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Autore: Spoocky    14/11/2019    2 recensioni
Missing moment fra "Duello nel Mar Ionio" ed "Il Porto del Tradimento": l'equipaggio della Surprise affronta le conseguenze dello scontro con le navi turche. Una battaglia che ha segnato tutti profondamente, in modi diversi.
La versione precedente di questo racconto è stata pubblicata con il titolo "Words and Scars". Il titolo è una citazione dal paragrafo iniziale de "Il Porto del Tradimento" che ha ispirato questo racconto.
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing moments in Patrick O'Brian'
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Disclaimer: i personaggi non mi appartengono e non guadagno nulla da questa pubblicazione.

Mi scuso con i miei lettori ma, essendo ancora in corso, purtroppo questa storia ha dei tempi di aggiornamento lunghi. Tranquilli, però: non ho assolutamente intenzione di abbandonarla, anzi!

Buona Lettura ^^

Il mattino seguente fu il dolore a destare Pullings dal suo torpore.
Sembrò generarsi nel profondo del suo cervello, per risalire fino alla fronte ed al naso, tanto forte da mozzargli il respiro. Tentò di aprire gli occhi ma le palpebre sembravano pesare immensamente e quando mosse le labbra per chiamare aiuto la mandibola gli scattò all’improvviso, generando una fitta tanto forte da suscitargli un grido.
Dalle sue labbra non uscì che un lamento, quasi il guaito di un cucciolo, ma sufficiente a catturare l’attenzione di Stephen, che aveva trascorso la notte al suo capezzale, allontanandosi solo per accudire gli altri feriti e per assistere ai funerali dei caduti, tenutisi alle prime luci dell’alba.

Subito la mano esile del medico si posò sul suo petto e lo premette dolcemente contro la branda: “Non vi muovete, Thomas, e non cercate di parlare: non ne avete le forze. Non sforzatevi di aprire gli occhi. Vi garantisco che li avete ancora entrambi e che sono sani, ma le palpebre sono ancora gonfie e vi fareste male. State giù e respirate piano. Così. Il dolore si quieterà un poco.”
Rimase a strofinargli il petto finché le fitte non si fecero più sopportabili, poi gli prese una mano: “Gioia, riuscite a sentire la mia mano nella vostra?”
Come risposta, Pullings strinse debolmente la presa sulle sue dita.
“Molto bene, bravo ragazzo. Ora vi farò delle domande e, per rispondere, dovrete stringermi la mano: una volta per dire ‘sì’, due per dire ‘no’. Intesi?”
Una stretta.
“Bene. Il dolore che sentite è molto forte?”
Due strette.
Il medico sbuffò: “Dovete essere sincero con me, ne va della vostra salute!  Siete sicuro che sia sopportabile, almeno per ora?”
Una stretta.
“Contento voi. Appena il sole sarà più alto, diciamo intorno ai cinque colpi di questa guardia[1],  vi farò portare in coperta per suturare la ferita, ma per allora vorrei che foste un poco più in forze. Ho chiesto a Killick di far scaldare una tazza di latte e ci ho versato un cucchiaio del mio miele: non è molto ma vi tirerà un po’ su. Ve la sentite?”
Due strette.
“Capisco. Avete nausea, non è vero?”
Una stretta.
“Avere qualcosa nello stomaco aiuterà anche con quella, però. Se non doveste farcela potete alzare una mano in qualunque momento e non ve ne darò più, ma vi conviene berne il più possibile: avete perso molto sangue e dovete ricreare i liquidi persi. Immagino siate anche molto assetato, non è vero?”
Un’ ultima stretta, più incerta delle altre, e Stephen coprì la mano tremante del giovane con la propria, carezzandone piano il dorso:  “Coraggio, Tom: siete forte. Passati i primi giorni vi sentirete meglio e tutto questo sarà solo un brutto ricordo.” Un improvviso moto d’affetto per quel sofferente lo portò a sbilanciarsi più del solito “Il capitano mi ha raccontato come vi siete comportato sulla Torgud: siete stato molto coraggioso e non potranno che concordarvi la promozione. Sarete presto comandante, mio caro.”
Le labbra smorte di Pullings si contrassero leggermente in una sorta di sorriso, lasciando il medico più tranquillo nel sollevargli la testa con un guanciale, per poterlo imboccare senza che rischiasse di soffocare.

