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Autore: _Frame_    10/11/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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209. Sei tu che hai scelto la guerra e Speravo ancora di salvarti

 

 

26 novembre 1941

Baia di Hitokappu, Isole Curili

Giappone

 

Un’ululante risacca di vento discese le guance dei nuvoloni plumbei, raccolse una violenta bracciata d’acqua di mare, gonfiò un’onda che crebbe fino a graffiare la sommità di quel cielo borbottante e scosso dal maltempo, e la rovesciò sulla costa, facendola schiantare e infrangere sulla superficie cariata degli scogli che quella mattina erano neri come pezzi di carbone. Frammenti di schiuma bianca esplosero, sollevando uno scoppio cristallino, e finirono spazzati via come perle al vento, riversandosi nel mare da cui erano arrivati.

La forma concava della baia chiudeva a sé un abbraccio di oceano plumbeo, increspato da onde metalliche che si divoravano a vicenda, sovrapponendosi e risalendo le scogliere aguzze e spoglie che precipitavano nel fondale. Tante bianche fauci di spuma che a ogni morso producevano il suono dell’alluminio stropicciato. Un banco di nebbia rivestiva le installazioni portuali già imbiancate dalle prime spolverate di neve trascinate dai fischi d’aria e ghiacciate durante la notte. Le sagome dei promontori sorgevano dalla foschia come fantasmi gobbi, frammentavano le nuvole basse e opprimenti che gravavano ogni giorno sul porto militare dove la vita scorreva lenta e grigia, immobile come quelle rocce su cui non risposava mai nemmeno un tiepido raggio di sole.

Le guance di nuvole si gonfiarono con un risucchio, soffiarono un ruggito e scaricarono altro vento sulla baia sporca di ghiaccio.

L’aria fredda, dal sapore di mare e di porto, graffiò le guance di Giappone e gli scosse i capelli sulla fronte. Schizzi di acqua gelida gli punsero la pelle del viso, e lui non seppe riconoscere se si trattasse di pioggerellina o di schiuma di mare. Lo attraversò l’acido e salmastro odore di oceano in tempesta che si mescolava a quello più duro e soffocante della nafta, dei cantieri portuali. Un’aria dura ed elettrica che non significava altro che guerra e guai.

Giappone si strinse nella giacca pesante, riparandosi le guance dalle insistenti graffiate di vento, e camminò senza incertezze lungo la banchina di cemento che sprofondava in acqua. Fu accolto da quel vento che lo sorreggeva senza tranelli fra le sue braccia. Il cuore sereno anche in mezzo a quella tempesta, la mente immobile e galleggiante in uno stato di quiete grigia e stagnante. I suoi occhi assorbirono le sfumature del cielo crepato da saette color catrame, ne risucchiarono la freddezza e l’immobilità, e apparvero ancora più neri, nonostante le sfumature della nebbia ad appannarli.

Anche le piccole sagome delle navi ancorate alla fonda parevano galleggiare fra mare e cielo, sospese come fantasmi in quell’ambiente sfumato dai soffi di vento e dagli schizzi vaporosi delle onde. Traballavano nella nebbia della baia attraverso cui trasparivano anche i profili dei palazzoni di cemento sorti dalla città portuale appartenente alle forze armate. Una città che si nutriva di guerra e nella quale batteva un cuore di ferro e cemento. Un’anima triste e marcia come la sorte che i suoi abitanti andavano seminando.

Senza smettere di passeggiare affianco ai piloni costruiti lungo il profilo della banchina, Giappone sfilò la mano dalla giacca che si era appena rimboccato, distese il braccio davanti a sé, rivolse il palmo verso il basso, e spianò l’aria con un gesto lento e netto. Spalancò il pannello luminoso che raffigurava la mappa sezionata delle Curili, la Baia di Hitokappu racchiusa in quell’insenatura a forma di fagiolo che morsicava il profilo lungo e ricurvo dell’isola più grande.

Giappone giunse pollice e indice sul riquadro che sezionava la baia, distese le dita e allargò il campo, evidenziando le formine luminose che galleggiavano raggruppate poco distanti dal porto. Il convoglio di navi che lo avrebbe scortato fino alle Hawaii.

Un gruppo di scorta, un gruppo di appoggio, un gruppo di rifornimento, una pattuglia avanzata e una forza di neutralizzazione. Giappone sfiorò uno dei segnalini sulla mappa e allo stesso tempo rivolse lo sguardo all’oceano per distinguere le sagome delle stesse navi attraverso quella nebbia che le rendeva semplici ombre evanescenti. Navi fantasma in quel paesaggio congelato dal freddo e dalle bufere. Sei portaerei, due corazzate, tre incrociatori, nove cacciatorpediniere, otto navi cisterna, e trentasei sommergibili.

La sua ombra gli scivolò affianco, trascinata da uno sbuffo di vento, e la sua voce suonò ancor più fredda e pungente di quella gorgogliata dalle onde infrante sulla superficie del mare. “Ossia la più grande forza d’attacco marittima che sia mai stata impiegata in uno scontro.”

Giappone annuì alla sua voce interiore, a quell’eco indisturbato nonostante gli ululati del vento a fischiargli nelle orecchie. “E questa non sarà nemmeno una battaglia fra convogli navali, ma rimarrà un puro e semplice attacco aereo.”

Uno sfioro sulla guancia, un tocco pungente a scostargli una ciocca e a percorrere il profilo del suo viso in un gesto di sostegno e incoraggiamento. “Stai per scrivere una pagina di Storia che influenzerà perennemente il concetto di guerra come è sempre stato riconosciuto dal resto del mondo.”

Giappone ignorò quel gesto, quelle parole. Tenne lo sguardo basso e distante per non dover incrociare il rosso di quegli occhi che premevano su di lui, scaricandogli addosso un senso di responsabilità e soggezione che lo faceva rabbrividire a ogni battito di palpebre.

Distese i polpastrelli e allargò di nuovo il campo sulla mappa luminosa. Spalancò la sezione che racchiudeva il suo convoglio e si affacciò allo schieramento così come sarebbe stato disposto durante il viaggio attraverso il Pacifico.

Le sei portaerei disposte su due file, precedute dagli incrociatori leggeri e dai sommergibili che avrebbero viaggiato in testa e che sarebbero stati i primi a infilarsi nella rada di Oahu e a perlustrare il fondale di Pearl Harbor, una volta giunti a destinazione. I cacciatorpediniere sul fianco sinistro, gli incrociatori pesanti a destra e a sinistra, e per ultime le navi cisterna che avrebbero navigato più lentamente.

Giappone sfiorò la luce che brillava sulle sei portaerei, le navi che emanavano l’energia più forte e magnetica sotto il suo tocco, tanto da sollevargli la pelle d’oca lungo tutto il braccio.

Queste portaerei...

Pigiò l’indice su una delle imbarcazioni. Blip! Davanti a lui si spalancò un secondo pannello luminoso che racchiudeva l’immagine di una delle portaerei. Un’enorme fortezza corazzata, più che una nave, sormontata dall’insegna contenente il suo nome.

 

Soryu

 

Giappone fece scorrere il tocco e sfogliò le sei schede luminose, una dopo l’altra.

 

Hiryu

Shokaku

 

Queste portaerei stanno per rendersi protagoniste di un’impresa che potrebbe segnare per sempre la storia delle battaglie navali e aree. Ma tutto dipenderà dal risultato che io saprò ottenere.

“Scrivere una pagina di Storia?” mormorò Giappone, e intanto altre schede luminose si sovrapposero davanti ai suoi occhi immobili.

 

Zuikaku

Kaga

 

“Ma come verrà ricordato questo giorno, quando diventerà Storia?” disse ancora. “Come una colossale conquista e un enorme progresso per la tattica e la strategia, come un vittorioso punto di svolta nella storia militare giapponese...”

Raggiunse l’ultima scheda, l’ultima portaerei del suo convoglio, e arrestò il tocco a mezz’aria.

Ne contemplò l’immagine, il nome, quella brillante e maestosa solennità che sapeva incarnare anche solo dal pannello luminoso.

 

Akagi

 

La portaerei Akagi. Il suo Castello Rosso. La sua ammiraglia.

Giappone sfiorò la luce emanata da quella raffigurazione. Lo colse un brivido di dubbio. “O come il giorno dell’infamia che avrebbe fatto meglio a rimanere solo sulle carte dei miei strateghi invece che sulle pagine dei libri di storia?”

Una violenta zaffata d’aria gli gridò nelle orecchie, infrangendo un’alta ala d’acqua grigia contro la banchina. Fu un tetro presagio.

Passi rapidi schioccarono sul cemento, risuonarono attraverso l’ambiente scosso dagli ululati di vento e raggiunsero Giappone alle sue spalle. “Signore.”

Giappone restrinse le dita che aveva teso verso il pannello luminoso, senza però abbassare la mano. Voltò lo sguardo, incrociò di striscio il profilo dell’ammiraglio marciato fino a lui, e sollevò un sopracciglio, mantenendo l’espressione grigia e granitica come il cielo che li sovrastava.

L’ammiraglio gli porse una busta sigillata. Le dita bianche attorno alla presa sulla carta, le nocche grigie e consumate dal freddo, e le unghie coronate da una sfumatura bluastra. Le rughe del viso si tesero in un’espressione rigida, quasi più anziana, oscurata da tutta quella nebbia che li circondava. “Le trattative definitive da Washington, signore,” annunciò. “Richiedono una nostra valutazione e una risposta immediata.”

