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Autore: Saruwatari_Asuka    26/10/2019    0 recensioni
La vita è una maschera, tu dici, e questo per te è fonte inesauribile di divertimento, e sei così abile che ancora non è riuscito a nessuno di smascherarti: poiché ogni manifestazione tua è sempre un inganno; solo in questo modo tu puoi respirare e far sì che la gente non si serri intorno a te e ostacoli la tua respirazione. In questo sta la tua attività, nel mantenere il tuo nascondiglio, e questo ti riesce, perché la tua maschera è la più misteriosa di tutte; infatti non sei nulla, e sei sempre soltanto in relazione con gli altri, e ciò che tu sei, lo sei per questa relazione. (...)
Non sai che arriverà la mezzanotte in cui ognuno dovrà smascherarsi? Credi che si possa sempre scherzare con la vita? Credi che si possa di nascosto sgattaiolar via un po’ prima della mezzanotte per sfuggirla?
(Søren Kierkegaard)
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aries Mu, Gold Saints, Leo Aiolia
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 7

 

 

 

Grecia. Santuario di Atene. 2 Aprile 1980.

 

Milo rigirò il bicchiere di Vodka che Camus gli aveva messo davanti poco dopo essere arrivato. Era stato Camus ha chiamarlo, stranamente.

Non lo faceva mai. Per quanto fossero amici, la verità era che a fare il primo passo doveva essere sempre lo Scorpione. Non era cattiveria, quella del glaciale Camus, quanto più distrazione. Non ci pensava, semplicemente. Ma quando andava lui, Milo sapeva che era quasi sempre felice di vederlo.

Quasi.

Perché c’era sempre quel margine di fastidio che uno come Milo sapeva causare anche all’uomo più paziente, e no, non Shaka: Shaka diceva di essere la reincarnazione del Buddha, di certo era forte, ma la pazienza tanto declamata non era una sua virtù. Non la principale, per lo meno. Se si rompeva il suo sacro silenzio, Shaka diventava la persona più umana della terra; espandeva il cosmo in maniera aggressiva e ti faceva uscire dalla Sesta che lo si volesse o meno.

No. Paziente Milo era una qualità che avrebbe affidato più a persone come Aldebaran, o a Mu. A Mu, che però non vedeva da sette anni, e chissà com’era diventato in quel lungo lasso di tempo.

Ma Camus ormai lo conosceva, quindi salvo quelle rare volte in cui proprio non lo sopportava, era sempre contento di vederlo.

Ma non lo cercava comunque mai per primo. Per questo quell’invito era risultato strano.

Neanche dopo il loro ritorno dall’allenamento, un anno prima ormai, lo aveva fatto. Era stato Milo ad andarlo a cercare, e ad intrufolarsi della fredda dimora del padrone delle Energie Fredde per più di una sera di fila. Per parlare.

Per dirsi quello che non si erano potuti dire in quei sei anni di allenamento.

Ma l’atmosfera fra loro si era comunque fatta più pesante, dopo la loro conversazione di quel lontano giorno.

Milo era ancora convinto di dover fare qualcosa. Camus no.

Così, parlavano solo di sciocchezze, senza più vagliare argomenti che avrebbero dovuto realmente interessarli.

Ma quel giorno Milo aveva la sensazione che le cose sarebbero andate in maniera diversa.

Camus l’aveva accolto con un bicchiere di Vodka e gli aveva fatto cenno di sedersi sul divano. Poi si era seduto a terra, dove di solito sedeva Milo.

La pesantezza che si sentiva all’altezza del petto era paragonabile solo a quella che aveva avvertito quando aveva rivisto Aiolia un anno prima.

Uno scambio di sguardi solamente, tesi e penetranti. Non c’era stato bisogno di parlare, quel giorno.

Aiolia gli puntava il dito contro. A lui, che sottostava ancora a testa bassa agli ordini del Gran Sacerdote. A lui, che era uno sciocco a non aver ancora capito nulla. O che aveva capito, ma fingeva l’opposto.

E aveva ragione, Aiolia. Aveva ragione da vendere.

Non si erano più parlati, da quel giorno. Anche in Arena, durante gli allenamenti, si limitavano a scambiarsi colpi e sguardi. Non una parole.

Era evidente che Aiolia non lo riteneva più degno. Come dargli torto.

Solo Aldebaran e Marin avevano quel privilegio. Sempre che di privilegio si potesse parlare, ormai.

