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Autore: Itzi    06/11/2019    8 recensioni
[STORIA INTERATTIVA -ISCRIZIONI CHIUSE]
Il ragazzo si appoggiò alla vetrina, studiandosi le unghie corte con finta noncuranza. «Perché, abbiamo cose di cui preoccuparci?»
            «I nostri cari vecinos avranno di nuovo fatto casino…Ottanta anni fa se ne sono usciti con quella cosa degli imperatori; abbiamo avuto le comunicazioni bloccate per mesi, un incubo!» Gesticolò con una mano, ritirando i soldi che gli aveva poggiato vicino alla cassa «Convivenza civile un cazzo. Entro la fine di questo secolo finirò per prendere qualcuno a calci in culo, me lo sento!»
           «Uuh, quindi… Siamo di fronte a uno scontro tra Pantheon ? Ma davvero?»
*****
«Non è stata colpa mia.» Da come Olivia lo guardò, dedusse che non era per nulla credibile.
            «Allora perché sei scappato?»
         «Perché tutti saltano alle conclusioni! Senti, ieri sera, è successo qualcosa.» Si avvicinò leggermente allo schermo, con fare furtivo, quasi avesse paura di essere ascoltato. «Qualcosa che la Casa non può più ignorare.»
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Ecate, Gli Dèi, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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VI
THE LOVERS
Parte Seconda
 
 
 
A Richard la burocrazia faceva schifo. Tralasciando il fatto che si sentisse tremendamente vincolato dalle regole di buona condotta che gli venivano imposte, la politica non faceva per lui. Mostrarsi in pubblico, di fronte a un numero esorbitante di maghi, era solo una scocciatura che lo portava ad annoiarsi nell’arco di due minuti scarsi.
            Ma era comunque lì. Diana lo aveva tirato per il colletto della sua tunica di lino costringendolo ad abbassarsi, e adesso stava studiando con aria critica la riga di khol con cui si era impiastricciato le palpebre quella mattina.
            «Guarda su.» Disse, sfregandogli le dita sotto gli occhi cercando di pulire un minimo la sbavatura del trucco. Anche lei si era messa in tiro, sfoggiando braccialetti dorati e sandali aperti allacciati alle caviglie con strisce sottilissime di cuoio. Probabilmente l’ultima volta che l’aveva vista così era stata durante la cerimonia di passaggio, quando era diventata a tutti gli effetti l’ospite di Anubi.
            «Ecco qui. Certo, potevi anche impegnarti un po’ di più, sai?»
            «Non ho cazzi di stare qua.»
            Diana roteò gli occhi al cielo ma non disse nulla. La sala dove stavano aspettando aveva i soffitti di pietra scavata, decorati con geroglifici dorati: ogni volta che ci passava sopra con lo sguardo sentiva le parole reagire alla sua magia, e sarebbe bastato pronunciarle per renderle vive. Magari avrebbe potuto evocare un coccodrillo lungo quattro metri e mezzo durante il discorso di Olivia, e vedere cosa sarebbe successo.
            «No.»
            Diana lo ammonì assottigliando gli occhi, avendo percepito perfettamente le sue intenzioni – non che fosse così difficile, visto che probabilmente ce le aveva scritte in faccia – e lui si limitò a sogghignare, incrociando le braccia al petto. Accantonò l’idea per il momento, e spostò il peso da un piede all’altro mentre un omino pelato sgusciava fuori da uno dei corridoi secondari. Si schiarì la voce e con un cenno della mano cominciò a disporli ordinatamente in fila di fronte a un portone massiccio decorato da geroglifici eleganti e colorati.
            Olivia aveva disposto delle prove per quell’entrata, nei giorni precedenti, e Richard era stato costretto a prendervi parte nonostante le reputasse un’enorme perdita di tempo: nemmeno dare fuoco al bordo della tunica di Jacob era stato di conforto, e Seth l’aveva pateticamente deriso prima di zittirsi.
            In tutto erano in dodici, provenienti dai Nomi più disparati. Il più piccolo tra loro era un ragazzino sui dodici anni, con le mani scorticate a sangue per via di qualche ustione, ospite di Heka; la controparte infantile e più silenziosa di Iside, a detta di Seth.
            «Mantenete la distanza, un passo e mezzo dalla schiena di chi vi precede.» Disse l’omino, passando in mezzo alla fila per aggiustare posture e braccia. Diana era la quinta, mentre lui il penultimo, essendo disposti in ordine di altezza. Di fronte aveva Talon, una ragazzina pallida e slanciata con una cascata di capelli scuri intrecciati e legati in una coda laterale, come il suo dio era solito tenerli.