Un tuffo al cuore rimbombò nel petto di Giappone e gli mozzò il fiato. Lo punse un brivido di anticipazione, la consapevolezza che tutto stava per cambiare. Ci siamo. Giappone diede un secco colpo di mano all’aria, fece svanire il pannello luminoso, e raccolse la busta sigillata. È giunto il momento della decisione definitiva, dunque. Scartò l’involucro, estrasse il documento piegato in due. Nonostante la freddezza del suo viso e l’immobilità dei suoi occhi, il cuore accelerò e si gonfiò di un turbinio d’ansia. Quanta furbizia avrai dimostrato, America? Aprì la pagina. Sarai stato in grado di mettere in salvo la tua stessa vita, dopo tutto quello che ho cercato di farti capire dal nostro ultimo incontro? Svelò le nuove richieste che il governo americano esigeva per il mantenimento di un rapporto pacifico e collaborativo con quello giapponese.

Giappone lesse e rilesse più volte i punti del trattato e allargò le palpebre. Le parole corsero davanti ai suoi occhi, taglienti e fulminee come il vento che gli soffiava addosso, fino a che non sfumarono, fondendosi l’una all’altra in un nero muro di scritte a cui non voleva credere. Il battito del cuore salì a galoppargli in gola, il respiro mozzato fra le labbra e annodato in fondo alla lingua si condensò in una singola nuvoletta bianca, il sangue ribollì fino alle tempie facendo pressione sulla testa sempre più dolorante.

Un patto di non aggressione, un accordo sull’inviolabilità dell’Indocina, la totale evacuazione delle truppe giapponesi dalla Cina e dall’Indocina, l’abolizione dei diritti di extraterritorialità e delle concessioni in Cina, l’impegno formale che i trattati firmati con terze potenze non avrebbero dovuto interpretare in modo da contrastare con la pace nel Pacifico...

L’ombra di Giappone si chinò a oscurare quelle parole. “Prevedibile,” sbuffò con disprezzo davanti alla lettura del trattato. “Che creatura stupida.”

Il corpo di Giappone tremò di rabbia, incurante della morsa di gelo penetrata sotto gli abiti. La mano sbiancata scottò e stropicciò una ragnatela di pieghe attraverso il foglio fitto di scritte. I suoi occhi bruciarono davanti a una di quelle righe che prese a lampeggiare e pulsare attraverso la carta, come battuta in caratteri di fuoco.

La totale evacuazione delle truppe giapponesi dalla Cina.

Come puoi... Giappone chinò il capo lasciando scivolare i capelli sulle guance, nascondendo gli occhi nell’oscurità. Nel suo animo marcì un grumo di dolore nei confronti di America, nei confronti di quel destino che ormai si era scelto e nel quale aveva deciso di lasciarsi precipitare. Come hai potuto...

“Signore?” La voce dell’ammiraglio lo scosse, attraversata da un sospiro d’ansia davanti ai brividi di Giappone, a quell’ombra nera e nebulosa che gli brulicava attorno. “Signore, quali...” L’uomo si schiarì la voce. “Quali sono le richieste del governo americano?”

Giappone inspirò la gelida aria di porto e di mare, e risollevò il capo. Quella botta di ghiaccio rallentò i battiti del suo cuore, risucchiò il vortice di vertigini dalla sua testa, lo fece smettere di tremare. “Richieste?” Allentò la presa attorno alla pagina e le diede una scossetta. Rilesse ancora una volta. Se prima si era infiammato di rabbia, ora rabbrividì di disgusto. “Queste non sono richieste, temo. Questo...” Tornò ad abbandonare il documento fra le mani dell’ammiraglio, si rimboccò il bavero della giacca, e riprese a camminare lungo la banchina. “È un vero e proprio ultimatum camuffato da richiesta diplomatica.”

“Un...” L’ammiraglio rigirò la pagina fra le mani infreddolite, lisciò l’orlo stropicciato, e lesse anche lui. Sgranò le palpebre, raccolse un sospiro. “Ma allora...” Nei suoi occhi scintillò un luccichio ormai familiare. “Allora è guerra.”

“Sì.” Giappone non provò alcuna paura nell’ammetterlo. In fondo al suo animo fiorì un sentimento candido, soffice e sereno come un bocciolo di crisantemo che si schiude sprigionando finalmente il suo profumo. Fu liberatorio accettare quella realtà dentro di sé. Ora non c’è niente che può ostacolarmi. Niente più inganni, niente più sotterfugi, né con i miei nemici né con i miei alleati. Adesso anche io potrò mostrare il viso aperto nel conflitto, senza mai più essere costretto a rimanere nell’ombra. “Salperemo oggi stesso per le Hawaii,” dichiarò, “in modo da giungervi entro il sette dicembre, come prestabilito.” Allontanò le ciocche di capelli sventolate davanti agli occhi e volse lo sguardo alle navi che lo attendevano nella rada. “Ora non c’è più nulla che potrà contrastare i nostri piani.”

L’ammiraglio annuì, riprese a seguirlo nella sua lenta marcia. “Come rispondiamo agli accordi?”

“Chiaramente non potrà esserci un’aperta dichiarazione di guerra da parte nostra con così largo anticipo.” Giappone si sfilò la mano dai capelli e la giunse all’altra dietro la schiena. “Non possiamo permetterci che gli americani corrano ai ripari, altrimenti mancherebbe l’effetto a sorpresa. Tuttavia non ci renderemo nemmeno partecipi di una calunnia perseguibile su via diplomatica. Tutto verrà eseguito nella piena legalità e nella piena lealtà.”

L’ammiraglio inarcò un sopracciglio, e un velo di dubbio gli mascherò lo sguardo annebbiato.

“Invieremo anche noi un trattato a Washington,” si spiegò Giappone, anticipando le sue domande. “Un trattato in risposta alle loro richieste in cui saranno elencati quattordici punti cifrati. Quattordici punti che riassumeranno le motivazioni del nostro rifiuto davanti alla scarsa collaborazione del governo americano davanti alle nostre esigenze. Quando a Washington riusciranno a decifrare l’ultimo punto, ormai sarà troppo tardi, e nemmeno loro potranno prendere d’anticipo un attacco che ormai sarà già cominciato. Gli americani sono convinti di possedere un vantaggio su di noi. ‘O lasciate la Cina o ne pagherete le conseguenze’. È questo che hanno cercato di dirci con queste ultime proposte. Ma gli unici a pagare le conseguenze della propria ingordigia e presunzione saranno loro e basta.”

Gli occhi dell’ammiraglio, da febbrili e luminosi di emozione davanti alla dichiarazione di guerra, si rifecero seri e meditativi. “Dopo la conclusione di questo attacco...” Aggiustò il copricapo mosso dalla furia del vento e lo calò sulla fronte, proteggendosi dagli schizzi delle onde sospinte dalla burrasca. “Dovremo affrontare molte conseguenze.”

Giappone annuì. “È vero.” Ma il senso di calma permase, mantenendo il suo cuore racchiuso in quella candida carezza di serenità e sicurezza. “Ma il nostro popolo rimarrà unito e i nostri soldati affronteranno con coraggio ogni battaglia che seguirà. Questo forse non ci renderà vincitori in ogni battaglia, ma ci renderà sempre degni avversari davanti a qualsiasi nemico.”

“Sì, signore.” Di nuovo attraverso gli occhi anziani dell’ammiraglio trasparì quella devozione e quell’orgoglio di chi sarebbe stato disposto a dare la vita per la sua nazione. L’uomo fermò il passo con uno schiocco di tacchi sul cemento e batté un saluto. “Prenderemo il largo e lasceremo la baia oggi stesso, signore.”

Giappone annuì di nuovo, ripensando alla traiettoria in linea retta che aveva tracciato lui stesso attraverso il Pacifico, dalle Curili alle Hawaii. “La rotta resta quella prestabilita. Direzione nord-est, distanti da qualsiasi traiettoria convenzionale. Luci spente e silenzio radio assoluto, in modo da evitare il contatto con qualsiasi nave o aereo in perlustrazione. E rinnovo inoltre l’ordine che ho già impartito: l’abbattimento di qualsiasi imbarcazione dovesse incrociare il nostro tragitto, sia straniera che giapponese.”

“Sarà fatto, signore.” Fra l’ammiraglio e Giappone si condensò un ultimo sguardo colmo di rispetto e di complicità, la stessa occhiata fiduciosa che l’ufficiale gli aveva rivolto durante le esercitazioni, quando Giappone si trovava al centro della miniatura di Pearl Harbor, con le gambe immerse nell’acqua della piscina. Acque che nel giro di pochi giorni si sarebbero realmente separate davanti al suo sanguinoso passaggio. “Comunque andrà,” ribadì l’ammiraglio. “Noi le saremo vicini.” Calò il copricapo sulla fronte, girò i tacchi e si congedò sparendo sotto una sbracciata del vento, attraverso lo strato di bruma addensata dagli schizzi del mare.

Giappone si ritrovò di nuovo solo in quell’ambiente grigio e ostile che gli brontolava sulla testa, rimestando il gonfiore delle nuvole fra gli edifici portuali e schiaffeggiando le onde sulle scogliere e sugli scafi delle navi ancorate al ponte. Sfilò una mano da dietro la schiena, senza però lasciarsi sfiorare dalla croce di ferro che rimase nascosta sotto la manica, e si posò il palmo sul petto, andando incontro al battito del suo cuore. Un battito ancor più solenne e profondo del ruggito del vento.

Chiuse gli occhi e si abbandonò a quel battito che non era solo il suo ma anche quello di ogni anima che abitava la sua nazione. Le anime dei civili, dei soldati, dei marinai, dei piloti. Ma anche le anime che ruggivano nei cuori d’acciaio delle navi da guerra e degli aerei che avrebbe sorretto fra le sue mani e guidato durante l’attacco. Riscoprì quell’incanto con la stessa meraviglia di quando millenni prima aveva preso coscienza della sua natura e della grandezza che il suo piccolo corpo incarnava.