Rivolgere parola al fratello del traditore, al raccomandato Aiolia di Leo, senza riceve contro i suoi colpi più tremendi.

Milo aveva buttato giù e ci aveva fatto il callo.

L’istinto gli diceva che doveva agire, ma neanche Aiolia osava. Lo accusava con gli occhi, ma taceva a sua volta ed eseguiva. Quindi, con che coraggio screditava lui?

No. Milo non era un genio, ma non occorreva esserlo per capire che non era il momento.

Non ancora.

Non c’era niente ad unirli, erano divisi e disgregati.

Shura, Aphrodite e Deathmask si sarebbero schierati con il Gran Sacerdote, Shion o chiunque fosse.

Shaka non aveva idea di cosa avrebbe fatto, ma l’istinto gli diceva che sarebbe stato dalla stessa parte di Camus: nessuna delle due fazioni. Neutrale, senza sbilanciarsi.

Aiolia, Aldebaran e, se si decideva a tornare, Mu. Solo loro tre c’erano ad opporsi al Sacerdote. E Milo, che però ancora non sapeva che fare.

Ad ogni modo, erano divisi. Non sarebbero andati da nessuna parte.

Lo sapevano tutti, per questo la situazione era ancora perfettamente com’era stata da dopo la Notte degli Inganni. E nessuno si azzardava a far nulla.

Ma Milo era certo anche che le cose un giorno, molto presto, sarebbero cambiate.

E allora anche Camus avrebbe dovuto prendere una decisione.

“Sai, Cam, non per qualcosa, ma non mi sento molto a mio agio con te seduto lì,” ammise alla fine Milo, decidendosi a parlare.

Camus sorrise appena, scolandosi la metà rimasta nel bicchiere. “Così capisci cosa provo io ogni volta.”

“Non pensavo che ti desse fastidio! Dai, siediti qui.”

“Sto bene qui, Milo,” sentenziò. Nient’altro uscì dalle sottili labbra del rosso per svariati minuti.

Milo iniziava davvero a pensare al peggio. Che mai doveva dirgli?

Perché qualcosa doveva dirgli, era ovvio.

“Taglia corto e basta, Camus. Stiamo solo perdendo tempo.”

Camus poggiò il bicchiere a terra, il dito sul margine esterno. Con una lieve pressione lo fece girare due volte, poi tornò a farlo poggiare per intero sulla superficie del pavimento.

“Immagino tu abbia ragione,” fece. Non c’era nervosismo nella sua voce, nemmeno la più piccola traccia. Eppure, le dita snelle che giocherellavano con la superficie liscia e trasparente lo tradirono.

Sa mentire, Camus, questo era ovvio.

Ma non a lui. A lui mai. Si conoscevano da troppo tempo, e troppo bene.

“Domani sera partirò per la Siberia. Tornerò nella terra in cui mi sono allenato in questi anni, di nuovo.”

Milo annuì. “Okay. Beh, se c’è una missione da affrontare in quelle terre impervie è ovvio mandino te. Sei il più adatto. Quanto tempo starai via?”

“Sei anni.”

Milo sgranò gli occhi, l’azzurro del mare di Grecia a perdersi nello scuro cielo Siberiano. La tranquillità con cui Camus l’aveva detto cozzava in maniera spaventosa con tutto il teatrino fatto fino a quel momento per rivelarglielo.

“Scusami?”

“Hai capito, Milo. Come saprai, c’è un’altra armatura, di Bronzo, custodita fra le fredde terre Siberiane: quella del Cigno. La prossima settimana arriverà un pretendente, Isaac. E fra qualche mese ne giungerà un secondo dal Giappone, dicono. Mi è stato dato il compito di addestrare entrambi e decidere chi sarà il degno Bronze Saint del Cigno.”

“Ah.” Milo si zittì di nuovo.

Mandavano Camus ad allenare due sbarbatelli. Non era una cosa così insolita, che un Gold Saint seguisse gli allenamenti degli altri Cavalieri di ranghi inferiori, certo, ma Camus aveva solamente quindici anni, compiuti da poche settimane per altro.

Era forte, sì, certo, ma se la sarebbe cavata?

“Quanto hanno?”

“Sette e sei anni.”

Milo annuì, “Ho capito perché sei nervoso, allora.”

Avrebbe dovuto crescerli lui. Da solo, perché in Siberia chi sarebbe mai andato ad aiutarli?