            «Perfetto!» L’omino sembrava davvero soddisfatto del suo lavoro, come un maestro che finalmente riesce a domare con successo la sua classe più problematica. «Entrate e procedete fino alla tacca segnata sul palco, scalati come nelle prove: il primo e l’ultimo devono stare sei piedi indietro, poi a procedere disponetevi sempre un piede davanti a chi vi precede, per il primo gruppo.» Con la mano indicò i primi sei maghi. «Per il secondo, un piede indietro invece. La signorina Moreau sarà in centro, quindi lasciate abbastanza spazio.»
            Richard alzò gli occhi al cielo, esasperato. Non si era mai lamentato del fatto di essere diventato l’ospite di un dio, ma davvero, quella era una rottura di coglioni così grande che per la prima volta si ritrovò a odiare Seth.
            “Ehi, dai un freno ai tuoi pensieri, ragazzino. Guarda che ti sento.”
            “Vaffanculo, stronzo.”     
            Il dio rise, stringendogli amorevolmente la testa in una pressa dolorosa che gli fece strizzare gli occhi di scatto.
            “Non distrarti.” Non era una domanda. Seth lasciò andare la presa, e Richard sentì il suo cervello tornare a respirare nonostante le fitte lancinanti che avevano preso a serpeggiargli dietro gli occhi.
            Il rumore dei tamburi e dei sistri interruppe l’attesa, e le porte che davano al Corridoio dell’Età vennero spalancate, dando inizio alla loro marcia.
            Il Primo Nomo era gremito di maghi, guerrieri, istruttori e qualsiasi mortale immischiato con la magia abbastanza a lungo da non rischiare di impazzire. La folla formava due colonne ai lati delle pareti, davanti alle cortine olografiche appese, e poi si allargava al di fuori, riversandosi nella piazza principale su cui era stato allestito il palco. I negozi erano rimasti chiusi per l’occasione, i banchetti del mercato smontati e addossati alla pietra viva dei muri.
            L’aria era densa di magia, e più si avvicinava, più la sensazione aumentava, facendogli stringere lo stomaco. I geroglifici scintillavano sopra le loro teste, brillando appena, mutando continuamente forma e significato in modo del tutto casuale. Salì i gradini e si sistemò seguendo la fila.
            La musica raggiunse il culmine; vennero annunciati i loro nomi e i simboli degli dei ospitati brillarono per un momento alle loro spalle. Come se il nome di Seth tatuato sulla sua gola non fosse abbastanza esplicativo su chi si portasse appresso.        
            Una cerimonia così sfarzosa non l’aveva vista nemmeno durante i riti di passaggio per diventare l’occhio di un dio. Gli incantatori erano schierati attorno a due piccole sfingi, gli unici artefatti abbastanza stabili da poter stabilire una connessione mondiale senza sgretolarsi per il sovraccarico di magia. Le parole del Sommo Lettore sarebbero state ascoltate in diretta da ogni Nomo, o da qualsiasi mago che fosse riuscito a rintracciare l’incantesimo principale.
            Il silenzio calò nella piazza mentre la melodia sfumava nell’aria. Olivia fece il suo ingresso a passi lenti ma decisi; il mantello leopardato le avvolgeva una sola spalla, mostrando lo scollo importante della sua veste di lino senza maniche. Gioielli d’oro, amuleti come orecchini, e poi al centro della fronte un simbolo. Era troppo nitido per essere temporaneo, e Richard socchiuse gli occhi studiandone la forma allungata, simile a una bussola. Le decorazioni sui bordi erano piccole ma precise, senza apparente significato.
            “Che cos’è quella roba?” Gli mimò Diana dall’altra fila, inarcando le sopracciglia sottili.
            “Che cazzo vuoi che ne sappia?”
            La ragazza alzò gli occhi al cielo, e tornò a guardare davanti a sé, stringendo pensierosa le mani dietro la schiena.
            A un tratto, quella stupida cerimonia era diventata inquietante. Sapeva che la sua percezione era distorta e amplificata dal potere di Seth, ma non bisognava certo essere degli ospiti per accorgersi di un simile potere. Persino i bambini della folla si erano ammutoliti, con i giocattoli in legno stretti blandamente tra le mani.
            Olivia sorrise placidamente, sistemandosi più avanti. Jacob emerse dal retro e si precipitò verso di lei, bisbigliandole qualcosa all’orecchio prima di sparire di nuovo, facendo ondeggiare la tunica chiara.
            «Do il benvenuto a tutti voi. Sono Olivia Moreau, attuale Sommo Lettore, e ospite della dea Iside.» Cominciò, con parole puramente di circostanza. «Mi è stato chiesto di recapitare un messaggio oggi; delle istruzioni per i maghi che stanno ascoltando.»