“Non devi aver paura del peso di questa responsabilità.” Di nuovo il tocco della sua ombra gli scivolò attorno, trascinato mollemente da un soffio di vento, e sovrappose le mani a quella che Giappone teneva posata sul petto. Fu un tocco freddo ma saldo. “Saprai sostenerlo e saprai guidare ogni singolo battito di vita che ti scorre nel sangue. E soprattutto...” Le dita d’ombra s’intrecciarono alle sue. Un respiro nero gli attraversò la pelle. “Sarai in grado di ottenere ciò che desideri e ciò che ti spetta. Sarà questo l’onore più grande.”

Giappone tenne gli occhi chiusi, la fronte china. Annuì. “Sì.” Strinse il pugno accostato al petto, attirò a sé il peso di quell’oscurità e posò la fronte sulla sua, abbandonandosi fra le sue braccia. “Mi fido.”

Si fidava, eppure c’era sempre quell’angolino del suo cuore che batteva duro e lacrimante davanti al pensiero di ritrovarsi sul campo di battaglia davanti ad America, di dover far scorrere sangue e dolore su quegli occhi che avevano tentato di raggiungerlo e che Giappone stesso non era riuscito a salvare.

Incosciente.

Giappone rabbrividì, di nuovo si scaldò d’indignazione davanti al ricordo dell’involucro che aveva appena scartato, delle richieste che aveva appena letto e a cui non si sarebbe mai sottomesso. Il suo petto batté un tonfo di dolore nel ricordare anche lo sguardo speranzoso di America, quegli occhi così ingenui e trasparenti che non avevano paura di mostrarsi vulnerabile davanti al nemico. “Io non ti voglio condannare, Giappone. Io ti voglio salvare dalle scelte sbagliate che prima o poi finiranno sicuramente per distruggere sia te che la tua gente.”

Giappone scosse il capo come aveva fatto allora e rifiutò quell’umiliazione. Razza di incosciente. Perché, America? Perché? Perché ti sei scelto questo destino? Perché non hai saputo interpretare i miei segnali che avrebbero potuto permetterti di evitare questa sorte? Perché non hai saputo difenderti? Riaprì le palpebre. Dai suoi occhi neri trasudò un dolore liquido che nemmeno il vento ghiacciato di quel porto riuscì a congelare. Eppure io ho tentato, America. Ho realmente sperato di poterti salvare, ma sei stato tu a scegliere la guerra. Fronteggiò di nuovo il mare, lo strato di nebbia smosso dal vento, i cavalloni che avrebbe domato e attraversato per scatenare lui stesso una tempesta senza precedenti. E ora ne pagherai le conseguenze. Fino alla fine.

 

♦♦♦

 

27 novembre 1941

Pearl Harbor, Isola di Oahu

Hawaii

 

La bandiera statunitense risalì l’albero maestro della corazzata Nevada, si spiegò sotto un primo schiaffo di vento, raggiunse la cima, e il suo sventolio toccò la sommità del cielo azzurro e sgombero da nuvole. Dal ponte della corazzata squillarono i primi fiati delle trombe, i tamburi della banda militare rullarono e batterono il ritmo dell’inno americano che annunciava l’alzabandiera in quella calda e tropicale mattinata di novembre. Una miriade di altre bandierine colorate svolazzarono dai tralicci della Nevada e delle altre imbarcazioni ancorate attorno a Ford Island, nel Middle Block, agitandosi al vento come tante piccole ali e dando il buongiorno a una nuova alba di vita appena sorta sulla piccola isola hawaiana.

America raccolse le gambe sul pilone di cemento su cui era seduto, piegò un ginocchio al petto, poggiandoci il gomito sopra, e affondò il pugno nella guancia gonfia e intenta a ruminare una gomma da masticare alla fragola. Assistette all’alzabandiera mattutino con sguardo distante e impensierito, nonostante il bel cielo cristallino che quel giorno non riusciva a specchiarsi nei suoi occhi, nonostante la piacevole aria salmastra già intiepidita dai primi raggi di sole, e nonostante il tambureggiare del suo inno nazionale che, unito allo sventolare della sua bandiera, non gli trasmise il solito buonumore.

America fece dondolare la gamba dal pilone su cui era seduto, fece esplodere una bolla con la gomma da masticare, e calò lo sguardo dallo sventolio della bandiera, posandolo sulla banda militare che stava ancora suonando, radunata sul ponte dove scintillavano le luci degli strumenti a fiato. Marinai e ufficiali vestiti delle loro uniformi bianche, i volti pieni e abbronzati, i berretti calati davanti agli occhi sorridenti rivolti alla bandiera statunitense che si agitava davanti al sole tropicale, e le mani tese in un saluto inorgoglito. Anche America avrebbe dovuto provare un battito di fierezza davanti a quello spettacolo, ma tutto quello che gli borbottava nello stomaco e che gli soffocava il respiro nel petto era uno sgradevole senso di disagio che non apparteneva al suo cuore libero e spensierato.

America soffiò un sospiro amareggiato. Uffa. È da quando sono qui a Pearl Harbor che non riesco a starmene tranquillo. Fece esplodere un’altra bolla rosa fra le labbra, risucchiò la gomma da masticare e riprese a smangiucchiarla. I suoi occhi vagarono fra i colori delle bandierine che adornavano i tralicci delle navi, seguirono il volo circolare di una coppia di gabbiani, e calarono all’orizzonte, dove le sagome grigie di altre imbarcazioni galleggiavano pacifiche nello stretto d’acqua che li separava da Hickman Field.

America tamburellò il piede alla base del pilone. Eppure non sono il tipo da farmi influenzare così dai cattivi pensieri, diamine. Sono sempre stato capace di affrontare qualsiasi situazione, qualsiasi ostacolo, qualsiasi sfida e qualsiasi cambiamento. Perché dovrei essere più in pericolo rispetto al passato? Fece roteare lo sguardo. D’accordo, d’accordo, Inghilterra è stato anche abbastanza convincente quando mi ha messo la pulce nell’orecchio per il pericolo di invasione, e gli attacchi nelle Filippine, e quella dannata cosa di Port Arthur che potrebbe ripetersi su di me. Ma io continuo a dire che l’ha fatta troppo tragica. Perché poi questa volta dovrebbe essere diverso rispetto a una normale dichiarazione di guerra fra me e un mio nemico?

Quei pensieri lo catapultarono alla sua ultima giornata trascorsa a Washington. L’incontro burrascoso con Inghilterra e la catastrofica riunione con Giappone. Il momento in cui si era ritrovato fulminato da quegli occhi iniettati di sangue che non era stato in grado di riconoscere.

America smise di masticare la gomma, senza più riuscire a sentirne il sapore di fragola, com’era successo con il lecca-lecca alla ciliegia. Un sapore amaro gli riempì la bocca, riaddensò il senso di nausea in fondo allo stomaco.

Forse è perché è Giappone quello a essere diventato così diverso dal solito? Così tanto che stento a riconoscerlo ogni volta in cui lo incontro?

Lo colse un brivido. Di nuovo si ritrovò trafitto dalla scintilla d’odio sfrecciata dagli occhi di Giappone, da quel desiderio di distruzione che gli aveva arrestato il battito, come trafitto da un affondo di katana in mezzo al cuore.

Giappone...

America socchiuse gli occhi e trasse un sospiro compassionevole. Girò la guancia contro il ginocchio, abbracciò la gamba che aveva piegato al petto, fece dondolare il piede, e si rivestì di una nuvoletta di tristezza. Gli rivolse quei pensieri come se Giappone fosse stato lì davanti a lui.

So che ora sei arrabbiato e che non vuoi altro che annientarmi, ma se scatenerai questa guerra ne finirai sopraffatto, te lo giuro. E io invece posso ancora aiutarti a starne fuori. Ma il tuo desiderio di salvarti riuscirà davvero a essere più forte rispetto a quello di distruggere me?

Riprese a masticare la gomma, ma ogni dolcezza si era sciolta, inacidita da quei tormenti. America stropicciò un’espressione di disgusto, tornando a sprofondare nella voragine di malumore stretta come un’ombra attorno al cuore. Ecco, non posso nemmeno mangiare qualche caramella in pace senza che tutti questi scervellamenti mi facciano la bocca cattiva. Non è giusto!

“Signore?”

America si voltò al richiamo.

Un giovane ufficiale impietrì un saluto. Alle sue spalle sfrecciarono i primi aerei innalzati dall’Hickman Field per le esercitazioni di prima mattina, e la formazione si aprì a ventaglio. “La cercano, signore. Ci sono importanti aggiornamenti riguardo i negoziati con il governo giapponese, ed è richiesta la sua presenza per...” Il giovane calò la mano dalla fronte, la giunse dietro la schiena, e indurì un’espressione più incerta. “Per tutte le decisioni che seguiranno.” L’eco del boato appena esploso dal campo di aviazione brontolò, trascinato via dal vento, come la voce di un temporale distante, e con lui cessò anche la melodia dell’inno americano suonato dal ponte della Nevada.

America smise di far dondolare la gamba dal pilone. Le decisioni che seguiranno? Inarcò un sopracciglio e arricciò un angolo della bocca in un’espressione simile a quella che aveva stropicciato quando aveva addentato la gomma da masticare improvvisamente amara come un boccone di bile. Allora non sono di certo buone notizie. “La seguo.” Saltò giù dal pilone, ingoiò la gomma, si ficcò le mani nelle tasche della giacca, e seguì il giovane ufficiale, superandolo dopo soli pochi passi. Ma quanto brutte saranno?

 

.

 

Come c’era da aspettarsi, le notizie che lo attendevano erano brutte. Ma nemmeno America si aspettava fossero così brutte.