Doveva creare da zero quei piccoli futuri cavalieri. Ma erano solo dei bambini.

Camus sapeva a malapena cavarsela da sé, nella vita di tutti i giorni. E adesso lo mandavano ad occuparsi di due bambini.

“Non credo di essere nervoso. Però…non credo neanche di essere il più adatto.”

“Io invece credo di sì. Non per il tuo potere. Proprio perché sei tu, Cam.”

Camus scosse il capo, tacendo. Certo, l’idea di dover andare a crescere due bambini non lo rendeva tranquillo e non sarebbe certamente partito sereno, ma non era solo quello a preoccuparlo. Quei due bambini sarebbero diventati due Saint, ed era a quello che doveva pensare lui. Il suo maestro non aveva avuto remore con lui solo perché era molto più piccolo degli altri aspiranti cavalieri, e lui non sarebbe stato da meno.

Da adesso per quei due ragazzini non c’era più tempo per problemi infantili di normali ragazzi. Il loro destino era un altro.

Lui avrebbe tirato fuori i Saint, li avrebbe resi degli uomini degni della Cloth.
Sapeva di potercela fare, anche se non sarebbe stato facile.

L’idea di crescere qualcuno, quando lui stesso stava ancora crescendo, lo faceva tremare.

Ma non era questo che lo preoccupava davvero. Non solo, non fino in fondo.

Fino a quel momento era stato l’unico a frenare Milo, lì al tempio. E aveva paura, era il caso di dirlo, che senza di lui se fosse successo qualcosa che avrebbe coinvolto Aiolia, Milo si sarebbe messo in mezzo. E lo sapevano tutti che, contro quell’impostore del Gran Sacerdote, in quel momento poteva facilmente trasformarsi in morte certa.

“Di tanto in tanto dovrò comunque tornare a fare rapporto con il Gran Sacerdote,” disse dopo un po’. Gliene aveva chiesto almeno uno all’anno, l’impostore, e su due piedi Camus si era chiesto come mai quella regola non fosse valsa anche per Saga, che non si era più fatto vedere da quando era partito per quella presunta missione.

Sempre che fosse in missione. Camus ne dubitava.

Ma se gli avessero chiesto dove fosse finito il Saint di Gemini, più che alzare gli occhi verso il Tredicesimo Tempio Camus non avrebbe saputo rispondere.

Milo scrollò le spalle con apparente indifferenza, “Beh, quando torni fai un fischio, che se non ho niente da fare ci facciamo un altro bicchierino,” mormorò, versando altra Vodka in tutti e due i bicchieri e tracannando velocemente il suo.

L’idea che Camus partisse per la Siberia di nuovo, e questa volta lasciandolo indietro e solo lì al Santuario, non lo metteva a suo agio. Per nulla.

Negli ultimi tempi Camus dell’Acquario era stato il suo unico amico. Il rapporto con Aiolia era ormai distrutto e per quanto Aldebaran fosse una brava persona, non era la stessa cosa.

E l’atmosfera, lì al Santuario, negli anni in cui erano stati via era diventata di una pesantezza soffocante, per chiunque avesse abbastanza cervello da capire che no, quel Gran Sacerdote non era affatto Shion.

Milo non aveva paura di esserne schiacciato, era un Gold Saint e non avrebbe mai avuto paura di un fantasma di cui non conosceva neanche il volto. Ma non sarebbe stato facile rimanere al suo posto, senza Camus a tenerlo in riga.

Fin troppe erano state le volte in cui avrebbe voluto salire le scalinate che lo dividevano dal Tredicesimo, scacciando via chi gli si sarebbe parato di fronte, per arrivare al Sacerdote e strappargli di dosso quella dannata maschera.

E se non lo aveva fatto era stato solo grazie alla presenza dell’Undicesimo Saint Dorato.

“Quindi non ho bisogno di chiederti di fare attenzione ai tuoi attacchi di eroismo, che ti porterebbero solo alla morte.”

“Non credo che servirebbe a qualcosa,” mormorò anche Milo, stravaccandosi sul divano a gambe larghe, “Voglio dire, hai visto Shura? Non voglio mica ridurmi in quello stato!”

Camus aggrottò le sopracciglia, “Shura è sempre stato fedele al Gran Sacerdote.”