            Richard serrò leggermente la mascella, più concentrato sul marchio che sul discorso in sé. Bla bla bla, la Duat si sta sfaldando, bla bla bla, fate attenzione quando usate la magia o il mondo potrebbe finire domani. E sti cazzi. Aveva già sentito quella cantilena da Seth una volta di troppo, la sua attenzione in merito all’argomento era rasente lo zero.
            «Prestate attenzione a qualsiasi cambiamento, siate ricettivi ai vostri incantesimi e non trascurate l’istinto. In questi mesi verrete messi davanti a realtà diverse, a poteri fuori dal vostro immaginario. Non fatevi cogliere impreparati.» Olivia si lisciò le pieghe sottilissime del suo vestito, prima di riprendere. «A ogni Nomo verranno dati dei compiti specifici da portare a termine, e ogni vostra azione dovrà essere riportata ai vostri superiori, che sia inconcludente o meno. La nostra è una posizione di snodo, un punto di riferimento. Non possiamo permetterci di risultare poco efficienti
            Poco efficienti. Come se lui non fosse mai stato produttivo! Gli incantesimi gli venivano con la stessa facilità con cui schioccava le dita, non aveva bisogno di una minaccia del genere.
            «Per ultimo, se vi doveste imbattere in qualcuno marchiato in questo modo…» Si indicò la fronte, e l’aria attorno al palco divenne elettrica all’istante. «Fate in modo che raggiunga il Nomo più vicino. Non importa se non pratica la magia, o se adora altri dei. Siate di supporto in qualsiasi situazione.»
            “In pratica vi sta chiedendo di fare da babysitter a un branco di gente maledetta.”  
            Seth schioccò la lingua, sovrapponendosi ai suoi pensieri con la sua solita indelicatezza. Era tornato a mostrarsi con una cascata di dreads scuri arricciati attorno a rubini grezzi.
            “È una cazzo di maledizione? Sul serio?! Quella roba lì?”
            “Aaah, non ci sono più i Sommi Lettori di una volta! Ospitano dei del Caos, si fanno maledire…!” Rise, e Richard strizzò gli occhi mentre un dolore lancinante gli serpeggiò dietro le palpebre. “Che disgrazia. Dove andremo a finire?”
            “Finiscila o ti meno, stronzo!”
            “E tu smettila di urlare. Mi fai salire il mal di testa, ragazzino.”
            Un’altra fitta gli attraversò il cranio, e Richard si morse l’interno di una guancia fino a farla sanguinare. Non aveva nessuna intenzione di cedere, e l’unica cosa che si concesse fu irrigidirsi sul posto.
            “Dimmi come fai a beccarti una maledizione del genere dal nulla.” Conosceva Olivia da una vita; la ragazzina prodigio che a sette anni scolpiva shabti perfetti alti cinque metri. Era impossibile che fosse caduta vittima di qualche sortilegio a sproposito; era sì noiosissima, ma mica stupida.
            Seth sorrise morbidamente e gli occhi scuri gli si illuminarono di divertimento, come se avesse davanti un cucciolo tanto carino quanto scemo.
            “Così.” Disse. “Vedi di non farci ammazzare.”
            Fu il pensiero di un secondo. La mente gli si svuotò, e mentre alzava la testa, sentì la pelle tendersi e strapparsi all’altezza della spalla destra. Il dolore gli lacerò i muscoli, il sangue colò lungo i vestiti bianchi con l’inchiostro che affiorava lento, amalgamandosi al resto dei suoi tatuaggi.
            Non urlò, ma premette lo stesso un palmo sulla ferita; Diana alzò il viso verso di lui boccheggiando nello stesso momento, con la veste sporca all’altezza del petto, le mani strette sulla stoffa.
            «Indietro, state indietro…!»
            La folla cominciò ad agitarsi; un paio di mani lo sorressero per la spalla sana mentre Talon e un’altra ragazzina minuta passavano le braccia attorno a Diana.
            Non avrebbe dovuto fare così male. Le immagini cominciarono a sdoppiarsi di fronte ai suoi occhi, e ben presto non riuscì a mettere più a fuoco nulla. Un rumore sordo, costante, gli riempì la testa; come il brulicare di mille piccole zampe che si arrampicavano sui suoi vestiti, infilandosi sotto gli orli ricamati. Quando gli si schiarì la vista, notò l’immensa distesa di scarafaggi rossi ai suoi piedi.
 
 
 
Il planisfero di Olivia era molto più grande di una normale cartina, ed era interamente disegnato a mano sul papiro. Le linee erano così precise che faticava a credere fossero state tracciate a mano libera; e probabilmente non ci avrebbe nemmeno dato credito se non avesse visto la ragazza lavorarci personalmente.
            Jacob si sistemò gli occhiali sul naso e tornò col capo chino sui vari continenti. Provò a concentrarsi sui tratteggi dorati che indicavano l’estensione di ogni Nomo, ma la sua mentre era altrove, insieme a pensieri che continuavano a distrarlo.