Dato che Tom non poteva aprire del tutto la bocca, Stephen si servì di un cucchiaino da tè, versandogli poco a poco la bevanda tiepida tra le labbra ed aspettando con pazienza che deglutisse prima di porgergliene altra.  
Da ragazzo gli era capitato di imboccare allo stesso modo un gattino abbandonato che aveva raccolto in mezzo alla strada e compiere quel gesto per Pullings gli provocò un misto di tenerezza e dispiacere: era sempre doloroso vedere un giovane uomo forte e coraggioso, nonché un carissimo amico, stremato dal dolore ed in pericolo di vita. Si sentiva al contempo grato di poter fare qualcosa per alleviare le sue sofferenze e furioso verso le circostanze che lo avevano portato a doverlo fare.

Pur con esasperante lentezza, il giovane riuscì a finire il suo latte.
Stephen gli terse le labbra con una pezzuola umida ed estrasse l’orologio: “Le nove e un quarto. Avete un’oretta abbondante per cercare di riposare ancora un poco, nessuno vi disturberà.” Sfiorò appena la sua guancia scoperta con il pollice “Quando sarà il momento manderò qualcuno a prendervi. Non preoccupatevi: andrà tutto bene.”

Il giovane mosse appena il capo in una sorta di cenno d’assenso e si abbandonò sui cuscini: il volto e la testa gli pulsavano di un dolore atroce, impedendogli di trovare una posizione comoda.
Come il dottore aveva predetto, il latte aveva smorzato notevolmente il senso di nausea ed il suo calore aveva mitigato la sensazione di freddo che sentiva di provare. Eppure si sentiva ancora debole, tanto che solo sollevare una mano gli sembrava impossibile. Avvertiva anche un malessere generalizzato, che per esperienza sapeva essere preludio della febbre, e venne sopraffatto dallo sconforto alla prospettiva di un ulteriore disagio.
 Il dottore però continuava a ripetere che sarebbe andato tutto bene e si abbandonò con fiducia alle sue cure. Pur non vedendolo, si accorse di quando gli rimboccò addosso le coperte e sentì lo scricchiolio che produsse la sua sedia mentre si alzava.
Poi sprofondò di nuovo nel buio, troppo stanco per resistere oltre.
 


Sentì delle voci intorno a sé ed avvertì degli scossoni che gli strapparono un gemito.
Le mani smisero di torturarlo e qualcuno disse qualcosa che non capì. Poi sentì qualcosa afferrargli le ginocchia e qualcos’altro di duro e rigido gli scivolò sotto le spalle: “Piano, ora. Piano.”
Prima che potesse protestare, quegli aggeggi, qualunque cosa fossero, lo sollevarono in sincrono e lo depositarono da qualche parte con tanto di coperta, incuranti delle sue grida.  
Lo stavano maneggiando con la stessa inconsueta delicatezza che usavano con il dottore quando doveva essere trasferito da un’imbarcazione all’altra, eppure il dolore che gli provocava anche il minimo spostamento era intollerabile.
Dopo averlo disteso sul lettuccio, gli concessero qualche minuto per riprendersi prima di portarlo via.
Non appena lo sollevarono da terra capì di essere in una delle lettighe di fortuna, realizzata con scampoli di tela da vele ed aste di riserva, che usavano per trasportare gli invalidi ma non capiva perché ce ne fosse bisogno.