“Se lo dici tu. Quello che so è che il bastardo non può comunque decimare i Gold Saint. Ho la sensazione che a mettersi contro di lui da soli si otterrebbe ben di peggio…

“Lo penso anche io. E te lo ripeto, Milo, non sono affari nostri. Noi abbiamo il compito di proteggere la Dea, tutto qui. Il resto non ci compete.”

Milo storse il naso, per nulla convinto di quello che l’altro diceva. “Sì, certo. Ma siamo sicuri che la Dea sia dove lui dice che è?”

“Finché nessuno mi proverà l’opposto, non mi fermerò per qualche dubbio insulso.”

“Ma se Athena non fosse davvero qui, noi chi stiamo proteggendo?”

“Il suo Tempio, nel quale è comunque destinata a tornare. La Guerra Sacra è alle porte, siamo nati per questa. Che sia qui, che sia morta quel giorno con Aiolos, o che sia altrove, non importa; il destino la riporterà qui, per guidarci.”

“Hai ragione,” ammise quindi Milo.

Come sempre. Camus aveva sempre ragione, dopotutto.

“Quello che dobbiamo fare è attendere, Milo. Rimanendo al nostro posto,” affermò Camus, tirandosi finalmente in piedi e avvicinandosi invece all’amico, stravaccato sulla poltrona. “Quando Athena tornerà la riconosceremo, e allora potrai strappare la maschera dell’impostore. Fino a quel momento, morire o diventare il suo burattino non servirà a niente.”

Milo sospirò, poggiò il bicchiere di nuovo vuoto a terra e si alzò a sua volta.

Uno di fronte all’altro, Milo si limitò a dargli una pacca sulla spalla. “Non farò nulla se non succederà nulla che non mi costringa. Tu, piuttosto, cerca di non massacrarli troppo, quei bambini!”

“Farò quello che devo per creare dei Cavalieri che possano lottare al nostro fianco.”

 

Cina. Goro-oh. 8 Settembre 1980.

 

Dohko aveva temuto il peggio, quando Mu aveva lasciato Goro-oh quel giorno.

Che tornasse in Grecia a prendersi la sua vendetta, a prendersi la testa di Saga, adesso che aveva capito chi fosse l’impostore. Chi era l’assassino che, sfruttando l’affetto di Shion, lo aveva poi ucciso.

Ma Mu non aveva fatto nulla.

Era un ragazzo intelligente, Dohko lo sapeva. Shion glielo ripeteva sempre, orgoglioso. E aveva ragione.

Non erano abbastanza uniti, i Gold Saint della Dea Athena.

Molti erano ancora indecisi, alcuni avevano scelto la fazione sbagliata.

E Saga aveva il vantaggio di avere un intero Santuario ai suoi comandi, ai suoi piedi.

Aveva taciuto, quindi. Aveva taciuto la verità ad Aiolia, per proteggerlo dai suoi stessi colpi di testa, ben sapendo che neanche Aldebaran sarebbe riuscito a placare la sua ira se avesse saputo che ad ordire la morte di Aiolos era stato proprio il suo più caro amico, l’uomo di cui più si fidava in quel periodo.

E aveva taciuto anche con lui. Per mesi, non aveva risposto ai messaggi mentali di Dohko. Il silenzio era tornato ad essere il suo unico amico, rotto stavolta solo dalla presenza della piccola Shunrei.

E poi, nove mesi dopo, gli era arrivata una missiva, che gli annunciava la venuta dal Giappone di un pretendente per l’armatura del Dragone.

L’attesa era finita, ormai era agli sgoccioli.

Certo, forse qualcuno avrebbe potuto criticare la loro stasi in quei lunghi anni, ma il destino aveva mosso le sue carte e loro, semplici marionette del fato, lo avevano atteso con pazienza perché era quello il loro compito.

Athena, la vera Athena, non quella di cui aveva annunciato la presenza al Santuario Saga, si era quasi risvegliata e stava richiamando a sé i suoi guerrieri.

Uno ad uno le forze si sarebbero riunite, stavolta sul serio, e a quel punto neanche Saga avrebbe potuto fare nulla se non arrendersi o morire.

Sperava, Dohko, che la resa e il pentimento sarebbero state le prossime mosse del falso Sacerdote, in un attimo di lucidità. Mai avrebbe voluto perdere un altro Gold Saint, dopo Aiolos. A Shion si sarebbe spezzato il cuore, se fosse stato lì.