            Il discorso della mattina era stato un disastro, inutile che Olivia rimanesse impassibile a riguardo: un sacco di maghi avevano cercato di contattarli, intasando le linee di comunicazioni già deboli. Organizzare tutti, almeno per il momento, era stato un lavoraccio; e oltre a quello c’era il marchio.
            Sulla pelle scura di Olivia quasi non si notava, ma la pesantezza sgradevole della maledizione si percepiva a metri di distanza, rendendogli persino difficile avvicinarsi senza provare una nauseante sensazione alla bocca dello stomaco.
            «Cosa c’è che ti preoccupa così tanto?»
            Non si sorprese della domanda. Nonostante si sforzasse, sapeva che le sue espressioni tradivano il suo vero stato d’animo, e Olivia era un’ottima osservatrice. Si morsicò soprappensiero un labbro ma non alzò la testa.
            «Nulla.»
            «Interessante il tuo concetto di nulla.»
            Si impose di non risponderle, e seguì con gli occhi il confine tra il Messico e gli Stati Uniti per la terza volta di fila. Se fosse stato più attento, forse avrebbe potuto distinguere con più precisione la carica magica del punto che stava studiando, mettendo finalmente un segnalino.   
            «Non ti devi preoccupare.»
            «Non sono preoccupato.»
            Olivia sorrise appena, e il suo viso si addolcì mentre lo guardava. Con il dito sfiorò El Paso, e il puntino della città si illuminò appena diventando rosso scuro.
            «Oh, eccolo qui. Credo ce ne sia uno anche sulle coste del Messico, sai?»
            Sbuffò. Era infastidito dalla sua tranquillità, come se non ci fosse nessun problema; nessuna maledizione mortale a cui far fronte. Alla fine cedette, sbattendo le mani sulla cartina.
            «È una perdita di tempo!»
            Olivia non cambiò espressione, né alzò la voce quando parlò.
            «Credo che segnalare i punti critici dove la magia si è ammassata nell’ultimo periodo sia qualcosa di più che una perdita di tempo.»
            «Possono aspettare! Così come qualsiasi richiesta da parte degli dei…»
            «Non si può ignorare un dio, Jacob.» Lo riprese.
            «C’è sempre una prima volta.» Replicò deciso. Sentì il nervosismo accumulato nei giorni risalirgli verso la bocca dello stomaco. «Gli dei ci chiedono cose impossibili dall’alba dei tempi; se passa qualche giorno non è la fine del mondo.»
            «Non abbiamo tutto questo tempo.»
            «Nemmeno tu!» Era così frustrante. «Pensi che non si veda? Non si senta? Non sono stupido, e l’odore di quella cosa…» Indicò con un cenno del capo il marchio sulla sua fronte. «L’hanno sentito tutti per quanto è forte.»
            La faccia della ragazza si contrasse con un movimento impercettibile.
            «Non è quello che sembra.»
            «Ah no?» Fu il suo turno di alzare le sopracciglia. «Una maledizione che compare da un giorno all’altro, così radicata che è impossibile percepire la tua sola presenza. Poi, dal nulla, la stessa cosa colpisce altri due maghi, ospiti di dei.»         «Qualsiasi cosa tu voglia fare, toglitela dalla testa. Sei il Sommo Lettore, e se ti succedesse qualcosa ora, come…»
            Deglutì cercando di completare la frase, nonostante il groppo in gola.
Come faccio io senza di te?
            Solo pensare un’eventualità del genere lo destabilizzava, rendendolo davvero patetico. Gli occhiali gli scivolarono di nuovo, e li tirò ostinatamente su con le dita.
            «Oh Jacob…»
            Oh Jacob. Quante volte lo aveva chiamato con quel tono, a metà tra un sospiro e l’affetto che si prova per un fratello più piccolo? Si avvicinò per abbracciarlo e, davvero, provò a ribellarsi. Fece pressione su una spalla ma alla fine cedette e si ritrovò con un paio di braccia a cingergli la schiena e il profilo morbido di una pancia contro lo stomaco.
            Olivia prese a carezzargli i capelli con delicatezza, e lui fece scivolare le mani sui suoi fianchi, chiudendo gli occhi.
            «Ho fatto un sogno stanotte.» Gli disse. «Era estate e faceva caldo. C’era una steppa sterminata con l’erba scura, piena di fiori…» La sua voce si fece bassa, come se si stesse sforzando di ricordare la bella sensazione del sole sulla pelle. «Assomigliava molto a casa mia, sai, e ho cominciato a correre a piedi scalzi come facevo da bambina. Ho visto la mia mamma. Ha detto: “Non avere paura”»
            Per un secondo Jacob sentì le dita di Olivia stringersi sui suoi vestiti. La voce le si incrinò.