Ancora costernato per quello che aveva letto nel documento del rapporto, America strinse i pugni sul davanzale della finestra e si affacciò al panorama sminuzzato dalle persiane socchiuse, alla luce del sole che batteva sull’asfalto striato di bianco dell’Hickman Field, sulle lamiere d’acciaio dei capannoni e sulle fusoliere degli aerei da caccia disposti fuori dagli hangar. Gli uomini in uniforme a girarvi attorno come tante piccole formiche, qualche furgone a viaggiare per le vie del porto, le bandiere statunitensi seminate su ogni palizzata a gettare la loro ombra sui campi, e la distesa blu della baia a coronare l’orizzonte da cui sorgevano le costruzioni portuali e i promontori scoscesi. Dall’ufficio del generale affacciato sull’Hickman, America riusciva anche a vedere le stesse navi che aveva osservato quando quella mattina si era appollaiato sul pilone per assistere all’alzabandiera della Nevada ancorata a Ford Island. Deglutì. La sensazione di malessere che aveva provato allora tornò a scivolargli sotto i vestiti e a soffocarlo come un abito troppo stretto che non riusciva a strapparsi di dosso.

Dietro di lui, si mosse il fruscio cartaceo dei documenti rigirati fra le mani del generale. “Questo è quanto, signore.” L’uomo pareggiò le carte e si spostò dietro la scrivania. Lui e America erano soli nell’ufficio, in quel silenzio distante dal vivace movimento che regnava nell’isola. “Ora i negoziati con il Giappone per la normalizzazione della situazione nel Pacifico possono definirsi ufficialmente interrotti. Interrotti e falliti. Ed è chiaro che dobbiamo comportarci di conseguenza.” Abbassò il timbro di voce, “Ci dica lei cosa dobbiamo aspettarci”, che suonò avvilito e scoraggiato come la luce che gli traballava negli occhi.

America irrigidì i pugni sul davanzale, strinse il labbro inferiore fra i denti per placare un breve tremore del suo respiro, e scavò dentro di sé in cerca di un nodo di rabbia, di una singola fiammella di cui avrebbe potuto nutrirsi per accendere la miccia di quella guerra, ma trovò solo un vuoto di tristezza. Perché, Giappone? Una profonda incomprensione nei confronti del suo nemico. Perché ti sei deciso da solo questa sorte? Perché hai rifiutato ogni mio tentativo di venirti incontro e di evitare la guerra? Perché hai voluto a tutti i costi imboccare questa strada? È perché pensi che tanto io non sarò in grado di reagire e di tenerti testa? Scosse il capo. Ma ti sbagli. È vero che io speravo ancora di salvarti, ma non mollerò, nemmeno dopo questo affronto. Le cose non andranno come vorrai tu, Giappone, anche se hai scelto la guerra. Separò due lastre delle tapparelle e si lasciò inondare da un fascio di sole. Per la prima volta da quando il mattino era sorto su Pearl Harbor, America si affacciò senza alcun brivido di esitazione al panorama del porto, alla visione della sua Pacific Fleet al completo. Su questo puoi stare sicuro.

“Cosa dobbiamo aspettarci?” America sfilò le dita dalle tapparelle e si voltò verso il generale. Aggiustò la montatura degli occhiali, e un baleno di luce saettò attraverso le lenti. “Un’aggressione imminente da parte dei giapponesi, mi sembra ovvio. Forse in Malesia, oppure nelle Wake, o ancora nelle Midway.”

La voce di Inghilterra riemerse dai ricordi –“Ma il punto è che Giappone non è estraneo ad attacchi a sorpresa di questo genere. E forse ora avrà intenzione di ripetere l’impresa. Magari imparando dagli errori passati e ricreando qualcosa di ancor più colossale e devastante” – e America si arrese con un sospiro sconfitto a quelle parole, rassegnandosi all’idea di dover ingoiare quell’amara verità. Tornò a volgere lo sguardo alla finestra per non rendere palese quel cedimento. “Ma più probabilmente nelle Filippine.”

Il generale annuì, comprese al volo. “Diamo ordine di disporre un ordinamento difensivo su tutti i territori, allora?”

“Chiaro. Però...” L’avversione nei confronti della guerra tornò ad attraversare l’animo di America, gli trasmise quel senso di disgusto e repulsione che provava ogni volta in cui era costretto a camminare fra le macerie di una città distrutta dai bombardamenti, a udire i pianti e le grida delle persone a cui il conflitto aveva strappato ogni cosa, ad assistere alle marce dei soldati che si rovesciavano su terre conquistate seminando cadaveri e impronte di sangue. America trasse un respiro profondo e si allontanò dalla finestra.  “Con discrezione,” si premurò di specificare. Perché l’ultima cosa che voglio è portare la realtà della guerra anche in mezzo ai civili, a tutte quelle persone innocenti che non meritano di vivere una sorte del genere. “Accelerate la preparazione degli uomini che stazionano nei porti...” Contò sulle punte delle dita. “Mantenete tutta la Flotta del Pacifico in uno stadio di allarme intermedio, eseguite le ispezioni dovute e raddoppiate i controlli, ordinate maggior vigilanza, mantenete le munizioni sotto sicura, e mettete in allerta anche ogni artiglieria costiera. Ma non create alcun allarme sulla popolazione civile. Non voglio che il popolo rimanga coinvolto in una guerra che non gli appartiene. Quindi niente allarmismi.” Sventolò la mano all’aria. “Niente palloni frenanti, niente coprifuoco, nulla che possa saltare troppo all’occhio e che possa scatenare qualche panico di massa. È l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno.”

“Certo. E...” Il generale giunse le mani dietro la schiena e flesse il capo di lato. “E in quanto a lei, signore? Cosa intende fare?”

“Io devo tornare a Washington.” America arrestò il passo tornando a piazzarsi davanti alla finestra. Pronunciare quella frase gli provocò un doloroso tuffo al petto. Sapeva che era solo questione di tempo prima di dover indossare nuovamente il peso della sua corazza di guerra. Ma non ebbe paura. “Tornerò a Washington, e da lì mi preparerò ad affrontare l’arrivo di questa guerra, facendomi trasferire dove ci sarà un maggior pericolo di attacco o di invasione.”

Il generale annuì. “Quando vorrebbe partire per Washington?”

“Immediatamente.”

“E le portaerei, signore?” Il generale flesse un sopracciglio, incrinò la sua maschera di integrità. “Pensavamo che volesse aspettare che rientrassero in porto qua a Pearl Harbor prima di...”

America sobbalzò e per poco non perse l’equilibrio, rompendo quella sua posa statuaria. “Acc...” Strinse gli occhi quasi gli fosse caduto un mattone in testa. “È vero.” Si diede una strofinata alla nuca e borbottò a labbra strette. “Le portaerei.” Ma è anche vero che ora ho problemi più importanti. No, aspetta un momento, se dovesse scoppiare una guerra navale fra me e Giappone, allora le mie portaerei saranno la mia arma più forte, più moderna e più all’avanguardia. Saranno la mia assicurazione per la vittoria, quindi devo tenermele ben strette e assicurarmi che lavorino alla perfezione. Forse allora è davvero meglio se io... “Allora continuerò ad aspettarle qui, come da programma.” Si fece carico della sua decisione finale. “Ma poi partirò immediatamente. Anche se evitare la guerra è sempre stata la mia intenzione e la volontà della mia gente, di certo non permetterò a una nazione come il Giappone di fare fessi gli Stati Uniti d’America.” Strinse un pugno davanti al petto. La posa di nuovo ferma e gli occhi sereni all’idea di dover attraversare quella tempesta. “Né tantomeno mi farò trovare impreparato quando deciderà di aprire le ostilità.”

Fra le labbra del generale sbocciò un piccolo sorriso rassicurante. “Qui a Pearl Harbor sarà sempre al sicuro, signore, perciò non si preoccupi. Non permetteremo a niente e a nessuno che le succeda qualcosa di male.”

“E io non permetterò che succeda a voi.” Di nuovo il panorama fuori dalla finestra catturò lo sguardo di America. Le formazioni di aerei che decollavano dall’Hickman, che prendevano il volo innalzandosi nel cielo di Oahu, che attraversavano lo stretto d’acqua racchiuso nella baia di Ford Island, e che sfrecciavano andando incontro ai raggi di sole aperti a ventaglio sull’orizzonte oceanico. I gruppi di marinai in uniforme bianca che si spostavano marciando fra le vie del porto, i profili bassi e piatti delle caserme, i tralicci delle navi scossi dal vento che li faceva luccicare, e quegli ampi campi verdeggianti che foderavano le pareti scoscese dei promontori vulcanici. Promontori da cui America stesso si era sporto, all’ombra delle stazioni radar, per volgere lo sguardo all’abbraccio di terra che custodiva la piccola città di Pearl Harbor.

Lo scosse un brivido, un dubbio. Ancora quella viscerale sensazione di disagio che non riusciva a sputare fuori dallo stomaco. Ancora il ricordo delle navi distrutte e del porto in fiamme che aveva fronteggiato fra le pagine del libro che Inghilterra aveva spalancato davanti ai suoi occhi. “La difesa qui a Pearl Harbor,” mormorò, “è preparata per far fronte a un attacco navale?” Si voltò di nuovo verso il generale. “Oppure...” Lasciò la frase in sospeso, lasciò intendere.

Il generale sobbalzò, colto alla sprovvista da quella domanda assurda. “Un attacco navale?” Si tolse da dietro la scrivania e anche lui marciò fino alla finestra. Quel sorrisetto sereno e sdrammatizzante sempre lì a incurvargli le labbra e a spolverargli le guance di rosa. “Questa base sarà sempre al sicuro e protetta in caso di attacchi navali, signore.” Sollevò il mento per indicare il profilo del porto. “La forma della rada così strozzata e sorvegliata impedisce l’accesso di navi nemiche. Inoltre, qua a Pearl Harbor staziona la quasi interezza della Flotta del Pacifico.” Ridacchiò. “Solo un pazzo avrebbe l’idea di tuffarsi spontaneamente in una tale tana del lupo.”