Ma l’esperienza e il sesto senso gli dicevano che non era quella la fine che sarebbe spettata al Saint di Gemini, quando si sarebbe trovato d’innanzi alla realtà del fatti, all’inutilità di un piano che l’aveva portato ad ingannarsi per tredici anni senza portarlo ad ottenere quello che davvero bramava. Quello per cui aveva ucciso Shion e il suo migliore amico, Aiolos.

E sperava, in cuor suo, che almeno una piccola parte del cuore di Saga fosse ancora dalla parte della giustizia, di Athena, per permettergli di risparmiarsi tutto quello.

Roshi…

Non si scompose affatto di sentire la voce di Mu alle sue spalle, improvvisa eppure attesa. Non voltò neanche il capo verso di lui, ma aprì gli occhi vispi e li puntò in basso, nelle acque limpide che nascondevano l’armatura del Dragone.

 “E’ tanto che non ci sentiamo né vediamo, giovane Mu. Perché non ti siedi qui con me e fai compagnia ad un povero vecchio?”

Mu sorrise, mesto, ma si sedette comunque sui talloni poco dietro di lui, “Chiedo scusa per il mio silenzio di questi lunghi mesi.”

“Non importa. Lo capisco. Hai appianato i tuoi conflitti interiori, Mu?”

“Credo di sì,” ammise, “Anche se non capisco. Non riesco davvero a capire come proprio lui possa aver fatto una cosa simile. Fra tutti, proprio Saga…E lei e il mio maestro lo sapevate, ma non avete fatto nulla per impedirlo!”

“Fin dal loro arrivo al Santuario, Shion aveva capito che qualcosa non andava, in quei bambini. Ma non c’era niente che potesse fare.”

…loro, Roshi? Loro chi?”

“Saga e l’altro bambino. Il suo gemello: Kanon.”

Mu sgranò gli occhi. Non lo sapeva. Non sapeva che Saga avesse un fratello gemello, non lo aveva mai visto. O forse sì, senza neanche saperlo?

“Ti vedo perplesso, Mu. Non lo sapevi, come nessun’altro a parte me, Shion e i diretti interessati.”

Ma…perché?”

“Perché era meglio così per tutti. Kanon è malvagio, e Shion ha provato in ogni modo a proteggere l’animo puro di Saga, non reputandolo neanche degno di un’armatura. Memore dei nostri compagno Saint di Gemini, ai tempi della precedente Guerra Sacra, Shion aveva allontanato Kanon dal santuario per tenerlo d’occhio. Ma non è bastato. Qualcosa in Saga si è comunque oscurato.”

Mu tacque, la mente sovraccarica di informazioni in così poco tempo, e tutte così preziose.

Non sapeva che Saga avesse un fratello gemello, e come poteva? Neanche gli altri ne erano a conoscenza.

L’unica cosa a cui adesso riusciva a pensare era il Cosmo percepito quella notte di sette anni prima. Quel Cosmo che somigliava a quello di Saga, ora che ne conosceva l’identità, ma non era il suo. Non era il suo, o l’avrebbe riconosciuto.

E come faceva Dohko ad essere certo, allora, che non fosse stato proprio quello di Kanon?

Erano gemelli. Avevano un cosmo diverso, certo, ma simile al tempo stesso.

“Non è Kanon l’impostore,” la voce di Dohko lo fa sobbalzare, quasi, fermando i suoi pensieri sul nascere come se gli avesse letto la mente. “Shion aveva pensato che l’unico pericolo riguardasse Kanon, e aveva allontanato i bambini. Ma non era così. Saga stesso era diviso a metà. Una parte buona e una parte malvagia. Contaminato da uno spirito maligno di cui Shion non è mai riuscito a carpire davvero l’origine, e da cui non è riuscito a salvarlo, Saga alla fine è stato semplicemente schiacciato da esso, agendo come ha agito. Io stesso ci ho messo lungo tempo a comprenderlo e ad accettarlo.”

Mu annuisce, “Capisco,” mormorò. Certo, una parte malvagia che ha preso il sopravvento sul Saga giusto e retto che loro tutti avevano conosciuto da bambini.

Ecco il perché di quel Cosmo, di quella sensazione che aveva avuto. Molto più ovvio, a ben vedere, di Kanon, che lui non aveva mai visto.

Shion aveva solo cercato di fare quello che aveva potuto per proteggerlo, ben sapendo che non era del tutto colpa di Saga. E per farlo, ci aveva rimesso la vita.