Fu una voce incorporea ma dall’inflessione famigliare a fare breccia nelle sue angosce: “Fate piano, ragazzi, mi raccomando. Bene così.”
“William?” sussurrò, riconoscendo la voce dell’amico ma non capendo perché fosse lì.
“Sono qui, Tom.” Una mano calda gli si posò su un braccio, stringendolo appena “Va tutto bene, tranquillo: ti portiamo dal dottore.”
Pullings era troppo debole e confuso per rispondere e fu grato di sentirsi addosso la mano dell’amico, che gli permetteva di mantenere un legame con la realtà. Il suo tocco lo rassicurava e lo consolava, in qualche modo gli confermava il significato delle sue parole: Mowett diceva che stava andando bene e volle credergli con tutto sé stesso, nonostante l’evidente preoccupazione che traspariva dal suo tono.
Lo sentì avvisare Bonden e Marshall di un qualche tipo di scala e pochi secondi dopo il sole penetrò attraverso le sue palpebre chiuse, tanto forte sulla sua pupilla da strappargli un lamento.

“Shh, tranquillo. Tranquillo.” Di nuovo la voce di William, e la sua mano gli si posò lieve sul viso, attenta a non toccare la ferita, schermando il suo occhio troppo sensibile dalla luce “Va tutto bene. Non preoccuparti.”
Mowett rimase al suo fianco mentre lo sollevavano dalla lettiga e gli resse la testa per deporla con cura su un qualcosa di morbido ad un capo delle casse da marinaio, rigorosamente coperte di tela da vele numero otto, che fungevano da tavolo operatorio. Chino su di lui, lo protesse dalla luce e gli parlò piano, spiegandogli cosa stava succedendo.
Solo una minima parte delle sue parole giunse alle orecchie di Pullings, al quale pareva di avere la testa piena di bambagia perché non percepiva altro che dolore. Tentò comunque di divincolarsi quando sentì qualcuno afferrargli polsi e caviglie, ma il movimento gli procurò solo altra sofferenza.
“Non ti agitare, amico mio, ti farai del male.” Will prese ad accarezzargli il volto e le spalle, attento a non provocargli dolore “Lascia lavorare gli uomini: stanno solo cercando di aiutarti. Va tutto bene, sei al sicuro. Nessuno ti farà del male.”
I marinai finirono di assicurare le sue membra tremanti con le catene imbottite di cuoio che lo avrebbero trattenuto sul tavolo e si ritirarono. Qualcuno gli stese addosso una coperta.

“Grazie per il vostro aiuto, signor Mowett. Potete andare, ora.”
“Va bene, dottore. Buona fortuna, Tom. Fatti coraggio: finirà presto.”
La mano di William diede un’ultima stretta alla sua spalla e scivolò via, per essere rimpiazzata da una più pesante qualche istante dopo: “Sono a tua disposizione, fratello: dimmi pure cosa devo fare.”

Riconoscendo la voce del capitano, Tom riuscì a socchiudere l’occhio quel poco che bastava per distinguere una macchia dorata alla sua sinistra e trasse un sospiro di sollievo: era tanto confuso da non capire cosa gli stesse accadendo, ma sapere di avere accanto il proprio superiore lo confortava. Con lui vicino, poteva essere certo che sarebbe andato tutto bene.
Una mano sottile gli raccolse una guancia e gli socchiuse la bocca, attenta a non forzare la sua mandibola danneggiata: “Se potessi avere la vostra attenzione, signor Pullings, gradirei beveste questo.”
Gli venne introdotto un cucchiaino tra le labbra e lui si ritrasse avvertendo il gusto amaro del laudano.
“Gesù, Giuseppe e Maria! Cercate di collaborare, Thomas: potrei impiegare ore a ricucire quella ferita. Non voglio causarvi del dolore inutile se posso evitarlo!”
Fu la voce ferma del capitano a far breccia nella coltre di confuso terrore che aveva avvolto il tenente: “Prendete la medicina, Tom. Per il vostro bene ve lo ordino.”
Con un brivido il ferito si rassegnò allora ad accettare il farmaco, troppo debole per sputare nonostante il sapore disgustoso.
 