“Però abbiamo un’unica rete anti sommergibile,” precisò America, “e non c’è nessuna restrittiva sui blackout, e nemmeno pattuglie di perlustrazione costanti, e ci sono già tutti quei problemi con i radar.” Si strinse nelle spalle. “Forse...”

“L’unico vero pericolo che potrebbe minacciare una base come Pearl Harbor sono i sabotaggi, signore. Ma anche per questo siamo più che sufficientemente preparati.” Il generale separò due lastre delle tapparelle per allargare il campo visivo e indicò gli aerei disposti in fila fuori dagli hangar dell’Hickman. “Vede. Abbiamo disposto gli aerei all’esterno degli hangar, uno accostato all’altro, a una distanza molto ravvicinata.”

America inarcò un sopracciglio, senza afferrarne la connessione. “E in questo modo...”

“In questo modo,” continuò il generale, “diminuendo la superficie occupata, sarà molto più facile difenderli, impedendone la manomissione.”

“Ah.” Ma se ci dovesse essere un attacco dall’alto, si disse America, allora esploderebbero uno dietro l’altro, sarebbero bersagli facilissimi da colpire, e... Scosse subito il capo e per poco non sghignazzò anche lui davanti all’assurdità di quell’ipotesi. Ma no, che dico? Un attacco aereo qua a Pearl Harbor? Sarebbe ancora più impensabile rispetto all’idea di un attacco navale. È come ha detto Inghilterra. Se davvero Giappone attaccherà per primo, allora è...

Questo lo fece bloccare, riaccendendo in lui un forte senso di amaro in bocca, unito però al sapore più agrodolce della nostalgia e del rimorso, degli ultimi dolcetti cinesi che Inghilterra gli aveva portato e di cui lui si era ingozzato durante il loro ultimo incontro, prima di inacidirsi la lingua con quella stupida litigata.

Di nuovo un peso di sconforto gli gravò sulle spalle, rese l’ambiente più freddo e buio, i suoi occhi più tristi. Non avrebbe dovuto litigarci in quella maniera proprio prima di partire per le Hawaii.

Già, si disse America. Alla fine è proprio come ha detto Inghilterra. Le trattative sono fallite, dato che Giappone ha rifiutato di nuovo i punti del mio accordo. Quindi ci sarà davvero un attacco come ha previsto? Sarà Giappone a colpirmi per primo? Ma quanti danni sarà in grado di causare? Quante vittime ci saranno? Cosa posso fare per salvare tutte quelle vite? Strinse un pugno sulla finestra, sentendosi di nuovo irradiato dalla forza bruciante e inarrestabile del sole tropicale. Ma io non sono impreparato come Inghilterra e Giappone credono. E glielo dimostrerò. Le Filippine, le Wake, le Midway, la Malesia... tutti questi territori stanno già venendo difesi per impedire un’invasione, quindi non ci sarà nessuna catastrofe che io non possa affrontare. E forse io stesso potrò ancora impedire a Giappone di commettere qualche gesto irreparabile. Sorrise e annuì a se stesso. Il cuore gonfio di ottimismo. Sì, non è ancora andato perso nulla. Posso ancora salvarlo. Posso ancora dimostrargli che ne vale la pena. Anche se lui ha scelto la guerra.

Il cielo di Oahu apparve di nuovo limpido, tinto di speranza. America non sapeva ancora che quello stesso cielo specchiato nei suoi occhi avrebbe presto accolto una tempesta senza eguali. Una tempesta tale che avrebbe macchiato per sempre l’orizzonte di Pearl Harbor, soffocando il suo cielo e la sua terra con fumo, fiamme e sangue.

Il sole non sarebbe mai più brillato nella stessa maniera su quell’isola.

 

♦♦♦

 

2 dicembre 1941

Largo dell’Oceano Pacifico

Bordo della Portaerei Akagi

 

Una saetta bianca spaccò il tappeto di nuvole di cui il cielo era foderato, stiracchiò i suoi rami arpionando l’orizzonte, e scaricò un tuono scrosciante fra le onde in tempesta da cui ruggiva la furia dell’oceano. La portaerei Akagi s’impennò, fendette la risacca di mare che si era innalzata davanti al suo tragitto, e tornò a cadere, boccheggiando per riprendere equilibrio nella tempesta. Il muro d’acqua diviso dal suo passaggio si schiantò sulla larga piattaforma di lancio, sollevò uno scroscio schiaffeggiante, e la spuma d’acqua rotolò lungo lo scafo dell’imbarcazione, tornando a precipitare nell’oceano.

Un secondo ramo di fulmine saettò fra le nuvole e cadde in mare, illuminando i profili delle altre navi che scortavano il convoglio di sei portaerei, brillando sulle loro piccole sagome cullate dall’incessante moto delle onde tanto alte da far scomparire la linea d’orizzonte sotto gli incessanti rigetti di schiuma e di acqua nera che davano l’impressione di star trascinando giù il cielo, di romperne un pezzo a ogni boccheggio e a ogni rullata.

Gli occhi di Giappone non mostrarono alcuna sfumatura di turbamento davanti a quello spettacolo, davanti al mare che compariva e scompariva di fronte all’avanzata della sua Akagi, di quella fortezza galleggiante che nemmeno la furia del Pacifico sarebbe stata in grado di affondare. Il suo corpo immobile nonostante le oscillazioni abbattute sulla torre di vedetta a ogni risacca, il respiro lento e regolare nonostante la pressione di quell’aria nera ed elettrica a schiacciargli il petto, e lo sguardo di ghiaccio nonostante i fulmini fiammeggianti che brillavano dietro i profili delle onde, sbriciolando le nuvole in quel mare senza fine.

La sua ombra gli fu affianco, si sporse da sopra la sua spalla per affacciarsi anche lui al vetro rigato di acqua nera. “Una tempesta degna di questo oceano, degna di questa tratta che nessuno osa valicare da decenni.” Guardò in alto, senza riuscire a raggiungere la sommità del cielo. Un’altra onda si rovesciò sulla portaerei, inondò il vetro della postazione di vedetta, e colò lungo il profilo della torretta. La Akagi scavalcò un’altra risacca e si schiantò nuovamente in acqua, scossa da un forte tonfo e illuminata dall’esplosione di un ennesimo tuono. “Sembra quasi che il cielo stesso si stia aprendo per noi,” mormorò la voce, sfiorando l’orecchio di Giappone con la sua freddezza. “Hai dimostrato un coraggio senza precedenti nel voler percorrere questa traiettoria solo per evitare di essere scoperto nel tuo avvicinamento alle Hawaii.”

Giappone si chiuse nelle spalle, stropicciò una manica fra le dita. “Un convoglio composto da più di trenta imbarcazioni di cui sei portaerei non può passare inosservato su una tratta sicura ma esposta. Inoltre, non ho paura di questo mare e non temo queste bufere.” Raccolse un breve respiro dalle narici. “Perché questa tempesta che sto attraversando è solo il preludio di una burrasca infinitamente più grande, catastrofica e distruttiva che io stesso sto per provocare con le mie stesse azioni. Se non fossi preparato ad affrontare una simile tempesta, non lo sarei nemmeno nei confronti della guerra stessa.

L’ombra annuì, gli strinse una mano sulla spalla. “È il tuo rito di passaggio.”

Giappone socchiuse le palpebre in un muto cenno di acconsentimento. “Sì. La prova definitiva che mi rende meritevole di scatenare la guerra nel Pacifico e di turbarne l’equilibrio.” Aspettò che il rimbombo di uno scossone si ritirasse, che l’acqua scivolasse giù dal vetro della torretta, e che le pareti smettessero di vibrare. Sbottonò la prima chiusura della giacca e andò in cerca dell’orologio tascabile. Ormai ho compiuto tutto ciò che era in mio potere per farmi trovare preparato. Adesso... Ne schiuse il guscio, esponendo le lancette alla luce bluastra rigata dai riflessi d’acqua. Tutto quello che mi resta da fare è cogliere i frutti di ciò che ho seminato in questi ultimi mesi. Le cinque meno dieci del pomeriggio. Non avrebbe dovuto aspettare ancora troppo a lungo.

“È tardi.” La sua ombra fece da eco ai suoi pensieri. “Ormai dovrebbero già avere notizie di...”

Giappone annuì, senza bisogno di farlo continuare. “Non resta che scoprirlo.” Rimise in tasca l’orologio, richiuse la giacca, diede le spalle alla tempesta, ai fulmini che continuavano a brillare fra le onde e agli schizzi di mare mescolati alla pioggia che continuava a gocciolare dal vetro della vedetta, e si ritirò in plancia, dove un’altra bufera attendeva di essere scatenata.

 

.

 

L’ammiraglio versò il sakè bollente nell’ultimo dei tre bicchierini che avevano disposto sul vassoio incastrato fra le pile di documenti in pendenza sulla scrivania. Una gonfia bolla di vapore sbocciò dal liquore, riempì le pareti della camera di un profumo sciropposo e penetrante che superò persino quello dell’inchiostro fresco battuto sulle carte, quello di legno verniciato proveniente dai mobili, e si dissolse, annebbiando l’ambiente già carico di una nuvola di tensione.

Giappone raccolse il suo bicchierino, incurante del bruciore della porcellana fra i polpastrelli, e vi fece tamburellare le unghie sopra, solleticato dai vapori del sakè saliti a sfiorargli il naso. I suoi occhi fermi e attenti dietro il nastrino di fumo che gli danzava davanti al viso. Lo sguardo immobile sugli ultimi movimenti della macchina crittografica e l’orecchio teso, pizzicati dagli ultimi ticchettii metallici provenienti dai tasti che stavano battendo i segni del codice cifrato in arrivo dalla corazzata Nagato. Il messaggio definitivo.