“Ma non è per questo che sono venuto qui, Roshi.”

Dohko rise appena, di quella risata un po’ nasale che lo caratterizzava, “Lo so, mio giovanissimo amico. Sei qui per dirmi dell’armatura di Pegasus, vero?”

Per l’ennesima volta Mu si ritrova a sgranare gli occhi, sorpreso. “Come lo sa?”

Dohko puntò gli occhi in alto, dove le prime stelle iniziavano a far capolino nell’ancora chiara volta celeste. Mu seguì il suo sguardo, ma ancora non era possibile scorgere le costellazioni.

“Le stelle, Mu, le stelle sanno rivelarti molto più di quello che immagini, se sai parlare con loro.”

E non fa fatica a credere che sia davvero così, Mu. Perché Dohko sa sempre tutto prima ancora che chiunque glielo dica.

Il suo maestro gli diceva spesso che dallo Star Hill, il punto più alto del Santuario, era possibile vedere tutta la volta celeste e così, se si sapeva ascoltarle e leggerle, si poteva vedere nelle stelle persino il futuro. Ma era qualcosa che Mu aveva sempre pensato propria esclusivamente del Gran Sacerdote, poiché a nessun altro era permesso salire su quell’altura.

Shion gli aveva insegnato a leggere le stelle, riconoscere le costellazione, percepire da esse il pericolo. Ma si chiese se mai un giorno avrebbe potuto raggiungere anche quei livelli.

Perché Dohko, era evidente, sapeva leggere il futuro nelle stelle proprio come sapeva farlo Shion.

“Oggi in Grecia è arrivato  un ragazzino dal Giappone come pretendente all’armatura. Lo hanno affidato a Marin dell’Aquila, nonostante anche lei sia Saint solo da un anno e mezzo. Anche l’allievo di Shaina dell’Ofiuco concorrerà per la stessa armatura,” rivelò comunque, per quanto immaginasse, a quel punto, che Dohko lo sapesse già.

“Uno di loro due è la sua reincarnazione…” mormorò, così piano che Mu quasi non lo sentì neanche. Ma non servì comunque chiedere alcuna spiegazione. “Il Cavaliere di Pegasus e Athena sono sempre stati legati da un doppio filo, Mu. Come duecento anni fa con il mio allievo Tenma, così oggi. Senza neanche cercarla, è stata Athena a trovare noi, mandandoci quel giovane aspirante Saint.”

“Il giapponese?”

“Molto probabile,” annuì Dohko, “Anche io avrò un allievo per l’armatura del Dragone, molto presto. Abbiamo aspettato anni e ne aspetteremo ancora alcuni, ma ormai il tempo è quasi maturato, Mu.”

Anche Shaka glielo aveva detto, quando avevano parlato telepaticamente e l’amico gli aveva rivelato dell’arrivo del ragazzino al Santuario, quella mattina.

Forse presto sarebbero stati tutti costretti a prendere il loro posto, che lo volessero o meno, perché il destino stava per compiersi e nessuno di loro della casta dorata poteva tirarsi indietro.

Quando l’armatura di Pegasus sarebbe stata assegnata, o a Cassius o a Seiya, allora il fato avrebbe scoperto tutte le carte in gioco, e a quel punto sarebbe toccato agli stessi giocatori decidere.

Athena o il Falso Sacerdote.

 

 

ANGOLINO AUTRICE:

Chiedo scusa per il tempo che ci ho messo e anche per il fatto che forse, temo, la storia sia andata a parare un po’ meh. In verità più o meno dall’inizio non avevo in mente di creare chissà quale tipo di rivolta interna, solo di cercare di spiegare a modo mio il perché dell’immobilità dei personaggi.

Il fatto che qui tutti sappiano la verità è perché non posso accettare la stupidità che gli ha messo addosso Kurumada xD Non è possibile che nessuno si sia accorto. O che nessuno dubitasse. Preferisco pensare che volutamente abbiano fatto finta di nulla, per un motivo o un altro che sia.

E quindi, questa è la mia piccola versione.

La storia si conclude qui, manca solo un epilogo che spero di portarvi in conclusione il prima possibile, con l’inizio della storia che tutti conosciamo, e la scalata.

Grazie per la pazienza e grazie per la fiducia!

Un bacione enorme,

Asu

   
 
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