            «Quindi non avere paura. Andrà tutto bene.»
 
 
 
«Che cosa è quella roba!?»
            Aydin urlò, mentre la tazzina di ceramica si sfracellava al suolo insieme al suo tanto agognato caffè. Il cuore gli martellava così forte nel petto che ebbe paura potesse sfondargli la cassa toracica.
            «Ishtar…»
            La dea alzò gli occhi al cielo incrociando le braccia magre, sul bel viso un’espressione di puro fastidio.
            «Chi altri?» Gli chiese retorica, avanzando con decisione nella sua direzione. Vedersela comparire davanti era stato uno choc più che sufficiente per quella giornata, e Aydin le sorrise nervosamente sperando che la sua tachicardia si calmasse.
            «Che ci fai…»
            «Alzati la maglia!»
            Beh. Era una richiesta abbastanza esplicita, e il suo cervello aveva già trovato abbastanza motivi per non fare una cosa del genere. Ishtar sembrò leggere la sua indecisione e gli si avventò contro un secondo dopo, afferrandogli con cattiveria l’orlo della maglietta.
            «Che cavolo fai!»
            «Alzatela o te la faccio a pezzi con le unghie!» Gli urlò di rimando, cercando di trattenerlo. Nonostante nella sua forma umana si presentasse come una donna minuta, con una cascata di capelli scuri allacciati blandamente in una coda, era dannatamente forte.
            Aydin indietreggiò, guardando con preoccupazione il tessuto tendersi un po’ troppo.
            «Ma sei matta?» Indietreggiò, pestando i cocci che scricchiolarono sotto le sue scarpe. «Dimmi perché!»
            «Fallo e basta!»
            Ishtar scoprì le gengive e, senza farsi troppi problemi, lo spinse all’indietro con tutto il peso del suo corpo. Aydin inciampò, e cercò disperatamente di mantenere l’equilibrio facendo leva sul ripiano in ceramica della cucina, ma con scarsi risultati: un attimo dopo si ritrovò per terra, con la testa dolorante e una dea incavolata a cavalcioni su di lui.
            Gli sollevò i vestiti ignorando le sue proteste, e prese ad osservargli la pancia con espressione contrita.
            Dire che era a disagio era un eufemismo. Oltre alla botta, una parte di lui era davvero infastidita, e se Ishtar non lo avesse piantato al suolo stringendo le ginocchia sui suoi fianchi, avrebbe provato a scrollarsela di dosso.
            «Insomma…» Piagnucolò, ma lei sembrò non ascoltarlo. Gli passò le dita gelide sulla pelle e lui rabbrividì.
            «Ay, amore, hai per caso visto la mia camicia…»
            Dakun, il suo ragazzo ormai da tre anni effettivi, si fermò sull’uscio della cucina inarcando pragmaticamente un sopracciglio alla vista della scena: caffè sparso per terra, cocci, e lui sull’orlo di uno stupro da quella che era una dea millenaria.
            «Momento sbagliato?»
            «Dakun!»
            «Dopo umano, ho da fare!» Lo liquidò Ishtar, senza nemmeno guardarlo. Dakun sospirò, e tornò a controllare lo schermo del suo cellulare, allontanandosi con una mano infilata nella tasca dei pantaloni scuri.
            Traditore! Come poteva lasciarlo così, inerme e mezzo nudo su un pavimento piastrellato, oltretutto senza muovere un dito?
            Stava già pensando a come fargliela pagare, quando una fitta di dolore gli colpì la pancia facendolo rannicchiare di riflesso.
            «Ti fa male?»
            Ishtar sembrava confusa, gli tastò con più delicatezza la pelle facendo attenzione alle sue reazioni.
            «Se ci premi sì.» Borbottò alzandosi a fatica sui gomiti. Ishtar decise che ne aveva abbastanza e si spostò, facendo alzare.
            «Da quanto tempo hai quella roba addosso?»
            Strinse i denti. Quella sorta di tatuaggio era comparso quella stessa mattina, svegliandolo prestissimo e facendolo piangere dal dolore. Non sapeva perché fosse lì. Non sapeva cosa rappresentava. Non sapeva perché gli avesse fatto un male cane, come se qualcuno gli avesse aperto la pelle e rimescolato le viscere con una mano.
            Sperava che Ishtar potesse dargli delle risposte, ma il suo viso non era per nulla rassicurante. Si prese del tempo sistemandosi la maglia, prima di parlare.
            «Questa mattina. Sai cos’è?»
            «Nulla di buono.» Scosse la testa. Indossava orecchini così pesanti che aveva i lobi delle orecchie sformati verso il basso. «Assolutamente nulla di buono.»