L’ammiraglio – lui non aveva ancora toccato il suo bicchiere di sakè, dopo averlo versato – si sporse da sopra la spalla del secondo ufficiale che sedeva davanti alla macchina crittografica. Estrasse il foglio dall’apparecchio, aggiustò gli occhialini davanti agli occhi ristretti, e fece correre lo sguardo su quei pochi caratteri appena stampati. Il suo volto s’indurì, la fitta rete di rughe stropicciò un’espressione consumata e indecifrabile. Attraverso l’ovale delle lenti balenò una luce che tenne nascosto il battere delle sue ciglia.

L’ammiraglio inspirò, senza aprire bocca, senza corrugare nemmeno un sopracciglio, e porse la pagina a Giappone.

Giappone staccò la presa dal bicchierino di sakè che non aveva nemmeno assaggiato e distese il palmo attraverso cui pulsarono i battiti accelerati del suo cuore. Con quel gesto gli parve di aver attraversato l’intero Oceano Pacifico e di essersi precipitato su Pearl Harbor con un solo colpo di braccio. Girò il foglio, si lasciò avvolgere da un gelido drappo d’ombra che gli congelò il fiato nei polmoni, e lesse.

Un’unica frase, ma l’unica che avrebbe dovuto esserci scritta. Quella che tutti si aspettavano di veder comparire.

 

Niitaka-yama nobore

 

Giappone si nutrì di quelle parole, lasciò che divampassero in lui, che frantumassero il ghiaccio dal suo petto come se avesse risucchiato la fiammata di sakè tutto d’un fiato.

Niitaka-yama nobore. Scalate il Monte Niitaka.

Pearl Harbor poteva essere attaccata.

La voce della sua ombra ruppe il rumore bianco che gli fischiava nelle orecchie. “La sorte dunque è finalmente e irreversibilmente decisa.” Forti mani bianche, mani fantasma, gli strinsero le spalle e lo immobilizzarono, tenendolo voltato verso il suo destino. “Adesso non c’è nulla che può farci tornare indietro.”

Giappone acconsentì silenziosamente. “E così...” Accostò la pagina al petto, chiuse gli occhi. Si abbandonò a quel destino, accettandolo nel suo animo come aveva fatto al porto delle Curili, prima di salpare. “Il nostro Impero ha preso la sua decisione finale. Ormai nulla potrà impedirci di attaccare gli Stati Uniti. Nessun trattato, nessuna manovra diplomatica.” Rilesse il messaggio. Era ancora stampato sul foglio. Esisteva. Non poteva più essere cancellato. “Una volta terminata la nostra rotta e raggiunte le Hawaii, porteremo a termine il nostro compito e l’impegno che abbiamo preso nei confronti di ogni anima giapponese che brama la vittoria sulle forze occidentali.”

L’ammiraglio e il secondo ufficiale che si era occupato della macchina crittografica si scambiarono un’occhiata di striscio, senza interrompere il solenne silenzio disturbato solo dallo scricchiolio della porcellana riscaldata e dal volteggiare del vapore sopra i bicchierini di sakè bollente.

L’ammiraglio mantenne lo sguardo freddo, di pietra, nonostante la saetta che era lampeggiata e scoppiata nella cabina delle comunicazioni dopo l’arrivo del messaggio cifrato. “Ci arrivano anche altre notizie dagli ultimi monitoraggi su Pearl Harbor, signore. Alcune positive, e altre...” Raccolse il suo bicchierino di sakè dal vassoio. Rigirò il liquore fra le pareti. “E altre meno.” Bevve d’un fiato senza nemmeno averci soffiato sopra, ma il suo volto non fece una piega.

Giappone calò la pagina. “Di che cosa si tratta?” Attorno a lui, la sua ombra si contrasse, strinse la presa sulle sue spalle, premette il petto sulla sua schiena e inasprì la bolla di oscurità che lo circondava.

Di nuovo un’occhiata fulminea brillò fra gli sguardi dei due ufficiali, e i due uomini si parlarono senza aprire bocca.

L’ammiraglio strinse un pugno davanti alle labbra umide di liquore e ruppe il silenzio con un tossicchio. “Per cominciare, abbiamo ricevuto conferma che Pearl Harbor non è protetta da alcuna misura di sicurezza.” Posò il bicchierino sul vassoio e giunse le mani dietro la schiena. Compì qualche passo di fianco allo scrittoio. “Non rilevante, per lo meno. Nessun pallone frenante, nessuna rete anti sommergibile o anti siluro, tranne una mobile che viene comunque lasciata sempre aperta e attraverso cui non sarà un problema farvi entrare i sommergibili tascabili per la perlustrazione. Gli orari dei radar poi rimangono gli stessi. Unicamente dalle quattro alle sette del mattino, e le misurazioni avvengono solo tramite unità mobili che limitano le ricognizioni ai settori Ovest e Sud.”

Giappone sollevò un sopracciglio, colto da una scossa di spiacevole presagio. “E le cattive notizie?”

L’ammiraglio arrestò il passo con un secco tunf! dei tacchi battuti sul legno. Di nuovo l’aria bruciò di tensione, si fece densa da respirare.

Il secondo ufficiale, ancora seduto alla scrivania davanti alla macchina crittografica, intrecciò le dita davanti allo sguardo e chinò la fronte. Fu lui a scagliare quella bomba. “Le portaerei USS Enterprise, USS Lexington, e USS Saratoga...” Le sue mani irrigidirono, le nocche sbiancarono e un breve tremito risalì le braccia. “Non sono presenti nel porto di Oahu.”

Una voragine nera si spalancò sotto i piedi di Giappone. Le onde che ruggivano e boccheggiavano attorno al corpo galleggiante della portaerei si abbatterono su di lui con un tonfo secco e improvviso, scaraventandolo in mezzo alla tempesta di vento e fulmini, soffocandolo nelle profondità di quei mari senza fondo.

Ancora avvolta alle sue spalle, la sua ombra s’incendiò d’indignazione, consumando il bruciore di quella rabbia su di lui. “Le portaerei non sono a Pearl Harbor?” Le mani strinsero all’altezza del petto, soffocarono Giappone, e il rosso rubino delle iridi brillò come sangue appena versato. “Com’è possibile? Quando le hanno trasferite? E perché sono uscite dal porto?”

Giappone dovette schiudere le labbra sbiancate e contrarre i muscoli del ventre per ritrovare la forza di respirare. Cacciò fuori un unico sussurro. “Come?” La rabbia trasmessa dalla voce soffiata dietro il suo orecchio però non fu in grado di scalfire l’immobilità della sua espressione, o di arrochire le sue parole, o di spezzare la postura del suo corpo che rimase integro anche davanti a quella notizia. “Come è successo?” disse ancora, questa volta con minor sforzo. “Dove sono state trasferite?”

Il secondo ufficiale scavalcò con le braccia la macchina crittografica, raccolse una pila di documenti stampati prima dell’inizio della riunione. “Dunque...” Scartò un paio di fogli e si soffermò sui resoconti degli ultimi spionaggi. “La USS Enterprise staziona nelle Wake. Sappiamo che sta facendo ritorno a Pearl Harbor ma non ne conosciamo la data di arrivo. La USS Lexington invece è diretta alle Midway con il suo intero equipaggio. La USS Saratoga, invece...”

L’ammiraglio intervenne prima di lasciarlo finire. “Se volesse rimandare l’attacco lo capiremmo, signore.” Si strinse nelle spalle. “Considerando che il nostro obiettivo principale sono sempre state le portaerei e che adesso...”

“L’attacco avverrà comunque.” Giappone lasciò ricadere sullo scrittoio la pagina su cui avevano stampato il codice cifrato. Gli occhi fermi, il tono implacabile, l’espressione impenetrabile. “La baia di Pearl Harbor rimane comunque un nido di corazzate, incrociatori e di navi da guerra. Sarà lo stesso un ottimo obiettivo, anche senza le portaerei. E sarebbe controproducente annullare l’intera operazione solo per questo motivo.” Anche se è un inconveniente particolarmente seccante. “La disposizione delle altre imbarcazioni rimane quella che abbiamo studiato negli ultimi mesi?”

“Sissignore,” annuì il secondo ufficiale, risistemando i documenti sulla scrivania. “Le uniche imbarcazioni a mancare all’appello sono le portaerei.”

“Allora proseguiremo.” Giappone rivolse un cenno di capo alla macchina crittografica. “Cominciamo a inviare all’ambasciata di Washington il messaggio cifrato di quattordici punti, e teniamo monitorata la situazione a Oahu fino al nostro arrivo. Chiaramente, fintanto che non avremo raggiunto la posizione prestabilita, manterremo l’oscuramento su ogni nostra nave e il totale silenzio radio.”

“Sissignore.” Il secondo ufficiale si alzò dal posto alla scrivania, aggiustò il colletto della sua uniforme, e si congedò con un breve inchino di spalle. “Agli ordini.” Rivolse un ultimo e rispettoso cenno di spalle anche all’ammiraglio e abbandonò la piccola sala delle comunicazioni, richiudendo la porticina dietro di sé.

L’ammiraglio buttò un ultimo sguardo alla pagina con il codice crittografico appena decifrato, corrugò la fronte, guadagnò una scintilla di forza che splendette nel profondo dei suoi occhi grigi, e batté un piccolo attenti di fronte a Giappone. “Ha altri ordini, signore?”