Date le ultime disposizioni agli assistenti perché trattenessero il paziente sul tavolo operatorio senza fare danni, Stephen si preparò ad iniziare l’operazione.
Rimboccate le maniche della camicia fin sopra ai gomiti, inforcò gli occhiali e cominciò a sciogliere lentamente le bende che avvolgevano il volto di Pullings. Durante la notte la ferita aveva spurgato dell’essudato sanguinolento che aveva fatto aderire le garze. Toglierle, dunque, fu un vero travaglio.
All’inizio era stato restio nell’offrire al tenente un pezzo di cuoio da mordere per resistere al dolore, ma nel giro di qualche minuto non ebbe più il cuore di ascoltare i suoi singulti addolorati e gli fece scivolare il morsetto tra i denti, badando che non si lussasse di nuovo la mascella per errore.
Pullings fu anche più silenzioso del previsto e sopportò senza ulteriori lamenti la rimozione delle fasciature, ma quando il medico mise da parte l’ultima garza insanguinata, il suo volto era rigato di lacrime. Nessuno fece commenti a riguardo, poiché furono attribuite alla sofferenza di quel momento e non alla debolezza d’animo dell’ufficiale. Jack, che era stato incaricato di tamponare la ferita e tenere pulita l’area di lavoro, si limitò ad asciugarle con un panno senza dire nulla.

Ad un attento esame, la ferita si presentava anche meglio di quanto Stephen avesse sperato: i labbri erano lividi e tumefatti ma non arrossati e non vi erano ancora segni di lodevole pus od altro spurgo. I punti sigillati la sera precedente avevano retto, consentendo un principio di rivascolarizzazione nelle aree colpite. Ciò nonostante, il lavoro da fare era ancora lungo ed estremamente delicato.
Fece scorrere il filo da sutura nella cruna dell’ago e si chinò sul volto devastato del suo paziente, posandogli una mano sulla guancia illesa per catturare la sua attenzione: “Quello che sto per fare sarà terribilmente doloroso, mio caro, ma ho bisogno che restiate il più possibile immobile. So che non sarà facile ma cercate di fare dei respiri profondi e tenete duro. Cercherò di fare in fretta. Jack, per favore, stai pronto con quello straccio e, se si agita, preparati a reggergli la fronte: non possiamo rischiare di sbagliare.”

Da quel momento in poi fu un incubo ad occhi aperti.
Stephen si dedicò alle suture con una cura anche maggiore del solito: il suo ago scivolava fluido nella ferita, sigillando una serie di punti finissimi. Il naso era stato reciso quasi del tutto e ricucirlo portò via più di un’ora. In più occasioni tornò sui propri passi, allentando e richiudendo alcuni punti fino a quando non fosse stato soddisfatto del risultato, e Jack ebbe parecchio da fare per tamponare la ferita perché nel corso dell’intervento il tenente perse almeno un’altra pinta[2] di sangue.
Nonostante si sforzasse di contenersi, era evidente che Pullings stesse soffrendo molto: i suoi denti scoperti erano conficcati nel cuoio, le mani si aggrappavano spasmodicamente alla coperta, le sue gambe tremavano tanto che Williams dovette afferrargli i fianchi e pesarsi sopra per tenerlo fermo. Di quando in quando un lamento strozzato o un grido si facevano strada tra le sue mascelle serrate.

La mandibola uscì di nuovo dalla sua sede ed il dolore giunse al parossismo.
Tutto il suo corpo fu travolto da un violento spasmo e si accasciò sul tavolo, pallidissimo e madido di sudore, con l’occhio sano semiaperto e le membra scosse dai brividi. Nessuno capì se stesse tremando di freddo, dolore, o fatica ma in quel momento fu chiaro a tutti che fosse stato coperto non solo per preservare la sua dignità davanti agli uomini sul ponte di coperta, ma soprattutto in previsione dei suoi sintomi.
Jack fece scivolare la mano libera sotto la coperta, stringendo quella gelida di Tom e permettendogli di aggrapparsi a qualcosa di solido in quel dolore indescrivibile, cercando di farlo sentire meno solo e spaventato, come facevano gli uomini per i compagni che passavano sotto i ferri del chirurgo. Sapeva fin troppo bene come ci si sentisse in quelle condizioni.