            Aydin si sentì sbiancare. Provò a chiedere altro, ma la dea lo bloccò con la mano.
            «La ragazza, quella dell’hotel.» Gli disse, lentamente, in modo che capisse. «Vai da lei. Cercala assolutamente, dovessi girare mezzo mondo. Io non posso fare altro per te.»
            Non l’aveva mai vista così seria. Osservò gli angoli tremolanti della sua bocca tendersi verso il basso. Poi sparì.
 
 
 
Diana si strinse nel suo giaccone, chiudendo la zip fin sotto il mento. Il cielo coperto minacciava pioggia, ma per il momento non era un suo problema. O almeno, sperava non lo sarebbe diventato.
            Il Tower Hamlets Cemetery Park era un piccolo cimitero poco conosciuto, chiuso alle sepolture ormai da almeno un decennio. Una stradina di terra battuta si snodava attraverso file di cipressi e cespugli di rosa canina selvatica. Le lapidi spuntavano dal terreno pallide e sottili, ammassate tra loro, ognuna con una forma diversa. Era un luogo tranquillo, silenzioso in una maniera che il resto del mondo sembrava aver dimenticato.
            Passò una statua di un angelo con le ali di pietra tutte scheggiate e ricoperte di muschio, facendo attenzione a non scivolare per la piccola discesa.
            Aveva impiegato un po’ di tempo per scegliere i fiori: gigli, rose, ciclamini e girasoli. Alla fine aveva deciso per un mazzo di crisantemi e alstromeria, accuratamente incartato da fogli di plastica trasparenti.
            Lasciò il sentiero avventurandosi in mezzo all’erba, poggiando delicatamente i piedi sul terreno.
            La tomba di Sadie Kane era squadrata, in pietra naturale e con i bordi decorati da una linea di geroglifici minuscoli. Il suo nome era stato inciso con precisione, insieme alla sua versione egizia. Non c’era una data, ma lo spazio restante era occupato da un nodo di Iside e un ankh smaltati d’oro.
            I bordi dove la sua bara era stata sepolta erano marcati con sassi dipinti e incisi: occhi di Horus, geroglifici di buona sorte, il profilo canino di Anubi. Una schiera di fiori bianchi e gialli erano posati con cura ai lati della lapide, insieme a papiri sigillati da spago e candele tozze.
            «I ragazzi sono già passati ieri.»
            Anubi comparve al suo fianco come un fantasma, i capelli scompigliati e le guance rosse da un freddo che non avrebbe dovuto provare. Diana alzò lo sguardo e sorrise appena, posando il suo mazzo ai piedi della pietra.
            Le sarebbe piaciuto incontrare i figli di Sadie. Quando era arrivata al Primo Nomo loro erano già partiti per l’America, e in tutti quegli anni non aveva avuto molte occasioni per viaggiare, tra addestramenti e altro. Anubi ne parlava a volte. Era sempre un po’ complicato perché i suoi ricordi erano filtrati dagli occhi di Walt e si, non li considerava per davvero suoi figli, anche se Diana era di tutt’altra opinione.
            Si sedette sull’erba umida e fece scorrere lo sguardo sulle scritte. Il marchio sotto il suo sterno bruciava, ma forse era solo una sua impressione.
            «Non ci posso proprio parlare, vero?»
            Anubi si schiarì la gola, avanzando senza sfiorare il terreno con i piedi. Toccò la lapide con le dita, in una carezza un po’ insicura.
            «Mi spiace.» Disse solo.
            «Non importa.» Incrociò le gambe e si circondò le ginocchia con le braccia, poggiandoci il mento. «Mi parli un po’ di lei?»    
            Anubi batté le palpebre, perplesso: «Cosa vuoi sapere?»
            «Non lo so. Nulla di particolare, credo.»
            La punta delle sue Converse bianche scivolò piano in avanti. Gli occhi le si erano scuriti per via del tempo, lucidi e di un verde scuro come il muschio sui tronchi che li circondavano. Sembrava piccola e indifesa, spaventata.
            «Un anno, tre giorni prima del suo compleanno, si ammalò.» Iniziò cauto. «Così le preparammo la colazione e gliela portammo a letto per farle gli auguri. Pessima idea.»
            Diana sorrise, lo colse dalla piega che presero i sui occhi.
            «Walt era un pessimo cuoco e io…Beh, quando sei un dio mangiare non è proprio una delle tue priorità.» Si grattò un orecchio, quasi imbarazzato. «Insomma, facemmo dei pancake ai mirtilli terribili. Ce lo rinfacciò non appena ebbe il piatto tra le mani, però nonostante tutto li mangiò lo stesso.»
            «Pian piano divenne quasi una tradizione, a casa. I tentativi successivi furono più fortunati a ogni compleanno, e anche quando arrivarono i bambini…»
             Si bloccò, quasi avesse difficoltà a continuare. Incrociò le braccia, e Diana osservò la sua figura, le spalle rigidamente dritte.