Giappone scosse lentamente il capo. Gli occhi rivolti al pavimento e l’espressione assente. “No.” Raccolse il suo bicchierino di sakè da cui ora i vapori salivano più lentamente. Le pareti di porcellana non scottavano più. “Solo...” Ne annusò il profumo pungente che discese le narici, infiammandogli il petto e chiudendogli la bocca dello stomaco. Gli precipitò addosso un senso di fiacchezza che non seppe giustificare. I suoi muscoli si appesantirono, la testa si fece ovattata, sottili brividi di freddo corsero sotto gli abiti, la vista divenne appannata, e i pensieri si mescolarono, trottolando in un piccolo vortice sciamante e rumoroso, come durante una forte febbre. Gippone si resse la fronte. “Credo che per il momento mi ritirerò e...” Quei pensieri si materializzarono e si riplasmarono nelle immagini che avrebbe affrontato entro pochi giorni – il volo dei suoi aerei a pesargli fra le mani, gli aerosiluranti in picchiata, le esplosioni sottomarine che avrebbero spezzato in due le plance delle navi americane, le mitragliate scoppiate dai musi degli Zero che avrebbero incendiato i campi di aviazione e le piste di decollo, le imbarcazioni rovesciate fra le onde scosse dai bombardamenti, la superficie della rada rivestita di nafta bruciante, le alte colonne di fumo catramoso che avrebbero soffocato il cielo di Pearl Harbor. L’attacco era più vicino e reale che mai. “Cercherò di riposare fino a che non avremo stabilizzato la rotta.”

L’ammiraglio annuì. Lo sguardo segnato da un profondo e incondizionato rispetto nei confronti di Giappone. “Naturalmente, signore.”

Giappone bevve il suo sakè, nonostante fosse ormai tiepido, e si diresse all’uscita. “Venite subito ad avvisarmi quando usciremo dalla zona delle tempeste, e chiamatemi nel caso dovessero esserci delle complicazioni o delle nuove comunicazioni da Washington.” Uscì dalla porta. “Qualsiasi comunicazione.”

“Sissignore.”

Giappone annuì, si richiuse il battente alle spalle e discese le viscere della portaerei, risucchiato dall’ambiente silenzioso che nemmeno gli scossoni e i ruggiti della tempesta riuscivano a disturbare. Si ritirò nella pace della sua cabina.

 

.

 

Giappone richiuse la porta della sua cabina, trascinò gli ultimi passi strusciando le suole sul pavimento di legno, e si lasciò cadere nella sua cuccetta, rimbalzando sotto il movimento ondeggiante del materasso scosso dal suo peso improvviso. Si rotolò sul fianco, raccolse le ginocchia al ventre senza nemmeno essersi sfilato le scarpe, e incastrò il capo nell’incavo del gomito, lasciandosi schiacciare da quella sensazione di pesantezza e stordimento che non accennava a dissolversi, a soffiare lontano dalla sua mente e dal suo corpo.

Un doloroso gorgoglio borbottò in fondo allo stomaco, lo costrinse a schiacciare una mano sul ventre e a stringere gli occhi per sopprimere un bruciante senso di nausea. Non avrei dovuto bere quel sakè.

Batté piano le ciglia e la vista si fece appannata. Un’unica fonte di luce a rischiarire l’interno della cabina: il filo color arancio strisciato sotto la porticina d’entrata e allungato fino alla parete opposta. I suoi pensieri soffusi dal profumo del liquore galleggiarono altrove, proprio come trascinati via dalla tempesta che stava imperversando fra le onde cavalcate dalla portaerei.

L’ombra di Giappone si arrampicò sulla cuccetta e scivolò su di lui. Il peso di quella oscurità ancora più opprimente sulle sue membra stanche, ora che si trovavano in quell’ambiente semibuio. “Le portaerei americane non si trovano a Pearl Harbor.” La sua voce ancora più sottile e tagliente. Il tocco di una lama di ghiaccio lungo la guancia. “È un dettaglio non da poco. Per un attimo ho creduto davvero che avresti deciso di rimandare l’attacco.”

Giappone strinse i pugni sulla stoffa della coperta, premette la fronte contro il braccio piegato per soffiare un ultimo sospiro d’irritazione e allontanarsi da quel pensiero. Nessuna portaerei ormeggiata a Pearl Harbor.

Un’altra immagine però martellò sulla sua nuca: il messaggio crittografato e stampato davanti ai suoi occhi, quelle poche parole che erano la miccia d’accensione della battaglia che si sarebbe incendiata fra le sue mani. Scalate il Monte Niitaka. Il suo punto di non ritorno.

Giappone scosse la testa sulla ruvidezza del cuscino. “Ormai è troppo tardi per tornare indietro.”

La sua ombra gli tolse il peso dal petto, scivolandogli affianco, e si sedette sul bordo della cuccetta. Intrecciò le dita ai capelli di Giappone. “Non viverlo come un tale fardello.” Attraversò le ciocche corvine con una carezza dietro l’altra, e quel tocco freddo trascinò Giappone sempre più in basso, in un’oscurità sempre più fitta e avviluppante. “Hai fatto tutto ciò che era in tuo potere, non hai tralasciato alcun dettaglio. Ce l’hai messa tutta. Hai preteso il massimo da te stesso e hai ottenuto il massimo. Quando arriverà il momento di attaccare, tu sarai pronto e non patirai alcun rimpianto.” Smise di carezzargli i capelli, gli posò la mano sulla guancia e accostò le labbra al suo orecchio. “Medita su queste ultime giornate di pace, prima che la guerra diventi definitivamente parte della tua realtà.”

Giappone tornò ad annuire, senza però nemmeno battere gli occhi socchiusi. “Sì. Credo...” Distese il braccio e adagiò la guancia sul cuscino, lasciandosi avvolgere dal buio che regnava nella cabina. “Credo che cercherò di riposare.” Chiuse gli occhi e annegò nell’oscurità, tanto che la sua stessa voce suonò fioca e distante come un eco. “Almeno un po’.”

Ma quella sensazione gli rimase inchiodata nel petto.

Lo avvolse un malinconico senso di lontananza e di malessere che lo risucchiò in una grigia spirale di sensi di colpa. Sensi di colpa? Il suo viso semiaddormentato si stropicciò, scosso dai dubbi. Ma sensi di colpa nei confronti di chi? Ancora di America? O forse di me stesso, perché avrei sul serio potuto ottenere quello che volevo anche senza un attacco del genere? Oppure... Il suo animo sussultò, colto da un battito più doloroso e consapevole. Oppure nei confronti di qualcun altro?

Giappone schiuse di nuovo le palpebre e si ritrovò a fissare le pareti. Il suo sguardo vagò invano in cerca di una finestrella, di un oblò, di uno spiraglio che si affacciasse al cielo, trovandosi però davanti solo a mura basse e buie. Quel pensiero lo rattristò. Peccato. Il senso di nostalgia prese forma, acquistò una luce bianca laminata d’argento, tondeggiante come un faro nella notte. Avrei voluto almeno osservare la luna.

Arrendevole e succube del tocco trasmesso dalla sua ombra, Giappone chiuse gli occhi e si lasciò cullare fra le onde di un sonno molle e senza difese.

Cadde addormentato e, per la prima volta dopo mesi di sonni bui e agitati, riuscì a sognare.

 

♦♦♦

 

dicembre 1941

Stato fantoccio di Manciukuò

 

Cina sollevò la punta del pennino dal foglio della lettera, lasciò gocciolare sulla carta una chiazza d’inchiostro blu che coprì gli ultimi caratteri che non era riuscito a completare. Un saporaccio amaro gli riempì la bocca, più sgradevole e pungente dell’acidulo odore d’inchiostro di cui si era imbrattato le dita consumate dai calli, dalle vesciche, e da quelle parole che rifiutavano di farsi scrivere.

Cina inspirò a lungo e fece vibrare uno sbuffo di frustrazione fra i denti, soffiando via una ciocca di capelli ricaduta all’angolo delle labbra.

Abbandonò il pennino nel calamaio. Spremette la pagina dentro il pugno, macchiandosi con altro inchiostro fresco, la appallottolò con entrambe le mani e la scagliò attraverso la stanza.

La lettera appallottolata rimbalzò sulla parete, sotto la cornice della finestra, colpì l’anta del guardaroba a cui era appesa la sua giacca invernale, cadde sul pavimento, rotolò dentro il riverbero della luna che cadeva sul vaso senza fiori, e si ammucchiò alle altre pagine che Cina aveva scritto, scarabocchiato, strappato e gettato via nel corso dell’intero pomeriggio, quando il sole era ancora alto e non c’era stato bisogno di accendere una lanterna per continuare a scrivere.

Cina diede una manata ai capelli sciolti per scostare le ciocche dalla guancia e liberare lo sguardo. Si stropicciò gli occhi umidi e brucianti, stanchi per le notti insonni, per le ore trascorse sulle lettere, per la luce troppo fioca della lanterna sotto la quale doveva stringere le palpebre e forzarsi di mettere a fuoco i caratteri appannati e traballanti.

Si morse il labbro, contrasse il pugno sul tavolo spremendo il battito accelerato del suo cuore fra le dita sbiancate, e fissò l’angolo della stanza riempito di lettere accartocciate. I suoi occhi gonfi e iniettati di sangue si caricarono di una tale rabbia da fargli credere di poter incenerire quell’ammasso di carta solo battendo le ciglia.

Maledizione.

Attraversò il tavolo con una sbracciata, urtò la lanterna e si armò di un altro foglio pulito, picchiandolo sul tavolo illuminato di arancio. Riacchiappò il pennino, lo sgocciolò sull’orlo del calamaio, aggiustò le gambe che teneva incrociate sotto il tavolo, tirandosi più vicino, e si rimise a scrivere l’innumerevole tentativo. Buttò fuori tutto quello che doveva essere detto, tutto quello di cui aveva bisogno di liberarsi.

