, sentendomi un imbecille: la frase che avevamo concordato per riconoscerci l’un altro.

Mi fa un cenno con la mano ed io lo seguo, ignorando il buon senso, la ragione. 

Dovrei tornare dal medico, dovrei parlargli della quarantena, è mio diritto sapere che procedura mi è stata praticata, eppure eccomi qui, nella tana illuminata dagli schermi alogeni di vecchi computer, insieme ad uno sconosciuto, con la porta chiusa a chiave alle mie spalle. 

« Hai avuto coraggio. » dice l’uomo, andandosi a sedere pesantemente sulla sedia di fronte ai computer. Erano anni che non ne vedevo di funzionanti, ormai non se ne usano più. « Molti decidono di non andare fino in fondo e tornano in clinica. » 

Deglutisco, è stato il mio Glitch a impedirmi di tornarci, perché avevo tutta l’intenzione di farlo. Non sono sicuro di voler essere qui neanche adesso che ci sono. 

« Hai un contenuto in quarantena, quindi. » 

Non so come altro rispondere se non annuendo, lentamente. L’uomo comincia a digitare qualcosa sullo schermo. Ne so abbastanza di programmazione di sapere che sono codici, codici di un programma scritto da lui, e non mi piace quello che vedo passare sugli schermi. 

Immagino me stesso fare quel lavoro, digitando parole su una tastiera invisibile nel mio cubicolo a lavoro, accedendo a programmi le cui entrate si trovano solo lì, fissando il vuoto davanti a me mentre l’interfaccia crea schermate virtuali.

Quello che sta facendo l’uomo sembra molto più reale

« Siediti lì, vediamo di che si tratta. » 

Non avevo notato il lettino al centro della stanza. Mi sembra spaventoso, ma non come quello della clinica. Non so spiegare il panico che mi artiglia lo stomaco, né perché le mie gambe siano così salde sul terreno quando mi siedo. 

« Se sei qui vuol dire che sei stato sottoposto ad una procedura medica che si chiama erasing. » spiega, il cuore mi batte nelle orecchie così forte che quasi ovatta la sua voce. « Potrebbe esserti stata somministrata contro la tua volontà, e riguarda la tua memoria. » il ticchettio delle sue dita sulla tastiera è quasi ipnotico. « Qualcosa è stato cancellato, compreso il ricordo della procedura stessa, e tutto è stato messo in quarantena. Da solo non scoprirai mai che cos’è che hanno bloccato, e i medici, credimi, non ti aiuteranno. Ti manderanno a casa imbottito di droga finché sarai troppo debole o confuso, e allora useranno l’erasing di nuovo, e cancelleranno tutto quanto. È così che funziona, fa parte della procedura. » 

Sento un ronzio nelle orecchie, sovrasta il battito cardiaco, è come se un grosso insetto cercasse di entrare e per questo scosto la testa, ma il ronzio continua, più forte. Lo sento penetrare dentro il condotto uditivo, far vibrare le ali contro i nervi acustici. Vorrei urlare ma non riesco neanche a pensare, o ad ordinare alla mia bocca di aprirsi. 

« Non preoccuparti, è solo il mio programma che interagisce con la tua interfaccia neurale. » l’insetto si poggia sul timpano, mi sembra che stia per farlo esplodere, poi lo supera, scuote l’orecchio interno, percorre la tromba d’eustachio, si attorciglia intorno alla chiocciola e...svanisce. Tramutato in segnale elettrico si diffonde sui nervi, salendo verso la base del cervelletto, avvolto come una rete dall’interfaccia neurale.

Le sue zampe fredde frugano, ho il corpo percorso da brividi, ma ancora non riesco a gridare. 

« Potrebbe darti fastidio, ma non è la prima volta che lo faccio. Rilassati, goditi il viaggio. »

“Che viaggio?” vorrei chiedere, ma dentro il mio cervello avverto un click, come di una serratura che si apre, poi l’insetto affonda le tenaglie nel tessuto morbido della materia grigia e allora urlo.

Urlo.

Urlo. 

« Amore? » 

Sollevo gli occhi, pizzicano e il campo visivo è pieno di scintille. Sto lavando i piatti, ho schiuma fino il gomito. 

Volto la testa verso la voce, è dolce come miele, una colata di ambrosia dorata come lo sono i suoi occhi, e i capelli ribelli come trucioli d’oro. 

Mi sorride, sollevando solo metà delle sue morbide labbra. 

Poi sento un vuoto nello stomaco, una spinta, e sono sdraiato a letto. Lui mi accarezza il viso, le sue dita sono così calde. Voglio baciarlo, toccarlo, sentirlo.

Mi tirano da dietro, così forte che cado dal letto, verso un vuoto gelido pieno di spunzoni di ghiaccio. 

Bianco, troppo bianco. Siamo in assistenza? 

Lui è sdraiato e pallido, l’oro nei suoi occhi è opaco, so che non mi sta guardando anche se il suo sguardo è rivolto a me. 