            «Ti manca?»
            Domanda difficile. Anubi indugiò, oscillando impercettibilmente sulle punte, un movimento che risultava strano visto che stava fluttuando. Sapeva cosa intendeva: essere un dio della morte non gli dava diritto di vedere un’anima ogni qualvolta ne avesse avuto voglia. Ogni tanto capitava, ma Sadie meritava pace e riposo dopo una vita passata a combattere e bruciare tappe perché forse non avrebbe avuto mai abbastanza tempo. Lui non aveva nessun diritto di privarla di qualcosa di così importante, non con desideri così egoisti a smuoverlo.
            «Un po’.» Disse alla fine. Non era per nulla convincente.
            Diana respirò contro il colletto della giacca, e il rumore giunse ovattato tra di loro. Il suo animo era inquieto, come un’anima in pena imprigionata tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
            «Gli dei hanno mai paura?» Chiese ancora, e la voce le si spezzò in gola. Batté gli occhi ma una lacrima le scivolò lo stesso lungo la guancia.
            «Molto spesso.»
            Si inginocchiò, cautamente, accanto a lei. Non servì altro, Diana infossò il viso tra le pieghe della sua giacca, cercando di asciugarsi le lacrime con le mani. Le passò un braccio sulle spalle con delicatezza.
            «Ho così tanta paura!» Singhiozzò disperata. La strinse appena e aspettò.
 
 
 
Nulla aveva il potere di rilassarlo come una doccia calda. Nell’ultima mezz’ora aveva lasciato che l’acqua gli scorresse sulle spalle, sciogliendogli i muscoli tesi e lavando via ogni preoccupazione.
            Di fronte lo specchio, Max aveva lo stesso aspetto stanco di sempre, ma tutto sommato si sentì soddisfatto di essere riuscito a sopravvivere a quella giornata. La mattinata era stata solo fonte di stress, e il discorso di Olivia non era servito a calmare molto il suo spirito. Dopo pranzo era comparso anche a lui il marchio, e come da previsione gli aveva fatto malissimo. La nausea l’aveva accompagnato per ore, insieme a un’emorragia lenta e preoccupante che non aveva avuto intenzione di placarsi nemmeno sotto incantesimo.
            Era rimasto cosciente, in un modo che non capiva nemmeno lui. Adesso la sua gola era meno gonfia, ma la pelle arrossata faceva a botte con il suo colorito cadaverico.
            Fece una smorfia, finendo di vestirsi. Allacciò i monili e le catenelle con cura, e poi uscì dal bagno.
            Il motel in cui si era rintanato durante quella che gli piaceva etichettare come “vacanza alternativa” era piccolo, stipato in un quartiere che contava un negozio di alimentari, una vecchia casa fatiscente e una fermata dell’autobus. Olivia gli aveva sconsigliato di dirigersi a Long Island, pregandolo di fermarsi un attimo finché le acque non si fossero calmate.
            La cucina in comune aveva le pareti color pastello e il soffitto macchiato dall’umidità. Un tavolino angolato offriva un buffet davvero poco invitante, anche per un affamato come lui. Si avvicinò agli espositori e cominciò a riempirsi un piatto senza prestare davvero attenzione al cibo.
            Oltre a lui, nella sala c’erano un giovane ragazzo e una bambina. Gli davano le spalle, ma Max sentì lo stesso i loro sguardi sulla schiena, più insistenti di quelli dettati da semplice curiosità. Prese posto sul tavolino più vicino alla finestra, in modo da essergli perfettamente di fronte.
            All’inizio nessuno disse nulla: il silenzio nervoso fu smorzato dal suo masticare, e le occhiate si fecero più sottili da entrambe le parti. Max notò che quello che a una prima occhiata aveva scambiato per un ragazzo era, in realtà, un androide. Si era sbarazzato della divisa, ma sotto i capelli corti riusciva a intravedere l’alone del led che aveva cercato di staccarsi. Aveva un viso squadrato e l’espressione allertata, di chi è pronto a scattare al primo accenno di pericolo. La bimba con lui era più discreta, probabilmente umana, e molto interessata ai suoi amuleti, visto come li guardava.
            «Ci conosciamo?» Chiese dopo un po’, ruminando una forchettata di insalata che aveva la stessa consistenza della carta. L’androide si irrigidì sul posto, e lo vide passare un braccio attorno alla bambina da sotto il tavolo.
            «No.» Rispose secco.
            «Ah, mi sembrava.» Scrollò le spalle, e tirò su con la forchetta un pezzo di uovo.  Sorrise alla piccola mentre mandava giù. «Ti piacciono? Stavi guardando queste, no?»