 

So che non dovrei scriverti. So che è pericoloso per entrambi, e so che è sleale da parte mia farti carico di altre preoccupazioni da aggiungere a quelle che stanno già affliggendo il tuo paese, considerando che tu stai correndo un pericolo enorme che potrebbe riversarsi sull’intero...

 

Si fermò di nuovo, bloccato da una scossetta alla mano, e sollevò il pennino dal foglio.

No, quel tono non andava bene. Troppo disfattista, troppo catastrofico. Non era il modo giusto di accattivarselo.

Cina tagliò più volte quelle poche righe che aveva già scritto e intinse di nuovo il pennino nel calamaio.

Altro tentativo.

 

Ho bisogno di parlarti. E so che è necessario per entrambi. Non mi aspetto una tua risposta, considerando la situazione che sta vivendo il tuo paese in un momento delicato, imprevedibile e conflittuale come questo, ma se c’è ancora...

 

Scosse il capo.

No, no, di nuovo l’approccio sbagliato. Non valeva la pena girarci intorno in quel modo, non poteva permettersi di perdere tempo, doveva essere chiaro e diretto, soprattutto considerando il destinatario a cui la lettera era indirizzata.

Tagliò di nuovo tutto.

Un’altra.

 

Devo parlarti. Siamo in pericolo entrambi. Ciò che io e te stiamo nascondendo al resto del mondo potrebbe non essere la maniera giusta per...

 

Cancellò con più foga, fin quasi a strappare la carta pur di eliminare il pericolo che batteva fra quelle parole.

Scrivere in quella maniera sarebbe stato il modo più rapido per finire nei guai nel caso i servizi segreti fossero riusciti a mettere le mani su quella lettera. E “I miei servizi segreti lavorano bene” gli aveva confessato Inghilterra solo qualche settimana prima.

Cina si massaggiò gli occhi doloranti, trasse un altro lungo respiro dalle narici, arrotolò la manica della veste che gli era scivolata fino alle punte delle dita, rischiando di macchiarsi d’inchiostro, e si rimise al lavoro.

Si concentrò solo sulla verità.

 

Inghilterra mi ha fatto visita un paio di mesi fa, e penso sia giusto che tu lo sappia. Forse avrei dovuto avvertirti prima, ma non ne ho trovato la forza. Potrebbe aver intuito qualcosa. Qualcosa riguardo ciò che sta succedendo fra me e te, e riguardo quello che stiamo tenendo nascosto al resto del mondo. Sento di dover essere sincero nei tuoi confronti. Non credo di essere più in grado di sostenere questo peso mentre...

 

Un forte crampo gli morsicò il cuore, facendogli sentire un tonfo sordo in fondo al petto, nel punto dove il peso di quel segreto ristagnava da mesi.

La mano di Cina tremò, un’altra piccola goccia d’inchiostro si staccò dalla punta del pennino e macchiò la pagina.

Questa volta Cina non cancellò nulla. Si massaggiò la gola tremante, costringendosi a respirare, a placare quei brividi d’ansia e nervosismo, e si rimise a scrivere.

 

Ti prego, prima che capiti l’irreparabile e prima che un’altra tempesta scarichi la sua violenza sulle nostre nazioni, ho bisogno di parlarti. Quello che stiamo facendo sta diventando troppo pericoloso e rischia di condurci verso un punto di non ritorno che nessuno dei due sarà in grado di gestire, verso delle conseguenze che entrambi non possiamo neanche immaginare. Siamo ancora in tempo per tornare indietro. Siamo ancora in tempo per evitare che ciò accada e che il nostro rapporto influenzi negativamente il destino futuro dell’intero equilibrio globale. Non importa come, ma tu devi...

 

Spinse la penna sull’ultimo carattere, impietrì il muscolo del braccio fino a sentire la spalla tremare di dolore, e tornò a mordersi l’interno del labbro secco e sottile.

Una larga chiazza d’inchiostro blu si dilatò sotto la pressione del pennino, ingoiò i caratteri vicini e bucò la carta, macchiando anche la superficie del tavolo.

Arroventato da un conato d’ira risalito fino alle punte delle orecchie, Cina scagliò il pennino sul tavolo, strappò in due la lettera, appallottolò assieme entrambi i frammenti e gettò anche quelli contro la parete.

Distese le gambe e si lasciò cadere fra i cuscini. La veste serale aperta attorno alle braccia come un paio d’ali d’airone e i capelli sciolti fra la seta. Le ciocche sparse come rigagnoli d’inchiostro fresco colato sulla stoffa.

Cina si prese la faccia fra le mani, respirò fra le dita diafane, e nascose un gemito di disgusto nei confronti di se stesso e di quel che stava facendo. È inutile, si disse. Tutto inutile. È chiaro che non riuscirò mai a spedirgli niente, è chiaro che non c’è ancora modo di contattarlo, ed è chiaro che prima o poi questa cosa si ritorcerà contro a entrambi. E lo farà quando sarà troppo tardi per poter rimediare a tutti gli sbagli che stiamo commettendo. Se solo lui se ne potesse rendere conto come me ne sto accorgendo io...

Si voltò sul fianco, avvolse un braccio attorno a un cuscino e contrasse la schiena, inarcandola dalle spalle fino all’anca. Un’acuta scossa di dolore ghiacciato gli fulminò le ossa, saettò attraverso il profilo della cicatrice, e gli strappò un altro gemito, facendolo sbiancare. Cina affondò la mano alla base della schiena, massaggiò le ossa sporgenti, strinse un’espressione sofferente che nascose fra i cuscini, risalì la cicatrice e si ritrovò a carezzare la pelle bollente. Che male. Raccolse le forze per mettersi sulle ginocchia e si trascinò lontano dallo scrittoio, attraversando la luce della lanterna ancora accesa.

Raggiunse uno degli armadietti più bassi, scostò i rotoli di bende pulite, le boccette degli oli essenziali, i vasetti di erbe essiccate con cui preparava gli infusi, e pescò la giara con il Balsamo di Tigre. Ne raccolse una manciata generosa, sprigionando quell’odore tanto fresco e pungente da pizzicargli le palpebre e le narici, si scostò la veste e spalmò l’unguento lungo la cicatrice che biancheggiava sulla schiena. Le dita disegnarono profondi circoli che rinfrescarono la pelle bruciante, s’infilarono fra ogni vertebra esposta, negli spazi fra ogni costola sporgente.

Cina si ritrovò preda di un’altra botta di sconforto e compassione, la stessa che lo assaliva ogni volta in cui volgeva lo sguardo allo specchio per trovarsi davanti al viso e al corpo di uno sconosciuto consumato dal dolore e dalla guerra. Quando finirà? Rimise a posto la giara di balsamo, si ripulì le mani unte, e tornò a trascinarsi verso la nicchia di cuscini che aveva sprimacciato davanti al tavolino. Quando finirà tutto questo? Tutti questi inganni, queste bugie...

Pescò una lettera accartocciata che era rotolata indietro fino a lui. La rigirò e spostò lo sguardo sul mucchio di fogli accatastati all’angolo della parete. Tutte quelle parole che aveva scritto e che nessuno avrebbe mai letto. Tutte quelle parole di cui avrebbe voluto liberarsi se solo ne avesse avuto la forza.

Non posso più andare avanti in questa maniera. Cina lasciò cadere la lettera appallottolata. Un gesto rassegnato. Non è solo la guerra che mi sta distruggendo. Sono io stesso che mi sto consumando con le mie stesse mani.

Con i dolori alla schiena rinfrescati dall’unguento, le membra stanche per quella giornata trascorsa senza riposo, e gli occhi appesantiti dalle ore passate stando chino sulle lettere, Cina si lasciò di nuovo cadere fra i cuscini. Il suo corpo vecchio, rotto e dolorante senza più un brivido di energia a corrergli nel sangue.

Il suo sguardo si portò alla finestra, andò incontro alla luce della luna che vegliava su di lui come un grande e pacifico occhio d’argento. Cina le sorrise, lasciandosi cullare dai ricordi trasmessi da quel suo chiarore, dalla forma dei crateri che ne butteravano la superficie componendo il disegno di un coniglietto che pestava il mortaio per preparare la sua medicina.

Lo raggiunsero voci del passato, simili a un profumato soffio di vento autunnale, che gli donarono un conforto ancor più fresco e piacevole del tocco di balsamo sul bruciore della cicatrice.

“Perché la luna è diversa ogni notte?”

“La luna è sempre la stessa. Ciò che cambia è solo il modo in cui noi la percepiamo.”

“La luna che vediamo qui... è la stessa che vediamo nel mio paese, allora?”

“Certo. Ogni notte. Ed è la stessa che si vede in tutti gli altri paesi del mondo.”

“Ma gli altri allora la vedono in maniera diversa.”

Cina sorrise di nuovo alla dolcezza di quel ricordo, di una delle prime lezioni che aveva impartito a Giappone, dei primi passi attraverso cui lo aveva guidato alla scoperta del mondo. Socchiuse le ciglia per trattenere il luccichio della nostalgia nei confronti di quei tempi che non sarebbero più tornati.

“Non si torna indietro,” gli aveva detto Inghilterra solo qualche mese prima, senza celare una certa amarezza. “È questa la fregatura.”

Eppure se potessi farlo...

Cina strinse le dita fra i cuscini, trafitto di nuovo da quel dolore che non riusciva a schiodarsi dall’anima.

Se solo tutto potesse tornare come allora, se solo potessi tornare indietro, se solo potessi accorgermi di quello di cui Giappone aveva realmente bisogno da parte mia... perché è dovuta finire così?

Dopo giorni e notti di tormenti, le sue palpebre si chiusero, il suo respiro rallentò, e lui si lasciò cadere addormentato in mezzo al profumo di seta, di spezie e di unguento. La luna negli occhi e la tristezza nel cuore.

   
 
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