Le dita del tenente si contrassero sul palmo del capitano e più di una volta strinsero la presa, secondo l’andamento delle fitte: “Coraggio, Tom.” disse Jack, stringendogli forte la mano “Cercate di resistere, è quasi finita.”
Persino Bonden, che aveva il compito di tenere le spalle del paziente premute contro il tavolo, sembrava preoccupato. Si azzardò addirittura a prendere la parola: “Tenete duro, signore, e non preoccupatevi: il dottore vi rimetterà a nuovo. Sta andando tutto a posto, signore. Tutto a posto.”

Dopo due ore d’intervento, il pur robusto fisico di Pullings cedette e perse i sensi.
Ci volle ancora un’altra ora per terminare le suture e ricollocare la mandibola. Poi Stephen stese sulla ferita delle garze imbevute di aceto mentre lavava il resto del volto con uno straccio bagnato.
Una volta asciutto avvolse la ferita con garze e bende, approfittando del suo stato d’incoscienza per cambiare anche le altre medicazioni senza farlo soffrire troppo.
Bonden e Marshall lo avvolsero nella coperta e lo riadagiarono sulla lettiga, con un fazzoletto sul volto per ripararlo dal sole. Lo sollevarono con una delicatezza maggiore del solito e lo riportarono di sotto.
Aubrey sentì un peso enorme sciogliersi dal petto quando vide la barella scomparire sottocoperta senza un lamento da parte del paziente: una parte di lui non riusciva a smettere di sentirsi in colpa per l’accaduto.

Si approcciò con apprensione a Stephen, mentre quest’ultimo si stava lavando le mani in una bacinella: “Come pensi sia andata, fratello?”
“Ti dirò, gioia, molto meglio di quanto avrei sperato: lo squarcio si è richiuso bene e l’emorragia non è stata copiosa come temevo. Ha comunque perso sulle quattro pinte[3] di sangue in tutto ma dovrebbe riprendersi nel giro di qualche settimana.”
“Non sai quanto mi renda felice sentirlo! Quindi pensi sia già fuori pericolo?”
“Non ho detto questo. Anzi, credo sia fortunato ad essere sopravvissuto fino ad ora. I prossimi giorni saranno critici e anche dopo rimarrà costretto a letto per un bel pezzo. Il riposo assoluto è la cosa migliore, e sarebbe buona cosa che per qualche giorno si evitasse di produrre forti rumori a poppa dell’albero di maestra. L’ho fatto portare nella sua cabina, perché riposare con più tranquillità. Se poi chiedessi a Killick una brocca di acqua e succo di limone mi faresti un’enorme cortesia.”
“A proposito di Killick, vuoi che gli chieda di preparare anche qualcosa da mangiare per Tom?”
Maturin esitò un momento. Mentre si asciugava le mani in uno strofinaccio i suoi occhi quasi incolori corsero verso il cassero, verso le spartane cabine degli ufficiali, dove si posarono mentre le labbra si arricciavano, evidente sintomo di concentrazione.
Rimase sovrappensiero per qualche minuto, ponderando le diverse opzioni prima di rispondere: “Ti ringrazio per averlo chiesto. Se non fosse troppo disturbo penso che un piatto di brodo caldo sia l’ideale: con la mandibola così danneggiata per ora non può ingerire altro che liquidi perché deve aprire la bocca il meno possibile.” Di nuovo contrasse le labbra, pensieroso “E credo sarà già un miracolo fargli tenere giù quelli. Hai sentito com’era caldo? Gli sta salendo la febbre.”

Note:
[1] Le 10:30 del mattino
[2] Circa 0,56 litri di sangue.
[3] Circa due litri.
  
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