            Indicò i suoi amuleti e la vide stringere le dita sul bordo del tavolo in legno, tra il piatto di plastica ancora mezzo pieno. Alla fine annuì, e lo sguardo dell’androide si fece ancora più tagliente.
            «Hai già studiato gli Egizi a scuola? Sono geroglifici. Portano fortuna.»
            La bocca della bambina si piegò in un muto “oh” di sorpresa. Dopo un po’ gli parlò.
            «Li ho visti in un video.» Confessò. «Quello e anche altri.»
            Indicò l’occhio di Horus sul suo petto. Fece un cenno con la testa per farle capire di essere piacevolmente sorpreso, e poi tornò a guardare l’androide silenzioso.
            Quelli come lui li chiamavano devianti: macchine difettose che avevano sviluppato un proprio libero arbitrio, in seguito a eventi più o meno traumatici. Era un fenomeno che aveva fatto molto scalpore negli anni precedenti, insieme a una vera e propria rivoluzione ma lui non si era mai interessato troppo della cosa; onestamente aveva di meglio da fare.
            «State andando da qualche parte?» Chiese con tranquillità, rivolgendosi all’androide.
            «Nel Queens.» Disse quello dopo un po’, con l’espressione più contrita che avesse mai visto. «Andiamo a trovare dei parenti e…»
            «No, no, lascia stare!» Esclamò Max, ripulendo i fondi della sua cena, interrompendolo. «No, non vi conviene. Il Nomo più vicino è quello di Brooklyn, il resto è tutta un’accozzaglia di altra roba; greci, pegasi volanti…» Fece una smorfia. «Vi basta arrivare in città, al Brooklyn Museum, e sicuramente troverete qualcuno dei nostri tra i custodi.»
            Si stiracchiò sulla sedia, allungando braccia e gambe.
            «Sei una maga, no? Lo sento dalla tua aura.»
            La bambina sgranò gli occhi e la vide trattenere il respiro. Non era stato difficile indovinare e, del reso, la sua scia magica era piuttosto difficile da ignorare in un posto così minuscolo. Si alzò e si avvicinò al tavolo, agitando appena le dita. Sul suo palmo brillò un singolo geroglifico, che si sciolse dando vita a una minuscola fiammella. I due lo guardarono sorpresi e increduli.
            «Puoi davvero aiutarci?»
            «Non vedo perché no. Siamo sempre alla ricerca di giovani maghi, e di sicuro troveranno del lavoro anche per te.» Diede una pacca sulla spalla dell’androide. «Non dovete preoccuparvi! Ecco, tieni.»
            Si sfilò l’occhio di Horus e lo passò con delicatezza sopra la testa della piccola. Le calzava un po’ largo, ma nulla di irreparabile.
            «Grazie signore.»
            «Grazie davvero.» L’espressione dell’androide si fece più mite.
            «Che gli dei vi proteggano!» Disse. Con la mano fece apparire una benedizione sopra le loro teste, geroglifici che tremolarono nell’aria solo per un’istante. Se ne andò dalla sala un momento prima che il marchio reagisse alla sua magia, cominciando di nuovo a sanguinare.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
 
Allora! Eccoci di nuovo con un nuovo capitolo!
            Questa volta abbiamo i nostri cari Egizi a far da vittime e, devo dire, ho cambiato molte cose dalla mia prima stesura.  Ho sistemato e riscritto le parti che non mi piacevano nell’arco di un pomeriggio e, indovinate? Questa è l’ulteriore conferma che se mi metto d’impegno potrei davvero scrivere un capitolo a settimana con una cadenza regolare, invece che fare apparizioni sporadiche e farvi rosicare dall’ansia ogni volta ahahaha.
            Spero che vi sia piaciuto, e che vi abbia emozionato un pochino, in tutto questo delirio delirante ahaha.
            L’ultima parte è una citazione nemmeno tanto nascosta a Detroit Became Human, gioco che dopo eoni sono finalmente riuscita a completare interamente!
L’impaginazione è quello che è ma solo perché Tynipic ha chiuso e io devo fare l’abbonamento LOL Quindi abbiate pazienza!
            Inoltre è da questa estate che non ci sentiamo, spero che il rientro a scuola/uni sia andato bene e sia stato meno traumatico del previsto ahahah. In tutto questo tempo, io e altre ragazze abbiamo aperto una page su insta per caricare disegni, strisce meme e altro sulle nostre storie qui su efp. Se avete voglia di seguirci per partecipare allo sclero, dirci la vostra  o semplicemente urlarci quanto siamo in ritardo con gli aggiornamenti, siete i benvenuti!
 Ci trovate qui
                       https://www.instagram.com/10_seconds_of_arcana_knowledge/
 
Un bacione a tutti!
Itzi 
   
 
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