« Mi dispiace. » sento da qualche parte alle mie spalle, davanti a me, intorno a me, sopra di me, la voce si diffonde. « A volte può succedere quando non si è attenti ai siti a cui si accede. Gli hacker sono sempre in agguato quando si tratta di rubare informazioni personali… » 

« Stavamo solo prenotando una vacanza. » e lui ha lo sguardo vuoto, nero, ritagliato con mani di forbice non affilate.

« Mi dispiace. » 

Mi spingono di nuovo, con i palmi aperti sulla schiena, cado sul lettino, inciampo nelle lenzuola, affogo nel bianco. 

« È vivo ma non è cosciente. » 

L’oro si diluisce, gocciola via in piccoli bocconi.

« I danni sono consistenti, l’interfaccia neurale ha cancellato tutto per coprire le tracce dell’hacker. » 

Si mescola nel bianco facendolo vibrare di sfumature delicate, giallo paglierino. 

« I sistemi principali funzionano, respiratorio, cardiaco, è stato danneggiato solo quello nervoso. » 

Vibrazioni dal basso scuotono via quel che è rimasto dell’oro, un’unica goccia rimane ancora in superficie, densa e accesa di colore, prima di essere trascinata nel bianco. 

« Può decidere di staccare la spina o mantenerlo in vita assistendolo di persona. » 

« Stacco la spina. »

C’è solo buio all’improvviso, brancolo con le braccia tese e sento l’ululato disperato di una creatura. Mi ferisce l’udito e la gola, finché non realizzo che quella creatura sono io. 

Frammenti di vuoto nero mi seguono quando cammino, mi tendono trappole, mi stringono al collo cappi di dolore. 

L’ululato continua, accende l’aria di un buio più denso. 

« C’è una procedura che chiamiamo erasing. Cancelleremo i ricordi della sua perdita direttamente dal suo cervello, non ne avrà alcuna memoria. E metteremo in quarantena le informazioni relative, così che non dovrà mai averci a che fare, e mai potranno tornarle alla mente. »

È sempre meglio della morte.

L’oblio. 

Lentamente anche la mia figura viene ritagliata fino a diventare una sagoma scura. Tutto ciò che ho amato, il suo nome, il suo volto, svaniscono. Svanisce la sua morte. Svanisce il dolore. 

Goccia dopo goccia anche il nero si diluisce nel bianco. Occorre più tempo perché non è puro oro, è sporco, grasso, trasudante nero. 

 

Mi risveglio rannicchiato in posizione fetale. Tremo e gli occhi sono incrostati da lacrime. La testa pulsa, e il dolore mi annichilisce. È così forte da non permettermi di respirare, così forte da rendere il sangue acido. 

L’uomo mi guarda con biasimo, seduto di fronte ai suoi schermi benedetti.

Quel dolore è sacro, santo, purifica tutto con il fuoco del giusto. 

Non cauterizza le ferite, ma le rende vive.

Mi tiro su a fatica, tutto il corpo è scosso da tremiti, mi sento gemere ma deve essere il ricordo dell’ululato nella mia testa.

Mi impegna, riempie tutti i vuoti come stucco caldo, ricostruisce le pareti del mio essere. 

Ricordi, denti di affilate tagliole, scattano ad ogni movimento del pensiero. Corrono veloci, sussultano sui nervi.

Ricordi di noi, di lui, ricordi del dolore, ricordi della perdita. Ricordi della codardia.

« Grazie. » dico all’uomo, o credo di dirlo, forse non ho aperto bocca.

Esco da quel posto che è sera, nel cielo trapunto di stelle raccolgo miseria per me stesso. 

“Potrai mai perdonarmi?” 

Il Glitch ha adesso il suo volto, gli occhi d’oro, i riccioli a trucioli. Il suo sorriso storto. 

Ho creduto possibile che potessero strapparmelo via, che fossero davvero in grado di cancellare il dolore dall’anima, come bambini incapaci di usare le forbici da grandi e solo quelle arrotondate. Ho lasciato che giocassero con la mia mente, ho lasciato che nascondessero la verità.

Ma lui non è mai andato via. Ostinato, ha imbevuto ogni oggetto, ogni movimento, ogni fibra muscolare, ossea e nervosa del mio corpo, perché non dimenticassi. 

Perché da qualche parte rimanesse il ricordo di lui. 

Ed ora lui è ovunque, il dolore è ovunque, e forse non sarò mai forte abbastanza per sopportarlo. Potrei finire con l’essere schiacciato, potrei soffocare, potrei urlare senza mai essere udito, il Ricordo alla fine potrebbe uccidermi, ma non lascerò che me lo portino via di nuovo, che portino via la parte migliore di me. 

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The Corner 

Ho impiegato quasi tre giorni per scrivere questa storia, mi ha preso tantissimo tempo e non so se sono propriamente soddisfatta.
Risponde abbastanza a ciò che avevo pensato, ma...non saprei? 

Chii
   
 
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